Coscienza Storica N.15

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Coscienza storica

Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da Costantino Marco

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MARCO EDITORE

Segretario di redazione: Federico Marco

Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: Nicola Cusano

Copyright© by Costantino Marco, 2022

Coscienza Storica

Nuova Serie 15

Nicola Cusano

tra riforma e tramonto della Cristianità di Costantino Marco pag. 5

L’era del significato Nascita,metamorfosi e speranza del diritto di Marco Vinicio Masoni pag.213

Alle radici del concetto di sovranità di Luisa Bussi pag.269

Nicola Cusano tra Riforma e tramonto della Cristianità

1. La figura intellettuale del Cusano (1401 1464), nell’età della transizione dal Medio al Moderno Evo si presenta come una “indomabile e ostinata volontà di giungere” a una “visione universale” del sapere, le cui disparate tendenze del tempo critico il pensatore di Cusa si prodiga di collegare in una rinnovata “concordantia catholica”, come riporta il titolo di un suo scritto del 1433, in cui egli teorizza una unità ecclesiale basata sul sacerdozio e sul consenso dei fedeli.1 La sua frequentazione degli ambienti neo platonici degli albertisti di Colonia, e la sua notevole erudizione latinistica, “fecero giustamente di lui un pioniere dell’umanesimo tedesco”.2

Ma in lui, accanto al realismo politico che lo portava a teorizzare la

1 Ved. K.A. Fink E. Iserloh, La teologia nel periodo di transizione dal Medioevo all’era moderna, in H. Jedin (a cura), Storia della Chiesa (1968), tr. it., Milano, 19932, pagg. 366 sgg.

2 Ivi, pag, 337.

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“Melior est fidelis ignorantia quam temeraria scientia”
(Agostino)

preservazione dell’unità della Chiesa attraverso la superiore giurisdizione del papa, era ugualmente presente una viva sensibilità mistica, che lo spinse a posizioni riformistiche prima della Riforma, pertanto, sia per il suo umanesimo critico, sia per la profondità speculativa nella ricerca dell’unità e della totalità dell’Essere, che lo condurrà a posizioni filosofiche coscienzialistiche e soggettivistiche, e sia infine per la sua attenzione al pensiero scientifico matematico, “il Cusano si rivela nel modo più chiaro” tanto “un pensatore moderno”, quanto “un uomo di chiesa, per il quale ogni filosofia e ogni sforzo dell’intelletto sfociavano nella teologia e dovevano in ultima analisi servire a riportare l’umanità e la storia alla loro origine divina”.3

Andare alle origini della storia, significava stabilire un percorso di conoscenza di Dio, in cui coesisteva l’eterna attualità di tutto ciò che è, ossia la possibilità d’essere di ciò che è, e la sua fenomenologia storica. Questo percorso incrociato di eternità (del Tutto) e di attualità (di ciò che è), Cusano lo esprime con la metafora matematica della “sfera infinita”, nel cui centro convergono lunghezza, larghezza e profondità, e che egli indica come “massimo” in quanto “massima attualità”.

Dato “il massimo” come “l’atto di tutto”, “ogni esistenza attuale riceve da esso quel tanto di attualità che esiste in essa e ogni esistenza in atto in tanto in quanto è in atto nello stesso infinito. Onde il massimo è forma delle forme e forma dell’essere, ossia la massima entità attuale. […] Dio, dunque, è la ragione unica e semplicissima di tutto l’universo”.4 La tensione intellettuale di Cusano di riportare all’unità il molteplice, deriva dalla sua stessa teoria gnoseologia per la quale Dio è Uno, e Uno è Tutto.5 La coincidenza del Tutto in Dio non consente alla ragione distinguente “di andare oltre i contraddittori”, poiché la sua unità non si oppone alla molteplicità, ma la trascende come origine assoluta in cui consiste ogni pluralità e ogni alterità. Dio, dunque, non è l’Uno della serie del Molteplice, e incluso perciò come inizio del processo seriale, per cui a

3 Ivi, pag. 375.

4 N. Cusano, D. I., I, XXIII, tr. it., Roma 2001, pagg. 99 e 100.

5 Ivi, pag. 101.

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Lui “non può convenire niente di particolare, di distinto, che abbia un opposto, se non in modo inferiore a ciò che egli è”.6 Ne consegue che ogni attributo divino, compresi “i nomi della Trinità e delle Persone […] sono dati a Dio, in base a un certo modo d’essere delle creature”.7 La conoscenza modale di Dio è consentita dunque dalla creazione. Ma la molteplicità del creato, che poneva l’uomo come mero ente tra gli enti naturali, non era trascendibile dalla conoscenza dell’Uno, ossia di Dio stesso. Il senso dell’incarnazione divina in Gesù è da ravvisarsi nella possibilità offerta da Dio di essere conosciuto in termini razionali, cioè umano naturali. L’incarnazione in Cristo non elimina la diversità ontologica tra l’Uno-Dio e il Molteplice creaturale, per cui la stessa possibilità della conoscenza di Dio in Cristo è condizionata dalla finitezza della ragione umana e quindi dei suoi strumenti teoretici, sicché la conoscenza di Dio in Cristo è mediata dalla finitezza dell’umanità di Gesù, il quale solo con la morte della sua carne elimina la finitezza ontologica dell’essere creato, e unendosi a Dio realizza la compiuta unità spirituale, l’assoluta trascendenza del finito molteplice nell’Uno infinito. Il sacrificio della carne segna simbolicamente la rimozione della finitezza umana e del limite ideale della conoscenza razionale a favore della conoscenza intuitiva del Tutto: intu ire significa appunto cogliere l’essenza dell’Essere andando dentro di esso, ossia oltre la barriera dell’apparenza, al nucleo stesso del Mistero-Tutto. L’unità ideale che si oppone al Molteplice fenomenico, nei filosofi classici (Zenone, Parmenide, Platone) è concepita come la forza in cui si compone ogni contrarietà e in cui si risolve ogni opposizione empirica. Ma questa unità si può comporre solo, come nella matematica, eliminandole qualità specifiche di ogni ente distinto, per cui esso è ciò che è, assumendo di conseguenza ogni ente che è come un ni-ente, e cioè l’unità indifferenziata di molteplici uguali, eguagliati nel loro non essere sé. L’unità dell’Essere così ottenuta è l’unità del Niente da cui ogni ente proviene. E poiché tale Niente è nient’altro che il Mito che precede il nominalismo distinguente della ragione, l’Uno ottenuto è l’Essere

6 Ivi,

7 Ivi,

7
pag. 102.
pag. 103.

indistinto pre-razionale e mitico, che Platone chiama Idea, posta fuori della realtà del Molteplice terreno, nel cielo iperuraneo, fuori dal mondo. Diverso è l’Uno Dio cristiano, il quale non è un ente pre logico, ossia l’indistinto Niente dei filosofi razionalisti pagani e moderni, ma è il Tutto in quanto “colui che genera”,8 e dunque fonte dell’Essere. Fonte originaria, increata dell’Essere creato. Proprio in quanto Uno Tutto, cioè Dio, esso è incommensurabilmente altro dall’Essere, che è perciò Molteplice, ed essendo tale, cioè Molteplice, l’Essere non può essere Uno. Necessariamente, dunque l’Essere è Molteplice, per cui l’Uno, che per i razionalisti antichi era il Niente, per i cristiani è il Tutto. Il pensiero cristiano non ha sostituito al Niente Dio, ma ha pensato Dio come Tutto, comprensivo del Niente originario del Mito pagano. Ciò vuol dire che l’Essere “è” solo nei modi del Molteplice, essendo la sua essenza ontologica molteplice. Identificando Dio col Niente, il razionalismo moderno, imitando l’antico, ha pensato l’Essere come Uno, cioè il Molteplice come Idea, universalizzando la rappresentazione dell’ente attraverso le categorie. Ovvero assumendo ogni categoria universale come una unità totale, una infinità ideale. ma non riuscendo a sopprimere la molteplicità ontologica, propria agli enti, ha dovuto ammettere la contraddittoria molteplicità delle categorie, ognuna universale nel suo ambito gnoseologico, ossia il pluralismo della Verità, il relativismo epistemologico o ipotetismo della dossologia 9 razionalistica. Solo pensando l’Uno come Tutto il pensiero cristiano ha superato l’aporia antica. Il fideismo moderno, anti fideistico, pensando Dio come Niente, ricade invece nel naturalismo antico, deificando l’Idea.

Il rapporto tra il Tutto e il Niente si è potuto stabilire in termini di reciproca opposizione negazione, in quanto tale Tutto è stato concepito come possibilità d’essere, ossia come tutto ciò che può essere, e dunque nei termini stessi della sua possibile essenza. Questo concetto è lo stesso di infinito, che i Giudei riferivano a Dio, “di cui non conoscevano il nome” in quanto ogni nominazione avrebbe de-finito ciò che finito non

8 N. Cusano, Loc. cit., pag. 103.

9 Da doxa = opinione.

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era, cioè appunto l’in-finito. La fede ebraica in un Dio “infinito” consisteva nella credenza del Suo essere altro da ciò che è. Era pertanto una fede ontologica, distinta dal culto, riservato alle sue “opere”. Infatti, scrive Cusano, che “essi”, ossia i Giudei, “tuttavia, lo veneravano nelle sue manifestazioni, cioè là dove scorgevano la sua opera divina”.10

La conoscenza umana, riferibile alla realtà dell’essere fenomenico, ossia di ciò che è, degli enti dunque, è possibile solo relativamente alla creazione divina, la quale non può logicamente coincidere con la esistenza di Dio, ma per l’appunto con quella delle sue opere. E, posto che la conoscenza umana sia nei termini della ragione, in virtù di questa stessa ragione consegue la umana inconoscibilità di Dio, il cui Essere, pertanto, è Mistero.

Il Mistero è tale in quanto non oggettivabile dalla ragione umana come suo prodotto di conoscenza, e perciò percepibile per via non razionale, ossia solo misticamente intuibile.

Con l’incarnazione di Cristo, la differenza ontologica tra l’essenza e l’esistenza trova un suo punto di mediazione, la cui conseguenza gnoseologica non è la conoscibilità razionale di Dio, come pretenderebbe l’approccio razionalistico al Mistero, bensì il ri conoscimento di Dio attraverso Cristo, la cui mediazione consente all’uomo di conoscere nei modi della sua possibilità razionale in lui quel Dio che già conosceva per via di fede. E dunque il ri conoscimento, inteso come conoscenza razionale, di Cristo, presuppone la fede in Dio. Cristo è la rappresentazione di Dio, il suo Dòkema, la sua visione, che consente che “il conosciuto venga riconosciuto”, permettendo anche alla ragione umana di pervenire a Dio attraverso la Sua apparizione in Cristo, col fine di assegnare alla antica fede in Lui un supporto nuovo, consono alla storica condizione umana di smarrimento della verità nella formale e naturalistica venerazione delle Sue opere. E perciò l’apparizione di Cristo costituisce, rispetto alla tradizionale fede giudaica, la condizione di partecipazione umana alla Sua essenza eterna, attraverso la umana conoscenza. Il “senso ontologico della rappresentazione artistica” deriva per analogia

10 Ivi, pag. 105.

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dalla dòkesis della rappresentazione cristiana di Dio, nel cui riconoscimento, similmente a quanto avviene nell’opera d’arte, “la cosa conosciuta emerge come attraverso una nuova illuminazione, dalla casualità e dalla variabilità delle condizioni in cui in genere è sommersa, e viene colta nella sua essenza”, in modo tale che “il conosciuto perviene nel suo vero essere, e si mostra come ciò che è, solo attraverso il riconoscimento. E in quanto riconosciuto esso diventa qualcosa che è fissato nella sua essenza, liberato dalla casualità dei suoi modi di apparire”.11

Ma “l’immagine”, ossia la “forma” di Dio, non è “la verità”, e confonderle significa “idolatria”, la quale consiste nell’astrarre la creatura dal creatore, adorando Dio nelle creature.12 Dio, invece, va adorato “in spirito e verità”, ossia “come infinito”, e non “come creatura”, tributando idolatricamente “all’immagine quello che spetta solo alla verità”. Se la “teologia affermativa”, indicando Dio come uno e trino ne consente “il culto religioso”, la fede , “credendo che questo Dio, che la religione adora come uno, sia unitamente tutte le cose; e che quello che venera come luce inaccessibile, non sia luce corporea (alla quale si oppongono le tenebre), ma sia luce semplicissima e infinita entro la quale le tenebre sono la stesa luce infinita”, si rende conto della necessità della “teologia negativa” per sostenere quella “positiva”.13 Secondo la teologia negativa, sostenuta dalla “santa ignoranza […], Dio è solamente infinito”, e pertanto “né Padre, né Figlio, né Spirito Santo”, poiché “l’infinità è la stessa eternità”, la quale “non si attribuisce più a una persona che all’altra”. E’ questa infinita eternità che “afferma l’unità, ossia la presenza massima”, per cui dobbiamo consentire che Dio, in quanto “eternità negativa”, è “principio senza principio”, che deve il suo essere formale solo a sé stesso, e la cui processione è “forma nell’immagine”.14 In virtù della sua infinità, “Dio non è né uno né molti”, ed Egli pertanto “non è conoscibile né in questo secolo né in futuro,

11 H.G. Gadamer, Op. cit., pag. 146.

12 N. Cusano, Loc. cit., pag. 106.

13 N. Cusano, Loc. cit. I, XXVI, pagg. 106 107.

14 Ivi, pag. 107.

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perché ogni creatura, in quanto non può comprendere il lume infinito, è tenebra nei suoi confronti e Dio è noto solo a sé medesimo”. Da questa condizione meontologica discende la nostra “ignoranza” di Dio, per la quale “le negazioni sono vere e le affermazioni sono inadeguate negli argomenti teologici”.15 La questione focale dalla quale si irradia l’intera esperienza storica del Cristianesimo risiede nel senso della conoscenza umana di Dio, che la tradizione cristologica ha inteso positivamente attraverso l’uso strumentale della ragione. Da qui l’acquisizione del senso greco della conoscenza entro l’universo di senso teologico cristiano, e il conseguente abbinamento del lògos alla pistis, che ha dato origine alla metafisica cattolica basata sulla sintesi di fides et ratio E proprio dalla dissoluzione moderna di questo binomio metafisico è derivata la riabilitazione razionalistica di un lògos del tutto emancipato dal suo cristiano fondamento di fede, che ha assegnato alla ragione umana il compito di conoscere non più Dio ma solo l’Essere. Pertanto, nell’ambito dell’universo di senso teologico, l’elemento “negativo” o della fides è consegnato al silenzio mistico, all’intuizione ontologica del Tutto o Bene o Dio; l’elemento “positivo” della ratio, invece, è destinato alla cultura dell’Essere, ossia alla giustificazione razionale del creato. La dicotomia dei due livelli di coscienza teologica ripropone l’analogo schema metafisico dell’ontologia platonica del modello ideale e della copia sensibile, con la conseguente divaricazione di ciò che è vero secondo la fede (nel regno di Dio), da ciò che è vero secondo la ragione (operativa nel regno di Cesare). Questa “doppia verità”, spirituale e naturale, resterà la traccia simbolica di tutta la cultura europea, nelle sue espressioni teoretiche e pratiche. Essendo l’unica realtà accessibile alla ragione quella dell’Essere, questo prende il posto dell’Idea e viene indicato come l’Uno, prendendo anche il posto di Dio, per cui le conseguenze reali della dissoluzione sono le stesse: pragmatismo (ragione strumentale) e relativismo (assolutizzazione del Molteplice e intrascendibilità del finito). Il razionalismo cattolico conduce al machiavellismo politico; il fideismo protestante all’edonismo

Ivi

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, pag. 108.

economicistico e all’utilitarismo individualistico, sbocchi estremi dell’umanesimo religiosamente emancipato e astrattamente universalizzato come modello antropologico.

La rimozione del fondamento ontologico divinizza l’Essere facendo del Molteplice l’Uno e dell’Uno Niente. Sostituire l’Essere di Parmenide, come realtà prima o fondamento, col Niente, significa fare della ragione lo strumento della creazione, anziché della conoscenza, della realtà. La ragione strumentale nasce col razionalismo greco.

Se all’inizio è l’Essere (naturalismo), il divenire è corruzione, decadenza, edacità, corsa verso il Niente.

Se all’inizio è il Nulla (umanesimo), tutto ciò che diviene è progresso, vita, affermazione di sé come volontà creatrice di potenza, esaltazione dell’Essere.

Se il fondamento (Dio) è Niente, l’uomo è Tutto (umanesimo).

Il naturalismo antico conosceva l’unica realtà dell’Essere come Idea razionale, ponendo il fondamento ontologico nell’iperuraneo, fuori della realtà empirica. Il Cristianesimo corregge sia il pensiero ebraico, concentrato sulla potenza creatrice di Dio-padre senza creatura, sia il pensiero greco, in cui il modello ideale e quello naturale erano speculari ma senza mediazione, tali perciò che la copia reale risultasse sempre imperfetta e quella ideale inattingibile.

Con la realtà del Figlio, la visione del creato non è solo il prodotto della potenza del Padre, ma la sintesi spirituale di infinito (divino) e di finito (umano). La creazione filiale sposta il fondamento dalla dicotomia dissociativa Dio o Natura, che costituiva il paradigma teoretico della logica dialettica, alla sintesi divino umana di Dio e Natura, di creazione spirituale. La mediazione tra Dio (potenza creatrice) e Natura (Essere creato) è costituito dallo Spirito, senza il quale l’Essere o è divino o è naturale. L’uomo antico, non potendo emulare gli déi, doveva conformarsi alla natura, assumendo come tratto caratteristico dell’uomo il dato naturalistico della socialità, con cui identificava la razionalità umana. La razionalità politica per Platone, e la razionalità fisica per Aristotile erano gli orizzonti in trascendibili della ragione e dell’esperienza ideale dell’uomo. Col Cristianesimo l’uomo si distingue dal resto del creato (dalla Natura) per una intrinseca qualità divina, e non per una dote

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naturale più cospicua, quale appunto la ragione: una qualità spirituale, che lo rende un essere naturale partecipe dell’essenza divina. L’antropologia cristiana, ponendo l’uomo come sintesi vivente di Dio e Natura, concepisce il fondamento dell’Essere nella realtà umana stessa, a un tempo divina e naturale, e perciò nuova rispetto ai due elementi originari. Ciò comporta che anche la cristologia sia un superamento antropologico della dialettica antica tra fede e ragione, mito e filosofia, che dal fideismo aveva condotto al razionalismo. Il fondamento cristologico pone l’essenza della realtà, cioè il fondamento dell’Essere, nello Spirito, cioè nella mediazione reale. Lo spirito, col Cristianesimo, non abita più il cielo ma la realtà umana, e la coscienza dell’uomo diventa la sede del divino, un tempo mitica. Se gli antichi déi invidiavano la finitezza umana, e lo stesso Dio ebraico non andava oltre il rapporto di potenza servile con alcuni uomini, fermandosi anch’Egli al patto etico definito da una formazione collettiva (non più statalistica ma nazionale, e in ogni caso contrattualistica), il uovo fondamento ontologico divino umano, cristologico, si stabilisce come Tutto, perché nella sua infinita realtà include anche la finitezza, nella sua divinità eterna la finitezza naturale della condizione mortale. Cristo è Dio, ma un Deus patiens, umanizzato; creatura ma spirituale;non solo senziente né precipuamente pensante, ma intuitiva della totalità dell’Essere che abita in Lui, in interiore homine, e che è indicata come Verità. La verità nn è più la parola degli déi (mitologia) o degli eroi (epica) o dei legislatori (etica), e neppure le leggi della Natura (fisicalismo) o consuetudinarie (convenzionalismo); la verità è lo Spirito incarnato che diventa esperienza esistenziale e coscienziale. Verbum caro factum est. L’Essere, di Dio o della Natura, perde la sua sospesa assolutezza e si compendia nel Cristo, nella sua figura infinito divina e finito umana a un tempo. Il Dio cristiano, incarnatosi, non è più “nascosto”, come quello ebraico; né nientificato, come quello pagano. Eì un Dio “presente”, Deus praesens, anziché absconditus. Una presenza spirituale, mediatrice tra la divinità e la naturalità. Fuori di questa sintesi spiritualistica, l’umanesimo è naturalismo, di ispirazione fideistica o razionalistica che sia. L’uomo altro da Dio, e l’uomo socializzato sono le due forme alternative della dissoluzione cristologica, ossia della sintesi antropologico metafisica dell’ontologia cristiana. Segnano il ritorno al naturalismo greco o al

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teismo ebraico, ossia alla irriducibile dicotomia della sacra fede e della ragione profana.

2. Verbum caro factum est. Il Verbo di Dio è il suo principio costitutivo, ed è Spirito. Dio non è carne (natura) ma si fa carne (uomo). Lo Spirito è ciò che rende divino Dio, ed esso s’incarna rendendo divino l’uomo. Dio si manifesta nell’uomo e manifesta attraverso di lui il suo Verbo, il suo Spirito, rendendolo visibile, cioè naturale, e quindi conoscibile. Il Verbo procede da Dio, e quindi sussiste in Dio. Tale sussistenza consente la distinzione tra Dio Padre e Dio Figlio, ma anche la loro unità essenziale, appunto spirituale. E’ lo Spirito che unisce Dio a Cristo e che fa dell’uomo un essere spirituale simile a Dio e distinto dalla natura. Per conoscere Dio dobbiamo dunque riconoscere lo Spirito che anima Cristo e che abita in interiore homine. Conosciuto lo Spirito, conosciamo Dio e attingiamo alla Verità. La mediazione di Cristo è fondamentale perché Egli è la realtà dello Spirito incarnato, reso visibile, senza la cui presenza Dio sarebbe il “totalmente altro” e l’ineffabile. Si comprende come lo Spirito sia indicato come Verbo, ossia la parola ragionevole, il linguaggio umano, la cifra divina che possiede solo l’uomo. L’antropologia spiritualistica cristiana si distingue dal razionalismo naturalistico greco e dal neologismo ebraico. L’uomo cristiano è spirituale, ossia sintesi divina e naturale. anche il concetto di “ragione” cambia nel senso cristiano. Infatti il razionalismo antico vedeva nell’uomo la natura, dalla quale non veniva distinto ontologicamente ma solo empiricamente, per la sua socialità razionalizzata. L’uomo razionale classico era portatore di una ratio naturalis (nous) che costituiva il tramite strumentale per conoscere il cosmo naturale (fisicalismo). La ratio classica esprimeva un principio d’ordine naturale, espresso in leggi immutabili e necessarie che l’uomo poteva solo assegnare dopo averne preso coscienza. La ratio cristiana è spirituale, divina, ispirata dalla fede, cioè dall’intuizione umana della volontà di Dio, che si chiama “intelletto”. L’intelletto penetra nell’essenza divina conoscendo lo Spirito che anima il Tutto attraverso la creazione dell’uomo. Sono due ragioni diverse. La ratio naturalis conosce la natura, di cui l’uomo è espressione politica. La sua funzione strumentale nasce con la dialettica platonica (Sofista). La

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ratio spiritualis cristiana conosce Dio, cioè il suo Spirito di verità, che è l’essenza del Tutto, e questo Tutto è Cristo. L’intelletto umano per conoscere Dio, e cioè la Verità, deve prendere coscienza dello Spirito, che abita in lui, ossia procedere a una auto-coscienza. L’intelletto cristiano è la ragione hegeliana, il modo teoretico di conoscere lo Spirito. Cristo, il nuovo Adamo, è fonte di coscienza perché Verbo egli stesso incarnato. Cristo è la Verità che diventa natura, lo Spirito che si fa carne. In questo farsi, c’è il senso dell’Ereignis heideggeriano,16 come evenienza dal Verbo, evocazione e creazione d’essere legata a una situazione originaria (Er) localizzata (eignis) nel Mito, ma anche il senso di un percorso (odòs) che lascia dietro di sé (metà) l’indeterminatezza enigmatica del sacro. Diversamente dal rapporto esclusivistico greco, per cui il lògos si emancipava dal giogo del mythos, l’incarnazione cristiana assegna alla fede, in quanto espressione della fisionomia spirituale dell’uomo, quel compito di mediazione metodica che il mito arcaico assegnava al poeta e la filosofia assegnava alternativamente al dialettico, cioè a due tipologie antropologiche che caratterizzavano rispettivamente due universi di senso in successione progressiva: prima l’età del Mito, dopo l’età della ragione. Il confronto tra Eutifrone e Socrate era, non tra due contendenti dialettici, ma tra due idealtipi antropologici che si disputavano la mediazione tra cielo e terra. Questa visione storicizzante dei due universi di senso, quello delle origini mitiche e quello moderno del pensiero razionalistico, com’è noto, è stato ripreso anche in età cristiana da Gioacchino e da Vico, e tradotto in termini seolaristici da Comte e da Marx, ma appartiene alla concezione greca dello sviluppo della coscienza, e non già a quella cristiana, la quale interseca i due momenti originari in una visione sintetica in cui l’antico enigma e la ragione classica si trasfondono nel Mistero della Croce, che a sua volta simbolizza sia l’incarnazione divina che la resurrezione di Gesù. Il valore simbolico del Mistero cristiano, proteso per un verso all’ignoranza dell’Essere di Dio, e per l’altro alla sapienza della rivelazione, con-prende i due momenti essenziali della coscienza antica

16 Ved. M. Heidegger, Beitraege zur Philosophie (Von Ereignis) (1936 1938), tr. it., Milano, 2007.

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che rimaneva dislocato in due universi di senso opposti ed esclusivi. La trasfigurazione antropologica dell’uomo spirituale operata dal Cristianesimo consistette nel superamento dialettico dei due momenti della coscienza mitico-arcaica e razionalistico-moderna in senso universalistico, tale che la ragionevole fede fosse il segno sostitutivo delle antiche appartenenze ideal tipiche. In tal senso, la figura di Cristo come sapiente affabulatore impersona tanto il vate arcaico, che incanta la folla con il suo carisma sapienziale, quanto il moderno dialettico, che con una profonda esegesi scritturale sa tenersi a bada dalle insidie diaboliche dei retori e dei potenti.

L’universalizzazione di questa mediazione spirituale operata dall’umanesimo razionalistico, riporta l’antica dicotomia di fides versus rationem che lo spiritualismo cristiano aveva superata, riaprendo la tensione antropologica tra i due universi di senso che aveva caratterizzato le culture pre-cristiane, e segnatamente quella greca, ricostituendo lo jato culturale tra fede e ragione, tra teologia e scienza, tra religione e filosofia, che non aveva più avuto alcuna ragionevolezza entro l’universo sapienziale cristiano.

Tale lacerante tensione, che sta all’origine della drammatica dissoluzione moderna dell’universo cristiano, è la conseguenza culturale della individuazione della mediazione spirituale nella ecclesia, intesa come istituzione politica funzionale all’ordo socialis, anziché come corpo mistico dell’ordo amoris. Ciò che la predicazione evangelica indicava come il luogo interiore della presenza spirituale di Dio, venne allocata storicamente nella funzione direttiva della Chiesa apostolica, la quale divenne il luogo istituzionale della salvezza, sostitutivo di quello politico antico. La Chiesa intesa come società “cristiana” è una contradictio in adjecto in quanto la comunità di fede è alternativa, e non semplicemente sostitutiva, alla comunità politica pagana. Il corpo mistico cristiano venne identificato dal cristianesimo occidentale come Chiesa istituzionale, cioè forma ieratica di Potere mondano, che trattava con il Potere politico alla stregua di una potenza di questo mondo. La natura mondana e politica della Chiesa cattolica fu, a quattro secoli di distanza dalla Riforma protestante e dall’umanesimo razionalistico, confermata dalla pratica compromissoria con i poteri totalitarii e idolatrici del XX secolo, i quali combatterono praticamente e teoricamente il Cristianesimo ma non

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l’istituzione cristiana della Chiesa, che accettò di scendere a patti col Potere diabolico per salvarsi. E mentre le masse già cristianizzate furono abbandonate allo scempio statolatrico del machiavellismo storico, la Chiesa concordataria si garantì la sua salvezza mondana scendendo a patti col Potere diabolico. La Chiesa, diversamente dagli Stati cristiani usciti dal Medioevo, fu risparmiata dalla dissoluzione della sua organizzazione burocratica, ma la società cristiana si dissolse in preda alle nuove idolatrie neo pagane, consegnando al mito una cultura ultra millenaria, che la Chiesa cattolica aveva trasformato in ideologia mondano secolare e mito politico sacerdotale. Ogni atto umano non crea dal Nulla, come la ragione platonica, perché all’origine di Tutto c’è lo Spirito, che permane nel mondo etsi Deus non daretur. Anche se, cioè, la ragione umana, nella sua funzione strumentale, volesse negare la figura di Dio, che pure è consustanziale allo Spirito. Questa priorità consente a Dio l’eternità, e all’incarnazione di Cristo una presenza meta storica, che “è” non nell’attualità (storica) ma nella possibilità (ontologica) dell’Essere. E questo Essere che permane anche prima e anche dopo il suo apparire, libera la sua verità originaria dalla temporalità dell’evento fenomenico, trasfigurandolo in evento profetico, che esaudisce l’attesa ma non la esaurisce, come invece la filosofia fa con il mito.

La ragione distingue, e dà nome di Dio al Verbo non incarnato, e nome di Cristo al Verbo incarnato. Dio, nella sua preesistente possibilità, e Cristo, nella sua apparizione storica, sono consustanziali all’Essere, e perciò logicamente distinti senza essere ontologicamente diversi. La logica dialettica che ha negato la verità del Mito per affermare quel della filosofia, non può criticare la realtà di Dio, perché il suo Essere “è” nella figura del Figlio nell’atto stesso in cui “non è” affermata la figura meta fisica del Padre. In questo caso, non si può nominare Uno senza nominare anche l’Altro, per cui lo Spirito che li unisce ha un insuperabile significato simbolico, la cui consustanziale alterità dialettica Hegel ha cercato di mantenere entro l’unità molteplice dello Spirito come “contraddizione”.

Negato Dio dalla ragione critica, cioè dalla logica distinguente, non si può procedere in analogia col Mito, lasciando il principio al Niente e facendo della ragione la creatrice dell’Essere, per cui solo ciò che è, è.

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Nella prospettiva dello Spirito, anche ciò che non-è (definito) nel tempo “è” nell’Essere. Negare dio significa pertanto solo negare di nominarlo, rimuovendolo dal livello di coscienza della ragione, ma negare il nome di Dio non implica negarne l’essenza spirituale, cioè la sua realtà divina. La ragione (umana) non può dire nulla di Dio, ma solo il suo Essere. E quindi, posto Cristo come il Verbo incarnato, la ragione può giunger a negare la divinità di Gesù senza negare la realtà di Gesù, ma negare ciò che nell’essere attuale non è, non significa negare l’Essere ma solo la sua attualità temporale. Tant’è che la morte di Gesù non ha negato che la carne di Cristo, ma non la sua divinità, che la necrosi di Dio ha liberato dal giogo dialettico della temporalità storica. La resurrezione di Cristo ha confermato l’insuperabile simbolicità dell’Essere divino, tale che non si può negare Dio senza affermarne il suo Spirito, così come non si può negare Cristo senza negare la realtà della Storia umana, cioè lo stesso principio di realtà. In tal senso, l’allocazione iperuranea delle Idee platoniche ha un significa fortemente espressivo della necessità di dover astrarre la realtà della ragione dalla dimensione della realtà storica, assegnando alla realtà ideale una realtà superiore, ma comunque altra rispetto a quella ordinaria. Ogni idealismo da allora si costituisce come negazione di ciò che è a vantaggio di ciò che dev’essere. Ma questo negazionismo della realtà storica perviene sempre al Mito, all’ipostasi della fantasia o della ragione immaginativa, ossia a quella rappresentazione della storia che la dialettica aveva criticato come irreale. L’elemento irriducibile dello Spirito cristiano non è il “sacro” in senso greco di orizzonte simbolico pre-razionale, ma la sua inesprimibilità “dialettica” di essere anziché non. Lo Spirito che unisce l’umanità di Cristo alla divinità di Dio non è definibile in termini logicamente “oggettivi”, sicché tanto la sua affermazione quanto la sua negazione lasciano impregiudicata la sua trascendenza, che costituisce l’elemento unificante dell’uomo naturale e dell’essere divino. Negando questa trascendenza non si perviene a definire l’uomo spirituale, ma solo ad affermare l’essere sociale come essere naturale. Proprio perché realtà inumana, quella mitologica è potuta diventare oggetto di razionalizzazione umanizzatrice. Il Mito (divino o naturalistico) può diventare oggetto di critica quando la sua funzione rassicurante perde la forza persuasiva, cioè la fede ontologica, per diventare mero “racconto” anamnestico di ciò che

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“era” in origine ma che ha perso di significatività, diventando pura rappresentazione affabulatrice, non più ricco di senso ma di contraddizioni.

Il Mito, come oggetto esegetico, viene criticato e superato da una nuova rappresentazione razionalistica, più convincente, e perciò più degna di fede. In questa articolazione critica del senso si compendia l’intero processo ermeneutico della coscienza, che dalla rielaborazione dell’antica approda a una rinnovata fede, la cui verità non soltanto stabilizza (la verità come epistéme) la realtà, sollevandola dall’edacità dell’oblioso divenire (verità come a letheia), ma la costituisce come Essere anziché Nulla. La volontà raffermata dalla fede ontologica, si costituisce come una forza normativa eticamente valida. Il valore della volontà etica era riposto nella forza originaria della fede ontologica tradizionale, venerata come immutabile e perciò “sacra”, paradigmatica di ogni normativa umana a venire. Ma tale fede mitica, per quanto attribuita agli déi, essendo prodotto della volontà umana, era soggetta ala natura del Molteplice, alla sua temporalità finita, per cui la sua vigenza era legata alla sua stessa legittimazione etica, che reciprocamente si sostenevano e reciprocamente andavano esaurendosi. Confutata la volontà mitica, la ragione ne colmava il vuoto con una nuova credenza, non meno ipotetica dell’antica ma più convincente, cioè degna di fede. Ma proprio il vaglio della ragione destinava il Mito al conflitto ermeneutico, che esponeva la fede della sua assolutezza divina alla relatività di ogni giudizio umano. La critica filosofica al Mito nasceva da questa venatura scettica che infrangeva la compattezza del costrutto divino, insinuando nei suoi interstizii esegetici l’azione demolitrice della ragione. Questa dunque era la vera fonte della mito logia, e come tale produttrice di nuovi mitemi, di credenze teoreticamente plausibili, che però non garantivano senza riserva la fondatezza della loro verità.

La logica del Mito, con i suoi significati simbolici e non univoci, liberava la determinazione di senso delle parole dalla necessità della definizione dialettica, la quale invece, trascegliendo tra i sensi possibili delle parole quello razionale, costruiva intorno all’uni verso razionale quella “gabbia” (Weber) cosmica che abbandonava i sensi residui delle parole all’indeterminatezza irrazionalistica. La “isola” kantiana della ragione

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veniva a costituirsi per l’uomo come l’altro mondo rispetto a quello della Natura. Un mondo de finito anche dal suo Potere di governo, di controllo del tempo e degli eventi. Rispetto alla dinamica prestabilita dallo sviluppo della coscienza mitica entro il suo orizzonte di senso, tale che la rielaborazione ne compendiava il percorso ermeneutico, la coscienza tecnica del lògos dialettico si apriva a una fruizione di senso indeterminata, che soltanto la volontà etica restringeva a quello rinvenuto attraverso l’esperienza. E così, confutata la volontà mitica, la ragione ne colmava il vuoto lasciato dalla originaria indeterminatezza razionale con nuove credenze ipotetiche, la cui libertà di accesso e di abiura aveva come corrispettivo contrappasso l’aumento dell’incertezza ontologico, che una rinnovata potenza di controllo empirico doveva in qualche modo colmare. Confinata alla sua funzione mitopoietica, la ragione emancipata si trasforma in immaginazione dialettica, in fantasia razionalizzata in “ipotesi” epistemologica, a metà tra l’azzardo ludico e il pari pascaliano, senza poter mai uscire dalla caverna umbratile della realtà fenomenica, dall’ingens sylva delle apparenze sensibili e dei condizionamenti empirici della volontà: dal regno, insomma,della necessità naturale. La libertà dialettica, scaduta con la sofistica a forma ludica di esercizio della mente, trasforma in gioco confutatorio la coscienza critica, la quale, esautorando il Mito dalla sua funzione rassicurante, esponeva la ragione alla finzione rassicurante delle risposte provvisorie, escogitate dall’uomo per ammansire la paura dl Mistero, per placare il thàuma che lo atterriva destabilizzando la sua coscienza e l’esistenza stessa.

Il Mito, cioè la fede nella volontà risolutrice del Mistero, cessa di essere creduto perché l’enigma cosmico viene razionalisticamente trasformato in problema storico, legato alla temporalità e alla divenire della coscienza. Il Mito rinchiudeva il divenire nella eterna circolarità cosmica, entro la quale il rinvenimento del senso recondito delle cose coincideva con un appello anamnestico a una fenomenologia originaria che costituiva il paradigma di ogni possibile prognosi. L’uscita dall’orizzonte mitico, attraverso la filosofia, non segna ancora l’uscita dal naturalismo arcaico, di cui la mitologia era la logica cosmica, la cosmologia. Il passo ulteriore, infatti, viene compiuto dalla medicina, e segnatamente da Ippocrate, il quale per primo sostituisce all’ordine cosmico contemplato dalla theorìa un ordine ricavato “attraverso le prove tecniche effettuate sui singoli

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fenomeni (ékasta)”, e quindi

in questo modo la medicina abolisce l’unità mitica della natura, per sostituirla con quell’unità artificiale (nel senso letterale di “costruita dalla tecnica medica”) che è il frutto di conoscenze “verificate”, sottoposte cioè alla prova dell’azione tecnica. Criterio di verità non è più lo svelarsi della natura (alétheia), ma la correttezza (orthòtes) delle procedure che confermano o negano (“corretto” o “scorretto”) la validità delle conoscenze. In questo modo la medicina inaugura quella nuova forma di sapere che, invece di limitarsi all’esperienza, parte da questa per approdare, da un lato, all’estensione del sapere e, dall’altro, alla trasformazione stessa dell’esperienza, seguendo il più rigoroso empirismo e nella piena consapevolezza della storicità del sapere.17

“Sapere” (epistéme), dunque, e non “sapienza” (phrònesis). Il superamento, nell’ambito della sapienza antica, del fondamento ontologico naturalistico fu compiuto solo dal Cristianesimo, che ruppe il ciclo cosmico e la necessità insuperabile del destino umano, introducendo nell’esistenza dell’umanità l’attesa escatologica della redenzione. Ma ciò che Jaspers chiama “liberazione dal tragico”,18 significa, non soltanto affrancamento religioso dal dolore cosmico del Mito protologico, ma tra svalutazione individuale del dolore già naturale e impersonale in sentimento della verità, ovvero in coscienza soteriologica, senza la quale non sarebbe né responsabilità e neppure mediazione tra cielo e terra, ossia Storia. L’argomento teologico di Agamennone dopo l’affronto ad Achille, che imputa a Zeus, alle Moire e alle Erinni il ratto della concubina dell’eroe,19 dichiara che ogni azione è imputabile a un’origine divina e perciò è priva di quel discernimento che Socrate pretese da Eutifrone per distinguere il suo giudizio dalla volontà degli déi. Ora, l’imputazione moralmente irresponsabile alla volontà di un dio, è esattamente l’opposto del giudizio filosofico sulla giustezza di un’azione. E ciò vuol dire che

17 U. Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Milano, 2012, pag. 78.

18 “Erloesung vom Tragischen”, in Id., Von der Wahrheit, cit. in U. Galimberti, Op. cit., pag. 97.

19 Iliade, XIX, VV. 86 90.

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senza quel giudizio razionale, ossia senza il discernimento filosofico, neppure la religione potrebbe sussistere come “fede” deliberata e non mera credenza collettiva. La differenza essenziale, dunque, tra Mito e religione, è esattamente riposta nella consapevolezza della scelta di fede, cioè nella responsabilità del credente, che mancava alla credenza tradizionale, legata non a un qualche “pari”, ma alla sola circostanza del costume sociale. Il costume sociale è foggiato da una mentalità, ossia da una cultura sociale dominante costituita in opinione pubblica, derivata dall’affermazione istituzionale di una fede (vox dei) come credenza collettiva (vox populi). La vox populi è dunque la fede socializzata della vox dei divenuta credenza pubblica. Il carattere pubblico della credenza trasforma la fede in religione, la quale delimita e custodisce l’ambito della sacralità da quello profano. L’ambito profano, perciò, delimita a sua volta, per esclusione dalla zona pubblica del sacro, la zona della credenza privata, quella cioè del pensiero non socializzato. E’ in tale ambito privato che sorge la filosofia come credenza non pubblica, non socializzata e interna a una dimensione coscienziale soggettiva, anche se condivisa da più persone. La privatezza della filosofia è dunque relativa alla pubblicità della credenza sociale, e come tale “sacra”, rispetto alla quale ogni fede non riconosciuta è “profana”, a prescindere dai suoi contenti di pensiero, i quali possono anche esser riconosciuti ortodossi dal Potere sacro. La sfida filosofica lanciata dal razionalismo socratico, prima di essere teoretica, è politica, nel senso che mette in discussione, con la rilevanza teoretica della credenza pubblica, anche la sua priorità sociale rispetto a quella privata del filosofo. E proprio la natura sociologica della diatriba filosofica con l’opinione pubblica storica, ci aiuta a comprendere il fondamento soggettivistico di ogni razionalismo, il quale sorge come Minerva dal cervello di Zeus, ossia come coscienza privata e profana dal seno della coscienza pubblica e sacra. La ratio emerge dalla fides come la filosofia emerge dal Mito, ossia come coscienza soggettiva. L’Io si emancipa dal Sé collettivo come il pensiero razionale o filosofico si emancipa dal pensiero religioso o mitico. E si emancipa come pensiero che distingue ciò che la fede comunitaria unisce nel pensiero simbolico. L’affrancamento della ragione filosofica è insieme una emancipazione del pensiero privato e profano dalla ragione pubblica, dalla credenza sociale e

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sacra.

Ne consegue che è la socializzazione della credenza a fare di questa una fede religiosa, i cui contenuti “sacri” resterebbero privati senza un riconoscimento pubblico, cioè senza la loro socializzazione, che coincidente con la loro sacralizzazione. Dal punto di vista razionalistico che è quello privato e profano è quindi la socializzazione a costituire il “passaggio” del profano alla sua riconosciuta dimensione sacra e pubblica, per cui basta detenere il Potere sociale per affermare come pubblica e sacra qualsiasi credenza privata e profana. L’idealismo, a partire da quello platonico, nasce su questo presupposto razionalistico, che è anche alla base delle moderne teorie contrattualistiche, liberali e democratiche. Ma è una visione distorta del rapporto fede ragione, che dialettizza in senso reciprocamente esclusivo i due livelli di coscienza interni a uno stesso orizzonte ontologico di senso simbolico, trasformando la loro successione logica in una successione storicotemporale, e giungendo così per tal via a storicizzare i due momenti del processo ideale in due fasi anche realmente distinte in due diverse epoche storiche: l’epoca della fede e l’epoca della ragione, ovvero quella della religione e quella della filosofia, etc.

La storicizzazione dei livelli di coscienza ha comportato la centralità della funzione politica come Potere ordinativo del sacro, e quindi la secolarizzazione delle credenze religiose, trasferendo nella società politica il luogo della sacralità, con i suoi riti e le sue liturgie istituzionali. Lo stesso conflitto politico è un surrogato del paradigma dialettico dell’antagonismo tra i detentori dell’ordine sacrale del Potere e i privati concorrenti destabilizzatori dei valori simbolici costituiti. L’insidia dialettica è sempre etimologicamente dia bolica, in quanto tensione divisiva della comunione sacra entro il cui orizzonte le opposizioni coesistono e financo coincidono. Come ha notato Jung, l’opzione dialettica platonica assegna al termine logico il potere demiurgico del positivo, confinando al residuo irrazionale il campo del negativo (mè òn). Nondimeno, non considerando la concezione del Bene come unità totale, non riesce a darsi conto come per i cristiani, mentre il

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male non fosse sostanza,20 lo potesse essere il bene, inteso come entità relativa al suo opposto, e quindi astratta, e attribuisce l’idea di privatio boni a presunte “tendenze apotropaiche” di rimozione del “penoso problema del male”.21

La contiguità tra dialettica e politica è dovuta al concetto di verità come elisione dell’indeterminatezza del simbolico e affermazione del solo positivo, che per Platone coincide con l’unità dell’anima razionale a fronte della molteplicità sensibile. Tale unità ideale iperuranea, viene da Agostino dislocata in interiore homine ma in ogni caso il tòpos della verità designa un’allocazione diversa da quella sociale tradizionale, di tipo mitico-collettivo, ponendo chiaramente l’uomo come termine di mediazione tra le opposte polarità ontologiche di anima e corpo quale confine di realtà del sacro limes soteriologico. Passando per l’uomo, per la sua coscienza e per il suo cuore, la verità si emancipa dall’opinione pubblica della vox populi per cui la vox Dei deve intonarsi a quella del singolo uomo, che diventa destinatario di una ricerca di senso che Dio ha rivelato a tutti ma non svelato a ognuno. L’uomo si fa viandante alla ricerca del senso, che c’è nella fede ma che non apparirà se non alla fine dei tempi (éschaton). Nell’intanto, durate i tempi finiti della vita umana, la coscienza dell’uomo deve fidarsi della voce di Dio, superando i clamori della folla, e distinguendo da essi ciò che riluce della grazia divina. Il non sapere socratico diventa Mistero per il cristiano, il mistero della verità. solo un Mistero trascendente la finitezza del Molteplice, e una risposta parimenti meta fisica, poteva garantire l’eternità propria della Verità una e immutabile. Per ciò il Mistero della Croce non può essere de mitizzato, non essendo un Mito, ma la Verità stessa rivelata all’uomo e non escogitata dalla fantasia ipoteticistica. Ciò che Dio crea da sé è l’Essere, cioè la Verità, ciò che crea l’uomo è l’Idea dell’Essere, cioè il Mito. La scelta ontologica per l’Essere è dunque la conoscenza di Dio, la fede nella realtà del creato, la verità di Cristo e della Storia umana,

20 Ved. Agostino, Confessiones, I, XV.

21 C.G. Jung, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità (1942 1948), tr. it., in Opere, vol. XI, pagg. 165 166, Torino, 1992; ved. U. Galimberti, Op. cit., pag. 44.

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ossia della civiltà dell’uomo spirituale. Il principio di realtà fondativo dell’Essere (Bene) e negatore del Nulla (Male), non è atto di sola fede, cioè volontaristico, ma della stessa ragione umana che si riconosce nello Spirito divino del mondo, e che nel Bene riconosce la verità di Dio. Lo Spirito divino non è creatore dell’Essere, ma informatore, tant’è che il Soggetto creatore è indicato come Dio. Ma Dio è presente all’Essere tramite lo Spirito, per cui lo Spirito è la mediazione ontologica tra Dio e l’Essere, senza la quale Dio e Natura uomo compreso resterebbero irrelati. L’infinità di Dio non può finitizzarsi nella creazione senza negarsi, per cui tra l’atto creativo e la creazione interviene la mediazione spirituale, che ha di Dio l’essenza infinita e della creazione la finitezza sensibile. Il Verbo si fa carne, e per tale factum l’uomo acquista essenza spirituale, emancipandosi dalla necessità della sua natura sensibile e finita.

Ma il Salvatore dell’uomo, partecipando dello Spirito la natura umana, salva anche l’essenza di Dio, sottraendolo dal Nulla in cui era confinato prima della creazione. Infatti Dio, ponendo l’Essere, lo crea dal Nulla, cioè dal non-Essere. L’atto di creazione dell’Essere non è l’Essere, che ne è il prodotto, così come il Soggetto creatore non è l’atto creativo, che trascende la creazione. E dunque, o l’Essere viene tratto da Dio, per cui Dio è il Nulla, ovvero viene tratto dallo Spirito, nel qual caso è lo Spirito il Nulla. Nel primo caso, in cui Dio è il non-Essere, Dio non potrebbe essere il Tutto Uno, mancandogli l’Essere. nell’altro caso, in cui l’Essere viene dal Niente e il Niente è lo Spirito, la creazione dell’Essere non verrebbe da Dio, come vorrebbe invece S. Tommaso. Se venisse da Dio, Cristo sarebbe lo stesso Padre per emanazione. Il concetto trinitario, per conservare a Dio l’unità metafisica, deve ammettere la consustanzialità delle tre Persone, facendo della sostanza spirituale l’unica realtà, e della distinzione un elemento accidentale, negando con ciò la personalità di Dio, la storicità di Gesù e l’incidenza autonoma dello Spirito. La verità è che, così come l’opera umana presuppone l’Essere di cui è forma spiritualizzata, l’opera di Dio, la creazione dell’Essere, presuppone lo Spirito, perché se questo fosse anch’esso creato da Dio sarebbe appunto una creazione, e non il suo strumento creativo. Proprio in quanto atto creativo lo Spirito è l’unico elemento della Trinità che non è ma solo diviene. E pertanto diviene Dio nella determinatezza spirituale del Padre,

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e diviene Cristo nella determinatezza storica del Figlio. Inoltre, l’azione dello Spirito, agendo sull’opera umana come atto di grazia, determina anche la realtà dell’uomo spirituale, che attraverso l’azione dello Spirito si congiunge a Dio e a Cristo partecipando della loro gloria divina. L’essenza poietica dello Spirito è tale che nessuna determinazione, né quella spirituale di Dio né quella storica di Cristo, possano sussistere in sé, sicché il loro rispettivo essere deve con sistere nell’essere dell’altro. E così l’Essere di Dio per manifestarsi deve incarnarsi in Cristo come corpo spirituale, e l’Essere di Cristo deve manifestarsi nella fede degli uomini come corpo mistico e farsi Storia.

Questa reciproca con-sistenza fa delle tre Persone una Unità che è anche il Tutto in cui con siste la realtà di Dio nel suo spirituale processo storico diveniente essere di se stesso, ossia Verità. Questa realtà totale e unica costituisce l’orizzonte di senso entro il quale Tutto avviene. Ciò che rappresenta la novità essenziale del Cristianesimo rispetto alle credenze antiche e alla logica dialettica greca e al loro rispettivo concetto di verità, è la mediazione dello Spirito, il quale, interponendosi tra l’Essere e la coscienza del mondo (come Natura o come Ragione), introduce nel falso dualismo ontologico idealistico il concetto del divenire spirituale come mediazione consustanziale tra il Verum e il factum, tra l’Uno ideale e il Molteplice sensibile, impedendo che l’uno dei due termini, per realizzare la sua dinamica possibilità d’essere (dynamis), riduca l’altro a sé, facendo della parte il tutto. Il Cristianesimo, rompendo la necessità di tale riduzione assimilatrice dell’altro, introduce l’essenza ontologica della possibilità come libertà, ripristinando così quel contenuto simbolico della verità che la dialettica esclusivistica aveva rimosso a favore dell’unica opzione veritativa della logica, affermando pertanto la diversità irriducibile tra la differenza ontologica, che separa l’essenze dell’Essere da quella del Divenire, e la distinzione logica, che divide categoricamente l’ente. Con la mediazione dello Spirito, le differenze ontologiche sono superate in una sintesi spirituale in cui coesistono nella stessa unità di senso totale, senza perdere la loro reciproca determinatezza o distinzione logica. E nello stesso tempo, la mediazione ontologica libera la logica dialettica da ogni sincretismo sofistico, confermando la verità del suo principio di non contraddizione. Aver concepito la sintesi come spirituale, e la distinzione logica come reale, conferma, da un lato, la

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differenza vetero-testamentaria tra realtà divina e realtà mondana, e dall’altro le conquiste della sapienza filosofica della civiltà pagana, di cui il Cristianesimo si fa erede.

La partecipazione spirituale alla realtà di Dio o avviene attraverso la negazione dialettica della natura, e cioè della carne, con la morte fisica; oppure avviene attraverso un atto di trascendimento della realtà finita con l’intuizione mistica. Come il Cristo giunge alla Sua essenza spirituale, cioè alla realtà di Dio, negando la carnalità di Gesù, così l’uomo spiritualizzato attinge alla realtà dello Spirito negando l’ amor mundi a favore dell’ amor Dei. E come Gesù perviene alla sua condizione di beatitudine trascendendo la sua esperienza finita di ebreo nella metanoia della sua rivelazione messianica, così l’uomo naturale può trascendere la sua condizione storica nella ispirazione della grazia escatologica propiziata dalla preghiera.

La conoscenza spirituale, dunque, non è atto esclusivamente teoretico, ma consegue la stessa conoscenza di Dio come Verità anche per la via mistica del “cuore”, realizzando altrimenti la santità dell’amore. Solo nella Verità si può conseguire umanamente l’unità nel Tutto: l’unità dell’Essere creato (Natura), dell’Essere divino (Dio) e dello Spirito creatore (la potenza del Negativo o Niente).

La ragione strumentale, conoscendo la sola realtà del Molteplice, è scienza del finito, mutevole e ipotetica come ogni forma apparente. Come il corpo ha la sua scienza medica, che considera le singole parti (ékaston), così l’anima ha la sua scienza filosofica che ha per oggetto l’intero, l’unità della natura (physis), che da mitica diventa ideale con la filosofia, ma lasciando invariata la tecnica dell’inferenza (logismòs) che decide dell’appartenenza degli enti. L’unità della natura diventa mitica rispetto all’unità artificiale prodotta dalle procedure di verifica della scienza, prima medica e quindi dialettica. La verità del fondamento mitico (alétheia) diviene correttezza procedurale (orthòtes).22

La conoscenza spirituale, invece, consegue la verità della realtà eterna e unica, non soggetta al mero divenire in quanto trascendente, e non relegata alla dimensione metafisica in quanto non solamente ideale. lo

22 Ved. U. Galimberti, Op. cit., pag. 78.

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Spirito, infatti, non è un’Idea ma la potenza che in Cristo realizza la sua forma finita, conservando l’essenza creatrice, divina. L’Idea ha come correlativo oggettivo l’ente, ciò che è, mentre la conoscenza spirituale ha per oggetto la coscienza, una realtà che diviene, un processo, ossia una storia. Nell’orizzonte di senso spiritualistico non è più possibile assimilare l’esperienza umana all’evento naturale, privo di quella dimensione coscienziale che distingue la Natura dalla Storia. Il divenire sensato diventa processo spirituale, Storia, appunto, della verità che, dalla dimensione interiore dell’esperienza persona viene universalizzata nella soteriologia dell’intero genere umano, nel quale si riflette specularmente l’incarnazione di Cristo come corpo misticamente spiritualizzato. La Storia, come il luogo della fenomenologia dello Spirito, diviene l’ambito del sacro, distinto da quello della Natura. I termini classici s’invertono: non è più la Natura la realtà del molteplice divenire a fronte dell’unità eterna dell’Idea, ma è il processo dello Spirito incarnato che si muove teleologicamente in direzione del suo compimento escatologico, mentre la Natura è il regno dell’Essere che semplicemente è. Quella stabilità metafisica che l’idealismo platonico ricercava nell’assenza di movimento, l’ontologia spiritualistica cristiana la trova nel processo storico escatologico, il quale va però inteso non più, come nella sapienza greca, come riflesso sociologico di un modello iperuraneo, ma bensì come la stessa auto-coscienza della realtà divina. Solo dunque nella prospettiva fenomenologica dello Spirito divino il processo storico può costituirsi come orizzonte del senso totale dell’esperienza umana, laddove, fuori di quella prospettiva soteriologica e teologica, qualunque riduzione della Storia a processo meramente dialettico ovvero naturalistico costituisce una deformazione priva di télos veritativo, una mera rappresentazione mitologica, del tipo di quella comteiana e marxiana. La potenza dello Spirito non è naturale ma diventa realtà finita, s’incarna nell’uomo destinando alla sua coscienza la sintesi spirituale. La sintesi di finito e infinito non si compie con la creazione della Natura, e neppur con la presenza della specie umana, ma solo con la incarnazione dl nuovo Adamo e la vita del soggetto spirituale, il cui scenario sacro è la Storia escatologica. Cristo non fonda l’Essere naturale e neppure l’umanità, ma la Storia

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spirituale, iniziando il processo di auto-coscienza dell’uomo come creatura dello Spirito analoga al modello divino del Figlio, il Dio storico. Solo l’incarnazione dello Spirito distingue l’uomo spirituale dall’uomo naturale, e l’uomo nuovo dal resto della Natura, creazione inconsapevole. Ogni processo naturalistico, sia pure collegato a una causalità necessaria, rappresenta una legalità a teleologica, priva di senso spirituale, ossia di Storia. Proprio per questa indifferenza assiologia, il processo naturalistico, in quanto tale, non persegue alcun finalismo spontaneo ed è perciò esposto in ogni fase del suo divenire a smentite e deviazioni, ossia a quella gratuita casualità che invece è assente nei processi spirituali, come tali provvisti di un senso finale razionale. Ciò comporta che la conoscenza veritativa, se vuole mantenere i suoi presupposti di disvelamento del senso recondito del divenire fenomenico, può interessare i soli processi spirituali, mentre il sapere delle scienze naturali si ferma sulla soglia della verifica empirica, cioè della certezza probabile in attesa di smentita. Paradossalmente, è nell’ambito gnoseologico delle scienze empiriche che la conoscenza è più aleatoria, in quanto la rinuncia al sapere unitario e metafisico a favore della verificabile certezza viene ripagato con una sospensione di senso, che solo la volontà di fede attribuisce alla sequenza fenomenica causale. L’Essere naturale, pre-spirituale, semplicemente “è” nella sua esistenza finita e molteplice, ma non diviene mai altro-da-sé, restando sempre e solo se stesso. Soltanto l’azione dello Spirito può mutare la materia in altro, inserendolo nel processo del divenire storico. Infatti la direzione necessaria di ogni mutazione genetica del regno naturale, inorganico e organico, è rintracciabile attraverso l’immanenza del suo principio di sopravvivenza alle condizioni date, essendo la legge della vita naturale la vita stessa. Nel caso, invece, dell’esperienza storica, il divenire dei fenomeni spirituali non è mai circoscritto al principio di sussistenza, ma questo è ogni vota piegato a un fine che lo trascende e che cerca di escluderlo dalla considerazione del senso teleologico. Nei processi spirituali il divenire è il risultato della rimozione consapevole del dato naturale a favore di quello razionale. E ciò ha consentito di affermare allo storico idealista che la Storia è un processo di “libertà” creativa, mentre allo storico materialista che la Storia, al contrario, è un processo di “necessità” economica. Ma, più concretamente, i due aspetti sono inscritti

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nello stesso movimento spirituale, che include nel suo processo in divenire la materia naturale nelle forme ideali e queste nel finalismo trascendente, secondo un criterio di con sistenza gerarchicamente ordinata secondo il loro funzionale valore assiologico. Senza l’acqua il seme non germoglia, per cui la pianta presuppone l’irrigazione e quindi la sua necessità per la sua vita. Ma in una battaglia, l’importanza delle armi è relativa allo scopo da conseguire, il quale richiede che il loro uso sia ritenuto funzionale allo scopo. Senza di questo, le stesse armi non avrebbero il valore che attribuisce loro la guerra, e tornerebbero ad essere campane o vanghe e aratri in tempo di pace. Basta eliminare il fine guerresco perché un’arma si trasformi in oggetto puramente materiale o in un’espressione estetica. La pietra, che è e rimane naturalmente materia inorganica, muta di stato non la sua natura. Solo l’uomo ne fa una statua, un’ara, un portale, un fregio o un’arma, usandola come appendice del suo sé, realtà simbolica e significativa. E se l’uomo pre-istorico può trasformare l’Essere naturale nelle forme della sua rappresentazione simbolica, cioè della sua idea di realtà, che è quella del gruppo socialitario e politico, solo l’uomo spirituale può trascendere la finitezza naturale negandola nella morte e nella verità, secondo le due modalità suaccennate.

Soltanto il Cristianesimo ha dato coscienza spirituale all’uomo concependolo come immagine analoga di Dio, come “imago Dei” attraverso la consustanzialità dello Spirito, e non la mera derivazione naturale da un padre ancestrale divinizzato nel Mito. La paternità spirituale di Dio si origina e prende significato storico cn la fratellanza di Cristo, fondamento dell’Essere spirituale e non meramente naturale, e perciò divisivo dei legami familiari, politici ed etnici tradizionali. Con Cristo si realizza la conversione all’unità spirituale, ossia la “svolta” ontologica dall’Essere naturale, incluso quello sociale, all’Essere spirituale e storico. E’ lo Spirito che realizza il passaggio da Dio al Mondo, ed è sempre lo Spirito che attua il passaggio dell’Essere dal non Essere. se infatti l’Essere fosse direttamente da Dio sarebbe Dio stesso. Ma neppure Cristo è Dio stesso, ma la sua forma naturale e mortale, umana, la sua realtà temporale e storica. E proprio la realtà di Cristo impedisce il panteismo e la divinizzazione dell’Essere, ossia la transvalutazione del Molteplice finito nell’eternità dell’Uno ideale. la

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cristologia segna la soglia invalicabile al naturalismo e al panteismo, che sono i risvolti convertibili reciprocamente della divinizzazione dell’Essere nella forma rispettivamente dell’Uno e del Molteplice. Affermare che l’Essere sia Tutto, e che il Molteplice sia Uno, equivale a dire che l’Essere sia in trascendibile, e perciò eterno, immutabile e originario, che sono gli attributi di Dio. “L’Essere è” è la formula ontologica dell’idolatria pagana del Mito naturalistico. L’Essere non ha essenza, poiché l’essenza è l’Idea dell’Essere. senza lo Spirito, l’Essere è natura, e non può contenere un’essenza: è l’unità astratta degli enti, la falsa infinità del Molteplice. L’idealismo, attribuendo all’Essere un’Idea, ha idealizzato la realtà degli enti, rendendoli significativi, distinguendoli quindi da ciò che non è significativo secondo l’Idea, cioè in riferimento al modello ideale o forma dell’Essere. L’Idea dunque è la forma dell’Essere, e questo è la forma degli enti. Ciò che “è”, l’ente ideale, ha la forma dell’Idea: da qui l’idea platonica di partecipazione o metessi. Il giudizio logico, stabilendo che qualcosa “è”, ovvero “non è”, distingue la realtà sul fondamento dell’appartenenza ideale. affermare che qualcosa “è”, equivale a dire che partecipa dell’Idea. In tal senso, il giudizio di realtà discrimina l’Essere da ciò che non appartiene all’Idea (dell’Essere), riducendo così l’Essere stesso alla sua Idea. Il principio dialettico è in sé un criterio discriminante ed esclusivo di conoscenza della realtà, che per sua costituzione ontologica non può mai esprimere il Tutto, nel quale viene compreso anche ciò che idealmente “non è”. Ed è questa la ragione per la quale la coscienza logica distinguente presuppone una coscienza simbolica, cioè in distinta, la quale contiene nel suo orizzonte di senso anche ciò che la dialettica nega ed esclude dall’Essere, per cui il livello di coscienza razionale esclusivo è originariamente contenuto entro un orizzonte di senso simbolico inclusivo. In altri termini, l’Essere “è” incluso in un Tutto comprensivo del Negativo che il giudizio di realtà esclude dall’Essere. L’idealismo, pensando l’Essere come un’Idea, lo pensa come Tutto, asserendo che “reale” è soltanto l’ente di ragione, ciò che partecipa dell’Essere ideale. Da qui il confitto idealistico col Mito, e il suo tentativo di rileggerlo in senso dialettico. Ogni ermeneutica razionalistica del Mito è idealistica, cioè riduzionistica del Tutto all’Essere, e perciò non può costituirsi come una conoscenza di verità, ma solo, appunto, di ragione. E

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proprio in quanto rielaborazione idealistica del Mito, il razionalismo è una mito logia.

Per quanto detto, si evince che l’Essere, quale forma ideale, non è la forma di Dio, ma del Mito, cioè della realtà simbolica del Molteplice. Il Molteplice è la realtà rappresentata simbolicamente dal Mito e rielaborata dialetticamente dalla ragione, che dà forma ideale al Molteplice. La forma spirituale di Dio è Cristo, il Verbum factum caro. L’Essere, pensato come realtà ideale, è Natura, e ogni razionalismo è naturalismo. Ed è questa la ragione per cui ogni forma di idealismo si converte in opposto naturalismo, avendo in comune lo stesso principio unitario ideale dell’Essere. Ma lo stesso movimento del pensiero dialettico, che distingue entro il Molteplice l’Essere dal non Essere, tradisce l’incompiutezza di una conoscenza che non coglie il Tutto ma solo sue astratte parti di un Essere incompiuto e perciò in divenire. L’incompiutezza dell’Essere non è colmabile dalla conoscenza della Natura, sia questa intesa come indistinta realtà del Mito, sia concepita come Essere ideale universale, poiché la totalità conseguibile dal naturalismo sarà sempre l’unità del Molteplice, il cui orizzonte ontologico è intrascendibilmente mitico. Ogni razionalismo è dunque solo una rielaborazione del Mito, una mito logia. L’incompiutezza dell’Essere è colmabile dallo Spirito, per cui incompiuto equivale a privo di Spirito, cioè di intelligenza di Dio, e di sé come creatura divina. Tale incompiutezza naturalistica è colmata dall’evento del Cristo, che è “figlio”, cioè deriva, da Dio. Come afferma Cusano, “Gesù è il luogo dove si acquieta ogni movimento della natura”.23 Dio non è in ogni cosa perché infinito, ma essendo infinito è altro da ogni cosa finita. La sua assoluta alterità vene superata nell’uomo dalla mediazione dello Spirito incarnato nel Cristo, che do forma storica a Dio, rendendolo “presente”, cioè visibile e accessibile naturalmente all’uomo. Il Dio ebraico era “nascosto”, ma non così quello cristiano, che si fa invece “presente” nella figura di Gesù, che è la persona umano divina di Cristo. Proprio la sapienza spirituale cristiana appare “follia” alla logica antica, fondata sul principio di non contraddizione logica e ontologica

23 N. Cusano, Ubi est qui natus est rex Iudaeorumi, in Il Dio nascosto, tr. it., Roma Bari, (1995) 2004, pag. 80.

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stabilito dalla Metafisica di Aristotile).

3. Secondo S. Giovanni, Dio “ha dato il potere di diventare figli di Dio” a coloro che hanno fede in Cristo (Joh., 1, 12), ponendo la fede nel Messia come segno di grazia divina. La fede, dunque, è all’origine dell’accoglimento del fondamento ontologico del nuovo Essere spirituale. Cristo è l’inizio della nuova creazione del mondo, che non avviene, come la prima, ex nihilo, ma per conversione spontanea dell’antica; non trasformando la materia, ma vivificando lo spirito che l’abita. L’azione missionaria e apostolica di Cristo è di istituire nel mondo pagano la logica della carità fraterna, fondata sul principio dell’amore anziché su quello politico. la “conversine dei cuori” è la modalità alternativa, propria al Cristianesimo, della trasformazione materiale e dell’ordine socio politico, proprio del regno di Cesare. La carità cristiana è il principio della solidarietà comunitaria, o fraternità, alternativo a quello politico che aveva sorretto lo Stato antico, e che teoreticamente si esprime nella logica esclusivistica dialettica.

Per Cusano la “filiazione di Dio” corrisponde alla “théosis” o “deificazione”, la quale a sua volta “corrisponde al grado finale di perfezione, che si suole chiamare anche cognizione di Dio e del Verbo, o visione intuitiva”.24 Si partecipa dunque alla natura o essenza divina attraverso la conoscenza del Verbo, cioè la “luce della ragione”, intesa come lògos spirituale, come “ragione terna”, non già come logica dialettica platonica o come ratio, ma come “intelletto”, ossia come facoltà di penetrare (intus legere) la verità, che è il Tutto, diversa dalla facoltà di distinguere l’Essere per generi. L’ “intelletto” è il “seme divino” che genera la conoscenza, cioè la “straordinaria partecipazione” dello “spirito razionale” all’essenza divina, e che tramite appunto la fede giunge alla “théosis”, alla “apprensione della verità”. Rispetto alla conoscenza tradizionale, la conoscenza cristiana costituisce un progresso enorme e definitivo, perché non limitato alla conoscenza dell’Essere creato, cioè del Molteplice finito, ma dello stesso Spirito creatore. Ed è rispetto alla natura finita dell’Essere naturale che il nuovo

24 N. Cusano, La filiazione di Dio (1445), in Il Dio nascosto, cit., pag. 37.

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Essere spirituale si manifesta, non più solo come realtà degli enti molteplici, ma come realtà dell’eterno Uno, cioè di Dio, rispetto al quale l’Essere naturale decade a regno della materia, degli enti caduchi. E’ evidente che la conoscenza spirituale è altra rispetto alla “scienza” aristotelica, ossia alla conoscenza del mondo finito, creduto come la realtà dell’Essere primo, ma in verità soltanto dell’Ente creato. Con l’intelletto invece il cristiano assurge alla conoscenza del Creatore, partecipando della Sua verità spirituale. Con la grazia di Dio, l’uomo di fede perviene alla possibilità di “ascendere” alla unità spirituale divina, cioè di trascendere la realtà finita degli enti mondani. Come afferma Cusano, “nulla si coglie senza la fede, che, per prima, pone il viandante sul giusto cammino” 25

Questa conoscenza intuitiva, o “intelletto”, non può avvalersi delle tradizionali categorie concettuali, che costituiscono un “modo restrittivo”, “contratto” alla condizione soggettiva dell’uomo “di questo mondo”, le cui limitazioni non possono giungere “al cuore” senza compromettere la conoscenza.26 E’ infatti una tale siffatta conoscenza a offrire una rappresentazione fantastica della realtà, ornandola dei “fantasmi dell’immaginazione”,27 e cioè delle rappresentazioni mitologiche. Cusano afferma qui la differenza della verità divina rispetto alle credenze pagane nei miti, compresa la conoscenza razionalistica soggettiva, la quale, intrisa di naturalismo, riflette i condizionamenti della volontà umana. Il Mistero di Dio non può perciò essere confutato dalla ragione dialettica essendo la Verità stessa, il punto d’arrivo della conoscenza. L’orizzonte epistemologico si sposta dagli enti all’Uno, identificato con l’Essere ideale, cioè con un Ente supremo, senza però oltrepassare il Molteplice, rimasto celato sotto la credenza idealistica dell’Uno Natura. Proprio tale credenza costituiva l’essenza di ogni Mito, di cui quello della scienza rappresentava la versione razionalistica. E proprio tale complessiva

25 “Dunque, in tanto la forza dell’anima nostra può salire in alto, alla perfezione dell’intelletto, in quanto crede. Se c’è la fede, non è allora impossibile l’ascensione fino alla filiazione di Dio”: N. Cusano, Loc. cit., pag. 38. 26 Ivi, pag. 39.

Ibidem.

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credenza in cui era fallacemente avvolta la teoresi pagana consentiva la dialettica interna al Mito antico, fondato su un’ipotesi cosmologica che, dopo il vaglio della ragione, conduceva a un’altra ipotesi, razionalmente più elaborata, che originava una nuova credenza cosmologica, all’infinito. Questo circuito perverso della conoscenza mitica viene rotto solo con la rivelazione della vera conoscenza, ossia dell’unica Verità, che non riguarda gli enti ma la sostanza originaria e il vero Essere, quello dello Spirito, che per la sua sacertà si differenzia dall’idolatrato Essere naturale degli enti mondani.

L’Essere spirituale, procedendo da Dio, è divino, per cui il suo procursus storico si giustappone al divenire naturalistico come una fenomenologia dello Spirito incarnato che trova nell’evento cristico il terminus a quo, l’evento iniziale che inaugura l’epifania della Storia escatologica quale fenomenologia dello Spirito divino. Quando si afferma che il Cristianesimo ha sacralizzato la Storia come “regno dell’uomo” 28 non sempre si tiene presente che il fondamento antropologico della storicità è spiritualistico, e non naturalistico, per cui il processo fenomenologico acquista il suo senso teleologico solo entro la dimensione escatologica

28 Anche U. Galimberti in Op. cit. insiste su questo punto, maneggiando per altro con inesperta disinvoltura concetti teologici e passi scritturali che indirettamente confermano, al di là delle buone intenzioni dello scrittore, la necessaria assistenza della Grazia nell’atto del pensare, soprattutto le delicate materie teologiche, le quali purtroppo, quando trattate superficialmente e senza l’animo di intenderle, ossia con la leggerezza distratta della superficiale divulgazione, appaiono ai profani prive di quello spessore teoretico e profondità intuitiva che invece acquistano alla luce dell’intelletto coltivato nella fede, oltre che nella ragione. Pertinenti dunque le riserve espresse da un fine e colto esegeta come F. Ferrario sulle approssimazioni della trattazione di questioni che “chi legge il libro [di Galimberti] non ha modo di apprendere [che] sono state ampiamente, e non sempre banalmente, dibattute anche in prospettiva credente”. Aggiungendo significativamente che “Ciò non significa necessariamente che siano state risolte”, come invece vorrebbe frettolosamente fare l’Autore in poche pagine, “in termini compatibili con una teologia cristiana, ma certo che lo stato della questione è più articolato di quanto appaia all’Autore”: Id., in “Protestantesimo”, vol. 68, 1 2 del 2013, pagg. 205 211.

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cristiana, fuori della quale la Storia perde la sua pregnanza assiologia e il senso stesso della sua prospettiva unitaria. Una Storia secolarizzata, priva cioè del fondamento fideistico escatologico, ha lo stesso senso di una teoria scientifica priva di metodo. E’ un non-senso. Ne è prova indiretta la riduzione dello storicismo, quale versione scientifica della fenomenologia spirituale cristiana, a metodologia e sociologia delle storie particolari, nazionali o epocali o disciplinari, espressive tutte di realtà empiriche e fattuali prive di senso teleologico unitario. Non a caso il tentativo che il razionalismo moderno ha intrapreso, in analogia a quello antico, di de mitizzare il Cristianesimo abbia coinciso con la negazione dell’ontologia spiritualistica come fondamento di sapere cognitivo da parte del nuovo naturalismo epistemologico di tipo mitico idealistico, che riafferma la Natura quale unico oggetto di conoscenza, anziché Dio. Per la gnosi spiritualistica, invece, non è il mondo l’oggetto della vera conoscenza ma Dio, da qui l’esigenza di una rinnovata creazione animata dallo Spirito, cioè dalla stessa presenza di Dio, il Quale perciò diventa “ praesens ” per tutti coloro che vi credono. La filiazione di Dio nasce quindi da una esigenza gnoseologica, di indicare all’uomo la “vera conoscenza” dell’Essere spirituale o Verbo. Cristo è la “via” della “verità”, il fondamento antropologico del nuovo Essere spirituale, l’inizio della nuova creazione, di cui Egli è il nuovo Adamo, fondatore della Storia, quella della salvezza, non quella della forza e della sopraffazione. Ogni ricaduta nell’antica conoscenza dell’Essere naturale è un frutto della immaginazione idealistica, un traviamento razionalistico dal luogo del Mistero in direzione del Mito.

La ragione dialettica platonica, fondata sul principio di non contraddizione, è strumento mitopoietico, rappresentativo di mitologie razionalistiche caratterizzate tutte dalla credenza ontologica che il Molteplice sia l’Essere e che questo sia un’Idea. Da qui l’inconoscibilità della sapienza pagana del vero Uno, al quale non può neppure attingere la scienza del Molteplice, ossia delle rappresentazioni ipotetiche della realtà, fondate sulla immaginazione ontologica destinata nichilisticamente a confutarsi all’infinito.

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Quando saremo affrancati dal mondo il nostro intelletto si libererà anche di questi modi che lo offuscano, e così […] conseguirà,nella propria luce intellettuale, la vita divina, [superando le] contrazioni del mondo sensibile.29

La condizione di accesso alla verità è la fede nel nuovo fondamento ontologico, e quella della partecipazione è la ragione, la quale appunto “ha il potere di estendere la filiazione di Dio a tutti coloro che accolgono il Verbo di Dio e credono”, sia pure nei modi “diversi” propri a ognuno,30 in quanto elemento del Molteplice.31 Nondimeno, il testo di Cusano nasconde un grave equivoco logico, che si ripercuote sul piano ontologico con conseguenze non irrilevanti. Infatti, da un lato si afferma che l’accesso alla Verità è la via della conoscenza spirituale, con cui la ragione-intelletto perviene all’Uno; dall’altro, si afferma che la ragione permette di estendere la filiazione a tutti i credenti. La prima “ragione” giunge alla verità, la seconda la rende partecipe nei “modi diversi” a ogni singolo sapere molteplice.32 Evidentemente Cusano non parla della stessa “ragione”. La seconda presuppone la prima, sicché la conoscenza della Verità precede la sua partecipazione per fede. In altri termini, il fondamento veritativo è un accesso privilegiato all’Uno, di tipo intuitivo intellettivo. Ed è questo fondamento a sostituire la scelta ontologica, puramente volitiva e discrezionale, del Mito. Un fondamento di Verità, costituito dalla conoscenza di Dio attraverso la fede in Cristo. Dio è in Cristo. Solo successivamente questa conoscenza fondamentale può essere

29 N. Cusano, La filiazione di Dio, cit., pag. 39. 30

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Ibidem

“La molteplicità partecipa variamente dell’unità nella varia alterità, perché tutto ciò che esiste in altro necessariamente esiste in maniera varia. Pertanto, la filiazione dei molti non sarà senza un modo, che potrà forse essere definito partecipazione per adozione. Ma la filiazione dell’Unigenito, che è senza modo, nell’identità di natura col Padre, è filiazione super assoluta, nella quale e per la quale tutti i figli adottivi otterranno la filiazione”: Ibidem

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“La conoscenza sensibile è una conoscenza contratta, perché il senso non coglie che i particolari. La conoscenza intellettiva è invece universale, cosicché, a confronto di quella sensibile, è conoscenza assoluta e astratta da ogni contrazione particolare”: N. Cusano, De docta ignorantia, tr. it., Roma, 2001, pag. 109.

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partecipata universalmente con l’apostolato della ragione, intesa come logica del finito, la quale, nei “modi diversi” delle scienze, può far “adottare” quella Verità a chi ne avrà fede, ossia a quanti l’acquisiscono non sapendo di averla già nel loro cuore, secondo il senso platonizzante della ricerca agostiniana di Dio. Cioè alle molteplici creature razionali che costituiscono la varia umanità. La ragione delle scienze profane “adotta” la Verità a scopo divulgativo, restando la sua credibilità teoretica dipendente dal fondamento di fede ontologico, che è veritativo, e non più, come nella credenza pagana, mitico. Se non si distinguono le due “ragioni” si è portati all’indeterminazione della verità nelle diverse cognizioni settoriali dei vari rami scientifici e personali dei diversi interpreti storici. Invece, alla Verità unica ed eterna si perviene solo per la strada tracciata da Cristo, cioè per via intuitiva, che è la strada della “théosis”, che richiede l’assistenza della grazia alla guida dell’intelletto. Questa strada non è “scientifica”, ma spirituale, perché trascende la finitezza della realtà molteplice, ossia la stessa ragione strumentale, la quale solo nella dimensione veritativa può svolgere una funzione ancillare. Ma fuori da questa funzione, la ragione scientifica è mito logia razionalistica, ipotetismo immaginativo, rappresentazione mitica della realtà che viene ridotta all’Essere ideale.

Questa rappresentazione idealistica dell’Essere costituisce la radice metafisica della violenza, la quale, applicando la sua visione alla Storia sacra, ne deforma il senso escatologico trascendente in termini meramente naturalistici e dinamici, secondo una astratta dialettica in cui il Bene e il Male si fronteggiano come elementi antagonistici e irrelati, ognuno dei quali tenta la sorte di sopprimere l’altro. Il senso profondo della dottrina agostiniana del Male come “privatio boni” enunciato nelle Confessioni, risiede nella consapevolezza di Agostino che la spiritualizzazione dell’Essere ha introdotto una relazione gerarchica tra la Storia e la Natura che assegna alla seconda la stessa funzione servile che la ragione naturalistica ha nei confronti della conoscenza di Dio, che è quella di esprimere in termini umani il senso escatologico del Tutto. Nell’atto del ripiegamento riduttivo del senso spirituale al senso razionale, la parola umana deve essere assistita dalla fede trascendente, ossia deve rimanere circoscritta all’orizzonte di senso

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teologico, fuori del quale la cognizione razionalistica della realtà umana viene a perdere la sua storicità, il suo crisma di sacralità. L’esistenza del Male è esattamente rappresentata dalla vicenda umana il cui senso è assegnato alla sola ricostruzione razionalistica, per la quale diventa inafferente ai rapporti umani ogni considerazione trascendente la formulazione per causas. Ora, essendo l’éschaton l’evento esplicativo del senso ontologico della Storia, la sua rimozione idealistica, a favore di un senso immanente alle vicende stesse in quanto processo spontaneo, provoca di conseguenza una privazione di senso che rende inesplicabile quel processo, destinandolo a un esito tanto aleatorio quanto irrazionale. In tal senso, imputare la kénosis razionalistica di Dio alla responsabilità divina è come attribuire al derubato il furto. La de sacralizzazione della Storia è il prodotto della idealizzazione razionalistica dell’Essere pensato alla maniera antica come Natura, di cui la storia profana è il processo esclusivamente umano s-divinizzato, astratto dal finalismo escatologico originario. La persistenza di un motivo escatologico profano, ossia di un surrogato mitologico dell’originario senso trascendente, nelle concezioni razionalistiche della storia, costituisce quella deviazione di senso idealistico del divenire che esautora dalla conoscenza del Tutto quella realtà non compresa nell’Essere ideale, rappresentato come l’unico solo perché il solo razionalmente conoscibile. Il Male non consiste nella falsità della conoscibilità razionale dei fenomeni ideali, essendo questa conoscenza possibile e anzi certa, ma nell’erronea considerazione che tale conoscenza razionale sia l’unica dotata di senso veritativo, mentre è vero l’opposto, e cioè che proprio la lettura idealistica della storia non perviene a un senso razionalmente compiuto, ma aperto a quella indeterminazione simbolica propria della concezione mitica dell’Essere, contro la quale il razionalismo ha creduto erroneamente di opporsi in realtà confermandola. Lo stesso approccio a un tempo ermeneuticamente aperto e indefinitamente multi disciplinare della conoscenza scientifica della storia profanizzata conferma l’intrascendibilità della dimensione del Molteplice da parte della conoscenza mitica, di cui le varie interpretazioni scientifiche sono altrettanto rielaborazioni.

A seguito della rivelazione cristiana, per cui l’Essere non è l’ente e neppure la sua Idea, ma è la creazione di Dio, il naturalismo greco perde il fondamento della sua verità ontologica, manifestando, al cospetto dello

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spiritualismo cristiano, il suo significato mitico, consistente nella credenza che il Molteplice sia l’Uno. Ma l’Essere primo aristotelico non è l’Uno, bensì la rappresentazione astrattamente universalizzata dell’ente, cioè un’Idea platonica. Non a caso tale rappresentazione universale o categoriale non trascende la sua natura molteplice, dovendo ammettere la pluralità delle categorie, cioè la varietà delle scienze finite, e con esse l’assurdo e contraddittorio pluralismo delle verità, cioè il relativismo teoretico, che costituisce l’approdo più manifestamente contraddittorio del principio di non contraddizione, nel quale anche la scienza moderna si è irretita insuperabilmente. A tal punto che il moderno scientismo è la variante scettica dell’antico razionalismo dialettico confutatore del Mito. Alla base del razionalismo antico e moderno c’è il presupposto che la Verità non è, in quanto negata dalla ragione, la quale a sua volta si definisce come una conoscenza auto fondata su assiomi di fede, cioè su pure credenze di volontà, come ogni mito-logia umana, che rielabora enigmi e non svela misteri.

La nuova cosmologia spiritualistica, sulla quale è fondata l’antropologia cristologica, rivela la natura mitica di tutto l’antico sapere pagano, rispetto al quale l’ontologia cristiana si costituisce come un nuovo paradigma gnoseologico, fondatore di un nuovo senso della realtà, e non una variante rielaborata di antichi miti. In questo senso fondamentale il cristianesimo è nel contempo una religione, basata sulla fede nel fondamento ontologico divino, e una antropologia filosofica fondata sul Mistero dell’incarnazione cristica. E’ certamente vero, come ha sostenuto Prini, che il cristianesimo, “per il suo carattere escatologico”. non possa ridursi alla civiltà cristiana e che esso “oltrepassa le singole culture ed epoche storiche”.33 Su questo Gesù è stato chiarissimo nel rivendicare la sua appartenenza al regno dei cieli e non a quello del Diavolo, e nel riconoscere di conseguenza le prerogative di Cesare. Ma questo aspetto riguarda il suo fondamento di fede ontologica nell’unicità di Dio trascendente la realtà del Molteplice, e non la fenomenologia spirituale conseguente l’incarnazione del nuovo Adamo che dà inizio alla Storia

33 P. Prini, Il cristiano e il potere. essere per il futuro, Roma, 1993, pagg. 9 sgg. Ved. U. Galimberti, Op. cit , pagg. 116 119.

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della salvezza. L’antropologia cristiana, inevitabilmente, nell’atto di costituirsi come una nuova interpretazione dell’esperienza umana nel mondo, si manifesta come una nuova concezione del mondo, non più teo sofica (cioè mitica) o filosofica (cioè razionalistica e mito-logica), ma teo logica, ossia come una logica del Mistero, che per il mondo è la “ragione di Dio”. In questo senso, e in riferimento alla confutazione delle concezioni mitico pagane tradizionali, abbiamo osservato che il Cristianesimo, come fenomeno culturale trans nazionale, storicamente ha rappresentato la forma più poderosa di razionalizzazione della vita umana, la cui incidenza spirituale ha pienamente giustificato la cesura temporale registrata universalmente dalla nascita di Gesù Cristo.34 La logica del Mistero non coincide con quella della filosofia, poiché, come ha scritto Cusano, esso “va al di là di ogni possibile comprensione della mente umana, sopratt[utto perché, appoggiando noi” le nostre argomentazioni “su congetture, non siamo in grado di andare oltre i modi dell’enigma”.35 Lo “enigma” si può sciogliere ristabilendo l’ordine razionale sul caos delle rappresentazioni fantastiche e allegoriche, mentre il Mistero si può solo accogliere e penetrare partecipando della sua

34 S. Agostino giudicò “cose vacue” e “favolette” le “immaginose composizioni poetiche” dei classici quali Omero, Virgilio e Terenzio, che l’avevano appassionato da fanciullo, ritenendo un “peccato” quel suo antico amore letterario, accusando le lettere pagane di corruzione, avendo attribuire “qualità divine a uomini viziosi affinché i vizi non fossero considerati tali, e chi commetteva quelle colpe si convincesse di imitare non già uomini corrotti, ma divinità celesti”: Le confessioni, I, XIII, XIV e XVI, tr. it. A. Landi, Alba, 1979, pagg. 50, 51 e 53. La consapevolezza dello antropomorfismo omerico era già presente in Cicerone (Tusculanae disputationes, I, 26, 64), ma l’atteggiamento morale cristiano stigmatizzava la pagana legittimazione dei vizi umani attraverso la reversibilità delle presunte qualità divine. La ratio cristiana, rispetto a quella filosofica, era orientata al servizio di Dio, cioè a un compito escatologico meta-intellettuale, il cui contenuto critico interrompe il processo di acculturazione tra le generazioni, preferendo alle “regole della grammatica” la “legge della coscienza, la quale c’impone di non fare agli altri ciò che non vogliamo subire noi” (XVIII, tr. it. cit., pag. 57).

35 N. Cusano, La filiazione di Dio, cit., pag. 40.

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Verità. Contro di esso, la ragione non può avere la meglio, in quanto il Mistero è la Verità che dà ordine alla ragione stessa. Il Mistero è il principio d’ordine di ogni ragione umana, il suo fondamento ontologico inopinabile e irrefutabile. La ragione non può eludere il Mistero fondante, perché facendolo si auto confuta producendo miti, credenze fantastiche, mere ipotesi di conoscenza, suggestive ma non “vere”. Ma allora, ci chiediamo, perché ciò è potuto storicamente succedere, riproponendosi, anche per l’ontologia cristiana come per quella naturalistica antica, quella “dialettica” della ragione che si emancipa dalla fede? Perché, in altri termini, anche la fede cristiana ha potuto subire quell’opera di rielaborazione del mito analoga a quella che ha riguardato tutte le altre religioni della storia, confluendo anch’essa nel processo demitizzante di ciò che Nietzsche ha chiamato “nichilismo storico”? Perché ciò è potuto succedere è legato a una fondamentale ragione, di ordine teoretico, alla quale risalgono tutte le derivate conseguenze di ordine socio culturale, ossia l’adozione teologica del lògos filosofico greco come linguaggio del senso anche dell’orizzonte di senso cristiano. Questo ha comportato l’intromissione della logica dialettica nell’ambito fenomenologico spiritualistico, creando un conflitto, tradizionalmente contenuto, almeno sino alla Riforma, entro l’ordine fideistico dell’ermeneutica dell’ortodossia ecclesiastica, ma teoreticamente insanabile, tra la ragione disgiuntiva ed esclusivista, fondata sul principio di non contraddizione, e la morale unitiva della carità, fondata sul principio dell’amore e della misericordia divina. L’adozione della logica dialettica entro l’orizzonte di senso cristiano ha comportato l’eredità del concetto platonico di Bene (àgathòn), la cui realtà mondana visibile è il Bello (kalòn), il quale diventa pertanto la mediazione (méthexis) tra l’Idea e il fenomeno. Ora, il Bello è l’Idea greca dell’Essere, cioè l’ente idealizzato a modello ontologico. l’Essere in senso greco è la Natura, per cui il Bello è l’estetica della Natura, cioè la forma visibile dell’ordine cosmico naturalistico che, in ambito noetico, si pensa come Bene. Il Bene si pone al vertice della formazione educativa (paidéia) della virtù umana (areté) ed è un valore ideale in sé, in quanto rappresenta la perfezione del modello rispetto alle sue determinazioni finite molteplici, e in questo senso si pone come l’Uno nell’ordine (tàxis) teleologico del cosmo naturale così come in quello ontologico universale.

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Il Bello è la “presenza” dell’Essere, cioè la sua attualità : la parousìa dell’eidos. L’apparizione dell’Essere è il suo splendore. Risplendere dell’Essere e illuminare l’ente su cui cade la sua luce riflessa. La riflessione intellettuale ha questa origine metaforica. La luce (nous) spirituale domina il mondo visibie rendendolo intelligibile. La dottrina cristiana dell’intellectus deriva dalla teoria del nous, così come dalla metafisica della luce si origina la dottrina del verbum. Il riflesso mondano e temporale dell’ordine ideale greco è dunque la realtà visibile e naturale in cui è inserito l’uomo, ossia il contesto socio politico dello Stato, quel “regno di Cesare” che Gesù aveva contrapposto al regno di Dio, che corrisponde, come unità sociale, all’unità razionale. L’unità razionale dell’ordine naturale si consegue attraverso la logica dialettica, la quale, partendo da assiomi giunge a conclusioni razionali non superabili e perciò incontrovertibili, che forniscono una “visione adeguata” della realtà, cioè una “indicazione obiettiva della verità” dell’ente. La dialettica, così, attraverso un procedimento negativo liquidatorio delle opinioni, consegue “l’obiettivo della comprensione”, che è quello dello “sviluppo del significato totale”. Essa, dunque, è il metodo teoretico che consente di pervenire alla “totalità di senso” dell’Essere.36

L’uso in ambito teologico della logica dialettica, ossia della ratio che presiedeva all’ordine cosmico naturalistico dell’ontologia greca, non poteva che provocare la traduzione in termini teologici della struttura del cosmo pagano, assegnando alla ragione il compito di perseguire l’obiettivo della comprensione della “totalità di senso” che la rivelazione aveva assegnato alla verità del Mistero, e alla Chiesa apostolica di costituire nella Storia una pòlis cristiana che fosse speculare a quella classica ma universale come l’Impero romano. E’ in questo progetto politico che la cristianità storica travisa il senso escatologico della sua missione evangelizzatrice, addivenendo alla costituzione della Chiesa cattolica, intesa ibridamente come istituzione mondana e insieme ente morale depositario del monopolio ermeneutico della verità. Il corpo mistico cristiano, nella prospettiva cattolica, diventa una istituzione

36 Ved. H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 530 549.

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teologico-politica storica, e come tale custode dei valori tipici di ogni organismo etico politico, il primo dei quali è la propria conservazione, legata alla logica della forza. E’ per tale verso greco che il Cristianesimo religioso si converte in Mito cristologico, e la cristianità in erede eticopolitica della metafisica classica, consentendo quindi la metabasi dialettica che è tipica di ogni rielaborazione razionalistica del Mito, e che in riferimento allo specifico Mito cristiano caratterizza la cultura dell’età moderna, l’epoca della formazione e dissoluzione della civitas christianorum e della sua civiltà liberale. Tornando al rapporto fede ragione, l’evento originario, suscitatore del thàuma, è in-definito, e perciò propriamente non è conosciuto ma è creduto. La contrapposizione tra fede e sapere nasce in conseguenza del sapere razionale, il quale distingue l’oggetto in base all’appartenenza all’Essere razionale, giudicando non essere ciò che non vi rientri. Ma ciò che non rientra nell’Essere di ragione appartiene alla realtà creduta, ossia all’universo di senso religioso, il quale perciò comprende anche ciò che per la ragione è un enigma, che è all’origine della meraviglia pre filosofica. L’enigma necessita di essere (conosciuto), ossia di essere determinato, cioè nominato. Nominare l’evento è condurlo all’Essere, ossia fare di esso un ente (ciò che è). La nominazione non indica semplicemente l’evento ma lo significa, legando la “cosa” alla “parola”. Tale congiunzione costituisce l’essenza della “copula”, è, la quale rappresenta linguisticamente l’atto di fede nell’essere dell’evento nominato.

Dal unto di vista teoretico, l’attribuzione dell’essere all’evento attraverso la nominazione razionale, equivale a distinguere entro l’indicazione simbolica degli enti, l’elemento razionale, dichiarato (razionalmente) esistente, dall’elemento spurio, dichiarato (razionalmente) in esistente. Ma, come si è visto nel Sofista, l’in esistenza logica non equivaleva alla in esistenza assoluta, per cui l’esistenza razionale rientra in un ambito di esistenza più ampio dell’Essere attuale, che è quello dell’Essere possibile. La possibilità è l’orizzonte ontologico della fede, comprensivo dell’Essere di ragione e inclusivo pertanto dell’attualità del possibile, cioè della Storia.

Se dalla visuale storica la possibilità in attuale è giudicata in esistente, per cui l’esistenza è attribuita alla sola realtà attuale, dall’orizzonte della

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fede, e cioè della possibilità, l’esistenza storica non è contrapposta alla possibilità, ma è solo una modalità d’essere dell’Essere. per questa fondamentale ragione, l’ontologia della fede non può assumere come sua propria la logica dialettica, propria invece della conoscenza razionale (esclusiva delle modalità d’essere non attuali), ma deve adottare una logica inclusiva di ogni possibilità. Una tale logica inclusiva è quella che consente di conoscere l’evento cristico non solo nei termini razionali della sua avvenimenzialità storica con temporanea all’attualità del suo tempo, ma anche come evento es temporaneo, proiettabile nel passato e nel futuro in attuali. Per la lettura significativa dell’evento cristico, non basta più la logica dia-lettica della causalità razionale, circoscritta ai fenomeni attuali, ma occorre una logica sin lettica, ovvero sinbolica, che metta cioè in relazione spirituale eventi diacronicamente lontani ma significativamente congiunti. Nominare un evento è raccontare il suo Essere, rappresentandolo per ciòche è. Il racconto dell’Essere attuale è quello della storiografia razionalistica, che isola gli eventi entro il loro tempo attuale collegandoli in sequenza causale alla stregua di ogni scienza naturalistica. Da questo storicismo naturalistico dell’attualità va distinto lo storicismo spiritualistico della possibilità, il quale comprende gli avvenimenti nel loro significato spirituale escatologico e non contingente. Il significato spirituale escatologico agli eventi storici si ottiene collocando l’evento cristico al centro della Storia, quale lògos divino che trasvaluta il significato ideale (cioè razionale) degli eventi nella loro dimensione escatologica. Rispetto all’attività narrante del Mito, che congiunge con la parola la “cosa” al suo “significato” simbolico, la storiografia razionalistica sostituisce a quello simbolico un significato ideale, in modo tale che parola, cosa e significato siano gli elementi della rappresentazione dell’Essere così com’ è conosciuto, anziché semplicemente creduto. La narrazione razionalistica, pertanto, conserva la struttura ontologica mitica del racconto ma la rielabora in chiave logico-dialettica. La copulazione mitica, per la sua natura ontologica, costituisce dunque l’origine e la premessa di ogni successiva analitica filosofica, la quale si afferma come atteggiamento, non solo logicamente dialettico ma ontologicamente diairetico (da diairetos, “diviso”, “separato”, “distinto”) verso gli

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elementi simbolici del Mito al fine di una decostruzione della sua unità religiosa e l’affermazione del lògos come unico e vero legame tra la parola segno e l’ente rappresentato. In tal senso la filosofia, quale rielaborazione razionalistica del Mito, si costituisce come attività di negazione della fede nel fondamento ontologico e critica dell’originario legame di racconto (= Mito), che si manifesta nel linguaggio comune come doxa, cioè come opinione priva di idealità (lògos). Questo carattere “negativo” della filosofia è consustanziale allo stesso filosofare, il quale rimane sempre sulla soglia (filo) della sapienza (sophia) come sapere pro fano, che non può con prendere il Tutto, che rimane inattingibilmente altro e cioè sacro. Rispetto alla visione simbolica del Mito, quella filosofica e idealistica assume dell’Essere soltanto il suo fenomeno attuale (Sosein), il suo presente storico, che appare alla coscienza logica l’immagine vera della realtà. Verità e realtà coincidono con la visione logica dell’Essere, tale che il lògos sia il principio (aìtion) di realtà.

Questa “visione” dell’Essere attuale, cioè dell’ente, esclusiva di ogni altra possibilità d’Essere, e quindi di ogni altra dimensione temporale diversa dal presente, deve necessariamente presumere un fondamento ontologico pre giudiziale, cioè antecedente il giudizio di realtà logico; deve presumere una fede ontologica, la stessa che la visione razionalistica dell’Essere aveva sottratto alla coscienza mitica.

La visione eidetica, dunque, deve la sua sussistenza veritativa a una duplice credenza: quella sulla quale si fonda ontologicamente la sua critica dialettica, e quella per cui l’Essere oggetto di tale critica sia quello unico e vero, e quindi il principio di tutte le cose. La duplice credenza razionalistica è tale in quanto si colloca entro la credenza mitica, ossia è compresa nell’orizzonte di senso simbolico dell’Essere, come una sua variante negativa, cioè negatrice della fede ontologica. Il filosofare non va oltre questa negazione, e dunque il suo Essere rispetto alla verità è Niente, per cui la sua realtà è legata, come l’Eros platonico, da un lato al Tutto in cui è compreso, e dall’altro al Niente quale esito del processo dialettico. Così il filo sofo crede di raggiungere il sapere ma invece se ne allontana per prepararne un altro in cui il suo pensiero negativo possa essere compreso e invalidato. “Chi sono allora quelli che filosofano, se non lo sono i sapienti e neppure gli

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ignoranti? Sono quelli che stanno in mezzo agli uni e agli altri”.37 Sono, cioè, coloro che sono alla ricerca della verità perduta a seguito della smarrita fede, tributaria di quel “consenso senza ricerca” di cui parlava Agostino.38 Se il logo è dia logo tra la verità e la sua negazione, la verità, che è “certezza” priva di ragione, può sussistere senza la sua negazione logica, sia come sentimento o intuizione, che come opinione condivisa e pubblica (dòxa). Viceversa, è la filosofia che, in quanto negazione d’Essere, non può sussistere senza tale Essere, ossia senza quei pre giudizi della coscienza mitica che la fondano e contro cui essa si erge docente. In tal senso, il principio aristotelico di non contraddizione, non è un vero principio, ma un succedaneo della verità di fede, che è l’unica verità che la filosofia può servire a conseguire criticando l’antica o a conservare come fede novella. Una verità filosofica non può darsi, come non può darsi un Essere che sia Niente. Ma per fugare questa contradictio in adjecto occorre permanere entro l’orizzonte di senso della verità, che è simbolico e sacro, non razionale e profano. Fuori di esso, la verità non si vede, mancando la fede, la quale appunto, per dirla con Paolo e con Tommaso, è “la prova delle cose che non si vedono”, trascendendo la loro realtà l’apparenza degli enti molteplici, oggetto della scienza logica. Dalla natura dialettica del filosofare dipende il carattere polemico della conoscenza razionale dell’Essere, che nega ciò che la fede afferma. In questo processo, l’elemento razionale costituisce il momento scettico della negazione, mentre il momento asseverativo si afferma come atto di fede. La credenza precipua della teoresi idealistica consiste nel ritenere che sia nell’Idea il principio ontologico, mentre in realtà il fondamento ontologico del principio logico idealistico è da ravvisarsi nell’atto fideistico originario pre giudiziale, il quale pre siede allo sviluppo di ogni processo dialettico. Ciò vuol dire che il momento della negazione razionalistica non inizia il processo della conoscenza, ma è il succedaneo di una affermazione di fede per cui la realtà razionalmente negata anzitutto “è” creduta Essere. E’ la indistinzione dell’ontologico dal logico

37 Platone, Simposio, 203 d.

38 “Fides est non inquisitus consensus”, afferma Agostino nelle Confessioni.

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a costituire la filosofia come una credenza interna all’orizzonte di senso mitico.

La conoscenza spiritualistica, di contro, non permane all’interno dell’orizzonte di senso simbolico del Mito, la cui indistinzione provoca la negazione dialettica, ma lo sostituisce con un nuovo orizzonte di senso, quello del Mistero, che non può esser confutato da alcuna negazione dialettica in quanto non pone alcun dato di realtà iniziale al processo fenomenologico ma un evento assoluto quale il kairòs dell’incarnazione del Verbo, che non si nega ma si completa con la sua Morte.

Il processo che dalla Incarnazione di Cristo conduce alla Morte di Gesù è un evento sintetico, entro il quale si dispiega l’intera fenomenologia dello Spirito assoluto, ossia la sua Storia. La Storia cristiana, dunque, rappresenta un processo che, secondo la rievocazione fattuale razionalistica, ha inizio con l’Incarnazione e ha termine con la Morte di Gesù Cristo, tale che l’evento storico sia compreso in termini cronologicamente conchiusi e definitivi. Ma lo stesso evento cristico, secondo la lettura simbolica spiritualistica, non ha un inizio e una fine, ma è l’inizio e la fine della Storia, ossia “è” la Storia stessa dell’umanità rappresentata simbolicamente nella vicenda esistenziale di Cristo. L’Essere della Storia spirituale è l’Essere stesso di Cristo quale Verbo incarnato.

Alla luce di tale evento simbolico assoluto, cioè trascendente la realtà naturale e insieme immanente all’esperienza spirituale dell’uomo, ogni avvenimento storico costituisce un exemplum temporale, la cui ermeneutica richiama il suo significato paradigmatico, racchiuso nel racconto evangelico, di cui ogni storia particolare dell’uomo storico è una rappresentazione esemplare, il cui senso si evince attraverso la rielaborazione esegetica del relativo analogo sacro. In tal senso, ogni storia particolare ritrova il suo senso spirituale ne la Storia di tutte le storie, quella sacra dell’Evangelo, nel cui orizzonte di senso l’unico veramente compiuto si compendia anche la narrazione dell’Antico Testamento.

Il racconto evangelico non è una narrazione mitica, cioè una rappresentazione allegorico fantastica di tipo cosmologico, come invece è ancora l’Antico Testamento, ma la Storia spirituale del genere umano che nella vicenda del Cristo compendia i suoi momenti essenziali, ossia

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significativi, in quanto nella esistenza dell’Uomo si manifesta in forma simbolica la vicenda storica di ogni uomo spirituale, la sua verità. Questa verità esistenziale e storica del genere umano e di ogni uomo spirituale coincide con il Mistero divino, è il Mistero storico dell’esistenza umana, della Storia dell’uomo. Mistero nel doppio senso di imperscrutabilità della volontà di Dio, e quindi di dipendenza dei destini umani da essa, e inoltre di possibilità d’essere dell’Essere, ossia di apertura del futuro alla libertà dell’uomo. Diversamente dal racconto mitico, l’Evangelo non ricerca un’origine immaginandola, poiché essa è testimoniata nell’Antico Testamento, il testo mitico sul quale la sapienza cristiana esercita la sua rielaborazione critica.

Rispetto alla Weltanschauung razionalistica greca, la Rivelazione cristiana dell’Essere non nasce dal Nulla, non è auto referente, ma si genera dalla fonte stessa della creazione divina. Cristo non segna l’inizio del mondo, e neppure dell’uomo naturale, ma segna l’inizio della Storia dell’uomo spirituale, che partecipa dell’essenza divina, che per l’appunto è spirituale. L’analogia con il theorein razionalistico è evidente, in quanto anche la Rivelazione cristiana è una rielaborazione del Mito ebraico e una razionalizzazione della sua cosmologia in chiave umanistica. Ma emerge anche innegabilmente la differenza rispetto alla visione naturalistica greca, nel senso che la Storia cristiana è intrinsecamente sacra e non politica, e quindi investe un ordine di considerazioni che non può essere confuso con i rapporti di forza sociali dei gruppi umani e con la produzione socializzata dei beni materiali, inerendo invece alla dimensione veritativa dell’esistenza, antitetica a quella polemica. Nell’orizzonte di senso spiritualistico, non può essere adottata la logica dialettica del lògos polemico fondato sul principio di non contraddizione, ma solo una logica unitiva fondata sul principio della “carità”, la quale, secondo quanto asserito da S. Paolo, “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” e senza la quale, quand’anche l’uomo potesse parlare un linguaggio universale comprensibile a tutti gli uomini, o la stessa lingua degli angeli, sarebbe “un bronzo che suona o un cembalo che squilla”.39 senso sacrale delle caratteristiche della carità è manifesto, sia perché si

39 Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 13, 1 3.

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riferiscono a un ordine di valori non esclusivi e negativi ma inclusivi, e quindi simbolici e indistinti, e sia perché separano nettamente l’orizzonte di senso spirituale dalla visione naturalistica e oggettivistica dell’Essere adottata dalla cultura mitica e razionalistica greca.

Vi è una continuità metafisica tra la concezione ontologica greca e l’eidos idealistico, la “visione” teoretica. Tale continuità è costituita dalla separatezza, del resto comune a ogni cultura religiosa dell’uomo, tra l’emisfero del “sacro” e quello del “profano” del mondo, tale che conoscere equivalga a distinguere la rispettiva appartenenza. La logica dialettica razionalizza tale distinzione e la rende metodica., ammettendo logicamente fondata la sola realtà razionalmente attribuibile al “sacro”. Tale rielaborazione logica dell’emisfero del sacro ha conferito al metodo razionalistico la funzione decisiva dell’attribuzione, già appartenuta ai riti propiziatori, e ai suoi fautori, i filosofi, il ruolo un tempo rivestito dai sacerdoti custodi delle verità divine. La stretta contiguità tra l’orizzonte ontologico dell’Essere e la metodica della logica razionalistica greca, fa dunque della visione idealistica della realtà una rielaborazione del Mito arcaico, la quale, solo dal punto di vista interno al suo orizzonte di senso può apparire culturalmente rivoluzionaria, mentre in termini teoretici, e soprattutto da una prospettiva esterna a quell’universo, quale quella in cui si poneva la coscienza cristiana, la distanza tra mitologia e filosofia non era così significativa, entrambe appartenenti, come distinti livelli di coscienza, a uno stesso universo di senso simbolico, dialetticamente distinto ed esclusivo del suo opposto. Come già ricordato, l’idealismo platonico ha metodizzato l’originaria distinzione religiosa, astraendola dal sentimento della fede, e facendo pertanto del “sacro” un universo non più semplicemente distinto in senso logico da quello profano, e quindi relativo, ma diairetico e cioè ontologicamente separato, come Bene, dal suo opposto logico, il Male. Tale separatezza del “sacro” filosoficamente laicizzato, ridiventa religiosa col Cristianesimo, il quale adotta il metodo logico dialettico per giustificare razionalmente la propria alterità rispetto alla credenza religiosa storica, universalizzando la fede cristiana attraverso quel metodo razionalistico, e con essa anche questo, esportandolo culturalmente ovunque la nuova fede apostolica si affermasse.. in questo senso precipuo, la filosofia fu effettivamente al servizio della teologia cristiana

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in funzione strumentale.

Ma per le fondamentali ragioni di cui si è detto, il lògos dialettico greco non può essere adottato dalla logica caritativa cristiana, radicalmente diversa dalla visione idealistica dell’Essere propria al razionalismo greco, fondata sulla Weltanschauung mitico naturalistico, per cui la sua adozione storica va considerata come una fase transitoria di contaminazione culturale dello spiritualismo cristiano con la maggiore sapienza antica, di carattere puramente religioso, caratteristico di un’età teologico politica che ha avuto per protagonista la Chiesa cattolica, che ne ha interpretato ed indirizzato lo spirito, ma che non può considerarsi lo stadio teologico-culturale unico ed esclusivo della spiritualità cristiana, e che prelude quindi a un’età successiva, culturalmente evoluta rispetto a quella cattolica, quella della compiuta “età dello Spirito” preconizzata dall’escatologia di Gioacchino da Fiore e interpretata dal fideismo protestante.

A questo punto, anche per comprendere l’esito secolaristico del protestantesimo, che ha molto più del cattolicesimo riabilitato la concezione razionalistica greca della conoscenza come “scienza metodica”, è indispensabile distinguere la concezione ontologica dell’Essere spirituale cristiano da quella del razionalismo antico, come pure la rispettiva logica spiritualistica da quella naturalistica.

4. Indichiamo con il termine greco di Dòkema () la “visione” ellenistico cristiana dell’Essere spirituale, il quale include anche il significato di “apparizione” (dell’evento divino), di “credenza” (nella sua fondatezza ontologica) e di “aspettazione” (escatologica).40 E indichiamo con il termine di Dòkesis l’attività poietica dello Spirito pensato ellenisticamente come Lògos spiritualistico della carità divina, incarnato nel Cristo, che è, per chi crede in Lui, “la via, la verità e la vita”. 41 Il concetto religioso di Dòkema, il cui termine non è neo testamentario, è

40 Il termine greco indicante la “apparizione” di Gesù usato nella nostra accezione, non va confuso con il significato obliquo di “apparenza”, da cui proviene il significato di “docetismo”.

41 Giovanni, 14, 8.

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più originario e comprensivo di quello adottato da Dilthey di Weltanschauung, che tende a sottolineare la oggettività tipica della produzione spirituale dell’uomo rispetto al fondamento ontologico che la sostiene e che fa della conseguente filosofia una “scienza del reale” (Wissenschaft des Wirklichen), perché inclusivo di quel fondamento onto teo logico che l’accezione storicistica moderna ha rimosso ma che pure è alla sua origine pre scientifica. Il Dòkema della fede cristiana è la rappresentazione di origine ellenistica dello Spirito di Dio incarnato in Gesù Cristo, che è a un tempo Essere ed immagine dell’Essere, fondamento di verità ed esistenza storica, evento originario () ed esperienza temporale del Figlio dell’Uomo,  divino e corpo mistico della sua Chiesa. A questo punto è chiaro che il concetto greco di Agathòn non ha niente a che fare con la concezione cristiana di Dio, il quale non è una Idea, cioè un modello di ente razionale, ma la fonte creativa dello Spirito, l’origine di ciò che è se stesso, ossia la stessa Verità indeterminata (“Io sono ciò che sono”) dell’ Essere possibile. Questa consapevolezza rende chiare le parole ricordate di Giovanni, le quali stanno appunto ad indicare il percorso spirituale (la Via) della conoscenza (la Verità) che l’uomo deve esistenzialmente intraprendere (la Vita) sul modello eterno della vita di Cristo, in cui si compendia il Mistero della Verità, che, quale sintesi di ciò che per la ragione è opposto, eternamente coincide con sé stessa, al di là delle forme storiche particolari, ossia delle culture e delle civiltà umane, tutte rapportabili all’unica Storia spirituale dell’umanità. Nell’esperienza umano divina di Cristo, si comprende tanto il molteplice divenire degli eventi storici, quanto l’immutabile verità dell’Essere spirituale, che nella sacra fenomenologia della nascita, vita e morte di Gesù simboleggia e anticipa tutti gli eventi possibili della realtà del mondo storico, ossia della vita spirituale dell’uomo. L’unità dell’Essere spirituale è conseguibile soltanto dalla coscienza dell’uomo di fede, la quale mostra a contrario che essa non inerisce la realtà finita delle forme empiriche degli enti fenomenici, e quindi non può essere confusa con la dimensione naturalistica del Molteplice. E proprio la realtà interiore dell’Essere spirituale fa della fenomenologia della Storia cristiana il luogo del sacro, che è “storico” ma “non appartiene a questo mondo”, ossia alla realtà concepita dall’orizzonte di senso

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naturalistico. La Storia sacra, iniziata da Gesù nel mondo ma non del mondo, ha già inscritta nel suo cominciamento umano la sua divina epica escatologica. Le “cose sensibili”, come afferma Cusano, sono “segni enigmatici del vero”, cifre ermeneutiche per ascendere alla comprensione dell’unica verità; “dalle cose temporali, transitorie e fluenti e il cui stesso essere risiede nel fluire incostante, alle cose eterne”, in cui consiste la “contemplazione della vita vera” e “incorruttibile” . 42 L’Enigma è un mistero “sensibile”, cioè pertiene alla natura dell’ente, e può essere svelato attraverso la ragione. Perciò questa confuta il Mito. Il Mistero di Dio è la sua Verità, che non può essere attinta con la ragione scientifica, che conosce il Molteplice per negazione dialettica, ma non può svelare l’essenza di Dio, che è Spirito. Solo l’intelletto, ispirato dalla grazia, può “godere della verità” ed essere pertanto “felice”.43 Se la Verità è Dio, perché attraverso la sua via si giunge a Lui, Dio, però, non è la Verità, la quale “piuttosto è un modo di Dio, mediante il quale egli si rende comunicabile all’intelletto nella vita eterna”.44 E’ dunque il “modo” intellettuale. Ciò vuol dire che Dio permane al di là di ogni conoscenza, ossia fuori della “regione dell’intelletto”, per cui

Non potendo Dio esser colto al di fuori della regione intellettuale che per via negativa, è colto con pace e quiete per la via della fruizione nella verità dell’essere e della vita nel cielo empireo [come] apparizione, ossia come immagine mistica.

Cusano esprime il suo teorema gnoseologico negativo, ma non coglie la natura sintetica della conoscenza, perché concepisce Dio e Verità alla maniera platonica, come realtà irrelate, come enti, e non come elementi spirituali del Tutto. Se infatti Dio non è la Verità, questa sarebbe fuori di Dio, e lo Spirito sarebbe equiparabile al “metodo” scientifico. Ma se la

Cusano,

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45
42 N.
La filiazione di Dio, cit., pag. 43. 43 Ivi, pag. 44. 44 Ivi, pag. 45. 45 Ibidem.

Verità è Dio, vuol dire che il loro rapporto è simbolico all’interno del Tutto, mediato dallo Spirito. Se invece lo Spirito è lo stesso Dio, come principio originario e semplice, allora il termine dialettico tra Dio e la Verità è fuori dello Spirito, nella natura (umana), nella quale lo SpiritoDio s’incarna per realizzare la sua perfezione ontologica. In tal caso, Dio mancherebbe della forma reale e finita, che il Verbo invece ha acquisito con la filiazione divina di Cristo. Cusano tratta della conoscenza di Dio alla maniera platonica, mutuando l’immagine dello specchio dallo Pseudo Dionigi, distinguendo tra un riflesso “più luminoso” ottenuto da uno specchio “massimamente piano”, e i riflessi che si ottengono da specchi “materiali”, non piani ma “contratti e curvi”, che rimandano perciò immagini deformate e imperfette.46 L’intuizione intellettuale è tanto più limpida quanto più si riflette nell’immagine più diretta e pura. Ma questa immagine non rende il senso della differenza tra conoscenza sensibile e conoscenza spirituale, che non è di grado ma qualitativa. La “filiazione” o “théosis” si consegue attraverso il riflesso dello specchio puro della verità, “che può essere chiamato anche Verbo, lògos o Figlio di Dio”.47 Per Cusano, dunque, Cristo è la cifra intellettuale che rimanda a Dio. Ma e qui sta il punto Cristo non è il Verbo che sta presso Dio, ma il Verbo incarnato, e cioè lo Spirito nella forma finita: il lògos de-finito umanamente. Lo Spirito storico, lo Spirito che si fa Storia umana. La conoscenza di Dio non può avvenire, alla maniera aristotelica, eliminando gli elementi accidentali o sensibili per ritrovare solo l’essenza. Questa modalità dialettica è infatti propria dell’astrazione scientifica, che ritrova l’unità del suo oggetto per esclusione delle qualità non pertinenti alla sua definizione. Ma Dio non è un “assioma”, come l’ipotesi scientifica o il Mito; Egli è il Mistero e insieme la Verità, e cioè l’unità sintetica della Totalità, in cui l’Essere co esiste con il Negativo. Perciò la “filiazione” non può consistere, come invece vorrebbe Cusano, nel “trasferirsi dalle oscure vestigia delle immagini all’unione con la

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46 Ivi, pag. 47. 47 Ivi, pagg. 46 47.

stessa ragione infinita”,48 poiché tra la conoscenza immaginativa o ipotetico scientifica e quella intuitivo intellettuale non c’è progressione evolutiva e lineare, come dal Mito alla filosofia, ma differenza ontologica, in quanto la scienza conosce il Molteplice o Essere naturale, che è unità ipotetica e indefinita nel suo divenire, mentre l’intelletto conosce l’Uno, e cioè la Verità spirituale eterna. Che Cusano resti irretito nella indistinzione dei due saperi è confermato dal seguente passo in cui teorizza la relazione dell’Uno con “gli enti intelligibili, razionali, sensibili”.

L’Uno, benché resti inattingibile, è quello stesso uno che si coglie in tutto ciò che riusciamo ad attingere. L’Uno, perciò, sarà anche tutte le cose: è, contemporaneamente, l’uno inattingibile e ciò che si coglie in tutte le cose”.49

È quasi una ripresa letterale dal Parmenide, in cui Socrate chiede in dialogo con il vecchio Filosofo:

L’essere è allora distribuito su tutta la molteplicità degli enti e non è sottratto a nessuno di essi, né al più piccolo né al più grande? O è addirittura assurdo il chiederlo ? come potrebbe infatti l’essere essere sottratto a qualcuno degli enti ? In nessun modo.

è dunque spezzettato quanto più è possibile in enti che sono piccoli e grandi e di ogni ordine possibile e più di ogni altra cosa è suddiviso in parti e illimitate sono le parti dell’essere. È così.

totalità è concepita

l’unità degli enti particolari. Unità che non trascende

partecipazione (metessi) dell’Uno, considerato

conferma

natura molteplice degli enti. Infatti, cosa si può cogliere di comune in tutte le cose se non il loro essere Molteplice, cioè enti dell’unica Natura?

quella falsa dicotomia metafisica tra idealismo

trasposizione in chiave spiritualistica di questo concetto naturalistico

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Esso
50 La
come
come
ma
la
La
crea
48 Ivi, pag. 47. 49 Ivi, pag. 50. 50 Platone, Parmenide, 144 b c.

e materialismo che in realtà dichiara lo stesso principio ontologico monistico che sottende questa distinzione nominalistica. Se infatti lo Spirito fosse in tutte le cose, verrebbe a perdersi il senso ontologico dell’incarnazione cristiana del Verbo come nuova origine creativa in Cristo. Il concetto di Uno espresso da Cusano è ancora l’Essere della metafisica classica, cioè l’Ente astratto della logica platonica, il falso universo naturalistico aristotelico. E proprio perché tale Essere è considerato originario, il Dio creatore è pensato come non Essere, come Niente, e perciò “absconditus” e inconoscibile. Ma inconoscibile è la verità per la scienza, il cui statuto epistemologico che si fonda su un’ipotesi teorica da verificare empiricamente; e per la logica dialettico platonica, che pone la verità come un enigma finalmente svelato dal processo conoscitivo. Inconoscibile non può essere la Verità cristiana, la quale è fondamento ontologico di ogni conoscenza spirituale, e perciò realtà prima, antecedente ogni intuizione intellettuale. Nei due casi, non vi è un semplice spostamento di prospettiva metafisica dall’oggetto della conoscenza al soggetto, poiché l’oggetto in senso idealistico è prodotto consustanziale dell’attività del soggetto trascendentale, ossia è l’ente (reale fenomenico) che partecipa dell’Essere (ontologico ideale), mentre nel caso dello spiritualismo cristiano, l’oggetto del pensiero intellettivo è il Tutto, cioè Dio stesso, che è trascendente ogni forma di conoscenza naturalistica, e perciò non può mai de finirsi, cioè identificarsi con l’oggetto della coscienza finita. L’Essere spirituale, o Dio, è sintetico, in quanto Mistero di Verità, e non contraddittorio in senso dialettico. È verità infinita ed eterna in quanto “ineffabile” cioè in definibile e non in quanto enigma mitico da sciogliere e superare con la ragione. Il vero Uno non è perciò l’astratta unità matematica degli enti fenomenici, cioè il Molteplice creduto Essere. L’Uno spirituale non è l’ente universale della ragione astraente, ma la realtà infinita dell’Essere Tutto, conoscibile come tale solo per preventiva via intuitiva, e non logico discorsiva a posteriori, per progressive astrazioni concettuali, al modo idealistico-scientifico. È la confusione dell’Essere spirituale (Uno) con l’Ente universale (categoria) all’origine del pan logismo o pan spiritualismo idealistico, ovvero del vitalismo

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naturalistico come speculare versione secolarizzata, ciò che Cusano chiama la “forza assoluta” e la “potenza dello spirito”.51

I fondamenti ontologici dell’Essere sono pre razionali, e indicati volta a volta come il Mito, il sentimento, la Storia, l’Inconscio. Il non-Essere dell’Essere, ciò che lo fonda, resta assicurato alla “visione” della ragione dal Mistero che lo avvolge e che costituisce la più ima realtà, che è più comprensiva e complessa di quella oggetto della coscienza razionale, che è particolare e molteplice, e dunque non confondibile con l’unica verità.

Il mondo sensibile partecipa sensibilmente all’unica verità, la stessa cui il mondo intellettuale partecipa intellettualmente, in una varietà di modi […] di partecipazione: secondo il modo celeste nel cielo, secondo il modo animale negli animali, secondo il modo vitale negli esseri viventi, secondo il modo vegetativo nei vegetali, secondo il modo minerale nei minerali, e così via.52

Il rapporto di conoscenza modale è graduale ma unico, e perciò, in virtù dell’astratto unitarismo del logicismo idealistico, è concepito come un panteismo spiritualistico. L’Essere naturale e molteplice è anche qui pensato come emanazione dell’Essere divino, di cui quello partecipa, sicché l’Essere totale si configura come un Molteplice spiritualizzato, ovvero una astratta Unità naturalistica di enti, conoscibile col metodo della logica formale della mathesis universalis. L’ “Uno”, afferma infatti Cusano, “è ciò che è tutto in tutte le cose, le quali partecipano a loro volta dell’uno ciascuno a proprio modo”.53

questa la tesi

Eckhart: “

verum, bonum proprie deo

partecipata ab omnibus” . 54 “L’entità”,

l’unità

sono”.55 Dio è “virtù creativa o

molteplici, “è questo stesso uno, al quale partecipano

57
Era
di
esse, unum,
conveniunt, convertuntur et sunt communia
ossia
degli enti
tutte le cose che
51 N. Cusano, La filiazione di Dio, cit., pagg. 53 e 54. 52 Ivi, pag. 54. 53 Ibidem. 54 Cit. in N. Cusano, Loc. cit., pag. 54, n. 44. 55 Ibidem.

formativa, benché egli sia, al di sopra di queste cose, ogni cosa”.56 Ogni cosa “è” Dio sotto forma (“modo”) molteplice, per cui il Suo stare “sopra” le singole cose, è il Suo modo unitario, che tutte le comprende. Dio, dunque, è l’unità del Molteplice: Ente supremo. Da qui la varietà dei modi di indicare l’Uno, il quale resta nondimeno “ineffabile”, non nel senso di essere “indicibile”, ma nel senso di non poter essere indicato in modo univoco, per cui “su di esso c’è infinitamente, interminabilmente da dire, tale è l’insondabile mistero di Dio, l’inesauribile mistero dell’amore che è il mistero poetico per eccellenza”.57 Il paradosso è comprensibile, essendo quest’Uno in realtà il concetto astratto del Molteplice, per cui la sua natura ontologica non può essere negata nominalisticamente. Infatti, l’uno, causa di tutte le cose, non può non venir espresso in ogni nostra espressione, così come chi parla non può fare a meno di pronunciare parole, sia che dica di parlare, sia che affermi di voler tacere [poiché] la virtù dell’ineffabile abbraccia tutto il dicibile […]. 58[

In questa prospettiva panteistica, il Tutto si converte in Niente, essendo astrazioni razionalistiche e matematiche.

Non afferma meno chi dice che non esiste assolutamente nulla, di chi invece sostiene che esistono tutte le cose rispetto a chi, al contrario, sostiene che Dio è nulla o che Dio è tutte le cose rispetto a chi, al contrario, sostiene che Dio è nulla o che Dio non è affatto. Egli sa infatti che Dio, al di sopra di ogni affermazione e negazione, è ineffabile, qualunque cosa possa dirsi a suo riguardo […].

panteismo al nichilismo.

questa logica astratta, l’uomo e l’asino partecipano della stessa animalità, espressa “in modo diverso”: “la specie umana in modo

, pag.

Jankélévitch, La musique e l’ineffable (1961), cit. da U. Galimberti, Op. cit., pag. 320.

Cusano, La filiazione di Dio, cit., pag.

58
59 Dal
Per
56 Ivi
55. 57 V.
58 N.
56. 59 Ibidem.

razionale, la specie asinina in modo irrazionale”,60 ché ogni cosa, “nella varietà di modi”, partecipa dell’Uno, in cui tutte le cose “sono conosciute”.61 L’atto conoscitivo del Molteplice consiste nell’astrazione dai dati sensibili, propria del discorso razionale, il quale, così liberatosi, torna a sé, “fa ritorno in se stesso, nell’unità viva intellettuale, ed apprendere d’essere virtù, ovvero nozione attuale delle cose”.62 Attualismo. L’attualismo è l’esito logicamente coerente della concezione idealistica greca dell’Essere come “visione” (eidos). La realtà cosciente è quella “attuale”, la stessa che appare nella “visione” naturale, introiettata nella mente e che viene attribuita alla medesima realtà di Dio. Infatti, “come Dio è essenza attuale di tutte le cose, così l’intelletto, separato dalle cose, ritornato in sé e unito a se stesso in modo vivo, è similitudine viva di Dio […]. E conosce se stesso quando si intuisce in Dio così com’è. Ciò avviene quando Dio, nell’intelletto, è l’intelletto stesso”. Razionalismo. La “filiazione” viene dunque intesa come “similitudine”, che è il concetto originario di ogni razionalistico “rispecchiamento”. L’intuizione del mondo molteplice è “l’intuizione” di “tutte le cose”, intese come “l’uno stesso”. E così come l’Uno è l’astrazione del Molteplice, “il nunc, che complica in sé ogni tempo, non appartiene al mondo sensibile […], ma al mondo intellettuale”.63 Il modo intellettuale è quello che “percepisce tutte le cose intellettualmente [cioè astrattamente, ossia] al di sopra di ogni modo sensibile non in modo sensibile, ma nel modo più vero, ovvero nel modo intellettuale”, che Cusano chiama “intuizione”, essendo “conoscenza del mondo intelligibile”, paragonata a quella della “vista” (“propter quid”), distinta dalla conoscenza sensibile, paragonata a quella dello “udito” (“quia est”).

Chiare dunque le derivazioni greche del conoscere come vedere eidetico.

59
64
60 Ibidem 61 Ivi, pag. 57. 62 Ibidem. 63 Ivi, pag. 57. 64 Ivi, pagg. 58 59.

Pensare miticamente equivale a pensare l’Ente come Essere (naturalismo), e l’Essere logico come Tutto (idealismo). Tale pensiero è rielaborazione del Mito, mito logia. Superare il pensiero mitico significa non pensare l’Ente come Essere, ma neppure l’Essere razionale come Tutto. E non pensare razionalmente, cioè per distinzioni logiche, significa intuire, cioè pensare per unità. Intuire il Tutto, significa non pensarlo come (= non crederlo) Essere o come Ente, ma pensarlo Uno. Intuire il Tutto come Uno, significa non pensarlo come un’Idea ma come Spirito. L’Essere idealistico è pensato come dialettico, cioè come totalità contraddittoria, in quanto per Essere s’intende sia l’Idea (cioè la rappresentazione ipostatica, o visione, dell’Ente) che l’Ente nella sua attualità fenomenica; ossia s’intende per Essere sia l’unità ideale del Molteplice che il Molteplice stesso. La forma unitaria del Molteplice, cioè l’Idea, è la categoria, intesa come tutti gli enti. Avendo l’Uno e il Molteplice in comune la reciproca negazione dell’altro, la dialetticità dell’Essere è intesa come la conversione di uno nell’altro, cioè dell’Essere nel suo opposto Niente, e quindi come coincidenza degli opposti, come identità di Essere e Niente. La contraddizione dell’Essere che è Niente non è risolvibile che in uno dei due opposti-identici, per cui la preferenza dell’Essere anziché del Niente, è arbitraria, non necessaria. Ciò vuol dire che il fondamento d’esere della realtà, il suo principio, è dovuto alla volontà di chi crede nell’Essere anziché nel Nulla, ma che potrebbe anche credere il contrario. La stabilità dell’Essere è dunque legata alla volontà della fede. Il fideismo ontologico è il risvolto positivo del nichilismo, per cui l’affermazione dell’uno è la negazione dell’altro. La critica alla fede avanzata dal razionalismo, in quanto negazione del fondamento dell’Essere, si manifesta come posizione del Negativo al posto dell’Essere, ossia come nichilismo. Nichilista è la logica platonica del Sofista che fa scaturire l’Essere dal Niente. Ma tale logica è nel contempo anche dialettica, in quanto il Niente da cui emerge l’Essere è, come abbiamo visto, identico all’Essere, per cui la logica dialettica platonica è in realtà quella che Croce chiamerebbe “una sublime tautologia”, propria di ogni idealismo, che identifica appunto l’Ente con l’Essere e questo col Tutto. Il principio della logica formale, di identità e non contraddizione, fonda una tauto

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logia, non una vera logica, per cui le distinzioni dialettiche sono tutte interne all’unica dimensione del Molteplice, ossia alla visione monistica dell’Essere, per la quale l’Essere e il Nulla sono convertibili e perciò equivalenti.

Il monismo ontologico genera il panteismo, entrambi fondati sulla credenza che l’Uno sia il Molteplice. Da qui discende inoltre l’identità di idealismo (o razionalismo) e di naturalismo (o materialismo), entrambi “idee” opposte equivalenti.

Il Razionalismo, quale pensiero del Mito, è una mito logia razionalistica che non supera il monismo ontologico ma ne dialettizza l’astratta dicotomia dell’Uno, come Idea del Molteplice, e del Molteplice come pluralità degli enti fenomenici. L’Uno è astratto, in quanto ente idealizzato come modello ipostatico: il Bello come immagine del Bene. Il Molteplice è astrattamente pensato come Essere attuale, come ente (= ciò-che-è), fuori del divenire, ossia del Negativo di cui è Essere, e perciò come Tutto.

Il Tutto, idealisticamente pensato come Essere, nella sua verità, non può identificarsi né con l’Uno né col Molteplice, ma può essere creduto identico a uno di essi, ma tale credenza (dòxa) non è la Verità, ma è la fede nell’Essere ovvero nel Niente, cioè un atto di volontà. La credenza mito-logica non è verità, in quanto, come abbiamo visto, la volontà della fede nell’Essere anziché nel Nulla, in realtà non sceglie ma semplicemente dialettizza lo Stesso, per cui la dialettica dell’Essere anziché del Niente in realtà si dibatte tra due opposti logici ontologicamente equivalenti. Da qui la tautologica contraddittorietà di ogni razionalismo, che si converte nel suo opposto logico senza mutare di essenza.

La rappresentazione simbolica dell’Essere e del Nulla è la visione indistinta del Mito, nella quale l’Essere coesiste con il Nulla nella gratuità della manifestazione divina. L’indistinzione del Mito è l’indistinzione della coscienza dell’uomo dall’orizzonte del sacro. Entro l’orizzonte del Mito, tutto è sacro, perché tutto è divino. Solo nel livello di coscienza umana dell’Essere interviene la distinzione tra volontà divina, sacra, e volontà umana, profana. Distinzione che non era nel Mito in quanto l’uomo in esso faceva parte della volontà divina. La rappresentazione della volontà umana astratta da quella divina equivale al pensiero

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dell’Essere (umano) esclusivo del suo opposto Nulla (divino). Questo pensiero della distinzione contraddistingue ogni razionalismo antropologico come mito logia, cioè rielaborazione del Mito. La caratteristica di ogni pensiero mitico, ossia anche di quello mitologico, è la negazione, come equivalenza o come astrazione, del divenire a favore dell’Essere, ossia la negazione del Negativo. Negare il Negativo significa astrarre dal Tutto il divenire per affermare l’assolutezza dell’Essere. l’Essere assoluto, astratto dal suo negativo, è l’Essere che non diviene, che è sempre uguale a se stesso. L’Essere che non diviene e che è sempre uguale a se stesso è l’Essere positivo, la Natura, l’Uno ideale, l’Idea, il Bene, Dio.

L’Essere positivo circoscrive l’orizzonte del sacro al di là del divenire, ossia del Molteplice, nel regno delle visioni inalterabili, ossia delle Idee eterne, sempre uguali a se stesse. Il Mito è la rappresentazione dell’Essere eterno sollevato dall’affanno del divenire, dall’insidia del negativo, della realtà dell’al di qua. La tragedia greca, quale sentimento esistenziale legato alla consapevolezza della contraddittorietà della vita, che da un lato è inscritta nella necessità cosmica del ricambio di ogni essere vivente attraverso la morte, e dall’altro lotta per la sua affermazione contro la morte, cercò nella dialettica tra necessità naturale e libertà morale una definizione dell’esperienza umana in termini di comprensione delle dinamiche cosmiche sottese alla vita universale di ogni essere terreno, tale da costituire un rifugio preventivo alla stessa ineluttabilità degli eventi attraverso la sua anticipazione razionale. La pre-visione dell’ineluttabile rappresentò per la civiltà greca classica una forma di compensazione antropologica all’impotenza umana a intervenire nelle sorti del proprio destino, tale da circoscriverlo in una mappa di corrispondenze analogiche con la struttura cosmica dell’Essere che eliminasse la paura del mistero, e cioè dell’incognito futuro.

Legate le sorti umane a quelle cosmiche, la distanza tra la necessità naturale e la libertà dell’uomo si approfondiva man mano che aumentava la consapevolezza razionale che il rimedio alla sofferenza esistenziale era possibile soltanto attraverso l’adeguazione del fine particolare dell’uomo a quello universale della natura. In tal senso, più aumentava l’esigenza di salvaguardare la libertà morale dell’uomo, maggiormente si faceva

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impellente il bisogno di conoscere la struttura essenziale della natura. Attraverso la conoscenza l’uomo costruiva intorno al suo destino naturale una barriera di solidarietà dietro la quale trovava rifugio il male di vivere, ossia la provvisoria condizione di finitezza degli esseri mortali. L’esito di tale conoscenza fu la differenza insuperabile tra la regolarità apparente dei fenomeni naturali e l’accidentalità dei fenomeni umani, dovuta alla stessa condizione mortale della sua esperienza individuale e di specie, a fronte della quale l’onniveggenza divina rappresentava una condizione ideale ma inattingibile. A questo punto, l’uomo si porse il problema fondamentale, ignoto agli dèi, di come pervenire a una certezza teoretica circa la conoscenza di ciò che è eterno, che divenisse perciò garante della sua sicurezza esistenziale. Non potendo vincere la morte naturale, e cioè diventare divini, gli uomini potevano almeno conoscere la realtà che andava oltre la finitezza dell’esperienza mortale. Svelando l’enigma dell’universo, la coscienza umana poteva incontrare quella divina sul piano della teoresi, partecipando così in qualche modo non effimero alla stessa condizione eterna degli dèi. Rubare la conoscenza degli dèi, significava pervenire allo s-velamento del loro segreto ontologico, a quella “verità” che vinceva l’oblio (a letheia) che condannava l’uomo mortale a ripercorrere in eterno le stesse gesta, fauste e infauste, dei predecessori, ponendosi pertanto alla mercé della sapienza divina.

Essere nella verità, ossia uscire dal’oblio della condizione mortale, significava attingere alla fonte dell’eternità, cui si poteva pervenire attraverso il percorso anamnestico di una ragione discorsiva che discopriva maieuticamente ciò che la condizione mortale lasciava all’esperienza passata, che così veniva condannata all’infinita ripetizione, all’eterno ritorno dello stesso. In questo senso, la conoscenza costituiva una sfida alla condizione superna degli dèi, un attentato al loro privilegio di eternità, perché della loro sapienza ne svelava le miserie, la gratuità delle capricciose volontà, insomma l’insensatezza che si celava dietro la fenomenologia naturalistica delle regolari movenze del tempo cosmico. Lo s velamento dell’enigma del mondo era anzitutto la messa a nudo delle miserie degli dèi, la cui superiorità sui mortali veniva circoscritta pertanto alla sola perpetua memoria legata alla loro condizione eterna. Se anche gli uomini potessero giungere a conquistare la memoria

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dell’eternità, la loro stessa condizione mortale avrebbe trovato una compensazione di gran lunga preferibile all’insensatezza divina. A partire dalla ricognizione della contraddittorietà del loro volere, il filosofo marca le differenze tra la finitezza tragica dell’uomo, destinato naturalmente alla morte, ma capace di riscattarla con la via della sapienza o conoscenza delle cose eterne, e l’inutile privilegio divino dell’immortalità, che abbandonava chi ne godeva a una condizione di non invidiabile insensata onnipotenza. Questa consapevolezza della fragilità ontologica degli dèi trasformava la condizione tragica degli umani a sua vota in un privilegio, quella della cosciente sofferenza, la quale, mancando agli dèi, li esponeva all’assurdità della loro privilegiata ma inutile vita eterna. La distanza tra l’uomo, capace di soffrire e di riscattarsi della sua condizione tragica attraverso la ragione, e gli dèi, incapaci di sofferenza ma perciò stesso privi di coscienza razionale, viene rappresentata paradigmaticamente dalla vicenda eroica di Achille, il personaggio più tragico 65 dell’epica antica e dell’intera cultura greca, la cui sofferta sorte sopravanza quella del razionalista Socrate. Rispetto agli dèi, l’eroe omerico gode del privilegio della sofferenza, generatrice di pathos e di discernimento razionale. Egli, sia pure di malanimo, obbedisce ai voleri di Agamennone, il comandante in capo della spedizione achea, non più di Atena ai voleri di Zeus. Offeso dall’affronto del capo, che gli sottrae ingiustamente la bella schiava Briseide, Achille piange sulle rive del mare, confortato dalla madre Teti, che strappa a Zeus la promessa di riscattare l’onore del figlio con la sconfitta degli Achei.

Alla decisione di Zeus, che fa tremare l’Olimpo, di punire gli Achei, corrisponde quella di Achille di rinunciare alla guerra contro Troia. Ma né il dio né l’eroe manterranno fede alla promessa, l’uno in virtù della impossibilità di contenere in un ordine stabilito la gratuita volubilità degli dèi; l’altro, a seguito della imprevedibilità delle azioni umane, preda dello stesso volubile gioco degli dèi, ma soprattutto delle passioni. A fronteggiare l’ira per l’onta subita da Agamennone, non giovano i doni riconcilianti recati da Ulisse, ma interviene la pietà suscitata dai comuni

65 Platone indica non a caso Omero il primo dei tragediografi: Repubblica, X, 607a.

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ricordi di Fenice, il suo canuto precettore, e dall’amorevole parlare di Aiace, da sempre suo compagno d’armi. L’umanissimo contrappasso tra l’orgogliosa ira e la mansueta memoria rappresenta simbolicamente la condizione tragica dell’esistenza dell’uomo, conteso da contraddittorie e irrisolvibili pulsioni emotive, egualmente legittime ma sentimentalmente devastanti. Se si vuole avere contezza della condizione dell’uomo interna all’orizzonte di senso mitico, bisogna fare riferimento a questa lacerante e congiunta pulsione dell’animo umano, perennemente sospeso alla polarità dialettica dei suoi sentimenti. La loro indiscernibile compresenza e la loro paritetica legittimazione etica, fanno della naturale condizione umana un’esperienza di insuperabile sofferenza, tanto più tragica quanto meno trascendibile, essendo indesiderabile alla ragione e sensibilità umana la insulsa condizione divina, di cui invidiabile è la sola potenza immortale, che infatti costituisce il maggior pregio degli eroi.

Entro questa fatale e dilacerate dinamica, propria dell’orizzonte mitico naturalistico, si inscrive la ricerca antropologicamente identitaria dell’uomo teoretico, del filosofo, che con il metodo razionale emancipa dalla promiscua ambivalenza del Mito l’elemento discriminante dell’eternità dalla finitezza, rinvenendolo nel lògos, lo strumento dialettico della coscienza critica, ossia della libertà umana dall’universale destino cosmico.

Lo sviluppo della coscienza razionale dal magma indeterminato del Mito ha dunque origine nel bisogno umano di distinguere la propria finitezza da quella degli altri esseri viventi, segnatamente dalle altre specie animali, rinvenendo l’originalità umana nell’adozione della ragione come percorso, teoretico e insieme esistenziale, di emancipazione dalla passività tragica. La ragione, debitamente guidata dal metodo della tecnica dialogica, costituisce lo strumento umano d’eccellenza per ritagliarsi, all’interno dell’orizzonte tragico naturalistico, un ambito di sospensione della necessità dalle sue leggi fatali, in cui era possibile ai mortali costruire un’oasi di perfezionamento spirituale, la quale, per quanto precaria, risultasse del tutto omologa alla sacra coscienza degli dèi, ossia pervasa di eternità e di verità. Ma il razionalismo dei filosofi greci dei secc. V e IV non fu, come invece riteneva Nietzsche, “il loro ultimo e patologico rimedio” di una civiltà

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che andava verso la sua fine,66 ma piuttosto nasceva dalla consapevolezza dell’esaurimento della funzione catartica del Mito in una società che culturalmente era alla ricerca di una univoca legittimazione etica della politica che superasse le storiche contraddizioni di un tempo di crisi, che inducevano pertanto a una radicale rielaborazione dei fondamenti metafisici dell’esistenza, non soltanto di quella sociale, ma a partire dalla posizione della coscienza noetica. Ed è proprio questa posizione coscienzialistica ad aprire la strada teoretica alla dimensione soteriologica cristiana dell’interiorità come luogo dell’altrove rispetto alla vita mondana.

La finitezza mortale, nella prospettiva cristiana, viene trasfigurata in percorso di redenzione, in occasione di salvezza extra mondana. L’alternativa greca della conoscenza della struttura del cosmo naturale come rimedio alla finitezza umana, non è più valida di fronte alla superiorità della rivelazione divina, la quale pone la conoscenza di Dio come lo stesso fine di ogni umana teoresi.

La dinamica interna all’universo di senso mitico conservava comunque alla coscienza razionale gli stessi fondamenti ontologici sui quali era stato fondata la cosmologia mitica, per cui la dialettica tragica era ab origine inscritta nel Mito. Con il cristianesimo, il ciclo cosmico della Natura non è più la condizione ontologica originaria su cui fondare ogni racconto, mitico o metafisico, ma è la variante accidentale e secondaria di un processo spirituale che nella trascendenza dal regno della finitezza naturale trova il suo momento di riscatto escatologico. Col superamento della morte, la visione del mondo cristiana ribalta l’ordine valoriale tradizionale della sapienza antica e della concezione greca della vita, ponendo all’apice del percorso coscienziale non la conoscenza del mondo, ma le ragioni di Dio. Rispetto alla logica dialettica, i cui percorsi tendevano a dislocare il senso della realtà dall’incertezza simbolica del Mito alla certezza razionale delle concatenazioni logiche attraverso la modulazione di una sintassi discorsiva non più oracolare e di carattere solitariamente profetico ma costruita sull’apporto dialogico di più voci

66 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (1889), tr. it. in Opere, Milano, 1970, vol. VI, 3, pag. 67.

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narranti, l’esperienza spiritualistica cristiana tendeva invece a percorrere la via di una teodicea integrativa e non esclusiva dell’esperienza umana, sicché ciò che per i filosofi greci la considerazione della realtà degli dèi costituiva un irretimento teoretico nella simbologia mitica, per la sapienza cristiana l’incontro con Dio coincideva invece il fine di ogni ricerca di senso. Il male di vivere, che per la sapienza greca era lo scoglio in cui s’infrangeva ogni itinerario esistenziale dell’uomo, misurandone il grado di virtuosa sopportazione, diventava nella prospettiva cristiana lo strumento della redenzione, l’occasione provvidenziale del riscatto ultra mondano.

A questo punto anche il senso del Mistero cambia radicalmente nei due casi di significato. L’insipienza per il filosofo era l’origine della frattura emancipativa dal racconto rassicurante del Mito tradizionale, e cioè il grado zero di ogni percorso di sapere. Per il cristiano, di contro, il Mistero rappresentava il luogo stesso della verità, ossia l’orizzonte di senso intrascendibile entro il quale si muoveva la coscienza spirituale dell’uomo quale creatura “divina”, sia perché creata da Dio che consustanziale alla Sua essenza. La “metastoria” del Mito cosmologico greco non costituiva più, per la coscienza cristiana, la rappresentazione simbolica della potenza superna che agisce sulla finitezza dell’uomo, ma la “anti storia” di un ciclo naturalistico che si risolveva nella morte per riaprirsi con una nuova vita. La vera Storia dell’uomo, ora, entro l’universo di senso cristologico, attraversava la Morte non per chiudere il ciclo invincibile della vita terrena, ma per rappresentarla come l’evento cardinale della stessa vita che preludeva alla resurrezione. Come il transito verso la dimensione del sacro, la Morte costituiva quel “passaggio” non soltanto simbolico ma effettivo per accedere alla Verità della condizione eterna, alla vera vita, immateriale, dell’unità dell’uomo con lo Spirito di Dio. Pensare miticamente l’Essere come Uno significa pensarlo come Tutto, e poiché il Tutto include il Molteplice, se Tutto è Uno è anche Molteplice: da qui l’idea che l’Essere fosse Uno Tutto dialettico. L’Essere dialettico, in realtà, non supera la finitezza dell’Ente, essendo lo stesso pensiero dell’Ete pensato ora come Uno ora come Molteplice; ora, cioè, come Idea, ora come fenomeno. La dialettica dell’Uno e del Molteplice è pensiero interno alla realtà dell’Ente, senza poterla trascendere, ma soltanto ne elabora la sua rappresentazione, ossia la sua

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creduta verità, cioè il suo Mito. La creduta verità dell’Essere è il Mito. La filosofia come rielaborazione del Mito non è pensiero della verità, cioè del Tutto, ma ragione della parte, ossia opinione ragionevole. Che il fondamento dell’opinione sia creduto-come verità, risponde al bisogno umano di un principio di realtà per sopravvivere alla paura del Mistero, ma non muta la natura mitica, cioè fideistica, della realtà immaginata come l’unica veramente possibile. La fede consiste appunto in questa credenza esclusiva, unica idonea a soddisfare la paura del Mistero ontologico. La credenza muta il mistero in enigma e lo scioglie in un racconto rassicurante che placa il “thàuma” esistenziale. La coscienza animale “si abitua” all’ignoto convertendolo in noto, in consuetudine; la coscienza razionale “risponde” per poter placare la paura di vivere, domandone gli impulsi eversori, estranianti dall’Uno Tutto, in cui consiste l’angoscia esistenziale. L’impulso gregario dell’uomo è la consolazione, esistenziale e sociologica, al terrore di restare fuori del Tutto, dell’Eden originario. La domanda che esige risposta presuppone il superamento del solipsismo razionalistico nel dialogo, che è il momento socialitario del lògos.

La verità è il Tutto, inclusivo di ogni rappresentazione astratta. Solo il Tutto può essere pensato come Uno senza contraddirsi, in quanto in esso la Negazione non oppone ma equivale. Infatti l’opposto dell’Uno che non sia il Tutto è il Molteplice, il quale appunto non-è l’Uno: se lo è, si contraddice. Senza la Negazione, gli opposti si equivalgono, per cui ogni determinazione equivale a una negazione, e ogni negazione è eguale all’altra, sicché ogni negazione è l’Uno del Molteplice. E se l’Uno è la negazione dei molti, il Molteplice non può essere Uno, e perciò a fortiori neppure Tutto.

La negazione esclude che l’Essere sia Uno, poiché l’Uno dovrebbe includere il Molteplice, contraddicendosi. L’idea che l’Essere sia Uno equivale dunque all’idea che sia Molteplice. Questa dialettica degli astratti opposti che si convertono reciprocamente, è fondata sulla credenza che l’Essere sia l’Idea dell’Ente, per cui il monismo ontologico ammette una logica dialettica senza uscire dal Mito, ossia da quella credenza in cui consiste. In questo senso, il monismo ontologico (fideismo per cui solo l’Essere è), anche quando travestito da ontologia dialettica (razionalismo, per cui la negazione dell’Idea è l’ente), è

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pensiero mitico, perché pensa l’Ente come Essere e l’Essere come Tutto, cioè l’Essere come l’Idea dell’Ente. L’Idea e l’Ente, pensati come Tutto non trascendono il Molteplice, ma lo rielaborano. Il pensiero di Dio nasce dal trascendimento del Molteplice, che è equiparato naturalisticamente alla Vita. L’altro dalla Vita è la Morte. Nel ciclo vita morte si compendia l’intero processo naturale dell’Essere. Se l’Essere è la Vita, il Nulla è la Morte, da cui l’Essere naturale proviene. Per trascendere l’ontologia naturalistica occorre ripensare la Morte non in termini di finitezza esistenziale, ma di “passaggio” ad altra vita. La dimensione in cui la vita e la morte appartengono alla stessa realtà, non è quella del Mito, dove la Morte veniva eliminata dall’eternità degli dèi, ma è quella dello Spirito, che nella Morte trasvaluta la vita attraverso la resurrezione. La vittoria sulla paura del Mistero non avviene dunque per negazione della Morte (l’eternità degli dèi), ma per tra svalutazione della Morte in altra Vita, non naturale ma spirituale. L’Unità si ottiene dunque trascendendo la Molteplicità, senza negarla. Sicché la Morte non viene negata dalla Vita, come il dolore della finitezza non viene negato dall’eroismo (semi)divino, ma viene trasfigurata in Vita spirituale, come il dolore della finitezza umana viene trasfigurato in catarsi gloriosa.

Se l’Unità del Molteplice genera la violenza della semplificazione riduttiva della contraddittoria complessità dell’Essere, l’Unità dal Molteplice, cioè ottenuta dal suo trascendimento, genera libertà. Così, se il tentativo di uniformare l’Essere molteplice genera la violenza totalitaria dell’Unità esclusiva del Negativo, cioè di ogni opposizione politicodialettica, l’Unità spirituale conseguita nella trascendenza della molteplice e contraddittoria realtà finita, genera la libertà da ogni opposizione e la beatitudine.

Il pensiero cristiano dell’Unità, non come Essere, ma come Spirito, rappresenta il decisivo superamento della metafisica greca e del suo monismo ontologico, della sua logica dialettica come della sua sociologia politica. Ma il superamento dell’ontologia naturalistica greca, custodita dall’orizzonte di senso mitico, implicava il superamento della stessa filosofia come razionalismo, idealistico e materialistico. Ciò che invece non avvenne, essendo anche Dio pensato come un’Idea, ossia come un Mito, e in termini razionalistici, ossia come un Ente filosofico. Ciò ha

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comportato che il pensiero di Dio si determinasse come la riedizione di un Mito pagano, e il cristianesimo come la sua giustificazione filosofica. Da questa premessa mitologica è nata la critica filosofica moderna come rielaborazione razionalistica non solo del Mito cristologico, ma, essendo questo a sua volta una metafisica, di ogni metafisica. Il nichilismo dei valori primi, insieme alla negazione del fondamento ontologico, comporta la negazione delle sue giustificazioni razionali, ossia della filosofia come pensiero dell’Essere. Il pensiero moderno, criticando il Mito e la metafisica cristiana, ha criticato la stessa filosofia, che del Mito era la rielaborazione, per cui con essa viene negata la stessa realtà della Verità.

5. Solo pensando l’Essere come Spirito, non nel senso dell’equivalenza ontologica ma della differenza, è possibile pensare che il Figlio proceda dal Padre, distinti per persona ma non per sostanza, appunto spirituale. L’unità spirituale del Padre e del Figlio, non si può pensarla pensando razionalisticamente, con la logica del Molteplice, ma intuitivamente. Solo l’intuizione intellettuale conosce l’Unità spirituale. Pensare l’Unità significa intuire il Tutto, ossia pensare la Verità. intuire il vero, significa conoscere il Tutto pensando le parti. Il Tutto viene ontologicamente prima delle parti, e così l’intuizione prima della logica distinguente. L’espressione del Genesi “in principio era il Verbo” sta a significare che il Verbo non è il lògos razionale, cioè la parola espressa del pensiero determinato, ma è lo Spirito nella sua unità originaria da cui emana ogni realtà spirituale. Solo dallo Spirito promana lo Spirito, senza perdere la sua essenza, mentre dall’Idea, o pensiero razionale, proviene il concetto, ossia l’espressione verbale, la quale è la realtà finita e mutevole di ciò che si pretende immutabile, l’Idea stessa, la quale, essendo in realtà l’ipostasi astratta dell’Ente, è soggetta anch’essa a mutare e a divenire. La “vera lux” di cui parla il Vangelo di Giovanni (1, 14) non è “il lume della ragione”, come vorrebbe Cusano,67 ma la luce dello Spirito che “illumina ogni uomo […] che viene al mondo”. E infatti, egli prosegue, “l’anima razionale non è quella luce”, ma per l’appunto “un suo

67 N. Cusano, Quattro prediche nello spirito di Eckart, in Il Dio nascosto, tr. it. cit., pag. 66.

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effetto”.68 Né lo Spirito è “la ragione assoluta”, intesa come l’ “altro” mondo, quello platonico delle Idee. La “anima intellettuale”, avendo “dentro di sé tutte le cose”, è di conseguenza “similitudine delle cose”, cioè la loro Idea archetipica, quale “verità delle cose stesse”.69 Ma la verità delle cose, sono le cose stesse (il Molteplice) come Idea, cioè l’astratta rappresentazione dell’Ente come Essere: la verità creduta dal Mito. Per cui, l’affermazione di Cusano che “la verità è perciò l’oggetto dell’anima intellettuale”,70 è ontologicamente sbagliata, essendo la Verità il Tutto, ossia lo Spirito stesso, che non può oggettivarsi nella sua inseità. L’identificazione del “mondo” col suo “creatore” fa sì che, da un lato, “il mondo, per quanto fatto per mezzo di lui, sia tuttavia sempre stato”, e dall’altro che “dato che il suo creatore è eterno […], il mondo fu sempre”.71 Ciò vorrebbe dire, per Cusano, che la creazione del mondo non fosse da intendere come evento ex nihilo, ma come trasformazione dell’invisibile in visibile, per cui, tramite Dio, “l’eterno e invisibile mondo fu fatto temporale e visibile”.72

La “luce” divina fu dunque la manifestazione dell’eterno nel temporale. E da questa manifestazione si generarono gli

Enti atti a contenerla, i quali le sono simili in maniera più adeguata: tali enti sono le nature intellettuali, [in grado di leggere nel mondo] il libro dell’arte eterna o Sapienza [divina, anche se parzialmente, in quanto] la Sapienza assoluta, che è l’arte dell’onnipotenza, non venne accolta, com’è compiutamente in se stessa, né negli angeli, né negli uomini, né nei profeti.73

Tale Sapienza non è posseduta

“menti”

“ogni natura razionale”, ma viene

richiedano in seguito al loro bisogno di

71
da
accolta solo dalle
che la
68 Ivi, pag. 67. 69 Ibidem 70 Ibidem. 71 Ivi, pag. 68. 72 Ibidem. 73 Ivi, pag. 69.

“fede saldissima nella possibilità di conseguirla”.74 La Sapienza di Dio non è che la sua filiazione, la quale “si produce in colui che accoglie la Sapienza, allo stesso modo in cui la sapienza di Platone genera, in coloro che la ricevono, platonici”,75 e dunque con “il concorso della volontà”.76 Ora, la “filiazione” filosofica avviene per il transito delle idee: si aderisce non a un filosofo ma a una sua dottrina. Solo pensando Dio come “entità delle cose” (

= ente), cioè come Uno ideale, come Idea, è possibile aderire a Lui come a una Idea. Ma Dio non è una Idea, cioè l’ipostasi dell’Ente, ossia un Mito cui si crede per volontà. Questa interpretazione idealistica di Dio ha prodotto la demitizzazione del Cristianesimo e la teoria di Feuerbach della creazione umana della sua fabula. Ma il Tutto della Sapienza di Dio non è l’ogni dove del mondo creato, ma “il luogo di tutte le cose”, e cioè “l’alfa e l’omega, il principio e la fine”, di cui parla la Apocalisse di Giovanni, ovvero “locus animae”, vera universalità. Anche se non così l’intende Cusano, il quale definisce Dio “fonte dalla quale tutti gli enti ricevono il proprio essere”, colui che “chiama a sé ciò che non è, così che sia”, ossia un Essere che rende esistenti gli enti: un’Idea, in cui “ogni ente si acquieta”.77 Di conseguenza, il luogo dell’eternità ideale che si fa tempo è “il presente”, cioè l’attualità dell’Essere che “esiste nel tempo”. Per cui “L’ ora [nunc] non si converte nel passato, né può dirsi ora relativamente al futuro”, in quanto “è l’essenza o l’essere del tempo […] o l’eternità […] che noi definiamo l’oggi”. 78 Coerentemente ai suoi presupposti idealistici, la rappresentazione che Cusano offre di Dio è la stessa che verrà tradotta nell’idealismo storicistico, con la sostituzione dell’Idea di Dio con l’Idea della Storia, ossia dello Spirito come Idea. E come gli atti spirituali assoluti, gli eventi

, da

Cusano, Ubi estqui

,

72


74 Ivi, pag. 70. 75 Ibidem. 76 Ivi, pag. 71. 77 N.
natus est rex Judaeorum?, Ivi
pag. 75. 78 Ivi, pag. 76.

storici, anche i momenti del tempo trapassano senza soluzione di continuità “dall’ ora all’ ora”, definendo un “movimento” che in realtà è una sequenza di eventi momenti assoluti, tale che l’ “essere” del movimento non sia il divenire ma “la quiete”, quale “stabile essenza del mondo” entro cui “tutto ciò che si muove, si muove dall’essere della quiete all’essere della quiete”, intesa come Dio.79 Dio, dunque, come Essere ideale che contiene i momenti eventi del tempo nella sua eterna opposizione agli enti finiti, è il Nulla, da cui tutto ciò che è, proviene, e a cui tutto torna. Egli, nonostante la “luce” della Rivelazione, rimane “absconditus”, in quanto Negativo di ciò che è esistente, e che da Lui deriva. Il Mistero della creazione è quello del “passaggio” dal Niente all’Essere, che caratterizza anche la poiesi teoretica. Ma proprio in virtù della indefinitezza della creazione, ossia della sua innominabilità, reale diviene il solo Essere attuale, definito, nominabile, che per la sua evidenza diventa conoscibile razionalmente, prevedibile, calcolabile. L’Essere che è, l’ente, lascia sullo sfondo, in ombra, la sua possibilità, fino all’oblio, fino alla sua negazione. Il Mistero di Dio è il lato oscuro dell’Essere, ciò che non-è, e che pertanto solo può essere creduto. La gratuità della fede è lasciata all’uomo come una “scommessa” metafisica, inincidente sulla realtà dell’Essere attuale, la sola razionalmente considerabile. La critica razionalistica all’indeterminatezza simbolica del Mito si attua nella distinzione di ciò che è dalla sua mera possibilità, e quindi nella conseguente scelta della certezza della realtà attuale a preferenza di quella possibile e indeterminata. La ragione agisce sul Mito come la dialettica sulla possibilità, negando dell’Essere il Mistero. Il processo di illuminazione dell’Essere, metodicizzato e universalizzato, si determina come progressiva negazione del simbolico e del possibile a favore dell’attuale e del certo: questa è la “scienza”. Se la filosofia agiva in opposizione al simbolico del Mito, mantenendosi all’interno del suo orizzonte di senso ontologico, la scienza si emancipa da quella originaria opposizione, misconoscendo, col suo fondamento, la sua stessa negazione. E rimuovendo il suo fondamento, lo nega, assumendo così se 79 Ivi, pag. 77.

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stessa come una realtà positiva. Il suo essere-come la costituisce come una credenza, per cui l’Essere della realtà scientifica è il Negativo creduto positivo: il Non della scepsi filosofica assunto come Essere: un Essere-Non. Questa trasfigurazione ontologica dell’oggetto logico è stata resa possibile astraendo dal processo dialettico il suo momento asseverativo, il quale, affermando la realtà dell’Essere, cioè la sua attualità, ne assumeva la fede ontologica della sua esistenza. Ogni giudizio di realtà è un atto di fede ontologica. L’affermazione dialettica del giudizio logico coincide con l’assolutizzazione di questa realtà di fede, per cui l’originaria critica negativa del Mito, la filosofia, diventata, come scienza, negazione della negazione, negazione di sé stessa, e cioè affermazione di fede razionalistica, non più mitica. Ma la scienza, negando il Mito, nega la stessa filosofia, costituendosi come il nuovo orizzonte di fede ontologico, ma di una ontologia negativa, che pone il Nulla come Essere. Ed è questa l’essenza del nichilismo come la nuova credenza ontologica del pensiero post filosofico. Il nuovo Mito post razionalistico. Dal punto di vista teoretico, il razionalismo è soggettivismo, cioè critica della coscienza singolare della veridicità del Mito, inteso come credenza ontologica collettiva consolidata dalla tradizione. Dal punto di vista storico, il razionalismo è critica del pensiero sociale dominante, della tradizione quale credenza socializzata (dòxa). Dal punto di vista sociologico, il razionalismo è il pensiero del figlio che critica il retaggio dei padri, cioè le credenze del padre. Il pensiero filiale, cioè la critica della filosofia al Mito, è pensiero “negativo”, consistente nella negazione della affermazione fideistica della tradizione dei padri. Ciò che si oppone all’affermazione di fede, il dubbio, è il contenuto della filosofia. Già Hegel aveva notato il cambiamento qualitativo di un fenomeno in relazione alla sua espansione quantitativa.80 Ma qual è la ragione di tale metabasi?

Fino a quando l’elaborazione razionale del Mito ha operato all’interno di uno stesso orizzonte di senso simbolico - tale che la distinzione dialettica conservasse con l’affermazione del giudizio logico anche il suo referente

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80 G.F. Hegel, Scienza della Logica, tr. it., Bari, 1968, vol. II, pagg. 409 417.

ontologico, facendo dell’Essere-che-è un ente di ragione, cioè un’Idea, e implicando quindi la co esistenza degli opposti elementi dialettici entro lo stesso orizzonte mitico simbolico ogni distinzione affermativa implicava la negativa, per cui rimaneva garantito, con l’invarianza del senso ontologico, la stessa simbolicità dell’Essere. Ma, allorquando l’opera critica di razionalizzazione del Mito ha preteso di essere una sistematica negazione dialettica della realtà simbolica, tale che della polarità simbolica venisse considerato come reale il solo Essere attuale, e cioè il solo ente, con la conseguente negazione totale del termine negato, e cioè della stessa realtà ontologica fondativa del Mito, ecco che la co-esistenza delle opposte e astratte determinazioni dialettiche dello stesso Essere è stata ontologicamente alterata in modo tale da determinare l’equivalenza del termine affermato (la realtà di fede) con quello negato (la realtà del Mito), per cui quanto più si affermava lo spirito critico che negava il Mito, tanto più si affermava la negazione del’Essere, cioè il Nulla. Così che la fede di ciò che si affermava coincideva con la negazione di ciò che negava, per cui quanto più avanzava l’affermazione della ragione, tanto più si espandeva la fede nella sua verità. ma poiché tale verità era “negativa”, consistendo appunto nella negazione della realtà del Mito, la fede nella ragione era una fede anch’essa nella potenza del Negativo, che confermava a suo modo il giudizio teologico nel potere distruttivo della conoscenza. L’affermazione universale della realtà di ragione, che è negativa rispetto all’Essere simbolico del Mito, equivale dunque alla negazione universale dell’Essere stesso a favore del Negativo assoluto, cioè del Nulla. Il negativo assoluto, non è la negazione dell’opposto logico, il quale comunque “è” anch’esso elemento dell’Essere, per quanto non attuale ma possibile, ma è il Niente come il contrario dell’Essere. E poiché l’esistenza di ciò che è dipende dalla negazione di ciò che non è, l’affermazione assoluta di ciò che è, equivale alla negazione assoluta di ciò che non è. E quando una affermazione equivale a una negazione, vuol dire che esse si riferiscono allo Stesso, sono una tautologia, una contraddizione, tale che l’Essere assoluto coincida con il Niente, e il Niente sia lo stesso Essere. In questo caso, l’Essere e il Niente, astratti dalla loro relazione e considerati in sé sono e insieme non sono, per cui la loro realtà è priva di

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ogni necessità, e cioè meramente possibile. Ma proprio la possibilità è la qualità dell’Essere opposta alla attualità, per cui la negazione appartiene all’Essere quanto la sua affermazione. Ma ciò vuole inoltre dire che l’assunzione dell’Essere nella sua sola realtà attuale non-è la verità dell’Essere, cioè Tutto l’Essere, ma soltanto ciò che dell’Essere stesso appare. L’apparenza dell’Essere, la sua attualità, coincide con la sua rappresentazione astratta, astratta cioè dal suo negativo, dalla sua possibilità. In tal senso, l’ente, ossia ciò che è, è un Essere solo “apparente”, e non l’Essere “in sé”, come aveva ben compreso Kant. ciò, infine, vuol dire che la conoscenza fenomenica dell’Essere, ossia la conoscenza di ciò-che-è, (l’ente) coincide con la conoscenza di ciò che in realtà non è l’Essere, ossia coincide con la conoscenza della sua credenza, e cioè con il suo Mito. Ma, come sappiamo, la conoscenza mitica non è la vera conoscenza. E da qui il rinnovamento filosofico della critica al fideismo.

La mutazione di genere notata da Hegel, ma già considerata da Aristotile, è il risultato della razionalizzazione metodica dell’orizzonte di senso mitico-simbolico, la quale perde del suo originario significato di rielaborazione del Mito per costituirsi come livello di coscienza universale ed esclusiva del significato distinto sul significato simbolico, cioè del risultato logico sul fondamento mitico, spostando dalla premessa ontologica, e cioè dal passato, all’esito dialettico, e cioè al futuro, il senso della realtà.

Questa dislocazione temporale del senso implica l’abbandono della tradizione e quindi delle annesse sicurezze esperienziali della cultura antropologica umana a favore del risultato incognito del processo dialettico. Il dialogo filosofico, infatti, sospende il senso usuale della realtà (épochè) fino al conseguimento del senso logico. L’intermezzo tra la domanda e la risposta filosofica, il fino a, apre un vuoto di senso durate il quale il cosmo tradizionale delle certezze ontologiche viene a perdere la sua plausibilità di fede per diventare un’ipotesi di realtà logicamente dimostrabile. La domanda del filosofo al credente: “che cosa è l’ente da te evocato, cioè chiamato in essere?”, dichiara la messa in discussione della realtà consuetudinaria da parte di chi non crede che l’ente sia l’Essere, ma che l’Essere sia indipendente dall’ente. L’indipendenza equivale ad estraneità, a distanza, a opposizione o a “differenza”. In ogni caso, la

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domanda sospensiva di senso inserisce una frattura cosmica che la risposta logica è chiamata a sanare. La fede razionalistica risiede nella credenza che il procedimento metodico possa addivenire a questo risanamento di senso, che la filosofia chiama “verità”. La verità filosofica, dunque, è il prodotto della ricostruzione razionale del senso della realtà messo in discussione dal dialogo. La verità, cioè, richiuderebbe la crepa cosmica aperta dalla domanda filosofica, riportando in essere l’ente, ossia riaffermando la fede ontologica. Da qui la funzione del servizio filosofico alla verità di fede. A questo punto, sorge la questione se l’Essere della fede originaria sia lo stesso Essere della risposta filosofica. Dal punto di vista della fede mitologica, e cioè nella prospettiva simbolica, il Dio dei filosofi è lo stesso Dio dei teologi, poiché la Verità coincide con l’Unità di Dio. La prospettiva cambia se dal Mito pagano si passa alla teologia cristiana. Il Dio cristiano non è più Pan, che presiede al conflitto della esistenza naturale, ma la fonte spirituale dell’amore universale, che predica il superamento del conflitto esistenziale naturalistico, e quindi della stessa distinzione apportata dalla filosofia tra il significato simbolico e quello logico. Questa distinzione, come pure la frattura cosmica della domanda filosofica, non hanno più ragionevolezza entro la dimensione creaturale dell’Essere cristianamente pensato. Infatti nel suo orizzonte di senso, ogni lacerazione naturale viene superata dal riferimento divino, e non dalla ragione umana.

L’invocazione di Gesù sulla croce, che chiede ragione della volontà divina circa il suo destino, ha un senso filosofico se la domanda di chiarimento attende una risposta razionale, la quale afferma che Dio ha abbandonato Cristo al suo destino terreno in quanto il Suo amore paterno è inscritto nella possibilità d’essere, anziché nella necessità, per cui il valore morale delle azioni umane può essere garantito soltanto dalla libertà di scegliere (i motivi dell’amore di) Dio anziché (le ragioni de) la Natura, ossia il senso caritativo della vita spirituale anziché il senso politico della convivenza umana.

A condannare Gesù alla croce è stata la logica del conflitto socio politico, il cui offesa al sentimento cristiano dell’amore fraterno non ha impedito l’esercizio della carità da parte di chi credeva ed amava Gesù. L’unità di senso, che la ragione filosofica ricerca nell’esito della discussione logica,

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il pesiero cristiano lo trova nell’amore di Dio. Un Dio del tutto diverso dal garante dell’ordine geometrico dell’universo. Ora, se l’universalizzazione del senso filosofico della realtà procedesse nel suo corso umanistico fino a escludere la possibilità di un senso diverso della vita, giungerebbe a negare, non soltanto l’amore di Dio come fonte di verità umana, ma lo stesso Dio come ipotesi di verità. a quel punto, la stessa distinzione dialettica tra vero e falso perderebbe la sua funzione di indirizzo teoretico, poiché una sola sarebbe la risposta a tutte le domande. Ma una unità di senso ottenuta abolendo ogni altra opzione teoretica, equivarrebbe ad affermare come verità di ragione una verità di fede, quella che vuole che l’Essere sia (l’ente). La distinzione dalla fede, universalizzata in totalità di senso univoco, conduce a una verità di fede, cioè alla sua contraddizione. Ciò vuol dire che la domanda filosofica può legittimamente aprire una crepa sospensiva di senso solo se dismette la pretesa di poter convertire il senso simbolico della realtà in senso razionale, limitandosi a chiarire il lato oscuro dell’Essere senza negarlo ontologicamente come irreale. Ossia ammettendo la irriducibile differenza tra la distinzione logica, che ubbidisce alle sue regole di affermazione e negazione, e la diversità ontologica tra l’Uno e il Molteplice, che non può trovare una sintesi razionale, cioè una riduzione del diverso all’uguale, ovvero dell’altro al sé, come pretende ogni idealismo filosofico. L’unica composizione che mantenga le differenze entro la stessa unità di senso comune è quella offerta dallo spiritualismo cristiano, il quale pone la distanza tra l’Essere e l’ente non in termini di frattura metafisica o di distanza temporale, ma come possibilità di libertà, realizzata dalla scelta (pari) tra la logica della charitas e quella del polemos. L’amore la carità è il terminus medius tra l’Essere e l’ente, tra il valore e l’uomo, tra l’astratto e il cncreto, tra l’universale e il singolare che il monismo ontologico, facendo dell’ente il contenuto dell’Essere, nega in nome dell’identità dell’Idea (o della Natura) con l’ente, dialettizzando la loro reciproca astratta opposizione entro lo stesso. Proprio la mediazione impedisce agli opposto di identificarsi, risolvendosi l’uno nell’altro contro il divenire. La mediazione, stabilendo la differenza ontologica tra l’Essere e l’ente, impedisce che l’Essere o l’ente siano Tutto, impedendo di concepire il reciproco negativo opposto

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semplicemente come l’astratto essere dello stesso, tale che la sua affermazione si risolva nella negazione dell’altro, e viceversa, rimanendo comunque lo stesso.

La mediazione della carità sostituisce ciò che nella dimensione politica della socialità è rappresentato dalla istituzione giuridica, dalla norma legale, la quale media tra il Potere e i singoli destinatari, rendendo universale la sua volontà. L’amore cristiano, diversamente dall’istituzione sociale, non collega il valore astratto (l’Idea) alla sua concreta determinazione (l’ente), rendendoli vicendevolmente partecipi attraverso un legame formale il quale, regolando normativamente la partecipazione dei due elementi, li distingue impedendo nella realtà logicamente dialettizzata quella confusione ontologica della loro comune appartenenza allo stesso Molteplice. L’amore cristiano opera invece come una relazione unitiva alternativa a quella istituzionale, perché stabilita non tra elementi astrattamente opposti, ma consustanziali alla stessa omogenea realtà spirituale, rendendosi creatore a suo modo di un ordine socialitario, il quale però non è “politico”, cioè stabilito sulle differenze di potere sociale, ma è “spirituale”, cioè stabilito su un legame comunitario sentimentale, ordo amoris. La differenza tra i due ordini di relazione, politico e spirituale, passa attraverso lo stesso uomo in quanto membro della società economica, e in quanto esponente della comunità di fede. L’unità sociale è di carattere politico, legata a ragioni naturalistiche di ordine economico, dovute alla natura finita dell’uomo. La comunità sentimentale è di carattere spirituale, riferibile alla stessa appartenenza mistica all’essenza divina. Le due dimensioni antropologiche non sono assimilabili a uno stesso rapporto dialettico, in quanto appartengono a realtà ontologicamente diverse, e non logicamente opposte. Averle assimilate a una stessa dimensione ontologica ne ha consentito la loro dialettizzazione logica, per cui il razionalismo, in quanto monismo ontologico, ha contrapposto fede e ragione come polarità reciprocamente negative. Questa indebita confusione del piano ontologico-spirituale con quello logico politico storicamente e culturalmente costituisce l’esperienza teologica della Chiesa cattolica, erede religiosa della tradizione imperiale romana. Ma dal punto di vista strettamente cristiano, la Chiesa, come comunità di carità, non può essere un organismo politico senza essere una

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forma di statolatria, uno Stato teocratico, modellato sulla forma politica dello Stato pagano. La giustapposizione dell’ordine sacro cristiano all’ordine profano pagano non ha dato vita alla nuova comunità di fede collegata dall’amore verso Cristo, ma a una forma di Stato ierocratico che di quello antico ha ereditato forme e princìpi di potere mondano, rimasti sullo sfondo strutturale della organizzazione religiosa, ma che sono sopravvissuti alla civiltà cristiana e riemersi modernamente al loro antico splendore in scala di modello universale. Ma la “scelta” tra l’ordine dell’amore e l’ordine politico deve poter ammettere la sua possibilità, cioè la sua non esclusività, e quindi la differenza ontologica, e non meramente logico-dialettica - tra l’orizzonte di senso (naturalistico) del Molteplice, e l’orizzonte di senso (spiritualistico) dell’Uno. Se la cultura pagana sosteneva la distinzione fisica dei due orizzonti, rappresentata rispettivamente dalla dimensione del “sacro” e da quella del “profano”, la cultura cristiana afferma la distinzione morale dei due orizzonti, entrambi appartenenti alla personalità umana in quanto insieme naturale e spirituale. Spostando in interiore homine il luogo della verità, il pensiero cristiano risolve il conflitto dell’appartenenza al sacro o al profano in termini esistenziali, rinunciando al giudizio definitorio razionale, e quindi lasciando sospesa la domanda filosofica al senso escatologico, non disponibile dall’uomo. La solitaria domanda del Golgota, non solo consegna a ogni uomo la sua intima risposta, ma testimonia col silenzio in cui quella domanda resta sospesa sul mondo della impraticabilità della ragione umana a risolvere il Mistero che alligna in quel silenzio, con la conseguente devoluzione del suo senso alla infinità delle risposte possibili. E proprio questa in finita possibilità di senso riveste di perenne attualità il messaggio cristiano, la domanda che l’umanità, nel suo insieme e individualmente, sofferente rappresentata da Gesù lancia perennemente a Dio semplicemente vivendo, affrontando una esistenza storica che è, insieme, comune e propria a ognuno. Il processo di universalizzazione della domanda e della risposta filosofica, assurto a “metodo” di negazione del valore simbolico della realtà a opera della ragione emancipata dal senso escatologico della Storia, si dispiega come pura tensione strumentale, di una fenomenologia priva di indirizzo deontologico e divenuta pertanto mera “tecnica”

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negativa della possibilità, applicata all’Essere simbolico, ridotto a prodotto della volontà dialettica o “decisione” per l’ente, cioè per l’Essere attuale. Solo ciò che è, è razionalmente reale, ogni altro modo d’essere non-è, e come tale è Niente. La dicotomia ontologica che, a partire da Parmenide, fonda il senso distintivo del filosofare, affida alla logica dialettica la de finizione dell’Essere, cioè la “scelta” che l’etica cristiana affida alla coscienza morale. Il pensiero dialettico trova luogo storico di applicazione storica nel governo politico, che consiste nella attività di razionalizzazione della vita sociale attraverso la distinzione dell’opportuno dal consuetudinario. La razionalizzazione metodica della scelta “tecnicamente” più efficace, finisce per esautorare la politica dalla ricerca del meglio possibile rispetto al solito, in quanto il meglio viene identificato con il procedimento tecnico stesso di scelta, ossia con l’economia produttiva di quelle possibilità. L’esautorazione della funzione politica del governo sociale è dunque una conseguenza logica della negazione dialettica del senso mitico della realtà. Ma la metodica dialettica, una volta divenuta “tecnica” economica, coinvolge nella sua negazione metodica lo stesso processo dialogico della dialettica, e perciò la stessa politica quale processo dialogico delle scelte di governo. Con la fine dell’universo di senso mitico, si determina anche la fine della filosofia che l’ha promossa, e quindi della politica che l’ha tradotta in realtà sociale. Con la fine della filosofia e della politica, e cioè con la fine di ogni storica mito logia umana, si giunge alla fine della stessa civiltà della ragione quale è stata concepita dai Greci e dal Cristianesimo romano-cattolico, che avendo ereditato il senso razionalistico greco della domanda, ha sempre cercato di addivenire a una risposta anch’essa filosoficamente fondata. Se indichiamo l’età della domanda di ragione come l’epoca della filosofia, e identifichiamo questa epoca con quella del soggettivismo razionalistico e quindi dell’idealismo cristiano come età teologica del Figlio, possiamo concludere che la fine di quest’epoca segna la fine del pensiero critico o della Negazione. Nello stesso senso, possiamo affermare che il “modo” proprio all’età razionalistica moderna è quello della Negazione, e che il superamento del Moderno coincide con l’oltrepassamento del razionalismo, che schiuda il pensiero alla vista di una nuova età della fede.

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Il “positivismo” razionalistico antico e soprattutto moderno - ha inteso il Negativo come Essere, idolatrando l’Ente e considerando Niente ciò che non è ente. Ma questo Niente è ciò che accomuna gli enti, il che vuol dire che il non-essere-ente è l’Essere che trascende la molteplicità degli enti (oi pollòi), trovandosi all’inizio e alla fine, esattamente come la fede ontologica tra il dubbio filosofico. Alla fine del processo dialettico, il pensiero incontra ciò da cui è partito, ossia quel (creduto) Niente che in realtà è l’Essere originario nella sua indeterminata possibilità, sicché la coincidenza degli opposti è la stessa unità originaria da cui per il razionalista il Molteplice promana, e che Cusano chiama Dio. Ma questo Dio filosofico è in realtà un’Idea, che sarà in seguito acquisita dal Soggetto trascendentale o dallo Spirito della storia idealistica. L’unità ideale, negativa, resta sullo sfondo del processo razionalistico, che consente che vi appaia tra i frantumi degli eventi singolari, negli interstizi della sua articolazione storica come fenomenologia attualistica del lògos. La premessa idealistica che sta alla base della teologia negativa di Cusano renderà possibile la rimozione ontologica di Dio come già il naturalismo aristotelico l’Idea di Platone, a favore della sola realtà del Molteplice e della sua ragione mondana.

6. L’età della ragione, entro l’orizzonte di fede dell’ebraismo, èrappresentata dalla figura di Gesù, ossia dall’avvento del Cristo salvatore dell’umanità e nuovo Adamo che, in quanto Verbo di Dio che si fa carne, “intende se stesso come la Torah la parola di Dio in persona”,81 ponendosi come il senso stesso della Storia escatologica come la “porta” della fede e la “via” dell’amore. “Il Verbo di Dio Padre chiama dal non essere all’essere e, alla fine, a un essere che vive di vita intellettuale, poiché intende il suo proprio essere”.82 Qui l’incarnazione ha la funzione di rendere luminose le tenebre del’esistenza, che non sarebbero tali se Dio fosse in ogni luogo, e non solo colà dove riluce la

81 J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, tr. it., Milano, 2007, pag. 138; la tesi dell’ abbandono della Torah è confermata da parte ebraica da J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù [1993], tr. it., Cinisello Balsamo, 2007.

82 N. Cusano, Ubi estqui natus est rex Judaeorum?, in Op. cit., pag. 81.

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sua gloria, cioè in interiore homine. Gesù è la “luce della vita” spirituale, ma non può essere “la via della natura”,83 cioè la realtà del Molteplice, bensì la “via celeste”, che è “vita vera” e “vita eterna”, che posseggono solo “i figli di Dio”. Una via celestiale ben diversa dall’ “arte di ben vivere in questo mondo”, che è una “congettura” del tutto simile a quella escogitata dalla “religione”, intesa come

arte fondata sull’autorità divina e sulla rivelazione [che] dispone l’uomo ad obbedire a Dio tramite il timore nei suoi confronti, e tramite l’amore verso di Lui e verso il prossimo, nella speranza di ottenere l’amicizia di Dio, datore di vita, e conseguire così una lunga e serena vita in questo mondo e una felice e divina vita in quello futuro. [Insomma una] tecnica [non dissimile dall’] arte politica ed economica, [ossia un’] etica [utile,] per mezzo dei costumi e delle consuetudini, ad acquistare piacere nella condotta della vita virtuosa e a governare se stesso pacificamente.84

La religione, rispetto all’arte del ben vivere, dispone l’uomo verso Dio, anziché verso l’autorità politica, e Cusano chiama tale disposizione religiosa come attenzione verso lo “spirito”, mostrando di non cogliere che la novità della fede cristiana non poteva semplicemente dipendere, come negli altri casi analoghi di fede congetturale, sulla “volontà di credere” nella (supposta) verità, ma sul fondamento, non mondanamente eudemonistico,della Verità eterna, che, proprio perché tale, e cioè eterna, non si limita alla funzione di garantire per tempo (il tempo della fede in essa, della sua credenza congetturale) il benessere dell’uomo, inteso come razionale e pacifica forma ordinata di vita comune. La religione “eterna” e “vera”, non è quindi fondamento mitico di socialità, ma racconto-diVerità, Sapienza. Non è, propriamente, neppure una “religione”, cioè un legame sociale, ma una via spirituale alla comunità mistica di persone affiliate a Cristo, ossia di “fratelli” illuminati dalla Sua grazia divina. La comunità cristiana, come corpo mistico, non è una società ecclesiastica, uno Stato teocratico, ma la libera comunità di spiriti illuminati dall’amore, che costituisce la “vera” fedele alternativa a quella mondana della politica, quale arte del ben vivere insieme eticamente

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83 Ivi, pag. 80. 84 Ivi, pag. 79.

stabilita. In tal senso, la fede cristiana è una “via” di carità, non una regolamentazione etica, una normativa regolativa di un ordine socio politico. Una via che conduce alla convivenza caritatevole costitutiva di ciò che Scheler chiamava appunto “ordo amoris”. L’ordine divino non si produce nel mondo tra sformando ideologicamente il referente della sua legittimazione morale, sostituendo cioè un Mito (politico) con un altro Mito (religioso). L’ordine divino è verità, non ipotesi teologico scientifica, e come tale va conseguita attraverso la stessa “via” stabilita dalla Verità della fede, non dall’immaginazione umana. La fede, infatti, è ragione a se stessa, essendo la fede a costituire la credibilità degli assunti razionali. In questo senso, la stessa filosofia, quando afferma la sua verità di ragione e vi crede, è una religione, un sapere di fede.85

“Ciò che è il fine ultimo di un ente è anche il suo vero fondamento, il suo vero principio. Qual è il fine della ragione? La ragione […]. Vero, perfetto, divino è soltanto ciò che è avendo come fine se stesso”.86 Tale

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“È del resto ovvio che la filosofia o religione considerate in generale, cioè prescindendo dalla loro differenza specifica, sono identiche, che, essendo perfettamente lo stesso l’ente che pensa e crede, anche le immagini della religione esprimono insieme pensieri e cose; è ovvio, anzi, che ogni determinata religione, che ogni tipo di fede, esprime anche un modo di pensare, essendo del tutto impossibile che un qualsiasi uomo creda qualche cosa che sia davvero in contraddizione almeno con la sua facoltà di pensare e di rappresentare. Così, per chi crede nei miracoli, il miracolo non è contraddittorio alla ragione, ma è anzi perfettamente naturale, essendo un’ovvia conseguenza dell’onnipotenza divina, la quale anche, per lui, è una rappresentazione assai naturale. e così per la fede la resurrezione del corpo dalla tomba è chiara e naturale quanto il ritorno del sole dopo il suo tramonto, il ridestarsi della primavera dopo l’inverno, lo svilupparsi della pianta dal seme posto nel suolo. Solo quando l’uomo non è più, né sente e pensa, in armonia con la sua fede, e questa non è più una verità che penetri nel profondo dell’uomo, solo allora si manifesta con particolare intensità la contraddizione della fede e della religione con la ragione”: L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo (1841), tr. it. in Opere, a cura di C. Cesa, Bari, 1965, pag. 172. 86 Ivi, pag. 182.

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fine è la sua “essenza”. L’essenza dell’uomo è costituita da tre “facoltà”, che sono “la ragione, l’amore e la volontà”, le quali “sono le forze che lo animano, lo determinano, lo dominano, forze divine e assolute alle quali egli non può opporre resistenza”. Sicché, “come potrebbe l’uomo dotato di sentimento resistere al sentimento, l’amante all’amore, l’uomo razionale alla ragione?”. È l’energia di questa “forza” spirituale, “l’energia della volontà, il potere dell’eticità” che trionfa sulla dimensione finita dell’uomo a rivelare la sua essenza. “L’uomo”, quale soggetto spirituale, “non è nulla senza oggetto”, senza questa “passione, fondamentale e dominante: la realizzazione del fine che era l’oggetto essenziale della sua attività”, la quale peraltro “non è altro che la propria essenza di questo soggetto, l’essenza però oggettivata”.87 “L’uomo acquista coscienza di sé stesso riferendosi all’oggetto: la coscienza dell’oggetto è l’autocoscienza dell’uomo”. L’oggetto è la coscienza dell’uomo che si manifesta a se stessa come la sua essenza,88 per cui “il potere che l’oggetto ha su di lui è quindi il potere della sua propria essenza. […] Quale che sia, quindi, l’oggetto di cui noi diventiamo coscienti, noi acquistiamo sempre e contemporaneamente coscienza della nostra propria essenza”. Ma, ciò che forse è più importante, è che “dato che volere, sentire, pensare sono perfezioni, sono realtà, è impossibile che la ragione senta o percepisca la ragione come una forza limitata, finita, cioè nulla”, poiché “finitezza e nullità sono identiche”, espresse l’una in termini metafisici e l’altra in termini pratici.89

Si noti l’identità, da un lato, di “realtà”, ossia fenomenicità attuale, e “perfezione”, e dall’altro, di finitezza e nullità. La realtà o è “perfetta” oppure non è, nel senso che la perfezione è considerata l’essenza della realtà, da qui ‘esclusione della sua finitezza. La conseguenza di questa credenza immanentistica, che vuole il divino nel fenomeno, è la divinizzazione del divenire, cioè la perfezione di ogni processo storico reale. La perfezione divina dunque, non è più l’Essere ma il divenire, e

Ivi, pag. 183.

, pag. 184.

, pag. 185.

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88 Ivi
89 Ivi

cioè il divenire pensato come l’Essere. Se il divenire era la dimensione della finitezza, la quale era la ragione ontologica, cioè l’essenza, dello stesso divenire, ora gli attributi dell’Essere perfetto, cioè di quello divino, trapassano nel divenire, che diventa la dimensione della perfezione, identificata con la “coscienza”. L’oggetto della coscienza è la perfezione, per cui “ogni limitazione della ragione o in generale dell’essenza dell’uomo dipende da un inganno, da un errore”. E quando la coscienza avverte il senso della sua finitezza è solo perché “ha come oggetto la perfezione”.90 E “se tu pensi l’infinito, pensi e confermi l’infinità della facoltà di pensare”, in quanto “l’oggetto della ragione è la ragione divenuta oggetto a se stessa”.91 Infatti, “la ragione ha come oggetto soltanto ciò che è razionale”, e di conseguenza anche ciò che per il profilo metafisico è “organo” secondario e strumentale, nel rapporto con la verità “ha il significato di originario, di essenza, di oggetto”. Pertanto, “l’essenza di Dio non esprime altro che l’essenza del sentimento”, ossia “di quanto di più nobile, di più alto cioè divino si trovi nell’uomo”. Di conseguenza, se il sentimento viene “ridotto a organo dell’infinito, a essenza soggettiva della religione, l’oggetto di essa perde il suo valore oggettivo. Così, da quando si è fatto del sentimento il nocciolo centrale della religione, il contenuto dogmatico del cristianesimo, che era così sacro, è diventato indifferente”.92 E “una volta che si considera il sentimento l’organo del divino, ecco che si dichiara che religioso è il sentimento come tale, è ogni sentimento in quanto sentimento [senza più] differenza tra sentimenti specificamente religiosi e sentimenti irreligiosi, o almeno non religiosi”.93 Nel senso che è il sentimento a far diventare religioso il suo oggetto. Ed essendo il sentimento “l’assoluto” e “lo stesso divino […] per merito proprio”, il sentimento ha “il suo Dio in se stesso”,94 sicché “ciò che tu potrai

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90 Ivi, pag. 186. 91 Ivi, pag. 188. 92 Ivi, pag. 189. 93 Ivi, pag. 190. 94 Ibidem.

oggettivare, che potrai dichiarare l’infinito, e definire come l’essenza di esso, è soltanto la natura del sentimento”, mentre ogni altra determinazione esterna di Dio “è un Dio che viene appioppato dall’esterno al tuo sentimento”, il quale “è Dio per se stesso”.95 In senso generale, “l’uomo non può mai superare la sua vera essenza”, e ogni determinazione che lui attribuisce a esseri superiori è sempre attinta alla sua propria essenza, frutto solo della sua oggettivazione di se stesso.96 Ma l’oggettivazione consiste nella universalizzazione razionalistica di un elemento della coscienza relativo alle qualità attribuite all’Essere, ossia, nel nostro caso, della stessa conoscenza di sé, della propria autocoscienza. Una coscienza, dunque, “alienata” come il Negativo dell’Essere pensato come astratto positivo. Così Gentile pensa hegelianamente la religione, ma in realtà l’affermazione del Negativo come positivo, ossia del non essere come essere, avviene attraverso la mediazione della fede, cioè della volontà, senza la quale neppure l’evidenza avrebbe significato di realtà. E questa mediazione fideistica interessa non soltanto la religione come oggetto del pensiero, ma il processo stesso del pensare per affermazioni che negano, cioè del pensiero dialettico, il quale assume dell’Essere l’elemento giudicato reale e lo elegge a fine del pensiero stesso, ossia l’identifica con la verità o “essenza” oggettiva. L’Essere di Dio, non essendo un’ipostasi dell’immaginazione creatrice dell’uomo, è totale, senza privazioni, secondo le stesse parole dell’Esodo: “Io sono Colui che sono” (3.14). ma ciò non significa che la totalità della verità di Dio, la sua Sapienza, sia assimilabile all’attualità dell’Idea che non difetta di alcuna esistenza, panteisticamente. Dio non è né una categoria né il numero uno della matematica, cioè un concetto astratto. La verità è tale se contiene, con se stessa, anche l’errore, il quale non è “altro” dalla Verità ma la negazione che la conferma. Mentre, come sappiamo, la realtà del non essere della logica formale del Sofista platonico, è giustapposta alla realtà dell’Essere come il falso al vero essere, ossia l’ipotesi creduta a quella confutata. Nel Tutto coesiste la negazione, ma con-siste come verità opposta al Tutto, non all’Essere o

Ivi, pag. 191.

Ivi, pag. 192.

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all’Ente. Solo se opposta al Tutto la Negazione ha una sua realtà d’essere (il Diavolo), mentre entro la dialettica dell’Essere la negazione logica coincide con l’Essere stesso come Idea opposta astrattamente all’Ente e viceversa. In tal senso, ogni ente ha in sé il suo opposto ni-ente. Affermare la realtà di Dio, cioè il Tutto, secondo la realtà dell’Essere o dell’Ente, equivale a negarlo come Tutto. Infatti, affermarlo come parte, significa negarlo come Tutto. La Negazione del Tutto rientra nel Tutto ma appunto come negazione, a contrario, così come ogni errore conferma a contrario la verità.

La verità come Idea, cioè come atto di fede della volontà, contiene la negazione di sé a conferma del suo Essere ideale. ma questo Essere ideale, essendo ipotetico, e cioè meramente creduto, è a sua volta la Negazione del Tutto che è la verità, per cui la (ipotetica) verità dell’Idea, cioè la credenza, non può essere confermata dal’errore che come errore, e cioè negata come negazione. Ma se la negazione della verità dà la verità, cioè la conferma, la negazione dell’Idea, confermando l’Idea, non ne conferma la sua creduta verità ma solo la sua negazione del Tutto. In tal senso, rispetto alla verità, ogni Idea si equivale per la sua credenza, che è “follia” rispetto alla verità del Tutto, perché conseguirla razionalmente non significa superare la sua molteplice natura ipotetica, mitologica rispetto alla unica verità di Dio. La doppia negazione dell’Idea (negazione del Tutto) negata dall’errore (negazione dialettica del suo essere o non essere), non trascendendo la realtà finita dell’ente, ossia la finitezza del Molteplice, non afferma la verità dell’Idea, cioè l’essenza del Mito, ma la verità del Tutto, che è “oltre” ogni verità ideale, e come totalità la comprende in sé, appunto come Negativo. La realtà, o natura o essenza, del Negativo è il suo divenire Niente, cioè l’intrascendibilità della sua finitezza, sia come Essere (cioè Idea), sia come ente (cioè fenomeno esistente). La realtà del Negativo è dunque la realtà della sua insuperabile finitezza, che è il carattere ontologico del Molteplice. E come tale, cioè come realtà ontologicamente finita, il Molteplice si differenzia dall’Uno, cioè dal Tutto che è Dio, e non un’Idea di Dio.

La differenza tra l’Uno e il Molteplice non è dialettica, cioè logica, e come tale mediata dalla comune negazione della reciproca astratta opposizione, ma diairetica, cioè ontologica, e come tale mediata dallo

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stesso amore spirituale che avvolge Tutto che è Dio e la sua creazione spirituale, l’uomo. E questo Spirito, che è insieme Dio e uomo, si realizza storicamente nella figura divino umana del Cristo, il Verbum caro, la mediazione ontologica tra il Tutto e il Niente, tra l’infinito e il finito, altrimenti irrelati. Cristo, sintesi reale di di versi ontologici, rappresenta l’altro modo di fondare l’unità socialitaria tra gli uomini, alternativa a quella istituzionale del potere politico. L’unità della charitas spirituale, che ogni uomo, in quanto immagine di Dio, può, similmente a Cristo, fondare attraverso la sua testimonianza di fede. Il legame spirituale, proprio perché invisibile e indivisibile, non può essere assimilato all’unità sociale, e quindi intaccato dal Potere politico, in quanto afferente a un ordine ontologicamente diverso di carattere non logico fattuale ma mistico sentimentale. E proprio perciò alternativo a quello religioso tradizionale, funzionale al Potere socio politico. I termini della relazione non vanno invertiti in un senso di opposta priorità del legame religioso su quello politico, come è avvenuto nel corso della storia della civiltà cristiania fondata sulla istituzione della Chiesa cattolico-romana, caratterizzata dalla lotta tra opposti poteri mondani in competizione per il primato politico sulla società dei cristiani. I termini della relazione vanno invece concepiti in termini di coesistente alterità, non nella società civile o religiosa, ma nell’uomo come persona divinoumana. La sintesi cristologica rappresenta il modello ontologicospirituale di con presenza dei due elementi dell’Essere come Tutto e come Niente, i quali non sono assimilabili e logicamente dialettizzabili ma solo mediabili nella figura di Gesù Cristo, che ne realizza storicamente e teologicamente la sintesi antroplogica. Ciò che ogni singolo uomo può e deve essere, è ciò che Cristo è stato ed è per l’umanità: l’unità di Spirito e Natura, cioè di infinita eternità e di moritura finitezza. La resurrezione della carne è legata alla morte dell’uomo, così come l’eternità dello spirito è legata all’immortalità di Dio. Senza la fede in Dio, l’Essere carnale sarà solo natura, e la morte soltanto finitezza materiale. La fede in Dio è la fede nel Tutto come Spirito, mentre la fede nell’Essere è la fede nella Natura come Tutto. Ma se la perdita della fede nella Natura come Tutto, salvaguardia comunque l’Essere della Natura, e cioè la fede nella Natura come l’Essere, la perdita della fede in Dio compromette l’Essere dello Spirito, abbandonando la natura umana alla

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sola credenza che l’Essere di natura sia il Tutto, ovvero sia Niente. Solo Cristo libera il finito dalla sua verità ipotetica, di natura ideale e mitologica, consentendo alla conoscenza di trascendere la sua finitezza puramente razionale, che è quella stessa dell’Essere molteplice degli enti, la logica del Finito.

Con Cristo la finitezza entra nel Tutto come verità, non come errore, cioè come credenza ideale. e il dolore della Carne si fa realtà divina, sofferenza del Verbo incarnato. Liberata dalla finitezza ontologica del Mito, la religione spiritualistica diventa, da legame sociale, a verità del Mistero dell’uomo, che oltrepassa la ragione del Finito, la stessa filosofia come scienza del variabile molteplice e ragione del mondo che diviene. La ragione umana, nella verità del Tutto, non si fa strumento divino della Sapienza, cioè logica spiritualistica, secondo la teologia cattolica, ma strumento interamente umano di conoscenza del solo mondo naturale, della realtà in divenire del Molteplice, che non perviene alla verità eterna. È verità anch’essa, quella della scienza finita, ma ipotetica e destinata all’errore e quindi all’eterna ripetizione dello stesso ciclo naturale. Soltanto la verità rende liberi da questa necessità naturalistica, trascendendo la finitezza del genere umano nella infinita realtà di Dio, che è spirituale ed eternamente uguale a se stessa, al di là del divenire del tempo e della dislocazione spaziale, e coincidente con la Storia paradigmatica di Cristo. Da qui la centralità storica della figura di Cristo, che della storia umana è l’elemento eterno, presente in ogni uomo, al di là della sua esperienza finita, cioè del tempo e dello spazio, e non sopra o dopo. L’eternità non è la somma del passato e del futuro, cioè il ciclo del racconto mitico rassicurante sui destini del’uomo finito. L’eternità è l’oltre tempo che trascende le scansioni temporali e diacroniche in una dimensione a cronica in cui ogni esperienza spirituale può riconoscersi e fondersi misticamente. In tal senso, la comunità spirituale è unità mistica non soltanto dei vivi, come quella politica della società, ma anche dei morti, i quali sono in ispirito non diversamente dai vivi, come Cristo è eternamente nell’uomo anche se morto carnalmente in croce in un certo tempo e luogo storici.

Ma questo “essere” non è quello naturalistico della realtà degli enti, non è l’attualità transeunte dei fenomeni che ora sono e ora non sono. L’essere cristiano è la presenza spirituale dell’eterno nel tempo, che non è “durata”

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ma amore. L’amore è l’intuizione del Tutto nella parte. Quando si ama non si conosce l’altro come diverso, ma l’altro come sé: da qui il monito evangelico di amare l’altro come se stesso. Non di conoscerlo per giudicarlo in ragione del suo essere storico, ma di intuirlo come Tutto, come creatura divina, al di là della sua parvenza fenomenica, cioè della sua realtà in divenire.

Il Mito (religione) la Filosofia (idealismo razionalistico) la Società (politica) costituiscono i tre momenti essenziali dell’esperienza umana finita o socio naturale. Lo Stato legale dell’uomo.

La Verità (rivelazione) l’Ontologia (spiritualismo) Comunità (mistica) costituiscono i tre momenti essenziali dell’esperienza divino-umana o storico spirituale. La Storia spirituale dell’uomo. Introdotto lo Spirito come oggetto del pensiero di Dio, Dio è Spirito e tutto ciò che lo Spirito pensa è spirituale. E poiché la coscienza dell’uomo è coscienza spirituale, pensare in senso spiritualistico significa far coincidere la coscienza con l’autocoscienza.97 Pertanto, il pensiero di Dio come oggetto del pensiero, sarebbe, secondo tale logica identitaria, “l’essenza oggettivata dello stesso soggetto”, che è indifferentemente Dio (Hegel) o l’uomo (Feuerbach). Infatti, “la coscienza di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di se stesso. Tu puoi conoscere l’uomo dal suo Dio,e, reciprocamente, Iddio dall’uomo [poiché] i due termini sono identici”.98

Dio, ridotto a momento del processo conoscitivo, è un nomen juris attribuito al Negativo dialettico oggettivato, come “interiorità resa manifesta”,99 e come tale convertita dalla fede in ente reale. Il processo conoscitivo dell’auto coscienza consiste, in questa prospettiva dialettica, nella consapevolezza dell’astratta oggettività della religione, e quindi del reintegro dell’altro nel sé del soggetto, ossia nell’assimilazione soggettivistica dell’oggetto. Attività che Feuerbach fa coincidere con il “progresso storico”, consistente, in ambito religioso, nella progressiva umanizzazione del divino, per cui

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97 L. Feuerbach, Loc. cit., pag. 193. 98 Ivi, pag. 194. 99 Ibidem.

ciò che per la religione precedente era considerato qualche cosa di oggettivo è adesso qualche cosa di soggettivo [e] che era contemplato e pregato come Dio viene ora conosciuto come qualche cosa di umano. Per i posteri la religione precedente è idolatria: l’uomo ha pregato la propria essenza. L’uomo si è oggettivato, ma non si è reso conto che l’oggetto era la sua essenza; la religione successiva fa questo passo. 100

Ma ciò vuol dire che la perfezione della realtà era solo presuntiva, ossia affidata a una credenza, e che la stessa ragione, non meno della religione, per ciò che concerne la fede nei suoi contenuti, “si illude” circa il suo oggetto di pensiero, e nella fattispecie può soltanto credere che, “dato che si è innalzata su un piano superiore al contenuto del pensiero precedente”, possa sottrarsi “alle leggi necessarie ed eterne che costituiscono l’essenza” della ragione, affermando che “l’opposizione di divino e di umano è del tutto illusoria, e che, per conseguenza, anche l’oggetto e il contenuto della religione cristiana è interamente umano”.101 Infatti, come sappiamo, ogni affermazione, negando il dubbio della ragione, appartiene alla fede, ossia a quell’universo di senso religioso che lo scetticismo della ragione intende contrastare.

Anche per Feuerbach l’affermazione precede la negazione, per cui “la religione precede quindi dovunque la filosofia, sia nella storia dell’umanità che nella storia del singolo individuo”. Ciò vuol dire, hegelianamente, che la proiezione negativa del sé, l’oggettivazione della coscienza, precede la auto coscienza, così che “l’uomo, prima ancora di trovare la sua essenza in sé, la traspone fuori di sé. In un primo tempo la sua propria essenza gli è oggetto come se fosse l’essenza di un altro”.102 Ma questa alterità, non può essere quella del soggetto, dal momento che la soggettività non è stata ancora conquistata dalla coscienza attraverso il processo razionale, ma è l’oggettività del gruppo socio culturale in cui l’uomo viene a trovarsi esistenzialmente. Ciò vuol dire che la nozione dell’Essere per la coscienza alienata è di tipo naturalistico, cioè esterna alla coscienza soggettiva, e ricevuta come nozione sociale, che è

100 Ivi, pagg. 194 195.

101 Ivi, pag. 195.

102 Ivi, pag. 194.

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“oggettiva” proprio nel senso che non appartiene alla produzione del soggetto teoretico. Non è dunque la coscienza soggettiva che traspone l’Essere fuori di sé, ma è la coscienza comune a determinare la realtà dell’Essere, decidendo della sua realtà. Questo livello di coscienza oggettivata è quello dell’opinione condivisa, la doxa platonica, ovvero l’orizzonte di senso religioso che fonda ontologicamente la realtà. Solo successivamente la coscienza individuale si emancipa dalla coscienza comune, assumendola come oggetto della propria soggettività, e quindi stabilendo la distanza razionale tra la coscienza e il suo oggetto. Quando la realtà viene oggettivata dalla coscienza, essa è già esterna alla coscienza, la frattura (thàuma) filosofica è già intervenuta come negazione della fede, come dubbio razionale. In questo livello di coscienza critica, la posizione fideistica è superata dalla dimensione del negativo, e la filosofia subentra alla fede, ossia subentra a quella dimensione di credenza in cui c’è coincidenza tra il divino e l’umano, poiché l’Essere creduto vero coincide con la sua vera realtà, coincidenza che verrà spezzata dalla filosofia che la giudicherà una “illusione”. Illusoria viene giudicata, razionalmente, la attribuzione dei predicati al soggetto dell’identità. E la negazione dei predicati lascia il soggetto indeterminato. In virtù di quell’identità, il venir meno dei predicati fa venir meno anche l’esistenza del soggetto cui erano attribuiti, Dio, trasformandolo in una “essenza negativa” e come tale “inconoscibile”.103 Questa posizione teoretica illustra chiaramente la trasposizione del piano ontologico a quello gnoseologico, tale che l’asserita perfezione della realtà fenomenica escluda, con la conoscibilità delle manifestazioni esistentive dell’Essere, ogni possibilità stessa d’essere dell’Essere che non sia determinata. Dio diventa perciò “ignoto” in quanto “absconditus”, cioè indeterminato. La assolutezza (o perfezione) della realtà effettuale, essendo quella sola conoscibile, determina a contrario, con l’inconoscibilità (delle determinazioni) di Dio anche la sua inesistenza. Da qui le radici dell’ateismo.104

103 Ivi, pag. 196. 104 Sulla natura teoretica dell’ateismo moderno, ved. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Roma, 1964. Sul carattere postulatorio dell’ateismo

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Appellandosi alla inconoscibilità di Dio l’uomo scusa […] il fatto che egli si è dimenticato di Dio, che si è perduto nel mondo; egli nega Dio praticamente, con l’azione […], ma non lo nega teoreticamente; non contesta l’esistenza di Dio, lo lascia sussistere [come] un’esistenza soltanto negativa, un’esistenza senza esistenza, un’esistenza in contraddizione con se stessa è un essere che, per quanto riguarda la sua efficacia, non può essere distinto dal non essere.105

Questo “astuto ateismo” pratico (che sarà a suo tempo richiamato in altro contesto anche da Maritain), nasce dal rifiuto di voler “ridurre Iddio a un essere finito attribuendogli predicati determinati”, ossia quelle “qualità” che sono “il sale dell’esistenza”.106

In verità, l’incarnazione divina in Cristo testimoni una contraria intenzione, tanto che viene attribuita a Dio per suo tramite la più sensibile delle proprietà umane, la morte. Il cui scandalo non proviene dalla sua radice umana e naturale, ma dalla smentita del suo carattere di finitezza. In altri termini, la morte di Gesù, destinando alla sua esistenza il carattere in equivoco della finitezza della natura umana, nello stesso tempo lo smentisce, assegnandole un valore simbolico ultra rappresentativo rispetto a quello appunto di stadio terminale caratterizzante la vita. Proprio la Morte di Dio segna il confine, il limes, tra l’evento finito e quello escatologico, che depriva la sua fatticità di ogni carattere determinativo, di ogni perfezione. Più e meglio del miracolo, in cui la fede gioca un ruolo determinante per quello della ragione, l’evento della Morte smentisce ogni certa determinazione, e quindi conoscibilità, in quanto la sua stessa fenomenicità non consente alcuna appartenenza univoca alla realtà dell’Essere anziché del non-Essere. la Morte, quale zona di confine ontologico, simboleggia per la sua ambigua indeterminatezza, il Mistero stesso della realtà e della fede in essa come moderno, ved. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Bologna, 1964. Sul confronto tra le due prospettive, ved. M. Borghesi, Ateismo e modernità, Milano, 2019, pagg. 63-83.

, pag. 197.

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105 Ivi
106 Ibidem.

verità.

Se, come afferma Feuerbach, “la necessità del soggetto ha la sua radice soltanto nella necessità del predicato”, poiché “solo nel predicato è contenuto ciò che è il soggetto”, la sua “verità”,107 allora l’assenza di predicati dovrebbe qualificare Dio negativamente come verità opposta all’Essere determinato, all’esistenza, e quindi come Morte. Dio “è” se stesso nel momento stesso in cui si determina come negazione dell’Essere, come privazione d’esistenza, come Morte. Il Negativo ritorna come una presenza ineliminabile dalla coscienza, anche se indeterminabile. Una presenza “negativa”, e dunque problematica, che domanda e richiama una risposta. E dunque una questione che da religiosa diventa filosofica. Se dunque “la certezza dell’esistenza di Dio […] dipende soltanto dalla certezza della qualità di Dio”,108 ciò che costituisce l’estrema certezza della sua esistenza è il carattere della sua qualità negativa, della sua Morte. Dio è perché mortale, ossia il suo essere è determinato dal suo non esistere, che smentisce l’assunto razionalistico identitario di Essere ed ente, e cioè l’ipotesi che l’unica realtà sia quella dell’Essere attuale, del fenomeno. L’esistenza negativa di Dio dimostra invece la realtà attuale, che costituisce la condizione della conoscibilità razionale dell’Essere, è solo una possibilità d’essere dell’Essere, ma non l’unica, e quindi non quella vera. I caratteri della conoscenza umana attraverso l’uso della ragione, universalizzati costringono l’Essee a determinazioni umane. Per l’uomo “la coscienza di ogni realtà e di ogni felicità è legata alla coscienza di essere soggetto, alla coscienza dell’esistenza”.109 Infatti “per l’uomo esistere è il primum, è il soggetto nella sua rappresentazione, è il presupposto dei predicati”.110 Ma ciò, come abbiamo visto, non vale in riferimento a Dio, presso il quale la verità si coniuga con la possibilità, e non con la realtà. La soggettività divina, la sua essenza, non è legata, come invece quella umana, all’esistenza, per la quale “la negazione del

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107 Ivi, pag. 201. 108 Ibidem. 109 Ivi, pag. 200. 110 Ivi, pag. 201.

predicato è la negazione del soggetto”,111 per cui la sua realtà mondana, se inizia la sua esistenza storica, non inizia la sua essenza, che precede la conoscenza umana come la fede precede la ragione, cioè il distacco del soggetto dall’indeterminato oggetto. Ciò implica che l’esistenza di Cristo non esaurisce l’Essere di Dio, che trascende la storia della vita e la stessa sua fine, cioè la morte. Ma se la presenza storica di Cristo consente la conoscenza umana di Dio, non coincide con l’essenza trascendente di Dio ma solo vi partecipa per l’elemento spirituale, che resta precluso alla ragione, allo strumento della conoscenza finita. Comunque si voglia indicare la condizione umana, essa non è riducibile a una dimensione meramente ontica, alla stregua di ogni ente di natura. Tale diversità, custodita dalla religione come testimonianza della grandezza di Dio, anche se introdotta in un orizzonte di senso puramente razionalistico, conserva la sua valenza ontologica, sulla quale solo è possibile stabilire una relazione col divino. Se, dunque, la comunanza umana col divino è l’alterità comunque rappresentata rispetto alla naturalità, la determinazione positiva di tale “alterità” pertiene solamente all’uomo, come asserito anche da Feuerbach. Ma la condizione di partecipazione spirituale tra l’essenza divina e quella umana stabilisce un rapporto diverso da quello di identità uomo Dio, che elimina la simmetria distributiva per cui “quanto più il soggetto divino è, ella sua essenza, umano […], tanto più viene negato l’umano, quell’umano che, come tale, è oggetto per la coscienza dell’uomo”. Secondo tale prospettiva simmetricamente distributiva, “per arricchire Iddio bisogna che l’uomo diventi povero; perché Iddio sia tutto, bisogna che l’uomo sia nulla”. Se infatti “l’uomo ha la sua essenza in Dio, perché mai dovrebbe averla in sé e per sé?”

La domanda è lecita, ma solo se viene mantenuta la premessa razionalistica identitaria, in virtù della quale gli attributi di Dio siano gli stessi attributi dell’uomo. Ed è tale premessa che, già stabilita in senso naturalistico dall’ontologia classica, viene ereditata dalla metafisica

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112
111 Ibidem. 112 Ivi, pag. 203.

cristiana sulla scorta dell’idealismo platonico e l’adozione delle sue categorie di pensiero. E’ il rapporto identitario tra Essere ed ente a consentire l’eliminazione (o “l’oblio”) dell’Essere (Dio) a favore dell’ente (uomo). Questa riduzione ontologica dell’essenza all’esistenza era già stata perpetrata da Socrate e Platone nei confronti del Mito, e da Aristotile nei confronti dell’idealismo platonico. Ed è la stessa riduzione a caratterizzare il processo di secolarizzazione della metafisica cristiana da parte del razionalismo moderno, che in Feuerbach trova il suo esponente più lucido e consequenziale. La risoluzione atea del divino nell’umano, è specularmente simmetrica a quella teistica, che ancora nella critica kantiana cerca di stabilire la innominabile differenza tra l’uomo e Dio attraverso la determinazione gnoseologica dei confini della ragione, che lasciando intatto il Mistero divino lo qualificavano in senso negativo: come l’ “assolutamente altro” e perciò inconoscibile ed inesprimibile. Ma la caratteristica della simmetria identitaria è che la “autonegazione” possa convertirsi in “autoaffermazione”, di Dio come dell’uomo. Per cui, se la fede ingenera il sacrificio di sé per esaltare le virtù divine, lo scetticismo può trasferire nell’uomo gli attributi divini, deificando l’umanità. Non si esce dal Mito ontologico dell’identità, ma lo si rielabora convertendo l’originario senso oggettivo in senso soggettivo, e viceversa, mantenendosi comunque entro un orizzonte di senso mito-logico, quello monistico, che si duplica astrattamente in due termini tra loro dialettici, che si convertono nel reciproco opposto dello stesso Uno, che in realtà è l’Idea del Molteplice. Una credenza, appunto, che non è verità. “La religione” afferma Feuerbach nello stesso luogo, “nega che il bene sia costitutivo dell’essenza umana […], ma in compenso Iddio non è altro che buono, è l’ente buono”. Ma, si chiede giustamente il filosofo, come si può rivolgere l’invito di imitare la bontà divina se non ammattendo che il bene sia “una determinazione essenziale dell’uomo”? se infatti l’uomo fosse “malvagio per natura”, cioè “per essenza”, come potrebbe “mirare al santo e al buono”? infatti, “o il bene non è affatto per l’uomo, o è per lui”; ma se ciò è vero, allora “ciò che si manifesta al singolo uomo è la santità e labontà della essenza umana”.

Io non posso né pensare né percepire ciò che è assolutamente contrario alla mia natura, ciò cn cui io non ho niente in comune. Io posso mirare alla santità solo considerandola il contrario della ia personalità ma come ciò che è unità con la mia

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essenza. […] In quanto riconosco il bene come mia destinazione e mia legge, riconosco anche, in modo conscio o inconscio che sia, che esso è la mia propria essenza. Un ente che sia altro da me, che sia da me diverso per propria natura non ha alcuna influenza su di me. E posso sentire il peccato come peccato soltanto se lo sento come una contraddizione di me con me stesso, cioè della mia personalità con la mia essenzialità. Il senso del peccato è inspiegabile e assurdo se è pensato come una contraddizione con l’essenza assoluta, intesa come altra da me.113

Discorso logicamente ineccepibile, date le premesse; che però diventa vizioso dal momento in cui l’ontologia spiritualistica mette in radicale discussione il piano univoco di realtà garantito dal monismo mitico della tradizione naturalistica greca. Non si comprenderà mia la filosofia di Hegel fuori della sua esigenza di rifondare la logica formale in senso spiritualistico cristiano. Il tentativo, pur grandioso, naufraga in quanto, come ormai sappiamo con Heidegger, la questione era ontologica, prima di essere logica, per cui era l’Essere che doveva pensarsi in senso diairetico e non bastava “riformare” la dialettica antica per sortire dal monismo classico in cui era stato pensato anche la metafisica cristiana, che viene coinvolta perciò dal processo di razionalizzazione che caratterizza ogni mitologia, che rielabora l’affermazione per via di negazione mantenendo, nell’opposizione, lo stesso Essere.

Chi fa agire Iddio in modo umano dichiara che l’attività umana è divina. […] occorre che io abbia già riconosciuto per divino ciò di cui faccio una proprietà, una determinazione di Dio. Una qualità non è divina perché è Iddio ad averla: al contrario: Dio la ha perché essa è divina a sé e per sé, mediante se stessa, e perché Dio non sarebbe Dio se essa gli mancasse. L’uomo questo è il segreto della religione oggettiva a sé la propria essenza oggettivata, trasmutata in soggetto; egli si pensa, egli è oggetto a se stesso, ma in quanto oggetto di un oggetto, di un altro ente.114

Ciò che Feuerbach descrive perspicacemente e coerentemente ai suoi postulati idealistici è la fenomenologia della rielaborazione razionalistica del Mito, anche di quello della metafisica cristiana. Il naturalismo classico faceva dell’uomo la realtà dell’Essere naturale, ovvero l’ente

113 Ivi, pagg. 205 e 206.

114 Ivi, pag. 207.

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dell’Idea, e parimenti la metafisica cristiana ha fatto dell’uomo la creatura spirituale di Dio, attribuendo a Questi gli stessi attributi umani. Ma l’uomo è una realtà finita, abbisognevole di compensazioni pratiche.

Il fine della religione è il bene, la salvezza, la beatitudine dell’uomo; il rapporto che l’uomo stabilisce con Dio non è altro che il rapporto che l’uomo ha con la sua salvezza: Dio è la salute dell’anima già realizzata, ovvero la forza illimitata di realizzare la salvezza, la beatitudine dell’uomo.115

Una felicità non mondana e terrena, ma neppure teoretica. E’ una salvezza “interiore”, dell’ “animo e non della ragione, della prassi e non della teoria”, dell’ “ansioso cuore e non del pensiero libero” dai bisogni. In tal senso, il Dio della religione è “un ente che non esprime l’essenza della prospettiva teoretica, ma di quella pratica”.116 Ma, essendo quella pratica “la sola prospettiva della religione […] tutto ciò che non fa parte della coscienza pratica, ma è l’oggetto essenziale della teoria […], viene posto fuori dell’uomo e della natura, e collocato in un ente particolare e personale”,117 di natura diabolica, che si interpone tra il principio primo divino e la realtà umana. Questo “diaframma” un giorno “cadrà”, e nessuna natura materiale e corporea dividerà l’uomo, “l’anima buona”, da Dio.118

Se le cause intermedie, naturali, vengono emancipate dalla causa prima, divina, il mondo diventa “autonomo nel suo essere, nel suo sussistere”, e di conseguenza il concetto negativo diventa positivo, sicché “la natura è il positivo, e Dio un concetto negativo”.119

La “natura” è, nella prospettiva monistica, la realtà della ragione, la quale perciò “è la verità della natura”. Rispetto ad essa, la verità dell’uomo è quella del “cuore”, cioè dell’uomo che “si occupa soltanto di se stesso”. In altri termini, “la ragione è il Dio della natura, il cuore il Dio

115 Ivi, pag. 210.

Ivi, pag. 212.

Ivi, pagg. 212 213.

Ivi, pag. 216.

Ivi, pag. 217.

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dell’uomo”.120

La contrapposizione consiste nel fatto che “il cuore procura all’uomo tutto ciò che egli desidera, e che gli viene negato dalla ragione e dalla natura”, come appunto “Dio, l’immortalità, la libertà [che] esistono solo nel cuore”, il quale “libera l’uomo dai termini essenziali della natura, così, per contro, la ragione libera la natura dai termini della finitezza esteriore”. Ma i due emisferi della coscienza umana non stanno allo stesso livello di realtà, poiché la credenza monistica impone un’opzione ontologica derivata dalla logica dialettica, per la quale “soltanto ciò che è vero naturalmente lo è anche logicamente”, e di conseguenza “ciò che non ha fondamento nella natura non ha alcun fondamento”.121

La conoscenza logica afferma la sua esclusività dialettica respingendo nel negativo ciò che non appartiene alla sua sfera di coscienza, e trasformando il non senso logico in in esistenza ontologica. Ma questo “passaggio”, come ormai è noto, è il risultato della fede ontologica nell’antico naturalismo classico, che identificando la legge metafisica con quella fisica, ritiene che “ogni autentica legge della metafisica si può e si deve verificare fisicamente”. È questo ritenimento a definire la ragione come “la natura delle cose che è giunta in se stessa”, riconducendole “alla loro vera essenza”, liberandole dalle “perturbazioni, dalle influenze e dagli ostacoli esteriori […] per rendere l’essere determinato uguale all’idea”.122 Ecco il punto decisivo della epistemologia razionalistica: condurre l’ente all’uguaglianza ideale con l’Essere, identificandolo con l’Idea, alla maniera platonica. Si è dunque ancora all’interno del Mito naturalistico greco, rielaborato razionalisticamente in funzione antimetafisica cristiana La ragione, restituendo “l’autentica essenza delle cose”, libera la credenza ontologica dalla sua finitezza soggettiva, anche se comune e socializzata, sostituendo alla comunità di fede (etnica, tribale, statuale) la mediazione della Idea universale, che supera il limite della individualità, e cioè del “cuore” privato, riconciliando su un piano oggettivo “l’essenza della

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120 Ivi, pag. 226. 121 Ibidem. 122 Ivi, pag. 227.

natura e dell’uomo nella loro identità”, appunto ideale e universale. In questo senso, identificato Dio con l’essenza ideale, “tutte le determinazioni di Dio in quanto Dio, come ente universale e oggetto della ragione, sono determinazioni della ragione ”. 123 Il Dio dei filosofi, ente universale, è la ragione stessa svelata alla coscienza di sé, che acquisisce il Dio religioso, quello del “cuore”, come suo oggetto finito, come la stessa individualità e soggettività umana. Ma queste differenze, precisa Feuerbach, “sono valide soltanto come antitesi”, cioè come astratte polarità dialettiche, “dato che il cuore dell’uomo, che è un ente razionale, è illimitato come è illimitata la ragione”,124 ossia è anch’esso una creazione della ragione distinguente che pone la sua opposizione per riconoscersi nel suo superamento. Solo che il negativo del razionale è il soggettivo, non è più la natura, e solo se la soggettività umana è equiparabile all’ente naturale è possibile trattarla onticamente.125 E perciò Feuerbach passa a distinguere il cuore, come “sentimento determinato”, che “si richiama soltanto ad oggetti reali”, dall’ “animo” (Gemuet), inteso come “sentimento indeterminato” e “sognatore”, che si richiama invece “soltanto ad oggetto immaginari”. La differenza è tra il desiderio attivo e socievole dell’ “amore verso gli altri”, che viene dal cuore, e il desiderio passivo di soddisfare se stessi. “Il cuore si soddisfa soltanto nell’altro, l’animo in se stesso”. Questo ripiegamento in interiore homine è l’essenza del cristianesimo come religione, per cui “l’animo soddisfatto in se stesso è Dio”. 126 Solo il cuore, superando le “differenze religiose”, e quindi lo stesso cristianesimo, può diventare religione universale che “abbraccia tutti gli uomini”, ossia diventare “diritto naturale dell’uomo”, “animo filosofico, razionalistico, aperto al mondo, chiaro” rispetto

123 Ivi, pag. 229.

124 Ibidem.

125 È appena il caso di ricordare che l’ontologia fondamentale di Heidegger, come modo di essere dell’esserci, parte proprio dalla consapevolezza della differenza da ogni ente naturale del Dasein umano, l’unico ente capace di una precomprensione (Vorverstaendnis) dell’Essere. Ved. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it. Roma-Bari, 1989, pagg. 199-211.

126 L. Feuerbach, Loc. cit., pag. 230.

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all’animo inteso come “cuore mistico, oscuro, misantropo” che costituisce la fonte dell’ “arbitrario diritto positivo”.127 Il Medioevo cristiano, afferma Feuerbach, “è gemuethlich, ma è senza cuore”, avendo accanto “l’inferno della fede”, 128 anziché il cuore della ragione. La dimensione etica della filosofia cosmica pagana fu dal Cristianesimo trasferita in Dio, il Quale non si trova nella ragione, ma nell’animo. Mentre “il Dio che è posto dalla ragione è pur sempre un ente razionale, la propria essenza della ragione”, il Dio cristiano è “l’animo”, un cuore deificato che è “un ente assoluto e onnipotente”, sconosciuto alla cultura antica.

Questo è il mistero che era celato ai pagani e ai filosofi, questo è tutto il mistero del cristianesimo, prendendo le mosse dal quale è possibile spiegare senza forzature e con metodo speculativo, in concordanza sia con la filosofia che con l’empiria, tutti i fenomeni della storia del cristianesimo, dall’inizio sino al giorno d’oggi. Da ciò risulta anche che l’aspirazione dei nostri speculanti o, più esattamente, fantasticanti positivi, di derivare da questo Dio gli ordinamenti giuridici, politici e naturali cioè di derivare da lui tutto ciò che è in contraddizione con l’animo, col Dio cristiano, […] deriva dall’ignoranza sia di ciò che è natura, Stato e diritto che di ciò che è cristianesimo, e che è quindi sia irragionevole e non filosofica sia non cristiana.129

La differenza tra “animo” e “cuore” riassume quella tra Cristianesimo e paganesimo, inteso quest’ultimo come lo stesso pensiero filosofico. La degenerazione cristiana derivò dalla negazione della natura determinata dell’Essere, per cui anche la “delimitazione naturale del cuore tornò a porsi in contraddizione con il cuore autentico e universale”, sicché la concezione di un “cuore soprannaturale divenne un cuore innaturale”.130 “Naturale” è dunque ciò che pertiene all’Essere determinato, cioè pensato in termini razionali. E ciò che concerne l’Essere razionale appartiene all’esperienza umana, ossia inerisce l’orizzonte di senso antropologico.

razionalistico ha dunque come sfondo ontologico il

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L’umanesimo
127 Ivi, pag. 231. 128 Ibidem 129 Ivi, pag. 232. 130 Ivi, pag. 233.

naturalismo antico, fuori del quale ogni entificazione teoretica di tipo teologico appare un puro esercizio speculativo che, comunque elaborato, si pone fuori della vera conoscenza, scientifica e antropologica. Il limite teoretico dell’antropologia di Feuerbach consiste, non tanto nella identificazione idealistica dell’astratto ente di ragione con il contenuto oggettivo del pensiero, quanto nella gratuita preferenza metafisica, e quindi gnoseologica, accordata alla realtà dell’ente rispetto a quella dell’Essere, ossia in quello che Heidegger ha indicato come “oblio dell’Essere” (Seinsvergessenheit). La conseguenza principale di tale posizionamento ontico non risiede tanto, come pure considerato da Heidegger, nella conoscenza della realtà dell’uomo falsata da considerazioni superficialmente empiriche, che lo portarono a nutrire severe riserve sulle antropologie vitalistiche alla Plessner,131 quanto nella mistificante proiezione universale che, nella astratta trasfigurazione dialettica dell’Essere, assume l’ente, Dasein compreso, dando origine, in campo religioso, alla proiezione antropomorfa delle divinità, e in campo sociologico alla deificazione della condizione umana. Ciò vuol dire che entrambi questi aspetti sono i risvolti speculari di una stessa impostazione ontologica di tipo idealistico platonico, di cui la metafisica cristiana risente non meno dell’umanesimo filosofico naturalistico condiviso da Feuerbach.

7. Prima di Cristo le storie erano di popoli, di società, di nazioni: storie nazionali, fondate sul Mito naturalistico e guidate da una logica eudemonistica funzionale all’ordine sociale garantito dal potere politico. gli dèi pagani delle storie nazionali erano demiurghi legislatori. Con Cristo, la Storia dell’uomo diventa percorso spirituale di persone individuali, ognuna in comunione mistica con Dio e con gli altri fratelli in Cristo. La Storia umana diventa ecclesia, comunità spirituale, corpo mistico, non più societas naturalistica. La legge della comunità spirituale è la carità, non già la politica. ossia un modo nuovo, spirituale, di relazionarsi agli altri, di convivere tra uomini. Non c’è una processione

131 H. Fahrenbach, Heidegger und dal Problem einer “philosophischen” Anthropologie, Frankfurt a.M., 1970.

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evolutiva da Dio agli uomini, un ordine gerarchico, ma un salto qualitativo, che ha per mediazione lo Spirito, per cui Dio non è un “dator formarum” alla maniera di un modello artistico o ideale, ma “forma essendi”, “l’essere di tutto l’essere, così come l’essere [cioè il concetto] dell’unità costituisce l’essere di ogni numero”, “principio e fine delle universe cose”,132 ma è Spirito, ossia “via, vita, verità” del mondo interiore di ogni uomo intelligente. Di fronte alla Verità non si stabilisce una scelta ontologica, ma si propone una conversione spirituale, cioè una “filiazione” nel Tutto: “thèosis”.

Se la fede in Dio poteva ancora riassumersi nella definizione enigmatica di “colui che è” (l’”Ego sum qui sum” dell’Esodo), essendo la religione del Vecchio Testamento una fede nazionalista ria, fondatrice del popolo ebraico, colla predicazione di Cristo il fondamento misterioso di Dio si rivela come la Verità stessa delll’uomo che crede in Lui, del cristiano. Per cui il Dio di Gesù non è “l’essere stesso, cui aspirano tutte le cose”,133 ma è lo Spirito che si fa carne, realizzando in Cristo la totalità spirituale prima ignota agli uomini. Il Cristianesimo, da “religione”, ovvero Mito nazionale fondativo di socialità, si trasforma in proposta di Verità, in Mistero sacro votato all’amore universale di ogni uomo che sappia intuire la Sapienza unica e totale. L’atto di conversione spirituale è insieme di tra svalutazione del senso dell’esistenza terrena, basata sul rapporto tra “cose”, tra enti materiali in combinazione conflittuale. Solo gli enti spiritualizzati possono convivere in modo altrimenti armonioso, fondando una comunità mistica che scongiuri la forma d’ordine politica. Ma ciò comporta un pensiero di Dio non idealizzato con le categorie razionalistiche, come invece fa Cusano, il quale interpreta il “Sum qui sum” come “tutto ciò che è, in quanto esiste, è nell’essere che è Dio, e del resto Dio, che è l’essere stesso, è in tutto ciò che è, in quanto ciò stesso esiste”.134 Dio, infatti, non vive l’esistenza universale quale materia formata, o forma ideale, ma vive come Spirito incarnato in un’esistenza d’amore che si propone alla conversione degli uomini come modello

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132 N. Cusano, Ubi estqui natus est rex Judaeorum?, Loc. cit., pag. 83. 133 Ibidem. 134 Ibidem.

universale. L’antropologia cristiana solleva l’uomo spirituale dalla condizione creaturale naturale originaria, facendo di lui un elemento mistico della totalità che è Spirito, e non Potere: comunità mistica, non sociale.

E solo in questa comunità mistica il collante caritativo ha senso unitivo, mentre nell’ambito della socialità politica l’amore è sentimento eversivo e resistenziale, incongruo alla logica dell’ordine potestativo eticamente fondato. Il motivo del “cuore” spinge all’unità attraverso il movimento verso l’altro, e non contro l’altro, ponendo il “Tu” a fondamento del rapporto unitivo, e non l’ “Io” assimilatore. Il “Tu” converte, mentre l’ “Io” assimila. La dia-logica non è la stessa se pone a fondamento del rapporto dialettico il Tu anziché l’Io.

Se l’origine del rapporto è l’Io, l’altro diventa il negativo opposto, anche in quanto emanazione derivata, che, proprio perché pro dotta dall’Io, questi la può reclamare come sua. In tal senso, l’alienazione dell’altro da sé è una possibilità non necessaria, ma legata a un atto gratuito di graziosa estraneazione della fonte emanatrice, che si auto oppone a se stessa. Se, invece, l’origine del rapporto è il Tu, il rapporto che si stabilisce con l’altro da sé è un con fronto, non uno scontro, risolutivo ma non dissolutivo, per cui l’esito sin tetico è un tertium autonomo derivato da entrambe le fonti tetiche.

La condizione di auto-nomia dell’esito sintetico implica che ogni propensione verso una delle due tesi originarie del rapporto, derivata dalla sua relativa accentuazione ermeneutica, sia una scelta non vincolata dall’unidirezionalità della filiazione genetica, ma ottativa, e quindi liberamente con seguita dalla genesi bipolare.

Rispetto ai precetti etici dei Comandamenti vetero testamentali, l’unità spirituale cristiana rappresenta un salto morale incommensurabile nel Regno della carità fraterna; di una fraternità spogliata di ogni connotato naturalistico e costituita dall’amore in Cristo. Rispetto all’etica eudemonistica e a ogni logica utilitaristica, il fondamento di fede cristiano si costituisce come l’ altro modo della convivenza umana, l’ ordo amoris di un mondo parallelo a quello terreno informato alla logica di Cesare.

Ma e la questione è decisiva per comprendere l’involuzione idealistica dello spiritualismo cristiano l’idea di una filiazione unigenita del Cristo dal solo Dio, esautorando dalla sacralità della sua figura composita

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l’elemento umanistico della genesi carnale, dispone l’alterità del rapporto col mondo terreno in termini di una sequenza temporale, la quale, volendo eliminare dal rapporto mondano ogni notazione polemica, lo rappresenta come il tempo pre-istorico rispetto a quello irenico della conversione spirituale, ossia il “prima” della comunione con l’Eterno. Un “prima” che è ideale, e non cronologico, e che si ripete a ogni travaglio di conversione, se riferito alla dimensione della coscienza personale, la quale “dopo” la conversione non è più la stessa perché trasfigurata dalla Verità dello Spirito. Ma che diventa temporalità cronologica se la conversione è riferita all’esperienza collettiva dei gruppi umani costituiti in società politiche, i quali non possono trasfigurarsi senza mutare il loro status societatis La conversione collettiva non è più metanoia personale localizzata in interiore homine, ma rivoluzione dei rapporti sociali di significato precipuamente politico. Nella dimensione collettiva, infatti, noi non ci troviamo di fronte a un travaglio interiore che lascia impregiudicati i rapporti sociali costituiti, ma a una condizione esistenziale informata a criteri di socialità politica che si rapportano alla logica della carità come l’orizzonte di senso mitico rispetto al livello di coscienza filosofica, cioè come un non senso, una antitesi con cui fare i conti. Gesù nasce da ventre materno in un mondo già costituito, rispetto al quale Egli non è l’inizio, ma la fine. La frattura cristologica inizia il tempo cristiano, definendo il tempo pagano, solo a condizione che la prospettiva antropologica si converta alla visuale spiritualistica, fuori della quale l’inizio della fede si presenta come un evento puramente di fede, circoscritto all’ambito privato della coscienza personale. Coscienza privata che si rapporta al contesto pubblico mondano in termini politicamente conflittuali, e non meramente simbolici, come attesta il tradimento di Giuda e quello di Pietro, e la stessa passione di Gesù, l’ altro per antonomasia che viene chiamato al sacrificio dell’omologazione politica. Nella prospettiva collettiva, hegelianamente, il quantitativo diventa qualitativo, nel senso che il rapporto logico tra i termini dialettici conserva il suo originario fondamento ontologico se l’opposizione viene circoscritta a un comune orizzonte di senso, che è quello simbolico del Mito, ma se l’opposizione dialettica viene universalizzata in senso esclusivo, essa viene a perdere il suo originario valore simbolico per

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acquisirne uno ontologico e diairetico. In altri termini, la conversione spirituale ha valore di risorgimento figurato dalla morte carnale, di trascendimento della finitezza esistenziale, se, come afferma Cusano, “tra l’essere eterno e l’essere temporale non cade o si interpone intervallo”,135 ossia se no c’è evoluzione né continuità tra il “prima” dell’avvento e il “dopo”, tale da costituire in Gesù la Mediazione ontologica tra il Tutto e il Niente. Ma poiché la realtà del Tutto è nella dimensione escatologica un processo in divenire, l’intervallo tra l’avvento e la fine dei tempi è la Storia stessa della salvezza, che si svolge nel tempo, ossia nel regno che è Niente rispetto al Tutto avvenire, ma che pure “è”, e va assunto nella sua negativa costituzione d’essere contraddittoria rispetto alla Verità, eterna ma non attuale, e perciò “possibile”. Solo all’interno della possibilità dell’Essere è concepibile e vivibile il rapporto conflittuale tra Dio e Cesare come lo svolgimento della Storia di questo rapporto. Con Cristo il “sempre” entra nell’ “ora” come vera eternità: kairòs. Con l’intesa che “sempre non è la stessa cosa che eterno”, ma significa “in ogni tempo”.136 Sempre indica la perennità della possibilità dell’eterno nel tempo come evento di conversione. Scrive Cusano che è “falso” supporre che

Tra la grandezza “senza fine” di Dio e la grandezza infinita del mondo possa venirne data un’altra intermedia, [così come è] falsa l’immaginazione secondo la quale si può immaginare che prima di “sempre” ci sia un tempo e prima del tempo il movimento, il quale non può avvenire che nel tempo.

Ma la mediazione è esclusa perché l’infinitezza di Dio è concepita come un’Idea, mentr’essa è una condizione ontologica, che non ha “passaggio” nella condizione finita del mondo, cioè nel tempo, se non attraverso la mediazione dello Spirito, l’incarnazione del Verbo. Sempre e tempo fanno parte della stessa dimensione finita; l’uno come dilatazione ideale dell’altro. Ma tempo ed eternità sono dimensioni che non s’incontrano

Ivi, pag. 87.

Ibidem.

Ivi, pag. 88.

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che nella Verità dello Spirito che abita in interiore homine. Così Dio è nel tempo attraverso Cristo, e ogni volta che l’uomo si converte alla Sua verità. Nondimeno, Cristo è nell’umanità attraverso la mediazione della Vergine, che custodisce il frutto divino dell’incarnazione come l’attesa della Verità custodisce l’evento salvifico. Ciò vuol dire che l’irruzione dell’eterno nel tempo ha lo stesso valore determinante del lògos nell’orizzonte simbolico del Mito: entrambi temporalizzano l’Essere distinguendolo dall’intemporale. Nel tempo si consuma l’esperienza del lògos, così come il divino intercede nella causalità naturale attraverso il fine morale, la coscienza del quale svela il senso dell’Essere, trasfigurando l’enigma dell’eterno ritorno della vita in se stessa in verità spirituale, che appartiene all’eterno, e non al ciclo naturalistico. Dio è nel tempo per intercessione del Cristo, lo è ogni volta che l’uomo converte la sua esistenza naturale nel senso della verità spirituale.

La “partecipatio”, che i neo platonici come Porfirio (Isagoge) hanno tramandato attraverso il commento di Boezio alla cultura cristiana, e Tommaso ha rivisitato in senso aristotelico, non consiste nella metexis (o metousìa o metoché) platonica, ossia nella corrispondenza del senso logico formale al senso metafisico reale, ma include l’idea della conversione (methànoia), la quale è la conoscenza intuitiva di Dio ottenuta per grazia. Essa non è, come invece ritiene Cusano, la conformità dell’essere empirico “all’essere naturale al quale si aggiunge e sovrappone come un abito, allo stesso modo in cui l’arte imita, per quanto può, la natura”;138 ma è l’atto di trascendimento del Finito, il quale non viene tras “formato” ad “arte”, cioè secondo un criterio tecnico di adeguazione al modello ideale, ma viene trasvalutato in realtà spirituale, ossia consegnato a un altro ordine di valore, costitutivo di un nuovo orizzonte di senso. Tale “passaggio” metafisico da una ad altra natura, non equivale dunque a una trasformazione tecnica dell’ente in prodotto artificiale, in altro ente; e neppure a una sistemazione metodica entro un ordine razionale significante. La “conversione” consiste nella comunione spirituale con

138 Ivi, pag. 89.

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l’Infinito, che non è, come per ogni religione mitica, una idealizzazione sacrale del profano, cioè appunto un “passaggio” rituale, ma una “thèosis”, cioè la tra svalutazione del Finito naturale nell’Infinito spirituale. “La dottrina di Cristo è spirituale, verità che il mondo non coglie”.139 “Spirituale”, ossia non inerente a logiche mondane, ma afferente a una dimensione interiore, non sociale e materiale. Il “mondo, ossia il cosmo strutturato secondo la logica di Cesare, “non coglie” il valore della predicazione spirituale, perché sprovvisto di adeguato pensiero, essendo questo coltivato per le sole cose del mondo. Ora si comprende perché Gesù prediliga i poveri, gli emarginati, gli esclusi: perché costoro sono i meno esposti alle lusinghe dell’esercizio e dei vantaggi del potere mondano, che essi non possiedono. Essi sono più “puri” di chi si sia coltivato nell’esercizio del potere quale logica di dominio sociale e metodo di governo politico. La “logica” che presiede al “dominio” del mondo, ossia al controllo metodico della sua fenomenologia ai fini del servizio all’umanità, ha un nome universale, che compendia ogni suo processo storico: razionalizzazione. Chi vive fuori, o ai margini, del sistema del “mondo” cioè della realtà razionalizzata a scopo di controllo efficace della natura e della società è più facilmente interessato a un ordine valoriale diverso. Chi invece è più integrato nel sistema-mondo, è più indotto a difenderlo, resistendo culturalmente e utilitariamente a ogni ipotesi di cambiamento che ne comprometta lo status acquisito. Ciò, non dimeno, non significa che Gesù predichi ai poveri e ai reietti in quanto tali, ossia che la sua dottrina sia caratterizzata sociologicamente in funzione della presa di coscienza degli umili e degli emarginati, quasi che la sua sia un’etica sovversiva e un ideale rivoluzionario: insomma una “teologia della liberazione”. Infatti, quando gli umili tornano occasionalmente a far parte dell’organismo socio politico del mondo profano, costituendosi da singoli soggetti a “popolo”, a entità collettiva politicamente organizzata,, essi mostrano di ubbidire alla stessa logica sopraffattrice dei potenti che li guidano, come ebbe a dimostrarsi in 139 N. Cusano, Loquimini ad petram coram eis, et dabit vobis aquas , in Il Dio nascosto, cit., pag. 94.

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occasione dell’appello di Pilato alla decisione fatale. Il popolo, il soggetto collettivo, preferì Barabba a Gesù, rispondendo all’appello dei farisei integrati nel sistema di potere sociale e politico garantito da Roma, e non all’appello della grazia divina, di natura spirituale. Questa sola considerazione basterebbe a confutare ogni teoretica identità di essere e conoscere, mettendo in evidenza come la conoscenza inerisca la sola dimensione del presente, cioè della realtà contingente, e non dell’Essere nella sua totale possibilità. L’ignoranza della realtà di Dio influisce sul giudizio presente, come motivo volitivo contingente, ma non sull’essenza eterna di Dio, il cui Essere è inscritto nella dimensione della possibilità, inclusiva del passato e del futuro esclusi dalla temporalità presente, come già noto ad Agostino.140 La logica del sistema socio politico è coercitiva, spiritualmente opprimente, proprio perché schiacciata sul solo presente, sulla dimensione della causale realtà naturale, e non può perciò essere utilizzata per la liberazione dell’uomo spirituale. Lo strumento oppressivo, concepito per servire la sua razionale funzione d’ordine sociale, non può volgersi in senso spiritualmente liberatorio, come “istituzioni della libertà”. Poiché la libertà spirituale non appartiene al mondo sociale, della finitezza, e non può essere interpretata in senso politico come ideologia liberale o anarchica. Il mondo sociale è quello della realtà politica, mentre la dimensione spirituale è altro rispetto all’uni-verso scio-politico, in quanto afferisce alla dimensione interiore, del “cuore” (Pascal), alla coscienza, cioè, legata alla regola della carità, che è libertà dalla necessità, e non già alla potenza, legata alla regola del controllo sociale, legato alla necessità di confermare l’ordine costituito attraverso la previsione e regolamentazione dei comportamenti umani. La dimensione della carità non riguarda l’ordine socio politico, il sistema di Cesare, che vede in Gesù un portatore di disordine sociale; riguarda di contro l’ordine morale del foro interiore di ogni uomo, in universale, e non solo degli uomini socialmente costituiti in contingente ordinamento politico. il centro d’attenzione si sposta dal foro esterno, o della necessità sociale, al foro interno, o della libertà spirituale. E’ chiaro quindi che la

140 Agostino,

,

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Confessiones
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dottrina di Gesù non è una religione in senso tradizionale, come lo era ancora l’ebraismo; non è un fondamento mitico utile a fondare società e civiltà, a legittimare il potere con cui esse sono rette e governate, ma è la verità stessa e la via spirituale per raggiungerla, ossia è un percorso coscienziale, o una via di verità. e poiché la verità è Una e il suo contenuto Tutto, non si può pervenire ad essa con la ragione, ossia con la tecnica distinguente della logica formale, ma per via intuitiva, potendo solo l’intuizione, ossia la conoscenza della realtà di Dio, coglierla nella sua unicità e totalità eterna. L’intuizione, la “ragione del cuore”, costituisce il modo della conoscenza della “coscienza”, intesa nel senso spirituale di “luogo della verità”. La coscienza spirituale in senso cristiano è l’unità spirituale di cui è costituito ogni uomo di fede, che ha conosciuto Dio, per cui fede e coscienza spirituale sono lo stesso stato di grazia. La coscienza spirituale si pone come l’altro modo, unitario, della conoscenza rispetto a quello della coscienza razionale, che conosce per distinzioni. Il modo intuitivo e interiore, contrapposto a quello esteriore e causale. Il modo soggettivo della “libertà”, fondato sulla scelta della conversione, rispetto al modo oggettivo della necessità. Il modo proprio della realtà invisibile, e perciò soltanto intuibile, impostato sul principio della carità, contro il modo proprio della realtà visibile dei rapporti socio-politici, impostato sul principio della forza.141 Lo Spirito contro il Potere.142 Dio e Cesare. Conversione contro costrizione. Rispetto all’ordo amoris della comunità di fede, spirituale e mistica, ogni ordinamento sociale giuridicamente stabilito, interessa la gestione della

141 Il principio della forza, o della necessità, è sempre divisivo, anche quando si vuole utilizzarlo come legame sociale, alla maniera di Hobbes, in quanto l’unità sociale ottenuta mercé la forza costituisce comunque una unità “politica”, contra inimicos, interni o esterni allo Stato.

142 Il concetto storicistico di Spirito (Geist), alla maniera idealistica di Hegel e di Dilthey, ha circoscritto alla realtà puramente umana le attività della coscienza, ma la sua riduzione razionalistica ha occultato il senso mistico di totalità, che in Hegel si coglie alla fine del processo fenomenologico della coscienza e in Dilthey nella riesumazione storiografica del vissuto.

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carne, ossia l’amministrazione del corpo. L’unità politica è una “società di corpi”, una amministrazione della carne. Sia la pòlis aristotelica che lo Stato hobbesiano sono espressioni ideali dell’ordo corporis. Non a caso il prosieguo della riduzione razionalistica della socialità a ordine puramente formale tende progressivamente al prevalere di una logica puramente economica della convivenza.143 Gesù chiede alla Samaritana da bere144 “affinché possa, a sua volta, farlle dono dell’acqua della vita”. Infatti “i poveri e i bisognosi sono sempre con noi, affinché possiamo trasformare il temporale nell’eterno. I poveri, ossia coloro che non conoscono “il dono di Dio”145 ci sono necessari per la vita eterna, come noi siamo loro indispensabili per questa vita temporale”.146 Il bisogno dell’ “acqua della vita”, cioè del nutrimento spirituale,, è propiziato da chi ne è portatore, custode dei valori spirituali, e non è spontaneo come un bisogno fisiologico: di bere acqua naturale. ciò vuol dire che i dispensatori dell’acqua spirituale sono eletti tra i molti che ne abbisognano inconsapevolmente. La presenza dei molti inconsapevoli è legata alla missione evangelizzatrice degli eletti, i quali a loro volta sono a essi “indispensabili” come guide nella “vita temporale”. In altri termini, la carità cristiana si manifesta nell’offerta di conversione spirituale dei “poveri e bisognosi” che si limitano a soddisfare i loro soli bisogni naturali. Senza i poveri di spirito, l’apostolato non potrebbe aver luogo, e con esso la manifestazione dello stato di grazia degli eletti. I poveri sono in funzione della prova di grazia degli eletti, che sono i “ricchi” nel regno dello Spirito. Ma la funzione dei “ricchi” non è di guidare i poveri lungo la via del mondo, prendendo il posto dei

143 Rispetto alla dottrina cristiana dell’amore spirituale, e alla scienza politica pagana, la struttura teologico politica della Chiesa come potere teocratico controllore d’anime, è un ibrido di pietà sacramentale e di cinismo machiavellico da cui è nato il mostro bicefalo dello Stato moderno, che invoca i princìpi morali per legittimare la forza autonoma della politica.

144 Giov. 4, 7 sgg.

145 Giov. 4, 10.

146 N. Cusano, Loquimini ad petram coram eis, et dabit vobis aquas , in Il Dio nascosto, cit., pagg. 97 98.

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demiurghi, dei duci e dei legislatori, ma di convertirli alla vera vita. Una interpretazione letterale del testo potrebbe indurci a credere che la funzione pastorale inerisca alla vita terrena , per cui gli illuminati sarebbero le migliori guide nella realtà di questo mondo. Ma una “lectio depressiva” del testo induce a ritenere più coerentemente e fondatamente che il rapporto tra poveri e illuminati sia inquadrabile nel contesto della conversione ai valori spirituali , e non ai fini della guida politica delle masse da parte di ristrette élites iniziatiche.147 Due, pertanto, sono gli aspetti rilevanti del passo cusaniano riportato. Il primo, inerente alla differenza tra chi è privo di illuminazione spirituale, e chi ne è invece portatore. Questa differenza ripete, sul piano spiritualistico, la dicotomia sociologica tra élite dirigente e moltitudine diretta, sancendone la sua ineliminabilità antropologica. La distinzione tra i due contesti, spirituale e politico, riguarda i fini delle rispettive funzioni elitarie. Se, infatti, scopo del controllo politico delle forze sociali è quello di definire l’ordine stabilito e di confermarlo potestativamente attraverso l’uso legittimo della forza monopolizzata dalla élite, il fine della guida spirituale è di affrancare la coscienza dai bisogni materiali, cioè di rendere liberi gli uomini dalla loro condizione finita, anziché tenerli soggiogati ad essi, da quelli alimentari alla difesa dai nemici, giustificativi dell’ordine politico.

L’errore di confondere la guida spirituale da quella politica è stato foriero di gravissime incomprensioni, anzitutto teologiche, e conseguentemente politiche, all’origine di lunghe e spesso sanguinose diatribe circa l’assegnazione del primato sociale ad una ovvero altra guida. L’origine di tale errata confusione è l’assunzione della mito logia greca in ambito spiritualistico cristiano, la cui critica razionalistica, da un lato, quello cattolico, e fideistica, dall’altro, quello protestante, ha fatto implodere il sistema sincretistico elaborato dalla cosmologia scolastica. E’ chiaro che l’autorità spirituale, a differenza di quella politica, deve potersi fondare sulla sola grazia, che si manifesta come carisma del pastore illuminato

147 A questo proposito rimane magistrale la lezione agostiniana delle Confessioni, dove sulle tesi manichee e i pregiudizi dell’esperienza mondana prevale la mite saggezza della madre pia e l’esempio discreto della santità.

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dalla conoscenza di Dio.148

La debolezza del carisma a confronto del rapporto istituzionale è nell’ordine politico inversamente proporzionale alla sua potenza nell’ordine spirituale. Ed è questo il valore simbolico del tradimento di Pietro e il senso spirituale della predizione che la verità renderà liberi gli uomini. La libertà è solo nella fede, e finisce con essa, perché essa è redenzione dalla forza del Potere, così come lo era e lo sarebbe stato nella fede in Gesù, Verbo incarnato. “Staccarsi da Cristo, anche se solo per comprare ciò che necessita alla vita terrena, equivale ad allontanarsi da lui”.149 Ogni cedimento alle ragioni del corpo fisico soggettive o economico-sociali è uno sbilanciamento a favore del mondo. Ciò vuol dire che la coesistenza di carne e spirito è una lotta interiore tra le ragioni naturali, ossia la necessità del corpo, e le ragioni morali, ossia la libertà della coscienza. Un conflitto non redimibile eticamente, secondo un catalogo normativo prescritto religiosamente o politicamente, poiché i due termini del conflitto non si pongono allo stesso piano ontologico. Le ragioni della realtà finita sono anch’esse finite, ossia rivedibili e perfettibili alla luce di più adeguate considerazioni razionali e di opportunità. Viceversa, le ragioni della realtà in finita sono ragioni eterne perché interessano questioni di verità, non di opportunità o ipotetiche. In questo senso S. Agostino, nel caso di conflitto di interpretazione, invita ad affidarsi alle ragioni dell’amore, ossia di trascendere le opzioni logiche a favore di considerazioni di ordine simbolico, legate a una accezione di senso inclusivo, in cui le “opinioni son tutte vere”, perché, entro l’orizzonte di senso caritativo, esse sono ugualmente “splendenti di verità e ricche di utilità”.150 La verità, Una e Tutta, non è perfettibile, e perciò sacra e inviolabile, come la coscienza, che è inattingibile dalla violenza del Potere. Il senso morale non può scendere a compromessi ermeneutici, risolversi in una interpretazione opportunistica, come la decisione politica, ma costituisce il limite invalicabile del senso simbolico, oltre il quale l’opportunità politica si tramuta in negazione di senso, in

148 La grazia spirituale è “il dono di Dio”, cioè Gesù stesso, lo Spirito incarnato.

149 N. Cusano, Loc. cit., pag. 98.

150 Agostino, Confessiones 12, XXX.

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contraddizione logica e inefficacia pratica. Pertanto, l’affrancamento razionalistico della logica politica dalle ragioni morali costituisce una deriva verso l’irrazionalismo della volontà priva di confini di senso. Tra morale e politica non c’è mediazione, ma solo scelta. Ed è questa scelta a costituire la responsabilità della libertà umana, l’autentica scelta ontologica tra le ragioni del Mito, fideistiche e opinabili, e le ragioni della verità, immutabili e non contingenti, legate cioè alla volontà interpretativa dell’uomo storico. Un Mito può essere confermato attraverso il controllo della voluntas interpretandi per mezzo delle istituzioni storiche che lo perpetuano accreditandolo tradizionalmente. La verità si può solo intuire, nella intima coscienza del foro interiore, e provocare una conversione del cuore e della mente dal piano dei valori finiti a quello dei valori morali. La “vera”scelta non è perciò tra Mito e Ragione, i quali sono diversi livelli di coscienza interni a uno stesso orizzonte di senso simbolico; la vera scelta ontologica è tra Religione finita e Verità eterna, ossia tra credenza e sapienza, tra necessità e “salvezza”.

Nelle cose visibili non è da riporsi alcuna speranza di salvezza; esse, proprio perché sono temporali, non possono assicurare felicità immortale. [Infatti,] ciò che è temporale vien conseguito solo in parte e mai può essere posseduto per intero, giacché è nel flusso [del divenire] […]. Le cose invisibili, invece, sono indivisibili e non si posseggono che interamente e perfettamente.151

La “parte” di verità, non è parte del Tutto, altrimenti sarebbe anch’essa verità. L’unica verità è l’intera, che la conoscenza finita, cioè la scienza, non può conseguire. Solo la sapienza delle cose infinite e perciò “invisibili” può intuire la verità nella sua inconsutile realtà unitaria ed eterna. A questo punto Cusano introduce una similitudine tratta dal Vangelo di Giovanni. “La giustizia egli afferma è di fatti per intero presso ogni giusto e non già divisa fra i giusti”, riprendendo il passo giovanneo in una chiave letterale. La “giustizia” di cui parla Giovanni non è una Idea, così come il “giusto” non è chi se ne fa interprete, Pietro o Paolo che sia l’interprete, ma “l’unica giustizia che è Cristo”, ossia la Verità stessa, che non si può possedere, ma alla quale si può solo aderire

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151 N. Cusano, Loc. cit., pagg. 100 101.

per partecipazione. In tal senso, la “giustizia” è nel “giusto”, ossia in ognuno che ne partecipi intuitivamente nel foro interiore, il cui legislatore è la coscienza personale. Tante coscienze, altrettante giustizie. Ma tante giustizie personali sono sempre l’unica giustizia spiritualmente possibile, cioè intuibile nella sua unità. Da qui il monito evangelico a “non giudicare”, che sarebbe incompatibile con l’attività propria della ragione, che proprio sul giudizio basa la giustizia terrena, ossia la esclusiva logica politica. Ancora una volta è la libertà di coscienza a stabilire la giustizia, e non una controversia dialettica o una norma imperativa. Ogni conformità etico normativa diventa, nella dimensione caritativa, adesione spirituale, riconoscimento personale della Verità, che, essendo totale, è anche “giusta”.

La questione tra le due realtà ontologiche riguarda la differenza tra azione umana nel mondo della finitezza, tesa a confermare o a mutare le condizioni esistenti, in cui l’uomo è agente causale, cioè produttivo di effetti materiali ma significativi secondo cifre semantiche trascendenti la finitezza.152

Una azione produce effetti oggettivi; un atteggiamento significa, e quindi testimonia, valori morali. Il senso di un’azione è il suo effetto reale, che è oggettivo perché interviene sulla realtà materiale, e giudicato secondo convenzioni sociali. Il significato di un’azione non risiede, invece, sugli effetti prodotti, ma nel valori simbolico di cui essa è espressione reale. Tale valore non è nell’azione in sé, quale causa efficiente di effetti reali, ma nell’intenzione che l’ispira e di cui l’azione è l’espressione sensibile. L’atteggiamento è il rapporto simbolico tra l’intenzione che ispira l’azione e l’azione stessa quale espressione dell’intenzione. Se consideriamo la sola azione, senza l’intenzione ispiratrice, noi valutiamo il senso pratico di una volizione, ma non il suo significato morale. Se, viceversa, ci soffermiamo solo sull’intenzione, senza considerare il senso reale dell’azione, cioè le sue implicanze sociali, noi valutiamo il solo proponimento morale, astratto dalla sua produzione storica. Solo

152 Quando “le azioni si riconoscono mediante l’essere, gli effetti mediante la causa, allora [colui che conosce] non ha bisogno della testimonianza d’altri, ma ha già in se stesso la testimonianza”: Giovanni, cit. in N. Cusano, Loc. cit., pag. 114.

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l’atteggiamento è concreto, perché di un comportamento umano considera l’intenzione soggettiva e l’effetto reale, insieme, cioè, nella loro reciproca relazione di senso. Che poi è il rapporto tra la personale soggettività morale e l’oggettivo comportamento sociale.

Riguardo al “senso”, la volizione umana produce significati socializzati, che esulano dalle singole e soggettive intenzioni, i cui effetti sono interpretati secondo un codice stabilito di comportamenti ammessi o vietati. In tal caso, i significati sono “oggettivi”, in quanto valutati per gli effetti prodotti nel contesto sociale, a prescindere dalla personalità dell’attore e del suo universo valoriale. Il consorzio sociale avoca a sé il monopolio ermeneutico della coscienza umana e lo trasferisce alla coscienza collettiva, rappresentata da organi preposti a tale funzione giudicante o esercizio autoritativo. Le azioni sociali vengono giudicate per i loro effetti prossimi e causali. Diversamente dai comportamenti morali, in esse non c’è “storia”, sviluppo significativo, ma solo fatticità, astratta realtà fenomenica; astratta appunto dal suo senso moralmente significativo, legato alla possibilità, e non già alla sua attualità. Riguardo alla “intenzione”, la volizione umana resta soggettivamente imperscrutabile, essendo oggettivabili le sole manifestazioni sensibili, socialmente rilevanti, legati quindi al senso contingente. Questa facoltà rappresenta il risvolto problematico della libertà umana, costituito dalla possibilità di mentire, cioè di offrire consapevolmente alla comprensione oggettiva con la volizione un’intenzione non veritiera. Non a caso, la valutazione oggettiva delle azioni umane, per sfuggire alla possibilità della menzogna o falsa rappresentazione dell’intenzione, si basa sui soli riscontri effettuali, così che la relazione socialmente rilevante ai fini dell’interpretazione significativa di senso è quella che stabilisce nessi causali tra azioni ed eventi prodotti. Il limite insuperabile di ogni valutazione del genere è che il giudizio sociale, senza l’argine dei valori morali, sia ritenuto del tutto convenzionale, per cui sia variabile a piacimento dei detentori del Potere sociale pro tempore. Anche le norme di un canone deontologico di tipo religioso possono essere riviste e adattate, ossia variare per tempo, luogo e situazione storico sociale, poiché la loro stabilità ideale è pur sempre relativa alla rappresentazione simbolica della realtà in divenire, che mutando rende la fede mitica un racconto fantasioso privo dell’antica credibile fede.

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È destino di ogni legislazione astratta trovare il suo limite nel suo proponimento di stabilizzare il divenire in una forma determinata come ideale. ma diverso è il caso del significato morale di un atteggiamento soggettivo, pure produttivo di effetti sociali oggettivi. La morale, infatti, proprio perché riguarda il rapporto spirituale tra la coscienza personale e la fede nel valore trascendente, non può essere canonizzata, in quanto l’atto morale ha sempre un valore soggettivo e unico anche per l’interprete, non potendo prescindere dall’intenzione dell’attore quale si manifesta effettualmente in conseguenza degli esiti prodotti non causalmente. In tal caso, gli esiti non sono “effetti” oggettivi, ma significati anch’essi soggettivi, perché relativi alla coscienza dell’interprete, per definizione soggettiva. Il tentativo del soggettivismo razionalistico di attribuire alle azioni umane un valore moralmente significativo, prescindente dal contesto di senso sociale condiviso, è destinato a fallire per la sua indebita trasposizione del piano valoriale a quello effettuale. Il senso morale delle azioni ha un significato socialmente rilevante solo se e in quanto i valori morali costituiscono valori anche sociali. La rilevanza sociale della scelta soggettiva di libertà, senza il previo riconoscimento sociale del valore morale che sostiene quella libertà, costituisce una eccezione entro il sistema ordinamentale legalmente prescritto come necessario alla salvaguardia dell’unità politico-sociale. I “diritti” soggettivi, legalmente riconosciuti dagli ordinamenti giuridici, non sono che limitazioni volontarie del Potere costituito, le quali possono venir meno a seconda della necessità sociale. Viceversa, la libertà morale, essendo un valore indipendente dalle ragioni della necessità, non può essere riconosciuta che nella sua assolutezza, svincolata da ogni ragionevolezza politica, essendo la riconosciuta dimensione morale la ragione stessa delle azioni politiche. Pertanto, l’azione morale non può essere valutata oggettivamente secondo criteri di rilevanza sociale stabiliti a priori e analogicamente per ogni fattispecie consimile; l’azione morale persegue solo esiti morali, riservati alle singole coscienze, atte a interpretarla secondo il suo fine intrinseco, appunto morale.

L’azione morale, non interpretata nel suo significato simbolico trascendente la sua fatticità, non produce alcun effetto di sorta, e si manifesta solo come attività volitiva giudicabile secondo i suoi effetti

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socialmente rilevanti (o irrilevanti. Perciò un’azione di significato morale abbisogna, perché sia tale, di una comunione d’intenti di natura anch’essa morale, la cui sussistenza è presupposto indispensabile del suo stesso valore spirituale. In altri termini, così come un gesto di amore presuppone l’amore, l’azione morale presuppone la fede nella Verità, ossia la comunione con Dio. Diverso il caso del comportamento conforme, civile o religioso che sia. Qui ciò che conta è l’ossequio formale al canone, a prescindere da ogni atteggiamento soggettivo di coscienza, poiché il significato dell’azione è dato dal suo valore sociale. A sua volta, la condizione di valore dell’azione sociale è l’ortoprassi, essendo irrilevante socialmente l’intenzione dell’attore. Da qui l’idea del sociologismo amorale che l’intenzione dell’attore sia irrilevante ai fini del bene comune, così che l’avidità del droghiere e l’ambizione del politico siano compatibili con la giusta causa comune del loro servizio privato e pubblico.

8. Non si comprenderà mai la portata spirituale del Cristianesimo evangelico se non si sarà colto il presupposto antropologico della sua dottrina morale, che postula l’irriducibilità dell’essere spirituale alla dimensione sociale, che costituisce invece l’orizzonte di senso del naturalismo antico e moderno. L’alterità della dimensione morale rispetto a quella socio politica non è dialettizzabile nel senso della decisione di governo, che accoglie o respinge l’istanza politica sul presupposto della sua compatibilità sistemica, giudicata sul presupposto di una valutazione di opportunità o di un giudizio logico. La valutazione morale, infatti, di un’azione è riferibile al livello di coscienza dell’attore, ossia a quella sfera soggettiva che non è omologabile dalla considerazione socio politica, in quanto “spirituale”. Spirituale è la sfera di colui che si è “rinnovato nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di lui che l’ha creato” , 153 per cui “gli uomini spirituali, sia quelli che governano sia quelli che obbediscono, giudicano secondo lo spirito”, ossia entro quell’orizzonte di senso morale dove chi giudica “ha anche la possibilità

153 Paolo, Col, 3, 10; Rm, 12, 2; Agostino, Confessiones, 13, XXII.

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di correggere”.154

Il rapporto morale interagisce tra soggetti morali, i quali si sono emancipati dalla loro originaria condizione “carnale”, che è di “cecità”, in quanto “non riesce a vedere i pensieri”.155 Diversamente dalla condizione socio politica, che astrae dalle intenzioni degli attori, la condizione morale consiste nel suo consapevole presupposto di realtà, e quindi è rapporto libero, rispetto a quello costrittivo di tipo politico. E’ la libertà dell’amore, come vincolo spontaneo tra persone che si riconoscono con partecipi dello stesso senso unitivo. E in questa unità comunitaria si realizza l’alterità dell’ordo amoris rispetto all’astratto legame socio politico, fondato sulla relazione formale tra corpi. Tra i due tipi di socialità non esiste mediazione dialettica, poiché sono espressivi di due realtà ontologicamente diverse. Come afferma S. Paolo, “coloro che si lasciano guidare dai sensi non comprendono le cose dello spirito e le giudicano piuttosto follia”.156 Permanendo entro la realtà naturale, l’uomo conosce la sola esperienza sensibile, attraverso la quale verifica le sue ipotesi di scienza. Tutta la conoscenza che trascende questa realtà sensibile e “carnale”, trascende lo stesso principio ontologico costitutivo di essa, e quindi fuori esce dalla stessa realtà, ossia accede alla “follia” dell’invisibile e del non empiricamente verificabile, cioè alla dimensione veritativa della fede. I, essa, il “principio” che stabilisce ogni mediazione tra le due differenti realtà ontologiche è Cristo. La fede in Cristo è il modo stesso della partecipazione alla verità di Dio, e quindi all’orizzonte di senso della dimensione morale. Del Dio sconosciuto, invisibile e ignoto, il credente “adorava” i soli segni visibili e conoscibili: gli idola tribus, interpretati dogmaticamente dai sacerdoti del tempio. La correzione cristiana di tale superstizioso fideismo è radicale. E infatti Giovanni parla di “veri adoratori”, i quali “adoreranno il Padre in spirito e verità”.157 Senza la Verità, l’adorazione è idolatria, religiosa e canonica, cioè formula farisaica, non spiritualmente

154 Agostino, Confessiones, 13, XXIII.

155 Ibidem.

156 Paolo, Cor, 2, 14, cit. in N. Cusano, Loc. cit., pag. 103.

157 Giovanni, 4, 24, cit. in N. Cusano, Loc. cit., pag. 105.

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partecipativa. E poiché “Dio è spirito”, la verità è essa stessa “spirituale”, cioè partecipata in comunione mistica, e non a seguito di un ossequio formale o dichiarazione “con la bocca”. Infatti “lo spirito si adora con lo spirito”, e “lo spirito parla con lo spirito in modo spirituale, non in modo sensibile”, per cui “il Creatore deve essere adorato nella verità”.158 La verità è una come la realtà dello spirito che opera in ognuno che vi partecipi. “Uno è il corpo mistico di Cristo e ogni suo membro opera, per suo tramite, tutto quanto”. 159 Ogni “membro” è, in Cristo, la totalità dell’unità dello spirito in quanto uno in Tutto. E ognuno è uno e insieme Tutto, perché spirito nello spirito: “e questa è la comunità dei santi”, ossia dei “giusti”.160

L’uomo giusto è colui che è pago del suo posto nel corpo comunitario, e colui che si compiace di ciò che piace a Dio. La “giustizia” divina coincide dunque con la capacità di pensare l’Essere fuori di sé, anziché in sé, e di pensarlo come “amore”, che glielo fa diventare come suo proprio. “Come, infatti, il visibile si fa patrimonio di colui che vede mediante il vedere, così ciò che è amabile appartiene a chi ama attraverso l’amore”.161

L’amore è la facoltà di conoscere l’altro come sé, che partecipa dell’Essere divino, e che è diverso dall’altro da sé come il “prossimo” dall’estraneo. Esso è anche la modalità d’essere dell’Essere possibile che perviene alla coscienza di sé attraverso l’altro. L’amore, dunque, consente quel “passaggio” dal finito all’infinito che il pensiero razionale persegue attraverso l’analisi logica, ossia per mezzo di mediazioni concettuali, le quali presuppongono una originaria distinzione tra il soggetto pensante e l’oggetto pensato, che nel processo della conoscenza tende a scomparire fino all’identità dei due elementi originariamente distinti. La relazione razionale con l’altro si stabilisce sul piano di una conoscenza assimilatrice dell’altro al sé, ossia attraverso una dinamica concettuale tendente a risolvere l’alterità in proprietà. Il sé della coscienza conosce

158 Ibidem.

159 N. Cusano, Loc. cit., pag. 109.

160 Exodi, 16, 18; cit. in N. Cusano, Loc. cit., pag. 112.

161 N. Cusano, Loc. cit., pag. 112.

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l’altro assumendolo in sé come oggetto della propria soggettività. Diversamente, la relazione sentimentale con l’altro si stabilisce sul piano di una conoscenza partecipativa dell’altro al sé come altro, ossia attraverso una modalità di partecipazione che mantiene la distinzione reciproca senza però assumerla come alterità da sopprimere. In questo senso, la relazione sentimentale fa dell’alterità la ragione del rapporto inter personale, che è reso possibile proprio dall’esistenza dell’altro distinto da sé. Sopprimendo l’altro, infatti, verrebbe meno anche la ragione di amare, cioè la stessa relazione d’amore. Per la stessa ragione, l’amore dell’altro presuppone l’amore di Dio. Nell’amore, l’Io, l’altro e Dio rimangono distinti in sé e partecipi dello stesso amore comune.

Data l’insopprimibilità dell’altro nella relazione sentimentale, le ragioni dell’amore sono sempre le ragioni dell’altro, nel quale chi ama riconosce sé stesso come altro, e quindi lo trascende. Tale riconoscimento dell’altro-come-sé è radicalmente diversa dalla conoscenza dell’altro che si attua nel rapporto trascendentale. “Treascendentale” significa ciò che è dato a priori come condizione originaria del sapere, ovvero l’attività dello spirito come soggetto indipendente dall’oggetto di esperienza, rispetto al quale si pone come antitesi. L’origine di questa posizione filosofica risale al cogito cartesiano, che fonda il principio moderno di immanenza, che afferma l’identità di essere e di pensiero.

Secondo Kant, la dinamica del soggetto trascendentale si articola in due momenti distinti o sfere spirituali: la sfera teoretica o momento del conoscere, e quella pratica del volere o dell’agire., la cui unità dialettica costituisce il “sistema” idealistico della libertà, intesa come attività assoluta della coscienza. Il concetto di “libertà” si pone, all’interno dei vari sistemi idealistici, negli stessi termini del pensiero logico nel confronto dell’orizzonte di senso mitico, ossia come momento coscienziale de strutturante il sistema della totalità, e quindi come la negazione dialettica della sua (eterna) necessità in nome della (contingente) libertà. Il tentativo di Kant, seguito dagli altri idealisti, fu quello di costituire un “sistema della libertà”, cioè dei concetti a priori, facendo di questa libertà il motivo necessario della totalità del reale, o Assoluto. In tale prospettiva idealistica, la possibilità doveva trasformarsi in razionale necessità, mantenendo dell’originario

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senso liberale la sua opposizione antitetica a ogni empirismo, cioè della stessa realtà materiale, pensata come “esterna” alla coscienza ovvero come “natura” o “cosa in sé”. La conversione della libertà in necessità, ossia dell’antitesi nel suo opposto dialettico, è legata alla stessa dinamica razionalistica, più volte osservata, di assolutizzazione degli opposti logici in differenze ontologiche, la cui astrattezza realizza in pratica la loro identità ideale, e quindi la reciproca convertibilità di ogni loro assoluta rappresentazione nel suo opposto. Pertanto, la logica, dialettica rispetto al mito, trasformandosi in una ragione assoluta negatrice del suo opposto mitico, si converte a sua volta in Mito, ossia in un sistema di credenze dogmatiche non dialettizzabili, il cui senso univoco è ancora più irrazionale di quello simbolico negato, in quanto negatore della sua negazione. Infatti, se l’orizzonte mitico ammette la sua razionalizzazione a opera della logica dialettica, l’orizzonte razionalistico, convertendo la sua logica negatività originaria in positività ontologica, negando così il senso stesso del negativo, ossia la sua relazione a un positivo che non è se stesso, la cui ammissione confuterebbe la sua pretesa assolutezza, non può riconoscere al suo interno altra negatività che non sia a sua volta una contraria positività, ossia una opposizione reale, dando origine allo scontro delle ideo-logie, ovvero alla trasformazione del dia-logo teoretico in pratica lotta politica.

Questo fenomeno, che come abbiamo visto ha i sui prodromi nell’idealismo platonico, si sviluppa all’interno dell’orizzonte metafisico cristiano come moderno razionalismo, a seguito della stessa posizione assolutistica del Cristianesimo come razionalismo religioso, negatore della positività (e quindi storicità) di ogni altra religione. La sua assolutezza teo logica, invadendo ogni campo teoretico e pratico, si è affermata come monopolio ermeneutico contrario a ogni forma di interna rielaborazione del Mito, suscitata dalla costituzione stessa del Cristianesimo come ordinamento cosmico totale, ma possibile solo nel mantenimento del suo carattere di universo simbolico e non ontologicamente univoco, tendente cioè ad assorbire le ragioni di Cesare nelle ragioni di Dio.

La storia della cristianità, identificata con la storia della Chiesa, si è sviluppata appunto come vicenda legata a una rappresentazione religiosa

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di una fede, i cui contenuti di libertà di coscienza erano opposti a quelli avanzati da ogni altra religione storica, ebraismo compreso, che si erano affermati come motivi mitici funzionali alla coesione sociale di un determinato gruppo etnico. Il Cristianesimo evangelico, di contro, professava una fede personale, legata a valori invisibili, la cui verità era avvertita in interiore homine, e non per gli empirici effetti socio politici collettivi. Aver trasformato tale istanza di libertà delle coscienze in un sistema ecclesiastico razionalizzatore dei personali percorsi di fede, legittimandone soltanto quelli omologabili dal canone teologico giuridico della Chiesa, ha significato storicamente voler riproporre il tentativo platonico di edificare in questo mondo, ossia nella realtà di Cesare, il regno ideale di Dio, convertendo l’ordine simbolico della fede escatologica in un univoco ordine etico politico, inevitabilmente totalitario, paradigmatico per ogni futuro modello sistemico razionalistico, teoretico e pratico.

Senza tener conto di questa dinamica mito logica interna all’orizzonte metafisico del razionalismo greco cristiano, non è possibile comprendere il senso del processo ideale e politico del Moderno, inscritto inseparabilmente entro la cultura onto teo logica dell’Occidente. Il progressivo accento antropologico sulla libertà, intesa come possibilità di emancipazione della ratio e della voluntas umane dalle costrizioni della necessità della natura, ha viepiù teso a concepire lo spirito umano nei termini di una natura alternativa a quella materiale, tale da poter configurare appunto un sistema di “valori” indipendente da ogni condizionatezza sensibile, che in Platone era “ideale” e nel Cristianesimo “morale”.

Proprio l’autonomia della sfera morale dall’esperienza sensibile consente a Kant, da un lato, di costituirla come dimensione della libertà, e dall’altro di farne la garante dei postulati di valori trascendenti la finitezza umana, offrendo quindi il tentativo idealistico di trovare una sintesi del soggetto trascendentale e della condizione storica, facendo della libertà la legge morale dei fini razionali. Ma proprio tale tentativo di trovare una sintesi trascendentale “assoluta” tra verum et bonum, ingenera la risoluzione identità dell’uno nell’altro, concependo quel “passaggio” nei due sensi tra finito e infinito che, a seconda della prospettiva, determina una rappresentazione della realtà o

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come totalità di pensiero (idealismo) o come totalità di materia (realismo), concepite nei due casi alla stregua di una sostanza spinoziana. Tale sostanzialismo assoluto è possibile solo dialettizzando la loro rispettiva essenza (l’Idea o la Materia) con la relativa fatticità, eliminando con la sintesi trascendentale ogni dualismo ontologico. La “dialettica” ha qui la funzione di attualizzare nell’atto spirituale sintetico la risoluzione immanentistica dell’infinito eterno nel finito temporale. In tal modo, tanto l’atto di trascendenza del finito nell’infinito, quanto l’atto di immanenza dell’infinito nel finito vengono assunti come opposti logici ontologicamente equivalenti. L’identità dell’esistenziale trascendentale con l’essenza ontologica, trasfigura l’essere dell’ente nell’essere dell’essente, ossia il tò on in id quod habet esse. Tale trasfigurazione sintetica si realizza esistenzialmente nell’atto poietico spirituale, il quale, storicizzando la coscienza trascendentale, fenomenizza l’assoluto facendo del soggetto empirico la mediazione temporale della forma categoriale coi suoi prodotti reali, costitutivi del mondo storico. L’esclusiva significanza storica dell’attualità fattiva dello spirito, riduce la possibilità dell’Essere totale alla totalità della sua sola dimensione esistenziale presente, la cui esclusività ontico ontologica trasfigura a sua volta la libertà possibile in libertà necessaria, ossia in una contraddizione logica, che è il suo opposto reale. In questo senso, la storicità mondana coniugata nella sola dimensione temporale del presente, appunto “storico”, non rende ragione dell’Essere possibile, ossia di quella libertà spirituale che, espunta dalla storia del mondo, viene allocata dal Cristianesimo in interiore homine come verità della coscienza intuitiva di Dio nel mondo. La conoscenza intuitiva, essendo totale, comprende il possibile nella sua possibilità, diversamente dalla conoscenza razionalmente strutturata dell’Essere secondo leggi aprioristiche, le quali determinano, con la possibilità del conoscere, anche le condizioni della possibilità dei suoi oggetti. Il conoscere secondo leggi apriori diventa l’atto di conformità dell’objectum alla coscienza teoretica, la cui struttura viene assimilata alla stessa struttura dell’Essere. La con-fusione di gnoseologia e ontologia perpetrata dall’idealismo de forma l’ente in oggetto della coscienza, in modo tale da escludere da esso ogni residuo di alterità ontologica, indicata come “natura” o “materia”, con la conseguenza che la stessa entità viene intesa come espressione estetica della “forma” ideale, ossia

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come l’elemento variabile della sostanza categoriale, nella cui determinazione fenomenica (la “espressione” crociana) si concentra la (unica) possibilità della libertà. Ma e questo è il dato più problematico -, è la stessa assimilazione dell’ente oggetto nella struttura formale dell’Essere a richiedere il controllo metodico anche della sua espressione fenomenica, per cui il grado della corrispondenza simbolica dell’oggetto reale alla sua forma ideale diventa il criterio di approssimazione alla verità, intesa appunto come relazione significativa dell’oggetto conosciuto al soggetto conoscente. Questa relazione sostituisce il rapporto dell’ente al suo fondamento ontologico, che pertanto viene esautorato, e con esso l’intera metafisica. La conseguenza inevitabile è che il differenziale reale, ossia l’ente, trasvalutato in oggetto formale, diventa ente ideale, ossia “nient’alto che forma” determinata dalla coscienza, e come tale partecipe della sua struttura razionale. E poiché il grado di tale “partecipazione” dialettica è commisurata al grado di corrispondenza dell’espressione formalizzata al suo valore formale, la “libertà” del possibile coincide con la stessa possibilità d’essere della struttura formale. Tale impostazione ideale, trasferita analogicamente nel campo dei rapporti socio politici, determina un sistema di controllo degli enti socializzati fondato sulla razionalizzazione del suo principio di esistenza, che costituisce il risvolto politico della assoluta fatticità dell’Essere-presente (Sosein). Infatti, essendo predeterminato a priori il modo d’essere dell’Essere, cioè la sua possibilità, ne consegue che anche la libertà consista nella realtà delle sue possibili modalità, ossia nella  aristotelica. L’esito contraddittorio della gnoseologia idealistica consiste proprio nella sua versione naturalistica dell’attività spirituale come “movimento” potenziale già compreso a priori nell’atto, e il cui “principio” è appunto “la natura”.162 Ma la conseguenza teoreticamente più rilevante di tale impostazione idealistica della conoscenza è che, essendo assegnata come unica realtà dell’Essere l’essere attuale della coscienza, ossia i suo “atto” spirituale, l’oggetto che ne è la “materia”, essendo reale solo nella sua forma, quale essere dell’ente, fuori dell’atto formale attuale l’ens in potentia è

162 Aristotele, Fisica, III, 1  200 b.

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“niente”. La diversa articolazione della temporalità nelle rispettive realtà ontologiche della coscienza e della storicità dimostrano che l’esclusiva dimensione della coscienza, che concepisce il tempo unicamente come “presente” storico, è incompatibile con il tempo fisico, il quale non può essere concepito, fuori dell’attualità della coscienza, alla stregua di una , un negativo non-essere dal quale si accede per “passaggio” all’Essere come per “salto” (lo Sprung hegeliano dal finito all’assoluto). La “durata” agostiniana del tempo della memoria è radicalmente diversa dalla sedimentazione propria della temporalità fisica, la quale è nel suo farsi. Qui propriamente non c’è “durata” perché non c’è “oblio”, né memoria, mancando una riesumazione. Il temo fisico è il tempo che permane, il moto della permanenza dell’Essere molteplice nella sua condizione di esistenza. Esso non “passa”, come il tempo della coscienza, ma solo “trapassa” nel suo essere in divenire. Perciò, al fondo della temporalità naturale, persiste una realtà inestinguibile con il movimento del trapasso, costituito appunto da quella “permanenza” ontologica che resiste a ogni durata della coscienza, e a maggior ragione a ogni attualità spirituale.

Tale diversità radicale della temporalità ontologica, rende vano ogni tentativo idealistico di uniformità del Molteplice al modello della coscienza, e spiega il motivo della desistenza divina a trasformare l’ordine naturale in ordinamento spirituale, lasciando alla personale conversione dei cuori di realizzare in interiore homine il “passaggio” metafisico dalla realtà finita, retta dal principio di necessità, alla verità della coscienza, quale luogo della libertà.

Il “passaggio” dall’Essere indeterminato o Idea, all’Essere determinato o ente-che-è, costituisce il movimento del pensiero che diventa realtà e della realtà quale processo ideale, ovvero della razionalizzazione del mondo come “cosmo” significativo e universo simbolico. Rispetto all’attualità dell’ente che è, l’Essere indeterminato, cioè l’Idea, è Niente, e rispetto alla stessa attualità dell’Essere, l’ente è ni-ente. Infatti, l’Idea è forma dell’ente, per cui l’ente stesso è (creduto) Essere. Rispetto all’ente, l’Essere (possibile) non è attuale, mentre, rispetto all’Essere, l’ente non-è, per cui sia l’Idea dell’ente che l’ente stesso nonsono reciprocamente, cioè sono negativi. Da qui consegue sia l’idea nichilistica che il Molteplice sia un processo che dal Niente passa al

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Niente, che cioè sia un mero divenire, la cui in-esistenza è simile a quella del tempo secondo Agostino, per il quale esso “veramente” non esiste ma “tende al non essere”.163 E sia la natura della dialettica dell’Essere Molteplice come conflitto delle interpretazioni, o rapporto tra Mito e filosofia o tra fede e ragione, che genera la rielaborazione razionalistica del Mito come pensiero critico dell’Essere e smascheramento della credenza ontologica che esso sia Idea.

L’essenza dell’Idea, cioè il suo fine, è di con legare gli enti fra loro, stabilendo una relazione meta fisica che ne annuli, cioè lo riduca a niente, il conflitto fisico. Si pensa per non lottare. L’Idea è quindi la forma dell’unità degli enti, cioè del Molteplice. Ma, essendo questa unità apparente, essa è contraddittoria quanto l’Essere che l’esprime idealmente, ossia nella sua forma reale. Infatti, essendo il pensiero dell’ente interno al Molteplice, il conflitto si trasferisce dall’ente all’Essere, diventando da fisico metafisico, da politico ermeneutico. E così come la struttura razionale del lògos si fa sistema trascendentale a priori della conoscenza, ossia gnoseologia, parimenti la struttura razionalizzata che la riflette esistenzialmente sul piano della convivenza si fa sociologia, cioè sistema legalizzato di relazioni sociali predeterminate.

La confutazione critica del Mito da parte della filosofia, o della fede da parte della ragione, diventa, sul piano dei rapporti esistenziali, contestazione ideologica della struttura sociale legale giustificata dalla credenza socialitaria originaria. Ogni critica razionalistica del fondamento ontologico della realtà in base al criterio del divenire, si traspone nella realtà sociale come movimento politicamente eversivo dell’ordine costituito. La ri elaborazione razionalistica del Mito si trasforma quindi in ri voluzione politica della società legittimata dal Mito. Non c’è contrasto ideale, ossia conflitto ermeneutico, che non sia prodromico di un conflitto sociale. Ciò vuol dire che l’unità di fede nel principio di realtà è il fondamento storico dell’unità sociale. Ovvero, che l’ordine politico dello Stato storico dipende strettamente dall’unità di fede dei consociati nel fondamento ontologico.

163 Agostino, Confessiones, 11, XIV.

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La società moderna è sociologicamente conflittuale in quanto religiosamente divisa e metafisicamente instabile. E’ la rimozione del fondamento ontologico cioè della questione religiosa a far credere i sociologi a un fisiologico conflitto politico, costitutivo dello stesso equilibrio d’ordine della società moderna, intesa appunto come società liberale in quanto conflittuale. In realtà, l’idea di uno Stato che sia conflittuale è in sé contraddittoria quanto l’idea di Unità del Molteplice. Lo Stato politico (cioè conflittuale in senso schmittiano) è un ossimoro, e la relativa teoria contraddittoria, in quanto l’essenza o fine dello Stato è il contrario dell’essenza o fine della politica. L’essenza o fine dello Stato, infatti, è il governo della società, ossia il rimedio al conflitto della molteplicità sociale, quel “bene comune” che Agostino chiamava “concordia”, e che fa dello Stato “la concorde società degli uomini”,164 non già l’esaltazione del conflitto politico, cioè l’istituzionalizzazione della guerra civile giuridicamente regolamentata. Se il liberalismo rappresenta storicamente, sul piano sociale, ciò che è lo stadio della rielaborazione filosofica del piano mito logico, la democrazia rappresenta invece la completa politicizzazione (o riduzione politicistica) del conflitto delle interpretazioni a seguito della rimozione ideologica del fondamento ontologico della verità, soppiantata dalla mera dinamica del molteplice divenire di ipotesi teoriche, destinate a confutazione dalla stessa mobilità del flusso storico. La fine della dialettica mito-logica, a opera della razionalizzazione del cosmo ideo logico, segna non soltanto l’insignificanza gnoseologica del Mito, ma anche la rimozione della sua stessa rielaborazione filosofica a opera della esclusiva conoscenza ipotetico scientifica.

Le ipotesi di verità, non sono la Verità, ma mere credenze. Ogni credenza condivisa è religione, cioè un Mito creduto verità dell’Essere. Ogni credenza religiosa è pensiero dell’Essere. L’uomo pensa l’Essere per dare unità al Molteplice, cioè per sedare il confitto tra gli enti naturali. L’Essere come Idea universale coincide con la pace universale nell’Uno. L’unità ideale, fondando la pace sociale, ha l’orizzonte del politico: è tribale, nazionale, religiosa, universale in

164 Agostino, Ep., 155, 3, 9.

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relazione al referente di cui è fondamento ontologico. Ma il conflitto non viene eliminato, in quanto interno all’Essere stesso come Idea dell’ente, per cui, l’Essere ideale, anche se creduto Uno, è intrinsecamente contraddittorio in quanto riferito al Molteplice. Da questa condizione contraddittoria tra la credenza unitaria e l’essenza molteplice nasce la dialettica mito logica, ossia la necessità razionale di rielaborare logicamente il Mito, in senso ancora una volta idealmente unitario. Perché, dunque, l’Unità ideale seda il conflitto naturale? la risposta è: perché consente che il Molteplice sia. Infatti, il conflitto tra gli enti tende ad annullare la molteplicità facendo prevalere l’uno sull’altro, il sé sul diverso da sé. La lotta naturale stessa tende a negare il Molteplice per affermare l’Uno come opposto al Molteplice. Ed è quest’Uno che Parmenide chiama Essere. Un Essere creduto naturale, ma che invece è ideale, perché pensato come tendenza, come possibilità, come doverosità, le quali sono tutte condizioni non attuali, e quindi astratte dalla realtà molteplice: ovvero “ideali”.

Come Idea, l’Essere non è attuale; ciò che è attuale è l’ente. Per cui, nominando l’ente affermiamo che esso è, e affermando l’Essere determiniamo l’ente. Pertanto ogni determinazione dell’Essere afferma l’esistenza dell’ente. L’Idea si afferma come ente. Questa parvenza è l’oggetto della credenza mitica, la quale cela una contraddizione ontologica che viene chiarita dalla logica, che porta alla luce dell’Essere la contraddizione intrinseca al Molteplice. Il conflitto degli enti diventa quindi dialettica del pensiero dell’ente, ossia logica dell’Essere. La realtà ontologica dell’ente è la sua essenza molteplice, la sua molteplicità o alterità. E’ questa alterità degli enti a creare l’angoscia metafisica nell’uomo, che Aristotele chiama omericamente “thàuma”, e che consiste nella domanda: “perché l’altro da sé è?”; ovvero “perché ciò che è, è, e non è altro da ciò che è, cioè ni ente?”

Il “thàuma” esige una risposta; ma non una qualunque, bensì una risposta che provochi lo stato d’animo che Aristotele chiama “àmeinon”, ameno: ossia una risposta “rassicurante”, che plachi l’angoscia metafisica. Questa risposta rassicurante è il racconto del mythos, il Mito.

Il Mito è un racconto rassicurante che vince l’angoscia metafisica dell’uomo di fronte alla visione del Molteplice. Il Mito giustifica perché l’ente visibile, il fenomeno, è anziché non. Ma perché il racconto sia

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rassicurante dev’essere creduto, sicché il Mito contiene un atto di fede, consistente nella credenza che l’ente sia anziché non. Tale credenza, condivisa, diventa religione. Poiché la forma della risposta consegue alla forma domanda, anche il racconto mitico varia per tempi storici e culture locali, nei quali la molteplicità si rivela nella varietà delle ipotesi di verità, cioè nella diversità delle credenze.

Il Mito, quale racconto di fede, è una spiegazione razionale del “thàuma”, ossia un chiarimento del mistero dell’Essere attuale o fenomeno. Un mistero svelato dal racconto, cessa di essere mistero e diventa evento naturale non chiarito, “enigma”. L’enigma che viene chiarito diventa realtà di fede, fondamento ontologico dell’esperienza umana. Il Mito, quale racconto di chiarificazione dell’Essere, è una narrazione ragionevole, ossia comprende una mito logia, la quale si affianca alla rappresentazione come la sua spiegazione razionale: da qui la dialettica del mytos e del suo logos. Il Mito cessa di essere credibile quando il suo lògos non è più convincente. In tal caso, allorquando cioè si perde la fede nella sua credibilità, la rappresentazione diventa racconto fantastico, e il lògos viene rielaborato criticamente. Ed è a questo punto che la mito logia diventa filosofia, ovvero rielaborazione critica del Mito. La filosofia è dunque critica del Mito, senza il quale essa non sarebbe pensiero ma semplice credenza. Il pensiero diventa logico quando perde la sua fede e non è più credenza, ossia verità comune, opinione socializzata, religione, ma critica. Un pensiero critico che, oltre alla fede nella verità dell’Essere, ha perduto anche il suo oggetto, ossia la rappresentazione mitica dell’ente come Essere, diventa razionalismo, cioè tecnica logica astratta da ogni fede: ciò che Platone chiama “sofistica”. Negare il fondamento ontologico della fede equivale a concepire il pensiero come determinazione dell’errore, anziché dell’Essere. L’errore equivale a ciò che non è. Errore è il dissimile, il diverso, il negativo. Ed è la distinzione logica a determinare il dissidio, così come il giudizio politico a determinare il dissenso. L’idea del conflitto è l’idea della diversità. All’errore logico corrisponde il nemico politico. l’orizzonte razionalistico è caratterizzato dal dissidio conflitto tra ciò che è e ciò che non è. La civiltà razionalistica è fondata sulla distinzione e sul conflitto.

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La cultura razionalistica e la cultura politi cistica sono aspetti di una stessa civiltà, di una stessa intuizione del mondo. La legge della repulsione, che fa progredire la scienza sulla confutazione degli errori dell’ipotesi che li sosteneva fideisticamente, è l’esatto contrario della legge dell’amore, che caratterizza l’arte. La logica e l’intuizione sono i due poli teoretici opposti in cui si compendia il pensiero della civiltà umana, così come la politica e l’arte sono le due forme espressive essenziali delle relative esperienze antropologiche. Se la politica può essere concepita secondo un criterio razionale di relazione sociale di enti fisico biologici, e pertanto essere conosciuta in termini scientifici, l’altre, di contro, non può costituirsi come espressione razionalizzata della forma dell’Essere, cioè come tecnica, e come tale conosciuta dalla scienza dell’estetica, senza perdere il suo valore teoretico di intuizione dell’Uno, trascendente le apparenze molteplici degli enti reali o dei fenomeni naturali. Intuire l’Uno significa considerare l’Essere nella sua valenza simbolica comprensiva di ogni alterità, di fede e di ragione.

In virtù della sua essenza simbolica, l’arte può costituirsi come rappresentazione della totalità dell’Essere, sia quindi come “forma” fenomenica che come “contenuto” essenziale. Questa sua composita valenza ne fa la rappresentazione mitica per eccellenza, essendo le immagini evocate dall’arte l’espressione figurata dell’intuizione della realtà.

Con l’incarnazione di Dio in Cristo, tanto l’immagine del mondo che quella dell’uomo acquistano un valore ultra-rappresentativo, in quanto evocativo non solo dell’essenza naturale dell’uomo, cioè della sua finitezza, ma altresì della sua essenza spirituale, ossia della divinità di cui egli partecipa. Nella dimensione metafisica cristiana, tanto l’immagine ideale che l’immagine artistica del mondo si trasfondono nel suo nuovo paradigma ontologico, rinnovandosi nel dòkema, ossia nella visione spiritualistica dell’Essere, e nella dòkesis, ossia nella sua relativa ragione, sostitutiva dell’antico lògos naturalistico.

Con la nuova antropologia spiritualistica, e con la rinuncia al regno terreno, si inaugura col Cristanesimo il tempo dell’imitazione (imitatio Christi) del modello celeste in terra, ossia la fase del “passaggio” dalla divina creazione del mondo a opera di Dio, all’unità mistica con lo Spirito

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creatore. L’antica attesa messianica, che rimetteva nelle mani della Provvidenza ogni umano destino, venne esaudita, a seguito dell’avvento di Cristo, con l’impegno responsabile di ogni credente di propiziare l’incontro di Dio nel mondo attraverso appunto l’imitazione della “via” di Cristo, che rappresenta la “verità” possibile alla sapienza umana. L’uomo cristiano non è più abbandonato, come l’uomo ebraico, alla imponderabile volontà di Dio, ma diventa compartecipe del divino Mistero. Nell’avvento si realizza l’espressione mondana della verità eterna, che però, a differenza del giudizio logico, non si determina hic et nunc in una temporalità esclusivamente presente, ma in un tempo di eterna attualità nella cui dimensione l’evento storico della nascita, vita e passione di Cristo si rinnova trasfigurando la necessità naturale del ciclo biologico in senso spiritualistico, risolvendo nel paradigma della sua totalità, trascendente e insieme immanente, la dialettica interna al Mito classico. Pertanto, la dinamica teleologica dell’escatologia cristiana non sostituisce la circolarità naturalistica pagana, ma la trasfigura simbolicamente nel senso della sua inclusione, come elemento antropologico, entro il paradigma teologico della Storia spirituale. In altri termini, la dinamica della vita naturale dell’uomo acquista il suo senso trascendente nell’ambito dell’universo spiritualistico cristiano come espressione mondano-temporale della Storia divina eterna. Ciò che il Cristianesimo trasfigura attraverso la Storia è il senso dell’eternità, che da movimento naturalistico legato all’edacità della condizione finita dell’uomo biologico, diventa evento escatologico, che si rinnova come verità “personale” (in interore homine), nel tempo della coscienza, che non è quello della durata fisica degli enti naturali, ma dell’eternità del soggetto spirituale partecipe del divino. La “partecipazione” spirituale, che si realizza nella carità, è radicalmente diversa dalla “appartenenza” storica dell’ente, quale Essere attuale contingente (Sosein), al Mondo della vita (Dasein), quale sua determinazione temporale. La “partecipazione” spirituale libera infatti gli enti contingenti dalla loro finitezza temporale, per inscriverli nella comunità della memoria, intesa come il luogo dell’interiorità in cui si

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attua ciò che Agostino chiama la “conversione immateriale”165 verso la verità. Questa non coincide con la peregrinatio, ossia con la ricerca interiore, ma fa della ricerca la tensione progredente verso la fonte della ragione, che è Dio, in cui il sé intenzionale, cioè il soggetto razionale, excedit, si trascende, ossia supera l’alterità mutevole della condizione finita.166 Nella interiorità della memoria, la coscienza ri trova il suo fondamento e il suo fine, cioè il Tutto o Dio, che costituisce l’orizzonte di ogni possibile evento significativo, la memoria dell’eternità. Il limite della durata naturale era segnato all’inizio e alla fine dell’Essere dal Niente. Questo limite viene superato col Cristianesimo dal continuum della morte, che è altra rispetto alla vita naturale, ma non al senso escatologico, entro il quale essa viene inscritta teleologicamente come momento finale.

Per l’ontologia cristiana all’inizio c’è Dio, e non l’Essere; e pertanto anche alla fine dei tempi la Storia si conchiude in Dio, l’eterno che presiede, come Tutto, ogni momento storico. Per l’ontologia antica, all’inizio c’è l’Essere, di cui la forma determinata è la necessità razionale. L’indeterminatezza della dell’Essere è la Materia di Aristotele, con la sua potenza (dynamis), mentre la determinatezza è della forma razionale, che è il fine del suo divenire. Ma nessun movimento dinamico riposa in eterno nella sua forma finita e imperfetta, per cui l’Essere indeterminato e potenziale, in realtà, comprende nella sua finitezza la possibilità di ogni forma d’essere ciò che è, ossia esprime l’Idea della forma prima di ogni realtà formata. E la comprende come necessità, non come libertà. E perciò solo l’Idea, quale possibilità assoluta da ogni determinazione effettuale, è libera dalla necessità, ossia dal suo essere così com’è. Determinarsi, significa per l’Idea subire la necessità d’essere ciò che si è, ossia aver perduto la libertà di poter essere diversamente. È questa la ragione ontologica per cui ogni determinazione d’essere reale provoca il rimpianto della libertà ideale perduta, suscitando il confronto tra l’Essere ideale e l’ente reale, tra il possibile e il finito, che per il Cristianesimo sussistono in Cristo, che ha sostituito l’antico Essere

165 Agostino, De Trinitate, 14, 6, 8.

166 Agostino, De vera religione, 39, 72.

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naturalistico.

La fede ontologica antica consiste nell’affermazione che l’Essere è. Il pensiero razionalistico, rimuovendo la fede ontologica, per affermare se stesso come l’unica realtà possibile, deve partire dal non-essere altro da sé, cioè dal Niente, rispetto al quale esso è pensiero. Ogni forma storica di razionalismo è pensiero del Niente, nichilismo. Il pensiero razionalistico per eccellenza è la matematica, ossia la scienza della precisione, che nell’ambito del Molteplice si configura come “verità” assoluta. Tale nozione di verità come precisione matematica è fatta propria da Cusano e dal “modo” naturale viene trasferita al “modo” divino: dalla fisica alla teologia.167 La consapevolezza della conoscibilità del Molteplice in termini di finitezza e di singolarità degli enti si abbinava alla necessità di definire Dio e la sua assolutezza in termini positivi, e perciò “precisi”, ossia appunto matematici. Cusano, dalla teorie fisiche e formali in voga al tempo nelle università di Parigi, Oxford, Heidelberg e Padova, trae il concetto di Dio come “massimo assoluto” o “sommo”, facendolo l’unico vero assoluto. L’assolutezza di Dio risiedeva nella Sua differenza rispetto ai criteri di misura applicabili all’universo fisico, dove le nozioni di massima e minima perfezione lasciano il posto a quelle di “pi” e di “mano”, cioè all’imprecisione di grandezze excedens ed excessus, e del loro scarto come excessum, che sono nozioni applicabili alla realtà assoluta o sostanza, cioè a “una verità che non riceve il più e il meno e non è superata da nulla”.168 Da qui per Cusano l’importanza della matematica come “modello di verità precisa, la cui assolutezza vale solo nell’ambito del divino, e non nel mondo fisico, in cui prevale la verità o la precisione matematica relativa”.169 È dunque l’astrattezza il concetto che si prende a riferimento per la “verità assoluta”, interpretata come alterità rispetto alla relatività del mondo fisico concreto. Da qui lo sdoppiamento del concetto stesso di

167 Ved. G. Federici Vescovini, Introduzione a N. Cusano, La dotta ignoranza, Roma, 2011, pag. 17.

Ivi, pag. 19.

Ibidem.

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168
169

“precisione” matematica, relativo alle due dimensioni di realtà, ma, soprattutto, lo sdoppiamento del concetto di “verità”, la cui natura duplice consente una duplice gnoseologia. Per quanto riguarda la sfera del divino, cioè il campo della sapienza, la “sua” verità veniva

legata al linguaggio e al ragionamento matematico […]. Una tale matematica è fondata sull’estensione al divino della teoria delle proporzioni, della definizione di “similitudine”, di habitudo, di proporzione di “uguaglianza” e di “disuguaglianza”, teorie tutte elaborate dalla riflessione matematica, scientifica ed epistemologica del suo [di Cusano] tempo. essa potrebbe chiamarsi una matematica teologica”.170

Il concetto gnoseologico basilare elaborato da Cusano è la nozione di “proporzione di uguaglianza”, usata per definire l’immortale, il divino e l’eterno insito nell’assoluto o nell’infinito quale unità indivisibile di ciò che è immortale. “Secondo Cusano, solo quest’idea è adeguata ad esprimere il divino, l’assoluto”:171 l’Uno, o Dio, verità inattingibile alla ragione, idonea a definire solo le quantità finite, il numero, ma non il principio del numero, che è appunto l’Uno. “Dio sarà allora quel massimo assoluto nella cui infinità coincide il minimo assoluto, principio della misura di tutti i massimi e i minimi relativi”.172

La “proporzione di uguaglianza” indica il rapporto dell’Uno con se stesso, cioè l’idea di indivisibilità e quindi di eternità, l’unica in grado di esprimere il divino.

Tale idea fa della “dotta ignoranza”, cioè del concetto di non sapere, un concetto positivo, anziché negativo, e relativo all’essenza di Dio, conoscibile solo con l’ignoranza da parte della mente umana, cioè dalla consapevolezza di non sapere. La verità è la conoscenza della sostanza, non soggetta al più e la meno, ossia al divenire; conoscenza del valore assoluto e massimo, che è Dio, cui non si applica alcun concetto di proporzione relativa, di disuguaglianza o di comparazione, proprio delle

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170 Ivi, pag. 20. 171 Ivi, pag. 21. 172 Ibidem.

realtà finite.

La mente umana infatti è capace solo di distinguere, numerare delimitando una cosa dall’altra entro la sua particolare misura individuale e limitata. La mente numera i finiti con i loro più e meno, i loro eccessi, i loro gradi; coglie una verità approssimativa o approssimata, impone i nomi alle cose istituendo le distinzioni e individuando una cosa rispetto al’altra. Per questo la teologia positiva non è appropriata per cogliere l’assoluto, nasce dalla capacità distintiva della ragione, si muove nella pluralità e nella diversità. La teologia positiva afferma la verità per distinzione e non per l’unità ed uguaglianza che è Dio.173

Da qui l’opportunità teoretica della teologia negativa, la sola in grado di esprimere la verità assoluta di Dio.

Ma teologia negativa non vuol dire negazione delle facoltà conoscitive umane, il loro annullamento: significa invece superare le regole dell’intelletto stabilite dalla logica e dalla metafisica centrate sul principio di non-contraddizione e del terzo escluso elaborati da Aristotele. Il più grande errore, afferma Cusano, che è stato fatto da Aristotele, è stato quello di escludere nella sua logica la nozione di “terzo”, cioè la relatio, il nesso trinitario: il rapporto di uguaglianza che unisce l’uno a se stesso, così come Cusano lo intende.174

L’Uno esprime il principio unitario anteriore alla distinzione, in cui coincidono gli opposti, prima di ogni distinzione e separazione. Non unione degli opposti, che condurrebbe al panteismo, ma coincidenza, il cui concetto consente di rappresentare sia l’infinità di Dio senza opposizione di alcun limite finito, sia l’immagine antropologica del “microcosmo” spirituale che deificandosi per la mediazione di Cristo giunge a intuire Dio in sé. Questa modalità di partecipazione divina costituisce il risvolto spiritualistico dell’umanesimo cristiano, alternativo a quello cosmologico di tipo naturalistico.175

L’incontro con Dio attraverso Cristo rappresenta anche una forma di conciliazione della coscienza metafisica con la realtà terrena. Infatti la

,

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173 Ivi
pag. 22. 174 Ivi
pag. 23. 175 Ivi
pag. 31.

mediazione di Cristo realizza la possibilità di una presenza non dialettica dell’infinito nella dimensione del finito, ossia un modello di co esistenza ontologica in cui convergono le essenze diverse senza che nessuna si risolva nell’altra perdendo la sua propria natura. Le conseguenze sul piano esistenziale sono notevoli, in quanto il fondamento dell’Essere, non risiedendo nell’Essere stesso ma nel suo Creatore, traspone il modello di realtà dal piano naturalistico del vivente, e quindi dell’esperienza antropologica tramandata dalle culture storiche delle particolari società umane, alla prospettiva del piano di realtà eterno, dalla quale le vicende storiche dell’uomo assumono un significato relativo al valore attribuito loro dalla sapienza divina infinita, e non da quella finita umana. E tale trasposizione di senso escatologico opera entro l’orizzonte delle culture storiche come una poderosa tensione assiologia convertitrice, non soltanto del “modo di pensare”, ma anche della “maniera di vivere”, dei quali il Cristianesimo propone una ”fondazione nuova”, 176 dall’indubbio risvolto teoretico e politico riformatore. Infatti, la riforma intellettuale avanzata dal Cristianesimo, operando in senso critico nei confronti delle tradizionali verità di fede, si costituiva oggettivamente come una forma radicale di razionalizzazione culturale, inevitabilmente incidente anche sul piano dei rapporti sociali, e in modo ben più rilevante e profondo di quanto non fosse stato tentato a suo tempo dall’idealismo platonico. Nella prospettiva cristiana, il modello antropologico non derivava da una Idea filosofica dell’uomo, ossia da un calco razionale che trasferisse nella vita ordinaria la perfezione formale dei modelli estetici dell’arte, ma doveva imitare un paradigma esistenziale reale, la vita di Gesù, la cui mistica fenomenologia compendiava l’inizio e la fine di ogni possibile storia umana spiritualmente significativa.177

176 Così si esprime K. Jaspers a proposito della conversione paradigmatica di Agostino, in I grandi filosofi, tr. it., Milano, 1973, pag. 410. 177 Non è un caso che il termine di “fenomenologia”, relativa alla manifestazione di Dio, risalga a un teosofo pietista del sec. XVIII, F. Ch. Oetinger. Cfr. L. Bouyer, Le Père invisible, Paris, 1976, pag. 356. Nella sua principale opera, Theologia ex idea vitae deducta (1765), Oetinger anticipa concetti di contenuto gioachimita che

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L’idealistica metessi veniva superata dalla imitatio Christi grazie alla possibilità di rifarsi ad esempi di vita narrati come modelli esistenziali di una eterna casistica che abbracciava simbolicamente ogni possibile fase della vita umana. Attraverso l’imitazione della vita di Gesù, il cristiano convertito alla spiritualità cristiana ripercorreva, attraverso la sua personale esperienza esistenziale, ogni possibile esistenza ideale, trovando così nella propria vita in senso ultimativo della stessa vita eterna. È evidente che, rispetto all’ideale modello sociale platonico, la “città di Dio” non era una semplice proiezione razionalistica della società perfetta, ma costituiva il criterio di valore di ogni città umana, in tal senso essa non poteva essere edificata in terra senza misconoscere la differenza ontologica tra la perfezione di Dio e imperfezione umana. Imperfezione la quale, legata com’era alla condizione finita dell’uomo, non poteva trovare un riscatto metafisico in un perfetto modello razionale di socialità, ma poteva solamente riconoscere il suo luogo di sublimazione nell’interiore verità della coscienza spirituale, e quindi né sociale né teoretica. Proprio la dimensione spirituale del trascendimento della condizione finita dell’uomo sviluppa una antropologia personalistica che pone il piano della coscienza del cristiano in termini non dialettici rispetto a quello della coscienza sociale, come era avvenuto in Socrate, e quindi conflittuali entro un comune orizzonte di valori civili, ma in termini alternativi rispetto alla ratio sociale, cioè alla dimensione politica della convivenza, e tali da rovesciare l’ordine assiologico culturalmente dominante, che assegnava il primato alla vita collettiva su quella individuale. Ora, invece, per il cristiano, era l’esperienza interiore a costituire la fonte della verità sul cui parametro andava giudicato il mondo esterno, per cui al suo cospetto ogni regola consolidata non poteva avere la meglio in virtù delle sue consolidate ragioni sociali. È il rovesciamento, insomma, di ogni ragion di Stato in senso del primato della coscienza, come nessuna filosofia, né prima né dopo, è mai riuscita a fare. E proprio per questa sottesa consapevolezza all’azione missionaria

verranno ripresi da Hegel e da Marx. Ved. E. Benz, Christliche Kabbale, Zurich, 1958, pagg. 48 sgg., cit. da H. de Lubac, La posterité spiritelle de Joachim de Flore (1979), vol. I, De Joachim à Schelling, tr. it. Milano, 1981, pag. 300.

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dei cristiani, l’opera di conversione non poteva che poggiarsi sulla Dòkema del Verbo, cioè su Cristo, anziché su un rielaborato modello mitico ispirato dal lògos filosofico, cioè su un’Idea, la quale è una opinabile coniectura legata alla diversità delle forme culturali, rispetto alla eterna verità del Logos rivelato.

9. Il sapere, per Cusano, consiste nella “ricerca della verità”,178 che nasce dalla “aspirazione” o “desiderio naturale” divinamente ispirato in “tutte le cose” di “raggiungere la quiete della propria natura nel centro del proprio equilibrio”, per mezzo di una “facoltà di giudizio”, la cui indagine consiste nel mettere in paragone “ciò che è incerto” con “ciò che è certo”.

In tal senso, “ogni ricerca” della verità “è dunque comparativa in quanto impiega come mezzo la proporzione”, ossia il calcolo numerico, e per la stessa ragione “l’infinito come infinito, sfuggendo ad ogni proporzione, è ignoto”.179

Il rapporto numerico non va inteso solo in relazione alla quantità, ma “in tutte le determinazioni” differenziali, sostanziali o accidentali che siano, per cui la “precisione delle combinazioni delle combinazioni nelle cose corporee e l’adattamento proporzionato del noto all’ignoto, supera la ragione umana”, inducendo il dotto alla consapevolezza, già dichiarata per primo da Socrate, di “sapere di non sapere”. 180 Ciò che in sé basta a se stesso perché privo di ogni possibile riferimento, perché niente le si oppone, è l’unità, che è anche “il massimo assoluto”, ossia il “tutto, in cui tutte le cose sono”. Ma l’assenza di opposizione fa sì che nell’Uno coincida il massimo col minimo, poiché “anche questo è in tutte le cose”. Tale “assoluto” è Dio, “in cui credono fermamente tutti i popoli, al di là dei mezzi della ragione umana e dei suoi modi di comprensione”, e da cui tutta la pluralità “contratta” cioè determinata dell’universo “deriva”. La “contrazione” è la possibilità d’essere dell’unità, ossia la sua necessaria pluralità, ovvero, come afferma Cusano, “l’unità dell’universo è contratta nella pluralità senza la quale

178 N. Cusano, D. I., I, Prol., ed. cit., pag. 60.

179 Ivi, I, I, ed. cit., pag. 61.

180 Ivi, I, I, ed. cit., pag. 62.

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essa non può essere”.181 Rifacendosi ad Aristotele, che aveva affermato che “fra l’infinito e il finito non c’è rapporto di commensurabilità”,182 né “alcun rapporto di proporzionalità”,183 Cusano sostiene che “è immediatamente evidente che non c’è proporzione dell’infinito col finito”, 184 e poiché “la verità è infinita”, anche il massimo “è da noi colto solo in maniera incomprensibile […] poiché non appartiene alla natura di quelle cose che ammettono un eccedente e un ecceduto”.185 Infatti, è impossibile stabilire una relazione precisa tra entità imperfettamente commisurabili, dal momento che non esiste alcuna “uguaglianza precisa” tra le cose, che “differiscono in sé medesime l’una rispetto all’altra”, per cui lo stesso massimo, essendo “tutto ciò che può essere”, non differisce dal minimo, col quale dunque “coincide”.186 La conseguenza logica di questo discorso è che la contemporanea presenza del Tutto, include anche il suo opposto Niente, sicché

Tutto ciò che si concepisce che è, non è di più di quanto non sia. E tutto ciò che si concepisce che non è, non è di meno di quanto non sia. Ma questo massimo che è tutto, è tutto in modo tale da essere nulla. Ed è massimamente ciò che è anche minimamente. […] Questa dottrina trascende la nostra capacità intellettiva che non riesce a combinare con le sole regole della ragione le contraddizioni nel suo principio: perché noi procediamo nel cammino de sapere solo con quelle verità che la natura stessa ci manifesta. E la ragione, essendo lontanissima dall’infinita virtù, non è capace di connettere i contraddittori che distano tra loro all’infinito.187

La ragione “naturale”, dunque, deve potersi limitare al mondo finito, che

181 Ivi, I, II, ed. cit., pag. 63.

182 Aristotele, Del cielo, I, A, 6, 274 a, 5 10.

[Ivi, 275 a, 10 15.]

N. Cusano, D. I., I, III, ed. cit., pag. 64.

Ivi, I, IV, ed. cit., pag. 65.

Ibidem.

Ivi, pag. 66.

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183
184
185
186
187

comprende “tutto ciò che non è massimo”,188 ossia ”alle “cose numerabili”, quelle cioè che “ammettono, secondo una certa proporzione, un eccedente e un ecceduto”, senza il cui calcolo, scompare “la distinzione delle cose, l’ordine, la proporzione, l’armonia e la pluralità stessa degli enti”.189

Proprio la necessità di conservare, col computo, la cognizione della realtà finita, “è necessario arrivare a quel minimo del numero del quale non ci può essere uno più piccolo, che è l’unità”, la quale, per quanto argomentato, “coincide con il massimo”, costituendo così “l’unità assoluta a cui niente si oppone”, la quale “è tutto quello che può essere”, ossia Dio stesso, che è “unità infinita” senza la quale niente sarebbe, essendo “il principio” di ogni “comparazione” numerica entro il Molteplice.190 Dall’unità divina discende il Molteplice, il quale dunque origina da un “principio” che è “altro da sé”, e che lo pone in essere come l’assoluto pone il relativo. E poiché tutto è nell’essere assoluto, esso coincide con la stessa verità, la quale è “al di sopra di ogni essere nominabile”, cioè di ogni ente finito e numerabile, e “tale da essere la necessità assoluta”.191 Il principio di ogni essere finito, l’unità, “precede ogni alterità”, e non può che essere “eterno”, in quanto opposto a ogni naturale “mutevolezza”, che è “posteriore all’unità” come l’ineguaglianza lo è rispetto all’uguaglianza, in cui “si risolve” ogni ineguaglianza sottraendo da essa l’eccedenza. Essendo congiunte l’ineguaglianza e l’alterità, ne consegue che “l’uguaglianza, dunque, è eterna”.192 L’unità, spiega Cusano, è “entità”, ossia, come Dio, “forma dell’essere”.193 Ciò vuol dire che l’essere sia congiunto all’ente come il contenuto alla sua forma. Stabilita l’unità di essere ed ente nell’ente, ne

188 Ivi, I, VI, pag. 68.

189 Ivi, I, V, pag. 67.

190 Ivi, pagg. 67 68.

191 Ivi, I, VI, pagg. 68 69.

192 Ivi, I, VII, ed. cit., pag. 70.

193 Ivi, I, VIII, pag. 71.

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deriva che “l’uguaglianza dell’unità” coincida con quella “dell’essere o dell’esistere”, per cui “la generazione dell’unità dall’unità è una ripetizione dell’unità”, ossia una “generazione eterna” o “processione”. Diverso è invece il caso della moltiplicazione dell’unità, che genera “un altro numero”, e quindi “qualcosa d’altro da sé”.194 Quando dal piano simbolico si passa a quello teologico, le “similitudini con le cose mortali” non sono senza conseguenza. Infatti, stabilita l’uguaglianza entro l’unità con la processione, si può indicare il Padre come 2Unità”, il Figlio come “uguaglianza” e lo Spirito santo come “connessione” o “amore”. Ora, stabilito che “nel padre e nel figlio si trova una certa comunanza di natura, che è identica” nei due uguali, ne deriva che “in questa natura comune il figlio è uguale al padre”. Ciò vale sia per la natura divina, ma anche per quella umana, sicché “non c’è nel figlio un’umanità maggiore o minore di quella del padre”. 195 Ma l’estensione dell’identità della natura umana al Padre, comporta che Dio Padre venga “connesso” ala stessa sorte mortale del Figlio, ossia che Egli subisca la passione del Golgota, cioè quella kinesis o “contrazione” propria della realtà finita e molteplice, cioè l’imperfezione dell’umanità naturale. Questa conseguenza logica, che è all’origine di ogni immanentismo, e che, com’è noto, segnerà d’eresia il discorso filosofico di Giordano Bruno, è però insita nell’impianto argomentativo intellettualistico di Cusano, il quale, come vedremo, cercherà di distinguere una contrazione “assoluta” da una “indeterminata”, ma il cui concetto non potrà sfuggire all’uguaglianza postulata come consustanziale alla stessa unità. La questione è decisiva, sia per comprendere i limiti, all’interno dell’universo di senso cristiano, di una teoresi inerente a un cosmo naturalistico, come, nel caso, quella aristotelica; e sia per risalire implicitamente alla necessità sottesa alla cultura cristiana di fondare un proprio statuto epistemologico di tipo spiritualistico, la cui ricerca definisce il rapporto dialettico che il fondamento teologico è andato stabilendo nei secoli con il sapere razionalistico, prima filosofico, con la cultura classica, e poi scientifico,

194 Ivi, pag. 72. Il corsivo nel virgolettato è nostro.

195 Ivi, I, IX, pag. 73.

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ossia con la cultura moderna. Tale rapporto non ha contrassegnato soltanto la storia della Chiesa nelle sue relazioni con la civiltà cristiana, ma la stessa declinazione della cultura cristiana nei termini e nei limiti di una costante rielaborazione dei fondamenti teologici cristiani, la cui “verità” è costantemente esposta alla riduttiva rappresentazione mitica in seguito alla stessa perenne criticità delle sue giustificazioni razionali, dovuta appunto all’incongruo retaggio ereditario della teoresi razionalistica greca in ambito spiritualistico. Solo concependo lo spiritualismo cristiano come una estensione della sapienza greca, è possibile procedere nello stesso senso ideale del razionalismo antico. Ma se lo Spirito della rivelazione divina dovesse costituire il “massimo” e il “principio” di ogni sapere, allora questo stesso sapere dell’Uno deve potersi conformare alla sua natura spirituale, se intende veramente conoscerlo. In altri termini, occorre addivenire a una sapienza giustificata da una ragione che non è di questo mondo, ossia non è naturale, avente per oggetto non gli enti molteplici ma l’Essere unitario ed eterno, ossia Dio. Orbene, la constatazione della finitezza della sapienza umana naturale, conduce il dotto a riconoscere il suo stato di ignoranza delle cose divine, ossia dell’unica verità. Tale ammissione di ignoranza, se da un lato legittima razionalmente l’affidabilità della sapienza scritturale, dall’altro delegittima gli strumenti di conoscenza razionale dell’uomo, identificati con quelli della tradizione sapienziale, ritenuti appunto “naturali”. In ogni caso, la possibilità della conoscenza razionale è ammessa postulando la corrispondenza “verace” del “mondo visibile” a quello “invisibile”, la cui “immagine” può essere contemplata “come in uno specchio”, in cui si rifrange la conoscenza stessa di Dio, anzi del suo “enigma”.196 Conseguenza di ciò è che ogni manifestazione delle cose del mondo “è” nell’unità della sua connessione con l’identità dell’Uno, cioè con la sostanza di Dio, che di conseguenza sarebbe l’unica natura del mondo. Di conseguenza, ciò che è più grave, “l’unico universo” naturalistico, in cui “le cose hanno tra loro, reciprocamente una certa proporzione”, viene

196 Ivi, I, XI, pag. 75.

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identificato con “l’uno medesimo”,197 ossia con Dio stesso. E questo è panteismo.198 Cusano, servendosi di Boezio e di Aristotele, cerca di evitare questa ricaduta immaginando una “uguaglianza [che] procede per gradi sicché una cosa è più uguale all’una che all’altra, secondo la convenienza e la differenza del genere, della specie, del luogo, del tempo, dell’influenza ecc.”, lasciando impregiudicata, anche nell’uguaglianza, la differenza tra “misura e misurato”.199 O rifacendosi a Platone quando afferma che “la ragione di tutte le cose è una sola ed è partecipata in modo diverso [talché] non possono esserci due cose simili allo stesso modo e, di conseguenza, tali da essere partecipi nell’identico modo di un’unica e medesima ragione”.200 Ma tutta la apparente coerenza del discorso si gioca sull’equivoco dell’identità dell’essere logico con l’essere ontologico, che è all’origine della teoria del “rispecchiamento” dell’essente nell’ente. È stato a suo tempo notato a proposito delle “cause del discredito in cui cadde la scolastica”, quella riguardante “la sua avversione quasi sprezzante per ogni ricerca positiva”, risalente, oltre che alla tradizionale inclinazione clericale verso la teologia e la simmetrica distanza dalle “scienze profane”, soprattutto a “un grave errore di metodo, che risale allo stesso Aristotile, e che consiste nell’applicare alle scienze fisiche i procedimenti della metafisica”. Le conseguenze di tale metodo furono quelle di assorbire la quantità e la sua misura nella qualità, come più tardi si vorrà ridurre la qualità alla quantità; nel confinarsi nel principio d’identità, traendo infinitamente il medesimo dal medesimo, nascondendovelo per ritrovarlo e trionfando della propria

197 Ibidem.

198 Ogni razionalismo assoluto, astratto cioè dal suo rapporto dialettico col suo fondamento ontologico, che sia di segno idealistico o realistico, si converte nel suo opposto, di cui è identico. Ed è all’interno di questo costrutto di pensiero astratto che si muove la teoria dell’identità degli opposti di Cusano.

199 Ivi, I, III, pag. 64.

200 Ivi, I, XVII, pag. 88.

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scoperta; nel perdere così contatto con la realtà vivificante, tanto che il rinnovamento delle scienze positive sembrerà una condanna a morte per la disciplina, che aveva avuto i torto di disconoscerle, col pretesto di guardare più in alto.201

Le allusioni al Cusano sono implicite, ma chiare. D’altronde era stato Dilthey a notare che era proprio delle metafisiche teologiche riversare lo spirito religioso nel simbolismo concettuale, provocando, come nel caso cristiano medievale, una “pedantesca scolastica di concetti, che metteva a base di ciò che per sua natura non è reale sempre nuove irrealtà”.202 D’altronde, questo non sarebbe avvenuto senza “l’abito estetico scientifico dello spirito greco”, il quale, stabilendo il “principio divino della ragione” come quello “da cui dipende ciò che vi è di razionale nelle cose”, si “proiettò metafisicamente” nella cultura religiosa e filosofica come “formula della scienza metafisica della ragione”, sulla quale è possibile fondare la “garanzia” per la ragione umana sia della conoscenza logica e matematica del cosmo, che della oggettività delle leggi sociali.203

E fu da tale “schema” greco di “collegamento metafisico delle idee” che sorse quel “sistema naturale della metafisica” che da Socrate, Platone e la Stoa giunge alle scienze sperimentali di Archimede, Galilei e Cartesio, i quali tutti nella “molteplice varietà delle forme organiche” videro una “anima del mondo”, ovvero uno “spirito”, che la collegasse in un “sistema” logico di forme sostanziali o naturali, regolate da “determinate leggi”, le quali trovano in Dio il loro intimo collegamento universale. 204 L’applicazione del metodo matematico ai processi naturali consegue dunque logicamente dalle premesse razionalistiche del fisicalismo greco. Ma “l’abito scientifico” greco si “tinge” di una particolare sfumatura di “indirizzo” culturale, consistente nella rappresentazione del “pensiero” spirituale di forma universale in “visione” plastica di forma particolare,

201 A.D. Sertillanges, Il Cristianesimo e le filosofie, tr. it., Brescia, 19542, vol. II, I tempi moderni, pag. 9.

202 W. Dilthey, Concetto e analisi dell’uomo nei secoli XIV e XV , I (1891), tr. it. in L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, Venezia, 1927, vol. I, pag. 5.

203 Ivi, pag. 6.

204 Ivi, pagg. 7 8.

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nella quale lo spirito si oggettiva. Infatti, ribadisce Dilthey, “per lo spirito greco, conoscere è sempre in certo modo vedere”, per cui “la conoscenza è l’immissione nella coscienza di ciò che è di fronte ad essa”. Dall’idea metafisica di una necessaria corrispondenza dell’immagine interna della coscienza (pensiero) all’ente fenomenico esterno (azione), nasce la convinzione gnoseologica secondo la quale “solo l’identico può conoscere l’identico”, ossia che “a base di ogni nostro pensiero ed azione sta l’affinità della ragione umana con un tutto universale razionale”. Tale legame cosmico o “ragione divina”, riscontrabile nella razionalità degli enti mondani, fu da Platone chiamato Bene e da Aristotile Nous. 205 La razionalità del mondo è data pertanto dalla costante uniformità di ciò che permane in ogni cambiamento, condizione che costituisce la misura della sua “universalità” ideale e della sua concreta “realtà” ontica. In ogni manifestazione reale in un determinato spazio e tempo, la metafisica greca vede delle forme sostanziali, sicché per essa “l’assetto durevole dell’universo consiste appunto nelle relazioni che passano tra queste forme nella totalità di un cosmo conforme a pensiero o razionale”.206 Ai due elementi della religiosità e della naturalità razionale del cosmo, se ne aggiunge un terzo a caratterizzare la metafisica europea, il più legato alla visione romana del mondo: l’istituzionalismo, ovvero “l’atteggiarsi della volontà nei rapporti di dominio, libertà, legge, diritto”.207 Una volontà che da arbitrio personale diventa regola normativa, forma giuridica; da anelito di potenza, “pensiero del dominio” (Jehring).

Ma il “dominio della volontà”, inteso da Dilthey come principio metodico di “utilità”, consiste nella sua razionalizzazione, la quale, diventata costume socializzato e istituzione etica, appare essere la ratio stessa della natura umana civilizzata, ovvero la naturalis ratio insita nei rapporti umani e tra le genti, ovvero quella “base intangibile della vita sociale” di cui i diritto non è altro che la trascrizione codificata.208

205 Ivi, pag. 9.

Ivi, pag. 10.

Ivi, pag. 11.

Ivi, pagg. 13 14.

147

206
207
208

Gli interpreti storici di questa concezione del diritto naturale come il fondamento della società umana sono coloro stessi che ne custodiscono i valori esportandoli nel mondo, i Romani, il cui espansionismo universalistico testimonia di “uno stadio di coscienza storica più elevato di quello dei Greci”.209 Si comprende che la natura del pensiero etico politico romano fosse di principio pubblica, e punto filosofica in senso greco, ossia inerente la vita sociale dello Stato, e non la costituzione ideale della realtà, frutto del pensiero noetico. La completa socializzazione della vita civile romana realizzava un ideale di vita pubblica che, invece della coscienza spirituale, universalizzava la coscienza politica, facendo della ragion di Stato una categoria di pensiero di per sé inibitoria e neutralizzante ogni elucubrazione intimistica e soggettivistica. Diversamente da quello dei Greci, il pensiero dei Romani universalizzava, anziché la struttura dell’anima, la struttura sociale, facendone un modello di organizzazione dello Stato, la cui consolidata esperienza istituzionale e l’astratta formulazione giuridica si presentava come il modello stesso, il più perfetto e insigne, di convivenza umana, la espressione culturale più elaborata di “città degli uomini”, che entrò in crisi nel IV sec. d. C. con l’invasione dell’Urbe da parte dei Goti di Alarico. Diversamente che dell’Atene di Platone del IV sec. a. C., la Roma dell’età di S. Agostino aveva prodotto quell’innesto di pensiero religioso e di universalismo razionalistico che mancò invece al pensiero greco, il quale produsse con Socrate un martire del lògos, un testimone della ragione universale oppresso dalla ragione politica, ma non un artifex mundi, un fondatore di civiltà, che poteva sorgere soltanto nel “regno di Cesare”. In questo senso, l’idea di una “città di Dio”, che fosse in qualche modo e vedremo quale parlando di S. Agostino la fusione in chiave escatologica del mistico “regno di Dio” e della universale città politica, poteva nascere solo in un contesto antropologico culturale romano, la cui proiezione imperiale costituiva una base di esperienza storica ben altrimenti consolidata della visione idealistica rappresentata dalla Repubblica platonica. Anzi, la verificata impossibilità storica di

209 Ivi, pag. 14.

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conseguire la città ideale nell’ordine politico, segnò la crisi della stessa metafisica naturalistica greca, che nel “rispecchiamento” reale della visione teoretica fondava la sua credibilità epistemologica. Lo spiritualismo cristiano innestò l’originale motivo escatologico della sua metafisica trascendente in un contesto etico politico tradizionalmente sensibile al valore religioso di ogni cultura teologica, sicché la stessa prospettiva escatologica della sua predicazione si tradusse storicamente nella realistica possibilità del conseguimento della conversione dell’umanità pagana entro l’universalità tracciata dai tradizionali confini imperiali di Roma, la cui complessiva vicenda storica poté essere concepita dagli apologisti cristiani come la provvidenziale premessa dell’universalismo cattolico.

E dunque possiamo affermare, con le parole di Dilthey, che “questa religione e questa teologia si svilupparono poi in un comprensivo concetto unitario dell’impero divino e dei suoi rapporti col mondo”,210 ma non crediamo che tale risultato fosse stato il prodotto dell’universalismo concettuale del Logos greco e del nazionalismo giuridico del Nomos romano. Infatti, l’ideale razionalistico dell’ Imperium fu piuttosto un portato dell’universalismo teologico cristiano che non la sintesi della cultura greco romana veicolata dallo stoicismo, proprio perché il fondamento antropologico della civiltà romana era di natura eticopolitica, la cui affermazione in chiave universale insisteva perciò entro un orizzonte di senso non declinabile in termini filosofici, dialetticamente opposti a quelli precipuamente politici. Solo lo spiritualismo cristiano poté fare da cerniera mediatrice tra le sue polarità culturali, attraverso appunto la costituzione di un nuovo orizzonte di senso escatologico che, neutralizzando entro le proprie forme metafisiche le antiche distinte espressioni storiche, le assunse come astratti momenti culturali di un unico processo di inveramento escatologico, costituito dalla Storia della salvezza dell’umanità. Fu tale sintesi teologico metafisica a dominare la cultura europea fino al sec. XIV, allorquando la sua crisi moderna ne rivelò la reale natura sincretistica. Il nuovo paradigma metafisico cristiano agì sulle maggiori culture del

210 Ivi, pag. 16.

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tempo, quella greca e quella romana, in senso razionalistico, criticando i fondamenti religiosi dell’ontologia classica alla stregua di una rielaborazione filosofica, condotta però in nome di una verità teologica inconfutabile. Epperò il grado di credibilità della nuova fede religiosa fu misurato, non già dalla potenza spirituale dei suoi motivi escatologici, in grado di convertire radicalmente gli animi dei credenti, ma dalla fondatezza razionale delle sue tesi, ossia nei termini di una questione filosofica dibattuta sul modello dei dialoghi dialettici. Il rapporto “contrattuale” che tradizionalmente intercorreva tra i fedeli e le divinità romani,211 persistette nella considerazione degli apologeti cristiani allorquando sorse il problema di giustificare il comportamento divino in occasione dell’invasione barbarica di Roma del 407, attribuita all’abiura della tradizione religiosa a favore del nuovo Dio cristiano, che costituì la ragione morale della trattazione agostiniana della Città di Dio, in cui Agostino mise in evidenza l’impotenza degli dèi pagani di fronte alle sventure singole e collettive, gettando su di essi un discredito non minore né meno intellettualmente crudo di quello che i razionalisti alla Voltaire getteranno a loro volta sul Cristianesimo a seguito del terremoti di Lisbona del 17xx. La nuova rappresentazione teologico metafisica della storia cristianamente pensata si costituisce dunque come una imponente e articolata rielaborazione della mitologia delle maggiori e più avanzate civiltà pre-cristiane.

La fede cristiana parte da un principio intuitivo, che però non è l’esperienza concreta dell’essere, quale primum cognitum della conoscenza, ma è un cogito che ha per oggetto un fenomeno esistente ma non essente, e perciò apparente. La relazione che la coscienza stabilisce col fenomeno non è di evidenza, cioè di certezza, ma di negazione, ossia di dubbio. E stabilire, quale contenuto del pensiero, un ni ente, significa : a) fare del pensare una attività negativa, critica, tesa a negare appunto l’evidenza (ciò che appare) in nome della (vera) essenza (= idealismo); b) isolare il pensiero dalla realtà di fatto per giungere quindi a una relazione soggetto-oggetto costitutiva di tutta l’attività della coscienza (= soggettivismo).

211 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 15.

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Questa duplice articolazione del pensiero negativo si fonda su un presupposto di fede che è diverso dalla credenza suscitata dai sensi, e consistente nel ritenimento che il fenomeno, oggetto del pensiero, non sia un ente, come indicherebbero i sensi, ma bensì un ni-ente, cioè un nonessere rispetto alla ragione. Questa fede razionalistica, partendo dal pensiero per definire l’ente, pone il pensiero stesso come l’Essere, ossia fa dell’Essere un’Idea.

La distinzione razionale del pensiero dall’oggetto, nell’orizzonte idealistico diventa reale, per cui il pensiero diventa soggetto trascendentale, la cui realtà è indipendente dalla realtà oggettiva, la quale ultima, fuori dalla attività pensante, è irreale, ossia niente. Il soggetto del pensiero “divora” il suo oggetto, ossia la realtà sensibile, oggettiva, trasformandola in una sua determinazione razionale. Ma, poiché la dinamica del pensiero razionale si fonda, come detto, sulla fede idealistica che la vera realtà sia l’oggetto del pensiero razionale e non invece la realtà sensibile, la validità della relazione razionale si fonda anch’essa su quella fede, per cui la sua invalidazione, per mezzo di una critica confutativa, è decisiva della verità dei suoi dati di coscienza. E così avviene che la supposta priorità accordata al soggetto conoscente, in realtà risulta anch’essa una credenza, cioè una componente del mito idealistico, e come tale refutata o a favore della realtà sensibile, ovvero a favore di un’altra fede più razionale. Ciò che rimane della critica refutativa della mito logia idealistica, è l’attività di pensiero in sé stessa, cioè la tecnica dialettica di distinguere gli astratti elementi dell’Essere concreto allo scopo di negarli. La concretezza dell’Essere oggetto della critica dialettica, consiste nella sua totalità, comprensiva sia delle forme del sapere che dei contenuti d’esperienza. Orbene, la rielaborazione cristiana della metafisica greca e delle strutture istituzionali dell’esperienza politica romana allo scopo di includerle nel nuovo orizzonte di senso escatologico della sua teologia, ha operato razionalisticamente nel verso della distinzione di ognuna di esse dalla loro rispettiva totalità di senso ontologico, in modo tale da trasvalutarne i valori originari nella nuova dimensione di fede, che si costituisce quindi come la negazione metafisica dell’antico ordine cosmologico della civiltà pagana. Il Cristianesimo ha infranto l’intera tradizione filosofica classica, introducendo nel suo percorso esperienziale

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l’idea della compiuta verità antropologica offerta dal suo modello teologico. Proprio questo modello veritativo, meta temporale e pre istorico, consente di rappresentare l’umanesimo cristiano come la forma ideale di ogni contenuto storico particolare delle culture storiche, le quali, al di là delle proprie caratterizzazioni singolari, possono essere comprese nell’universo cristiano attraverso la preventiva riduzione del senso totale della loro datità storica ad astratto elemento antropologico, il cui significato trasvalutato è nella sua stessa possibilità di aderire alla fede universale.

I caratteri di universalità, astrattezza e criticità (o negativismo) sono proprii non del solo Cristianesimo, ma della logica razionalistica, ossia dell’idealismo che lo spiritualismo cristiano ha mutuato dalla tradizione metafisica greca. Caratteri che emergeranno con evidenza nell’età moderna, sino a definire una “rivoluzione” filosofica con Cartesio, ma che in realtà sono presenti nella intera metafisica cristiana, e che trovano in Cusano l’estremo epigono che ne disocculterà la latenza, schiudendo così l’antico pensiero teologico al dialettico metodo moderno, interrompendone l’assedio.

Si può dunque affermare senza paradossalità che l’impresa teologica cristiana di trasvalutare metafisicamente il molteplice mondo delle culture e civiltà umane in un cosmo universale razionalmente coerente, se non compatto, si è rivelato un cimento storicamente impossibile perché razionalmente contraddittorio rispetto allo stesso intendimento originario, e quindi autentico, della predicazione di Cristo. Questa, infatti, si rivolgeva ai singoli uomini, assumendo come vera realtà solo quella spirituale personale, come attestato dallo stesso Agostino, il quale, a proposito della società romana, ne nega la sua costituzione collettiva di organismo politico, definendo la città “non altro che una moltitudine unanime di individui”.212 E pertanto, nella logica dell’individualismo cristiano, il sacrificio etico di Attilio Regolo al valore sociale dell’onore di fiduciario di Roma, perde di ogni significatività morale, perché riferito al vincolo del giuramento divino, e non già al suo sentimento di appartenenza a una realtà che eticamente lo trascendeva, e che per

212 Agostino, La città di Dio, I, 15.2; ed. it. a cura di D. Gentili, Roma, 2000, pag. 34.

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Agostino era un idolum tribus. Di mezzo alle due Weltanschauungen vi era una stessa fede sincera nei rispettivi valori, ma diversamente orientata, in senso immanente quella etico politica, in senso trascendente quella religiosa, ma comunque costitutiva in entrambi i casi di un decisivo legame mistico con il rispettivo fondamento ontologico. Decisivo, s’intende, per le sorti della coscienza che vi faceva riferimento. E proprio tale legame decisivo della coscienza individuale con le ragioni del mondo e di Dio, definiva l’indirizzo del comportamento morale, ossia l’indice dell’appartenenza cosmica del singolo. Nondimeno, sussisteva tra le due prospettive morali una differenza metafisica non secondaria, per la quale il dato immediato della coscienza rivelava, nel primo caso, il mondo della vita, ossia il contesto storico tradizionale in cui la stessa esistenza umana trovava significato e valore, mentre, nel secondo caso, rivelava l’opera di Dio, la creazione, la stessa Sua traccia trascendente. In altri termini, nella coscienza romana, il fondamento dell’Essere del mondo era l’Essere stesso, che si rispecchiava nella realtà fenomenica; nel caso cristiano, invece, il fondamento ontologico della coscienza era Dio, un’entità precedente creatrice precedente l’Essere, a cui si poteva giungere mettendo tra parentesi la realtà esterna alla coscienza. In questo caso, il viatico della ragione non passava per il mondo ma per il “cuore” (Pascal), non per i senso ma per l’intimità della coscienza. L’ idealismo platonico offriva sicuramente un precedente percorso metafisico che agevolava quel nesso di continuità col passato in funzione innovativa che consentiva al Cristianesimo di presentarsi come il nuovo universo di senso inclusivo dei precedenti livelli di coscienza sapienziali delle maggiori civiltà pagane, trasvalutate insieme all’ebraismo in una nuova cosmologia totalitaria. Dilthey propende alquanto verso una enfatizzazione dell’apporto stoico prima all’universalismo etico romano e quindi a quello cristiano,213 ma l’universalismo pagano non trascese mai la dimensione immanentistica dei valori morali naturali, ossia il fisicalismo dell’ontologia classica, che soltanto la metafisica cristiana riuscì a fare attraverso la relazione mistica del divino e dell’umano, disciolta la quale, torneranno in auge nell’età

213 W. Dilthey, Loc. cit., pagg. 16 sgg., 121 sgg., 197 207.

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moderna gli antichi modelli pagani già tra svalutati, e con essi la rielaborazione dell’intimismo cristiano in chiave razionalistica “indipendente dal dogma”, ossia da quella “catena” di “meditazioni, soliloqui, discorsi dell’anima con Dio […] che da Agostino passando per san Bernardo e per i pii Francescani giunge sino alla mistica dei secoli XIV e XV”.214 Questa pia tradizione costituisce certamente una fonte del pensiero di Cusano, tutto giocato sul rapporto tra il mistico Assoluto divino e la sua essenziale trascendenza, tendente a difendere l’umanesimo cristologico dalla “mondanizzazione” operata dalla rinnovata sensibilità cosmologica dell’umanesimo neo pagano.215 La rivalutazione umanistica delle civiltà greca e romana operò sul terreno culturale mondanizzato del sec. XV come un potente fattore di decadenza morale. E non già a cagione del misconoscimento dei sommi valori morali che il Cristianesimo stesso aveva ereditato dallo stoicismo, la cui tradizione tornò in auge col Petrarca e Boccaccio, nelle lettere, e coi vari Salutati, Bruni, Poggio, Panezio, Valla nella trattatistica filosofica, ma in quanto quella rivalutazione mantenne fermo il presupposto antico, e anti cristiano, dell’autonomia della ragione dalla morale, in virtù del quale la ratio aveva “la parola decisiva” sullo stesso “soccorso divino”, che si invocava “solo come forza ausiliare, quando la lotta vitale per la ratio diventa troppo aspra”.216

Porre la ragione al vertice della coscienza umana, significava aderire al principio polemico della realtà che la sapienza greca, da Eraclito a Erodoto, da Platone ad Aristotile, confermò essere il fondamento stesso della vita umana. La dissoluzione dell’orizzonte di senso cristiano comportò, attraverso la rilettura umanistica della classicità fuori del suo teologico filtro ermeneutico, l’esaltazione del fondamento razionalistico dell’Essere, incentrato appunto sulla emancipazione della ratio dalla

214 Ivi, pagg. 23 24.

215 Di “mondanizzazione” rinascimentale della “incomparabile patrimonio” della tradizione religioso morale cristiana ha parlato Dilthey in Loc. cit., pagg. 25 sgg. Sullo “umanesimo cristologico di Cusano”, ved. G. Federici Vescovini, Introduzione all’ed. it. cit. della Dotta ignoranza, pagg. 31-32.

216 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 28.

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fides. Su questo presupposto anti-cristiano si fonda la teoria machiavelliana della politica come ratio potestatis, una “ragion di Stato” intesa come logica del dominio del tutto scevra di finalità morali, ossia come mera tecnica del potere. Ovviamente, la supposta “necessità” della “autonomia” della politica di cui parlava Croce era tutta interna alla Weltanschauung neo razionalistica, che ri poneva nei tempi moderni la formazione e conduzione efficace dello Stato come il fine massimo del pensiero e dell’azione umani. Di conseguenza, la disgregazione teoretica dell’orizzonte di senso cristiano stornò la riflessione morale dal pensiero di Dio al pensiero dello Stato, alla maniera antica. E se da questo punto di vista neo pagano si poté ben considerare l’opposizione della Chiesa, denunciata dal Machiavelli nei suoi Discorsi, circa la formazione di uno Stato nazionale italiano, dal punto di vista dell’etica cristiana quell’ostacolo, mondato di ogni contingente implicazione politica, poteva altrettanto bene apparire come una resistenza morale alla complessiva decadenza culturale del tempo.217 In ogni caso, la questione qui più importante è la ricaduta storica di tale disgregazione teoretica, che segna la crisi anche del sistema cristiano medievale, inteso come civiltà eretta sulla duplice matrice greco romana trasvalutata in senso cristiano. La dissociazione, né spontanea e neppure indolore, della Weltanschauung della cristianità medievale dall’essenza dell’ontologia spiritualistica del Cristianesimo evangelico, non segnò pertanto la crisi dei valori cristiani, bensì la crisi della religione cristiana, cioè della sua funzione di mediazione storica tra le istanze polemiche interne a una struttura politico istituzionale informata a criteri culturali ereditari,

217 È appena il caso di aggiungere che questo ragionamento si può estendere per analogia anche alla precedente resistenza opposta dalla Chiesa alla costituzione di un Impero europeo controllato dalla potenza dei prìncipi tedeschi, come pure alla successiva rinuncia a patrocinare la costituzione di uno Stato italiano durante il Risorgimento. Sono tutti esempi interpretabili come una “resistenza morale” alla secolarizzazione europea moderna, i quali hanno sicuramente un loro forte risvolto politico mondano, ma che non può essere assunto unilateralmente come quello decisivo se non ponendosi nella esclusiva posizione teorica razionalistica.

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sostanzialmente pagani e persistenti nella società cristianizzata e nella stessa Chiesa istituzionale; e i motivi squisitamente spiritualistici, informati a criteri morali caritativi, di ispirazione evangelica, interni alla Chiesa mistica. Le due Chiese potettero convivere in più o meno armonica simbiosi, fino a quando l’agostiniana “città di Dio” visse da “esule fra gli infedeli”, definendosi in contrapposizione dialettica con la “città degli uomini”. Ma allorquando, col passare del tempo e quindi col consolidamento istituzionale della presenza della Chiesa nella realtà europea, la sua contrapposizione alla società pagana perse progressivamente il suo carattere mistico, per assumere viepiù un senso schiettamente politico, tale da trasferire al suo interno il contrasto sempre più evidente tra la prospettiva spirituale e profetica, e la prospettiva realistica e mondana. Divenuta interna alla società cristianizzata la dialettica prima esterna all’orizzonte dei valori cristiani, si riprodusse all’interno della Chiesa storicamente universale la dicotomia tra il piano di coscienza spirituale informato a princìpi di sola fides, e un piano di coscienza storica informato a princìpi di sola ratio. Nella cristianità storica, dunque, la visione spiritualistica fu interpretata dalle correnti mistiche, le quali, da Francesco a Gioachino fino a Lutero, perseguirono un disegno escatologico basato su una interpretazione profetica del messaggio evangelico; mentre la visione razionalistica fu interpretata dalla Chiesa istituzionale, la quale aderì alla logica della conservazione politica del patrimonio culturale del Cristianesimo storico, e quindi alla sua difesa mondana. L’opzione mistica non fu senza conseguenze per l’emancipazione della cultura europea moderna dalla medievale soggezione teologica, come pure l’opzione realistica non fu culturalmente neutra rispetto alla progressiva implosione dell’orizzonte metafisico cristiano in senso razionalistico. Infatti, entrambe le prospettive postmetafisiche concorsero a trasferire sul piano dell’immanenza quei motivi e quelle sensibilità culturali prima accolti e valutati alla luce della prospettiva della Storia escatologica, e quindi tradotti nella logica razionalistica in termini positivistici di questioni socio politiche derimibili sul piano dei rapporti giuridici o militari. Infatti, infranto l’equilibrio tradizionale tra le due Chiese, ogni tendenza particolare interna al suo orizzonte, perse il suo originario carattere mistico e componibile in una superiore coincidentia

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oppositorum, per assumere concrete fisionomie positive, rappresentate simbolicamente dalla Chiesa e dall’Impero, ognuna delle quali fornita di una intestina legittimazione morale, ma entrambe concorrenti al dominio politico della società europea, e quindi confluenti ambedue a una stessa logica polemica. Su questo terreno culturale, di sostanziale svalutazione di ogni prospettiva morale a favore delle concrete e ravvicinate risoluzioni politiche, nasce la figura e l’opera letteraria del Machiavelli, il quale “al pari di molti altri umanisti suoi contemporanei era un perfetto pagano”.218

Il ritorno al paganesimo, entro la civiltà cristiana, poteva consistere o a) in una riabilitazione intellettuale di antichi filoni culturali, il cui aggiornato ripristino provocasse, attraverso nuovi modelli di legittimazione morale del potere sociale, un cambiamento di paradigma istituzionale promosso dal protagonismo di nuovi soggetti elitari in competizione vittoriosa con gli antichi, pur entro una cornice di valori antropologici tradizionali, e che possiamo indicare come cambiamento fuzionale; ovvero b) nella sostituzione dei tradizionali valori antropologici, dominanti ma elitari, con modelli socio-culturali ancora più antichi e popolari, che si rifanno a sedimentazioni etnico antropologiche sotterranee, mai raggiunte o solo superficialmente lambite dalla cristianizzazione della società, e che possiamo indicare come un cambiamento strutturale. Nel primo caso, siamo di fronte a un riassetto delle forme istituzionali e delle gerarchiche sociali nell’ambito di un sistema di valori comuni alle élites in competizione, tale che la rinnovata dislocazione sociale degli assetti del potere e del quadro etico normativo non alteri la struttura fondamentale della società, assestata su cardini metafisici. In questo caso, la dinamica dei mutamenti sociali interagisce con le resistenze conservatrici su un livello di coscienza etico politica che, per quanto significativa delle trasformazioni storiche, non intacca l’orizzonte di senso ontologico che delimita i valori antropologici culturalmente dominanti. Questo avviene nei casi di rielaborazione del Mito ontologicamente fondativo del senso della realtà, attraverso un processo

218 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 35.

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di razionalizzazione filosofica del livello di coscienza religiosa, assestata dogmaticamente sui modelli culturali tradizionali.

Il rinnovato livello di coscienza culturale, mantenendo ferma la struttura epistemica tradizionale della società, delimita la sua fenomenologia all’ambito etico politico delle forme istituzionali storiche, sicché la sua reale incidenza sociale è circoscritta a quell’ambito elitario, lasciandone impregiudicato dunque l’assetto antropologico più profondo.

Tale livello di coscienza è quello proprio alla filosofia, la quale pensa l’Essere, ma non lo fonda, conservando nelle sue elaborazioni teoretiche gli stessi fondamenti ontologici affermati dalla fede, la quale pertanto costituisce il sostrato epistemico originario di ogni pensiero razionale dell’Essere.

Data l’unità ideale del cosmo razionale, il “rispecchiamento” pratico delle elaborazioni teoretiche del pensiero critico è costituito dagli indirizzi etici delle dinamiche politiche interne alle società storiche, i quali, ideologicamente legittimati dagli indirizzi filosofici dominanti, agiscono concretamente sotto forma di istituzioni giuridiche funzionali all’indirizzo e alla regolamentazione della prassi socializzata.

Il percorso intrapreso dal processo di secolarizzazione della civiltà cristiana all’inizio dell’età moderna è senza dubbio rapportabile al primo caso, in quanto la riabilitazione delle antiche forme culturali pre-cristiane, romane e greche, per quanto originariamente inscritte nei rispettivi universo di senso pagani e naturalistici, furono in ogni caso, come abbiamo visto, trasvalutati metafisicamente dallo spiritualismo cristiano, e quindi ri-compresi all’interno dei nuovi valori teologici come momenti di un unitario e universale percorso storico escatologico, nella cui fenomenologia venivano re interpretati e giustificati. Esattamente tale giustificazione assiologia, caduto il referente religioso, persistette nella cultura umanistica secolarizzata come un valore intellettualmente acquisito alla civiltà europea, consistente nel primato metafisico della ratio, che sarebbe stato perciò confermato etsi Deus non daretur.

Sia il primato della politica in ambito ideologico, che il primato del razionalismo in ambito filosofico, sono i contrassegni pratici e teoretici di uno stesso processo di dissoluzione della metafisica cristiana all’insegna dell’antico imperium romano e dell’antico lògos greco, entrambi entrati a

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far parte dell’universo di senso teologico e filosofico della civiltà cristiana storicamente in crisi.

Il secondo caso di cui sopra, ossia quello di un cambiamento strutturale del sistema socio-culturale, non sono in gioco le funzioni nominali del potere politico, ossia la dislocazione gerarchica della struttura istituzionale predisposta alla conservazione degli assetti sociali, ma bensì l’ordine valoriale sulla base del quale è possibile giustificare razionalmente la legittimazione morale della struttura istituzionale, la quale si costituisce quindi come struttura etica.

Questa “struttura etica”, non è, come credeva Marx, di tipo economico, inerente cioè i rapporti sociali di produzione, ma pertiene ai valori metafisici che qualificano il modello antropologico sottostante alle forme storiche di socialità. Ciò vuol dire che il rapporto tra il livello funzionale del sistema sociale, e il suo livello strutturale è mediato da una teoria di valori metafisici che definiscono in senso etimologicamente religioso quel rapporto sociale, e senza i quali non sussisterebbe alcuna connessione ideale tra i due livelli.

I cambiamenti puramente funzionali sono quelli interni a uno stesso orizzonte valoriale, nel cui ambito comune si dispiega, senza comprometterlo, la dinamica dei conflitti sociali. In tal caso, non sono in gioco i valori comuni alle parti sociali in competizione, ma la titolarità politica. Sicché, la lotta si definisce di natura politica proprio in quanto non inerente il valore etico delle funzioni, ma appunto la loro mera titolarità politica. All’inizio dell’età moderna, l’esaltazione teorica della politica quale tecnica di potere, ha come presupposto, non già la stabilità della struttura metafisica dei valori sociali, ma, al contrario, l’instabilità del tradizionale orizzonte di valori che è in via di dissoluzione culturale. Questa condizione strutturale carica la politica di una valenza etica che idealmente non dovrebbe avere e che perciò viene teoricamente tenuta distinta dall’azione tecnica, ma che in realtà le assegna una funzione supplementare di tipo morale. Da qui l’ambiguità teorica della stessa dottrina politica di Machiavelli, il quale, da un canto definisce nel Principe la politica come strumento amorale di potere, e quindi puramente tecnico, e dall’altro le assegna nei Discorsi una finalità edificante di purificazione morale della società corrotta dalle pratiche

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ecclesiastiche, della quale investiva lo Stato, quale titolare e custode dell’etica pubblica.

La polemica machiavelliana contro la Chiesa fedifraga, e la sua parallela apologia dello Stato etico, rappresenta propriamente la crisi epocale dei valori morali che si riverbera sulla struttura sociale nei termini di una complessiva valutazione storica negativa della religione cristiana intesa come valore mistico e intimistico, e di una sua alternativa declinazione politica di strumento pedagogico funzionale agli scopi etici dello Stato. Questa funzione etico politica assegnata alla religione definisce il “nucleo del pensiero del Machiavelli intorno alla religione in generale”, in base al quale “egli misura l’importanza della religione dalla efficacia di essa sullo Stato e sui costumi, sul giuramento e sulla probità, di cui lo Stato ha bisogno”219 Da qui deriva di conseguenza la riabilitazione della antica “religione romana” quale custode dei valori metafisici dell’etica pubblica dello Stato.

Ma questa teoria è tutt’altro che la “scoperta” della “autonomia” della politica dalla morale; al contrario, Machiavelli ne riformula i suoi princìpi assegnandole una funzione etica di cui il Cristianesimo l’aveva privata in ossequio al primato della coscienza spirituale sui valori mondani della socialità politica. In altri termini, avviene anche nel suo caso una riabilitazione umanistica della cultura romana pensata nei termini della sua originaria civiltà, e non più entro l’orizzonte valoriale del Cristianesimo.

L’esaltazione machiavelliana dello Stato etico è strettamente congiunta alla svalutazione del Cristianesimo come religione mondana, la cui antropologia era inservibile ai fini di una pedagogia statalistica. E questo, iuxta propria principia, era logicamente e storicamente innegabile: il Cristianesimo non era riuscito a costruire, e prima ancora a concepire, una forma di socialità alternativa a quella politica dello Stato classico. La Chiesa, infatti, pensata agostinianamente come itinerante “città di Dio” in terra, non era riuscita storicamente né a mondarsi delle forme istituzionali delle civiltà classiche di cui aveva accolto trasvalutandola l’eredità ideale, e neppure a convertire spiritualmente le genti cristianizzate.

219 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 36.

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Da questo fallimento storico delle dottrine cristiane, Machiavelli deduce che gli unici valori antropologicamente reali sono quelli sociali, e che la stessa morale, al di fuori della sua valenza sociale, non è un valore indipendente e assoluto, ossia superiore, rispetto alla politica. Ma ciò non significa, come spesso superficialmente si è creduto, che la politica sia “indipendente” dalla morale, non essendo la morale indipendente dalla politica. L’idea di Machiavelli è, al contrario, che la politica possiede un suo intrinseco valore assoluto proprio in quanto custodisce l’etica dello Stato, che per lui, neo pagano, è l’unica dimensione morale antropologicamente reale. Ciò che il Machiavelli nega è pertanto la dottrina cristiana dell’interiorità della verità e della superiorità morale dello spirito sul potere politico. La rivalutazione dello Stato etico classico consegue parallelamente alla confutazione storica della morale cristiana come etica pubblica, sostitutiva di quella antica, appunto statuale, e rappresenta una ideale risposta alle tesi contrarie di Agostino. In questo senso possiamo dire di Machiavelli che egli sia stato, a distanza di un millennio dalla redazione della ideale Città di Dio, l’apologeta post-cristiano della reale città dell’uomo.

A scontrarsi non sono, come nel caso della Repubblica di Platone, due rappresentazioni deontologiche della ottima convivenza umana, declinate rispettivamente secondo il modello filosofico antico e il modello teologico cristiano. Nel caso di Machiavelli, il suo confronto con il modello agostiniano si rapporta al piano della storia, ossia dell’esperienza realmente vissuta dalla civiltà europea, per cui la bontà del suo ideale di Stato è suffragata dal fallimento storico della Chiesa, e quindi dalla crisi evidente della civiltà cristiana.

Il punto di forza rispetto alla prospettiva sociologica agostiniana era dunque il preciso referente storico di Machiavelli alla civiltà romana, la stessa che aveva costituito il punto partenza della critica di Agostino. Solo che la prospettiva dei due scrittori era diversa, e simmetricamente opposta. Infatti, Agostino partiva dalla crisi della romanità come elemento fattuale decisivo per il rigetto cristiano della sua ideale qualità sistemica, mentre Machiavelli considerava della civiltà romana la sua rappresentatività classica del modello antropologico eterno, la cui “regola generale” era offerta dai trattati sulla natura umana di autori quali Platone, Aristile, Polibio e Livio, e non certo dagli apologeti cristiani. Il

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razionalista Machiavelli

ignora affatto il pensiero di un’evoluzione o sviluppo dell’umanità: egli appartiene a coloro che nel secolo decimo sesto, fondandosi appunto sul principio dell’uniformità dell’uomo in tutte le età, prepararono la via che doveva condurre a far derivare dalla natura degli uomini un sistema naturale delle forme di civiltà. E’ certo che in tale principio si fondava per il Machiavelli la possibilità di avere un’arte e una scienza politica. Movendo da una tale uniformità, la sua tendenza generalizzatrice poteva dalla storia di tutti i tempi raccogliere dei casi per costruirvi su delle induzioni […].220

Se Agostino partiva dalla fine della civiltà antica per disegnare un nuovo futuro di speranza cristiana, Machiavelli partiva dalla fine della civiltà cristiana per tornare all’inizio della civiltà classica. La prospettiva nei due casi è simmetricamente rovesciata, ma non logicamente equivalente. Infatti, in entrambi gli scrittori l’elemento decisivo è la crisi dei regimi criticati, dalla quale partire per confutarne il modello ideale. Così, mentre in Agostino il sacco di Roma diventa espressivo simbolico della inconsistenza storica della civiltà romana, in Machiavelli è la crisi della Chiesa a rivelare l’inadeguatezza teorica del messaggio cristiano. Ossia, per entrambi è il riscontro storico a determinare il giudizio di valore teorico. Se infatti Machiavelli rimuove dalla sua considerazione storica la crisi della civiltà romana, per esaltarne il modello astratto, che diventa quindi per lui la sua vera realtà, quella appunto ideale e non punto storica, Agostino parte dalla crisi di Roma per affermare, attraverso l’inglorioso epilogo del più imponente esempio di civiltà antica, l’edacità di ogni esperienza storica dell’uomo, e la conseguente validità della prospettiva escatologica cristiana. Entrambi i modelli sono reali per ciò che negano, ossia le civiltà assunte come modelli storici negativi, mentre sono ideali in quanto modelli ottimali di società alternative. Pertanto, storicamente non esiste né la romanità di Machiavelli, il cui modello doveva ai suoi occhi costituire la meta politica dello Stato italiano condendo, e neppure la agostiniana “città di Dio”, la cui realtà era destinata alla fine dei tempi. Esistevano solo, per il Fiorentino, i piccoli e medi principati italiani, da una parte, e la Chiesa con le sue nefandezze, dall’altra; e per Agostino le 220 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 39.]

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macerie dell’antica civiltà imperiale, sulle quali edificare la nuova civiltà cristiana.

Non di meno, sussiste una decisiva differenza nei due casi: mentre Agostino non crede sia possibile realizzare nella storia la città di Dio, accettando dunque le insufficienze della stessa vita terrena della Chiesa di Cristo, Machiavelli come già Platone a suo tempo e come Rousseau e tutti i razionalisti dopo di lui crede invece che sia possibile e anzi doveroso realizzare il modello ideale di Stato, che è già esistito in passato, e che ha finito di esistere storicamente solo a opera della stoltezza umana, e che va dunque riesumato a gloria del genio umano e della sua infallibile ratio. Da qui la funzione essenziale della politica razionalmente pensata.

Questa deve fermare la velocità furiosa, con cui la natura umana precipita verso la corruzione; deve conservare o rinnovare, coi mezzi della legge e della religione, l’energia, i coraggio, la coscienza giuridica, la tranquillità; se poi lo Stato è in preda alla corruzione, essa deve cercare di restaurarlo, all’occorrenza mediante la violenza aperta e noncurante di qualsiasi diritto esistente, come pure mediante intrighi politici, senza tener conto d’alcun principio.221

La funzione della politica è dunque quella di negare il divenire della storia e di affermare l’unità ideale, come in Platone. La sua azione estrema non è immorale, come potrebbe sembrare, poiché essa stessa costituisce il valore etico sociale cui tutti i membri sono tributari di realtà storica. La possibilità di affermare la realtà dell’ideale è l’epilogo contraddittorio di ogni razionalismo, la cui fede ontologica è che l’Essere sia un’Idea.

La società, nella prospettiva dell’umanesimo razionalistico di Machiavelli, è la proiezione di un ideale ordine politico in cui trovano armonia le diverse e spontanee aspirazioni individuali e che consiste nella potenza dello Stato. Il fine statale è quello di consentire che la realtà sociale, altrimenti debole e disarmonica, trovi tramite l’attività politica un suo punto di condensazione istituzionale, in grado di indirizzare lo stesso destino delle cose terrene, ossia la “fortuna” dei popoli. Prima di

221 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 42.

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Rousseau, fu dunque il Machiavelli a indicare un percorso razionale del tutto umano e politico in grado di provvedere alle sorti comuni in alternativa al disegno divino. Proprio in Italia il sincretismo teologico della metafisica cristiana trovò il limite della sua verifica storica, offrendo allo scrittore fiorentino lo scenario fenomenologico in cui si manifestava la difficoltà di tenere in collegamento armonico i due livelli di realtà, funzionale e strutturale, grazie a una fede che, in contrasto anche stridente con la predicazione apologetica e morale, era portata dalle stesse esigenze di coesione sociale a perdere progressivamente il suo carattere spiritualistico e trascendente, per acquisire una fisionomia viepiù religiosa, e perciò disponibile a pratiche compromissorie con le crude ragioni del mondo. Interprete di questa deformata piega secolare del cristianesimo era la Chiesa di Roma, e segnatamente il suo governo curiale. La Curia romana era per Machiavelli il luogo antonomastico della corruzione morale, dove si consumavano tutte le contraddizioni di una fede costretta dal suo stesso esclusivo universalismo a fungere, contro le sue intime vocazioni, da legame morale di quella società, che i suoi princìpi indicavano pur sempre come il luogo antagonistico alla trascendente verità. in questo senso precipuo, il machiavellismo, quale pratica dei rapporti politici indipendenti da ogni finalità morale, precede la sua formulazione teorica, costituendo la logica stessa della conduzione storica della Chiesa nel mondo, e perciò solo nel contesto culturale cattolico e socio politico italico poteva trovare la sua piena consapevolezza. Sta di fatto che in quel contesto storico si consuma la dissoluzione metafisica dell’universo cristiano in senso razionalistico, favorendo l’implosione di segno mistico del puro fideismo spiritualistico, che troverà questa volta in Germania il suo luogo di elezione. L’essenza spirituale della Riforma consistette nell’affermazione decisa ed inequivocabile del primato della dimensione morale su quella politica, e quindi della persona sugli enti collettivi, compresi lo Stato e la stessa Chiesa. Ma, anche in questo caso, pur speculare a quello razionalistico, e sia pure per conseguenza e non direttamente, il punto nevralgico dove si incentrerà la discussione teorica era il rapporto del cristiano con il potere politico. L’ineludibilità del tema era dovuta alle stesse condizioni esistenziali dei cristiani, partecipi storicamente sia alla sfera dei rapporti

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politici, che alla sfera spirituale dei rapporti col corpus misticum christianorum, le quali rispondevano di principio a logiche opposte, che l’autorità ecclesiastica ha cercato invano di armonizzare attraverso la distinzione istituzionale tra i due poteri spirituale e temporale, ma i cui conflitti però, fuori delle due strutture istituzionali concorrenti, attraversavano concretamente lo stesso corpo sociale, lacerandolo intrinsecamente. Proprio in virtù della logica spiritualistica, fondata sul rapporto personale con Dio, ogni rapporto collettivo finiva per assumere una fisionomia secolare, sulla quale si concentrava la concorrente pretesa della Chiesa e dello Stato. In mancanza di un formale e sostanziale riconoscimento dell’autorevolezza ecclesiastica da parte dell’autorità politica, ogni contenzioso finiva necessariamente per doversi risolvere sul piano politico, che diventava pertanto, in alternativa a quello religioso, il piano comune delle due configgenti potestà. Già questo costituiva un motivo aporetico per i fini escatologici della Chiesa mistica di Cristo, che andava ben oltre il riconoscimento evangelico del regno di Cesare, ma sconfinava apertamente in una contraddizione all’atto di una pretesa ecclesiastica di supremazia politica in ragione del suo primato spirituale. Tutto questo contenzioso non sarebbe potuto succedere se il corpo mistico dei cristiani non si fosse personificato in una struttura istituzionale, la Chiesa, intesa come referente privilegiato rispetto alla generale entità storica del popolo di Dio, e quindi interprete esclusiva dei suoi interessi, spirituali e secolari. È chiaro che, se questa volta fosse mancato al popolo dei fedeli il riconoscimento della sua autorità morale pretesa dalla Chiesa al potere politico, sarebbe venuta meno la funzione stessa dell’istituzione cristiana parallela a quella dello Stato di rappresentante dei cristiani, i quali avrebbero quindi potuto stabilire un rapporto diretto col Potere secolare in quanto fedeli e non in quanto chierici.

Questo voleva significare che l’universo di senso teologico approntato dalla cultura cristiana come unità valoriale meta nazionale e meta culturale, era stato il progetto secolare della Chiesa storica, ma non coincideva con il fine escatologico della Chiesa mistica. Da qui la scissione delle due confessioni cristiane, nessuna delle quali però è riuscita ad andare oltre la dimensione politica della convivenza sociale, lasciando al regno di Cesare e alla sua logica politico-dialettica il

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monopolio della vita pubblica.

La differenza dei due piani di coscienza riflette quella tra i due orizzonti di senso coinvolti nella rappresentazione, rispettivamente, del regno di Dio e del regno di Cesare; l’uno come il luogo della libertà dalle complessità e dalle contraddizioni dell’altro. Tra i due piani di realtà non c’è corrispondenza, come presuntivamente tra l’Idea platonica e il mondo della vita, ma differenza, che è la stessa tra la coscienza personale e l’etica pubblica.

Quando S. Agostino, nel secondo libro della Città di Dio, imputa allo Stato romano la responsabilità di non aver vigilato sui costumi morali dei cittadini, discriminando tra il rigore dell’immagine politica e la condiscendenza dei culti religiosi, applica il principio della interiore coerenza morale al contesto sociale, estendendo alla sfera pubblica un’istanza morale privata, circoscritta ai soli cristiani. Coinvolgendo nella sua considerazione morale degli effetti sociali, il pensatore cristiano tenta di assegnare ai valori interiori una rilevanza pubblica, patrocinando il loro riconoscimento politico. Ma questo riconoscimento pubblico di istanze private non poteva avvenire senza una loro mutazione di senso, consistente nella convalida della fede cristiana nel regno di Dio in termini di religione di Stato. Non si trattava di una mera sostituzione del morigerato culto cristiano ai lascivi culti pagani, ossia di una  che incidendo sulle sole qualità lasciava intatta la sostanza religiosa del nuovo culto, ma di una autentica Verwandlung, ossia di trasmutazione totale di realtà di un qualcosa che prima non era ciò che si è posta in essere dopo. Questo qualcosa era appunto la fede cristiana che, prima della sua sostituzione ai culti pagani, non era funzionale alla vita del regno di Cesare, ma serviva unicamente la causa trascendente del regno di Dio. Misurare, infatti, come fa Agostino, sulla credibilità sociale il valore veritativo del Cristianesimo, significa porlo sullo stesso piano di coscienza dei culti pagani, e quindi di porre il regno di Dio sullo stesso piano di realtà del regno di Cesare, entro la cui sfera politica la fede cristiana entrava in concorrenza con le sue più antiche rivali storiche. L’accoglimento del piano di realtà politico come comune anche alla fede cristiana in quanto religione di Stato, segnava il destino storico della secolarizzazione del Cristianesimo. La sua misura di religione secolare ne cambia infatti la

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natura, omologandolo agli altri culti religiosi storici. Le conseguenze, sul piano dell’ideologia politica, furono oltremodo importanti, in quanto la prospettiva secolaristica del Cristianesimo e l’avvio del processo europeo di cristianizzazione furono segnati dalla funzione religiosa della sua fede, la quale, diventando culto di Stato, conferma la tradizionale ideologia romana dell’Imperium, che è quella che verrà ereditata dal Machiavelli. L’Imperium, per il riguardo politico, è la “idealità” della forma dell’essere sociale, ossia la trasfigurazione della realtà sociale in una individualità politicamente definita. Tale realtà etico ideale costituisce un modo d’essere superiore alla mera socialità, e quindi alla stessa anarchia politica delle fazioni sociali in competizione per il potere. La trascrizione dell’antico concetto di Imperium è il moderno Governo, inteso come sintesi ideale superiore decisiva sulle distinte e opposte fazioni politiche della società, che dà forma razionale all’impulso scomposto delle disparate e contraddittorie energie sociali politicamente anarchiche, trasformando la loro energheia in superiore ergon. Rispetto a questa superiore realtà formale, la pluralità di interessi privati dei movimenti civili appare, a Machiavelli prima che a Hobbes, come una realtà negativa politicamente non trasfigurata dall’azione di governo. Ma, proprio in virtù, di questa trasfigurazione etico-politica della realtà sociale, la religione popolare doveva esservi compresa nella sua funzione di collante sociale, riflettendo nella sua stessa costituzione cultuale una dimensione pubblica che la rendeva organica all’ideologia di Stato, all’Imperium. E solo da un punto di vista esterno e idealmente privato tale funzione religiosa poteva apparire ideologica, mentre dalla prospettiva interna al governo sociale, essa svolgeva una funzione decisamente etica, avente perciò un carattere altamente morale.

Ora, la critica di Agostino ai culti pagani, stabilendo un nesso consequenziale tra la loro immoralità, comprovata dalle stesse fonti letterarie romane, e non solo quindi cristiane, e la rovina di Roma, conferma quella loro funzionalità eticamente organica allo Stato che avrebbe dovuto preservarlo dalla sua decadenza politica, assegnando pertanto alla religione una ragione pubblica immanente alla sua destinazione sociale.

Nel caso del Cristianesimo, invece, il discorso doveva capovolgersi, nel

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senso che la sua proclamata finalità trascendente e personale lo esautorava da ogni funzionalità pubblica di tipo etico politico, essendo ogni suo scopo spirituale rivolto a conquistare il regno di Dio. ciò vuol dire che, nella prospettiva escatologica, il Cristianesimo non poteva assolvere ad alcuna funzione di conservazione dello Stato, ma semmai di corrosione delle sue fondamenta, dal punto di vista cristiano, immorali. Invece, lo scopo conservativo del culto cristiano fu anch’esso ammesso, e la trasformazione della fede in Cristo in religione cristiana poté essere giustificata solo ammettendo che lo Stato già pagano e di Cesare potesse convertirsi in uno Stato cristiano, ossia potesse anch’esso trasfigurarsi in altro da sé, subendo una metànoia simile a quella della coscienza spirituale personale. L’ammissione di questa semplice possibilità rendeva lo Stato una entità spirituale, una persona non solo più giuridica ed etico politica, come l’antico stato romano, ma morale, in quanto incarnava la stessa volontà divina in terra.

Agostino, forse senza neppure supporlo, stabiliva un parallelismo perverso tra le funzioni religiose della Chiesa e le funzioni politiche dello Stato, tale da porli in una reciproca competizione che poteva risolversi solo in una superiore identità, in cui venissero a confluire i compiti mondani del governo politico e i fini escatologici del governo spirituale. Uno Stato cristiano, che fosse nel contempo legato alle ragioni del governo politico e quelle della conversione delle anime costituiva una contraddizione in termini e una declinazione sociologico politica della missione evangelica che daranno origine a quel sine nomine monstrum dello Stato della Chiesa.

Il potere mondano asservito alle ragioni religiose, cambiava di segno alla funzione organica del corpo statuale classico, ma non la sua sostanza totalitaria, già espressa nella teoria del servizio religioso alla causa politica; in ogni caso, l’Imperium cristianizzato definiva l’orizzonte inframondano della secolarizzazione del messaggio evangelico e della sua trasformazione in religione mondana e politica, in Mito. Che questa trasformazione fosse in realtà una operazione sincretistica e appunto mitologica, lo prova sia la fine storica dell’ordine cristiano europeo, e sia l’implosione dei due livelli di coscienza della sintesi teologico politica, quello spiritualistico e quello razionalistico, che diedero rispettivamente origine al moto della Riforma protestante e a quello dell’umanesimo

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razionalistico, che espressero a loro modo due distinte ma complementari rielaborazioni del mito cristologico rappresentato dalla teologia cattolica romana.

Indubitabilmente, l’indirizzo teoretico del Cusano appartiene all’universo di senso cattolico, ma, per quanto riflette un’istanza razionalistica tipicamente romana, esprime pure l’esigenza tutta teutonica di riferire l’ordine cosmico e sociale a forze spirituali che trovavano nella rete ecclesiastica della Chiesa di Roma il loro punto di irradiazione e di convergenza, tale che “anche i concetti scientifici sulla natura in certa guisa s’accordavano” con la sua “disciplina”, e soprattutto con la credenza in “forze magiche” dell’ “al di là”, che diedero al “movimento spirituale, che si propagava in Europa di paese in paese, nei territori di lingua tedesca, [un] carattere religioso”, che “finì con l’esplodere”.222

Il processo di secolarizzazione della metafisica teologica medievale, ovvero la sia rielaborazione in chiave razionalistica, si manifestò intellettualmente come trasposizione della sua struttura dogmatica in ordinamento giuridico, e quindi all’interno dell’apparato ecclesiastico come curialismo, al quale si opposero variamente forti tensioni spiritualistiche, sia in ambienti dell’alto clero che in movimenti di popolo come quello ussita, rendendo “universale l’appello alla riforma della Chiesa nel capo e nelle membra”. 223

A questo complessivo clima spirituale va rapportato il bisogno di una nuova ridefinizione del “dramma metafisico della Trinità e dell’Incarnazione” in termini meno cosmici e più prossimi “al rapporto passionale dell’individuo con Cristo e con Dio padre”,224 ossia in termini umanistici vòlti a definire “in maniera nuova” i “rapporti dell’uomo con l’invisibile” e “con la società”, che ne determinarono “per quasi due secoli […] tutte le mutazioni della società europea”.225 Qualunque sia stata l’intenzione dei concreti attori umani, secondo Cusano “tutto era già implicito nella provvidenza di Dio”, alla quale,

222 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 53.

Ivi, pag. 54.

Ibidem.

Ivi, pag. 55.

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quali che siano state le eventuali mancanze nelle disposizioni divine, “niente si può aggiungere”, a partire dalla natura umana, che “è semplice e una”.226 Questa teoria antropologica, se da un lato conferma l’idea greca dell’unità essenziale della natura umana, la quale unità dall’aspetto razionale si trasfonde nella natura spirituale dell’unico uomo di ogni tempo, dall’altro lato consente di formulare il fondamentale concetto della “possibilità” insita nelle “cose mutevoli” di non definirsi ontologicamente per la loro esclusiva realtà attuale. Sicché,

come molte cose sono in modo possibile nella materia, le quali non avverranno mai, così per contrario, tutte quelle cose che non avverranno possono sempre avvenire, se sono nella provvidenza divina, non in modo possibile ma in atto. E non ne segue, per questo, che esse siano in atto. Come, dunque, diciamo che la natura umana complica e abbraccia infinite cose, perché non abbraccia e complica solo uomini che furono, sono e saranno, ma anche quelli che possono essere anche se mai saranno, allo stesso modo essa abbraccia in modo immutabile le cose mutevoli, come l’unità infinita abbraccia ogni numero. Allo stesso modo l’infinita provvidenza di Dio complica sia le cose che avverranno, sia quelle che non avverranno ma possono avvenire e anche le contrarie, come il genere complica le differenze fra loro contrarie. E le cose che sa, la provvidenza divina le sa e non nella differenza dei tempi, perché non conosce le future come future o le passate come passate, ma le conosce come terne e quelle mutevoli come immutabili.

Perciò la provvidenza divina è inevitabile e immodificabile e niente può sfuggirle; ne consegue che tutte le cose hanno, per così dire, una necessità collegata alla provvidenza stessa; e giustamente perché esse tutte in Dio sono Dio che è necessità assoluta.227

L’importanza del passo testé citato non potrà mia essere abbastanza sottolineata, in quanto segna in ambito cristiano l’avvenuta congiunzione del Cristianesimo, come orizzonte mitico d’esperienza assoluta e immutabile, con la metafisica della libertà, intesa come possibilità insita nel tempo finito di attualizzare la volontà di Dio in termini di realtà storica. Nell’ambito provvidenziale, la possibilità d’essere ciò che solo Dio conosce da sempre, conferisce all’attualità storica quel senso di

226 N. Cusano, D. I., I, XXII, ed. cit., pagg. 97 98.

227 Ivi, pag. 98.

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mistero provvidenziale che stabilisce la differenza ontologica dell’esperienza umana con l’eternità di quanto da sempre stabilito, e nello stesso tempo, manifestando con la sua attualità storica la volontà divina, inscrive l’imponderabilità preventiva di quella esperienza nella fenomenologia della storia eterna e immutabile di cui l’uomo partecipa, trascendendo così la sua finitezza. Rispetto alla realizzazione plastica ed estetica del modello formale dell’idealismo classico, la fenomenologia cristiana della Storia libera ed eterna rappresenta quella sintesi metafisica di necessità e di libertà invano trovata dal naturalismo drammatico classico, che, a differenza dell’irenismo escatologico cristiano, era espressivo di una tragedia esistenziale senza redenzione, superabile teoreticamente solo con il metodo esclusivo della dialettica preferenza della realtà razionale alla restante esperienza ideale, considerata razionalisticamente come non essere, come niente. Esattamente quel niente che, come resto-di-Tutto, viene incluso nella ontologia cristiana dell’Essere possibile, che è (la provvidenza di) Dio. Nell’ambito provvidenziale delle disposizioni divine, i destini dell’umanità si configurano come il processo esistenziale della libertà possibile delle singole persone responsabili, che trova compimento escatologico nell’unità del tempo storico del genere umano, con l’eternità del disegno di Dio. Entro la fenomenologia del disegno provvidenziale, qualunque cambiamento di condizione umana, sia singolare che collettiva, è necessariamente inscritta nella possibilità della sua parabola stabilita ab aeterno, per cui i movimenti storici a opera dell’uomo possono o divergere da tale divina necessità, ovvero secondarla, ma non potranno mai sostituirla con una fenomenologia interamente e assolutamente umana. Ciò comporta che gli avvenimenti storici dei popoli pre cristiani acquisiscono la loro rilevanza e significanza appunto “storica” nel omento in cui vengono compresi nel disegno divino provvidenziale, ovvero nella Storia escatologica del complessivo genere umano. Fuori di questa, quegli avvenimenti sono semplici fenomeni privi di senso spirituale, e quindi inevitabilmente destinati a perire come ogni cosa del mondo finito. Questo vale anche per l’Impero romano, che proprio al tempo di Agostino consumava i suoi residui fulgori. Di fronte alla sua caduta, due erano

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logicamente gli atteggiamenti sostenibili da parte cristiana: o a) la caduta di Roma era dovuta alla provvidenza, che liberava dal percorso cristiano l’ostacolo più rilevante, la cui potenza mondana aveva condotto al Golgota lo stesso Gesù, oppure b) l’antica grandezza di Roma doveva rivivere come rinascita cristiana, nel segno di una generale rigenerazione morale dell’umanità per la quale era stato predisposto lo strumento istituzionale romano.

Nel primo caso (a), la missione cristiana sarebbe stata quella di rendere manifesta la superiorità della prospettiva cristiana di vita spirituale su quella politica, contrapponendo l’eternità dei valori trascendenti alla caducità dei valori terreni; nel secondo caso (b), il compito dei cristiani sarebbe stato quello di ereditare la civiltà di Roma per trasmutarla in civiltà cristiana, subentrando alla sua eclisse politica immettendo nella struttura imperiale dello Stato la nuova linfa spirituale della fede in Dio.

La strada indicata da S. Agostino, e quindi perseguita dal Cristianesimo, fu decisamente la seconda, la cui intrapresa trasformò il Cristianesimo in cristianità, ossia convertendo una condizione mistica e spirituale in un ideale storicamente realizzato nelle forme e nei modi dell’umana esperienza socio politica.

Trattando della decadenza di Roma, Agostino asserisce, rifacendosi anche a Sallustio, che le sue cause andavano ravvisate nella “depravazione dello Stato”, intervenuta dopo la conquista di Cartagine, a seguito della quale, come riporta dallo storico romano,

I costumi dei nostri antenati andarono alla rovina, non un po’ alla volta come prima, ma con l’impeto di un torrente, la gioventù divenne talmente dissipata dall’amore del fasto e del denaro tanto da poter dire giustamente che erano stati messi al mondo individui incapaci di avere un patrimonio e insofferenti che altri lo avessero.228

Le cause della crisi romana erano dunque di ordine sociologico, e tutte comprese nell’ambito dei costumi morali e civili, la cui pregressa sanità Sallustio riferisce non alla “virtù delle leggi”, di origine divina o umana che fossero state, ma alla “natura” dei romani, la quale sola rendeva

228 Sallustio, Hist.1, fr. 14, cit. da Agostino, La città di Dio, II, 18.2; ed. cit., pag. 85.

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efficaci il loro “diritto” e la loro “morale”.229 Questa “natura” fu intaccata dalla corruzione morale originata dall’amore alle ricchezze e al potere, che trasformarono “a poco a poco” lo Stato già “eticamente perfetto” in uno “eticamente depravato”.230 È pur vero, come riferisce da Sallustio, che, “dopo l’espulsione dei re, lo Stato [romano] fece rapidi progressi in un periodo di tempo incredibilmente breve”,231 ma il rapporto tra il mutamento dei costumi e la supposta “natura” del popolo romano, resta anche in Agostino indeterminato. Infatti, se è vero, come questi sostiene, che

i romani non imputano ai loro dèi che lo Stato prima della venuta di Cristo era eticamente decaduto a causa dell’amore al fasto e al denaro e di costumi crudeli e depravati, ma rimbrottano alla religione cristiana ogni sciagura che in questo tempo la loro superbia e mollezza hanno potuto subire, 232

è altrettanto vero che l’influenza negativa del Cristianesimo addotta dai romani poteva incidere sulla loro “natura”, non in quanto legislazione divina, ma in conseguenza della sua predicazione morale, che quella “natura” avrebbe pertanto potuto intaccare alla stregua di altri fattori sociologici. Ed è lo stesso Agostino a confermarlo nella sua smentita, allorquando nega l’incidenza negativa della “religione cristiana”, ma non già, per l’appunto, la sua influenza nella vita dello Stato, che diventa di conseguenza il luogo della sua realtà storica, e lo strumento operativo secolare dei suoi fini morali. Esistono, dunque, religioni efficaci alla prosperità non solo morale degli Stati, e religioni che non lo sono.

Noi non affermiamo scrive Agostino che sono felici alcuni imperatori cristiani perché hanno regnato più a lungo o perché hanno lasciato con una morte non violenta il potere ai figli o perché hanno sottomesso i nemici dello Stato o perché hanno evitato o domato le rivolte degli avversari. […] Li consideriamo felici al contrario se esercitano il potere con giustizia, se in mezzo agli encomi degli adulatori e agli inchini

229 Sallustio, Hist.1, fr. 13, cit. da Agostino, La città di Dio, II, 18.1; ed. cit., pag. 84.

230 Sallustio, Catil.5, 9, cit. da Agostino, La città di Dio, II, 18.2; ed. it. cit., pag. 85.

231 Agostino, La città di Dio, II, 18.1; ed. it. cit., pag. 84.

232 Agostino, La città di Dio, II, 19; ed. it. cit., pag. 87.

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servili dei cortigiani non s’insuperbiscono e se si ricordano di essere uomini; se pongono il potere al servizio della maestà di Dio per estendere il suo culto; se temono amano e onorano Dio; se amano di più il suo regno in cui non temono di avere rivali; se sono ponderati nell’applicazione della pena e inclini all’indulgenza, etc.etc. […].233

Il passo è estremamente significativo della svolta secolaristica che Agostino imprime alla fede cristiana, facendole assumere, a fronte del suo carattere intimistico e personalistico, un registro anche sociale, di carattere chiaramente religioso, e come tale concorrente con le altre religioni storiche, al cui superamento viene affidato, non alla predicazione evangelica, ma alla potenza dello Stato un compito decisivo. A questo punto, due questioni sorgono, di portata decisiva ai fini della comprensione della svolta scolastica del Cristianesimo. La prima riguarda la accezione del termine “natura” riferito da Sallustio ai romani, il quale termine, per quanto sopra detto, si riferisce non a un carattere essenziale e antropologico dell’idealtipo romano, ma bensì di una costituzione morale storicamente variabile in rapporto alle condizioni contingenti, ossia a fattori di ordine socio culturale la cui moralità si manifesta e si commisura in funzione dell’incidenza che hanno sulla vita dello Stato, in quanto, cioè, fattori etici di stabilità politico-istituzionale. E’ chiaro che, di conseguenza, il loro apporto etico è valutato non dal loro intrinseco valore morale ossia, cristianamente, in riferimento alla salvezza dell’anima -, ma bensì dal loro contributo etico-politico. Nel caso dello Stato cristiano, la maggiore funzionalità della religione cristiana è legata alla sua legittimazione morale offerta al “potere” secolare posto dalla provvidenza “al servizio della maestà di Dio”. La seconda questione, strettamente congiunta alla precedente, inerisce alla qualità del cambiamento apportato dalla fede cristiana in relazione alla verità interiore, ovvero alla condizione di vita sociale. In relazione alla condizione spirituale dell’uomo, tale cambiamento è una “trasmutazione” (Verwandlung o metànoia) radicale dell’essere umano, che dalla sua originaria condizione naturale acquisisce una novella natura spirituale, in virtù della quale l’ordine dei valori mondani tradizionali è “follia”, ossia non-senso e non-essere, paragonabile al ni-ente rispetto

233 Agostino, La città di Dio, V, 24; ed. it. cit., pag. 263.

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all’essere della logica dialettica. In relazione, invece, alla condizione sociale, ossia alla vita collettiva, indicata evangelicamente come “regno di Cesare”, il cambiamento di “conformazione” () che il Cristianesimo può apportare è relativo alla qualità dell’essere sociale e non alla sostanza ontologica, poiché questa inerisce alle sole essenze spirituali eterne, e non all’esistenza temporale finita. Ciò vuol dire che la duplice natura divino umana può trovare una sintesi solo nella dimensione spirituale, in interiore homine, e non nella realtà storica, per cui tale sintesi può essere solo di natura mistica, e non mai sociologica ed etico politica. Ma la conseguenza teoreticamente ancora più rilevante è che lo stesso Cristianesimo, dovendo intervenire nel campo sociale, ossia della sfera politica, deve farlo nei modi congrui alla sua funzione religiosa di supporto etico al Potere, trasformandosi a sua volta quindi in supporto etico allo Stato. Lo Stato portatore dell’etica cristiana, e perciò in tal senso “cristiano”, costituisce la realtà non spirituale ma mondana del Cristianesimo, e cioè la storica cristianità, che costituisce pertanto la dimensione fenomenica e finita di ciò che necessariamente ne diventa il relativo modello ideale eterno. Ed è qui, in questo universo di senso platonico, che si consuma teoreticamente la essenziale innovazione ontologica dello spiritualismo cristiano, il quale, rielaborato in termini metafisici platonici, acquisisce i caratteri di una mitologia, il cui momento razionalistico più elaborato sarà, non a caso, la versione aristotelica del suo idealismo platonico, ossia il tomismo e la scolastica, il cui dogmatismo sarà a sua volta oggetto della nuova rielaborazione moderna del Mito cristiano, che inevitabilmente coinvolgerà nella sua critica la stessa metafisica aristotelica. In ogni caso, la differenziazione di un Cristianesimo coscienzialistico e di una cristianità storica segnerà il destino, non soltanto della Chiesa e delle sue confessioni, ma quello culturale dell’Europa e quindi dell’universale Occidente.

La differenza tra la trasmutazione dei contenuti di realtà in una realtà ontologicamente diversa, e la conformazione dei suoi elementi qualitativi in una altra forma ideale, è decisiva per comprendere e non confondere un processo puramente ideale, che lascia invariata l’essenza ontologica della realtà mutata, da un processo di inveramento dell’essere inautentico, al cui posto subentra una realtà “vera”, liberata dalla sua falsa

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rappresentazione e condotta al suo “vero essere”.234 La “trasmutazione nella verità” pertanto non inerisce alla “forma” ideale, ossia alla distinta qualificazione di una stessa realtà ontologica, per cui “la trasmutazione in forma” cristiana dell’universo di valori classici è una contradictio in adjecto, un sincretismo aporetico che non “significa che ciò che era prima” del Cristianesimo, ossia la realtà sociale e ideale greca e romana, “non è più”, 235 come lascerebbe supporre il senso della autentica trasmutazione, ma bensì che quella pregressa realtà oggetto di cambiamento “di forma” non è più attuale, ma è stata assunta nel processo del divenire provvidenziale. In questo senso, essa non è una “vera” trasmutazione, ma una mera conformazione, quale è possibile entro la ineludibile necessità provvidenziale della Storia. Ne consegue che il mutamento delle forme storiche della realtà, non ne cambia l’essenza ontologica, ossia il senso della sua “verità”, il quale può rinvenirsi agostinianamente solo in interiore homine, e non sotto forma di processo storico sociale, la cui fenomenologia è determinata dalla sua razionale possibilità d’essere ciò che è, ossia dalla sua condizione finita, e non dalla libertà della coscienza morale, che si rapporta all’eterno, ossia alla intuizione della totalità dell’Essere. La confusione del piano interiore di verità, con il piano processuale storico, in una rappresentazione sincretistica del Cristianesimo, ha consentito la sua confluenza nella esperienza della cristianità storica quale vita della Chiesa, come forza spirituale e a un tempo potere secolare concorrente allo Stato nel controllo sociale del corpo mistico dei fedeli. La consapevolezza sopraggiunta della commistione dei due piani di realtà nello stesso universo di senso mitologico dell’Essere cristiano, ha determinato la sua razionalistica rielaborazione moderna, coincidente con il ritorno ai suoi due originari livelli di realtà sincretisticamente composti dal Mito religioso:quello spiritualistico (Riforma protestante) e quello razionalistico (umanesimo neo pagano). Tale ritorno era già inscritto nella possibilità di ogni singolo elemento

234 Sul concetto di “trasmutazione”, ved. H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it.. cit.., pagg. 143 sgg.

235 Ivi, pag. 143.

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dell’insieme di tornare ad essere una totalità distinta dall’insieme, avente in se stessa il suo particolare principio d’essere, distinto da quello dell’altro elemento dell’insieme. Infatti quella possibilità era legata alla condizione stessa della sussistenza dell’insieme, ossia dell’inclusivo universo di senso comune ai singoli elementi, costituita dalla fede: la fede, appunto, in quella stessa possibilità. Soltanto la fede consente all’Essere possibile di essere anche fuori della sua attualità, cioè della sua presente esistenza. venuta meno la fede in tale possibilità, l’Essere che si mostra nel suo solo aspetto attuale diventa l’unico essere possibile, ossia quello necessario. Su questa base di evidenza fenomenica si costruiscono le regole logiche del principio di realtà e non contraddizione, stabilenti che solo l’Essere che è, cioè l’ente, è l’Essere reale, mentre l’Essere che non è, è definito inesistente, e quindi irreale. Il razionalismo destina l’inattualità del non essere presente nn alla possibilità d’essere, ma alla fantasia, alla immaginazione e al sogno, indicati come piano di realtà virtuale, ossia, appunto, di fede. La logica razionalistica, assumendo come reali le sole manifestazioni attuali dell’Essere, le astrae dalla concretezza della totalità di cui fanno parte, cioè dalla realtà ontologica della possibilità, considerandole in senso assoluto, ossia come una totalità avente in sé la sua opposizione. Ma questa opposizione relativa alla realtà astratta razionalisticamente assolutizzata, consiste nella relazione che ogni astratto ha con la sua concreta totalità, ossia con ciò che lo nega definendolo come altro. Per cui, è lo stesso essere attuale, cioè lo stesso ente fenomenico, a richiamare necessariamente nell’atto della sua affermazione il suo opposto logico, senza il quale non potrebbe esistere come ente, ma soltanto come realtà ideale, ossia come un modello di realtà assoluta e irrelata dalla sua concretezza, che è la totalità a cui appartiene. In quanto modelli ideali, le realtà astratte sussistono in se stesse, come assolutamente altre dalla concretezza del divenire; ma se trasferite sul piano di realtà molteplice, ossia sul piano del divenire effettuale o storico, quelle astratte realtà perdono la loro idealità e assolutezza, per diventare ciò che sono nella loro rispettiva possibilità d’essere, ossia momenti del concreto divenire del Tutto. Il passaggio dal piano ideale a quello reale non è una mera conformazione dialettica, cioè una sintesi di astratti opposti, ma bensì una vera trasmutazione di realtà ontologica, la quale

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non sussiste fuori della sua creduta possibilità d’essere, ossia della fede nella sua realtà appunto possibile, per cui la stessa possibilità (che l’Essere sia anche ciò che attualmente non è) è inscindibilmente legata alla fede, la cui esistenza “smuove le montagne”, cioè fa sì che ciò-che-è possa anche essere altro da ciò che attualmente appare. Ne consegue che l’universo di senso cristiano, entro il quale sussistono distinte realtà ideali ognuna delle quali astratte dalla sua originaria concretezza, si poteva costituire come totalità uni versale comprensiva, soltanto a condizione del pre giudizio della fede nella sua possibilità, ossia soltanto ponendo come principio di realtà la fede stessa, la quale, in quanto pre giudiziale a ogni giudizio razionale distinguente i diversi piani di realtà interni all’universo di senso totale, è un Mito L’originalità dell’ontologia spiritualistica cristiana si manifesta proprio nella sua rappresentazione anti mitologica della realtà, contraria dunque alla costituzione di una universalità fideistica, tale cioè da legare la sua sussistenza reale alla credenza nella sua realtà ideale. Rappresentare il Cristianesimo come un “ideale” equivale a trasformarlo in un Mito, e quindi destinarlo alla sua rielaborazione razionale. Ed è ciò che è avvenuto a seguito della volontà ideo logica di trasformare la sua verità trascendente in una metafisica sostitutiva di quella classica, e la sua spiritualità interiore in una socialità immanente all’antico ordine politico, cioè in una Weltanschauung storica: la “cristianità”. Ciò ha comportato che la giustapposizione della conformazione etico politica dell’universo cristiano alla conversione interiore (metànoia), ha confuso l’atto di fede spirituale nella realtà trascendente di Dio, con la decisione di governo della immanente realtà della storica cristianità, così da trasvalutare misticamente gli atti del governo etico politico in una trasmutazione ideo logica, e come tale soggetta alla critica della sua natura mitopoietica.

Sul piano effettuale del Governo della società intesa in senso mistico, cioè come Chiesa, la commistione mito logica dei due piani di realtà dell’universo fideistico può trovare una sintesi reale nella decisione etica, ossia in un atto imperativo del potere secolare che stabilisca l’unità etica dei due suddetti piani, decisione che dunque è comune all’atto decisorio derimente entro la conflittuale società politica. E pertanto, così come lo Stato romano ha potuto sussistere grazie alla sua religiosa virtù civica,

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l’Imperium, anche la Chiesa che gli è subentrata nel Governo dell’ordine mondano è soggetta per la sua sussistenza alla propria virtù religiosa, che però non è di “natura” secolare e politica, ma trascendente e spirituale: la fede in Cristo. Senza questa fede spirituale non sussiste neppure l’ordine ecclesiale mondano. Ma allorquando la legittimazione teologica del potere universale della Chiesa, consistente nella credenza che i suoi atti di Governo siano atti spirituali, viene messa in dubbio (attraverso una rielaborazione del Mito cristiano), anche i suoi atti di Governo assumono un valore mondanamente politico. In conseguenza della commistione dei due piani di realtà, la sua messa in dubbio, provocando la scissione dell’unità mitica nelle distinte realtà assolute della ratio e della fides, provoca altresì la dissoluzione dell’unità etico politica della cristianità nei distinti elementi della Chiesa e dello Stato nazionale, i quali, considerati ognuno in sé assoluto nella sua propria autorità, entrano in conflitto per il reciproco riconoscimento. In tal senso, la formazione dei moderni Stati nazionali è strettamente collegata alla rielaborazione del Mito cristiano come universo di senso comune alla ragione e alla fede, alla religione e alla politica, sicché la dissoluzione dell’universo metafisico cristiano coincide storicamente con la trasformazione dell’Imperium cristiano in Governo statale, il cui collante non è più religioso ma etico-politico, e quindi non più universalmente cristiano ma storicamente nazionale Così il risorgimento dei distinti (e spesso politicamente opposti) Stati nazionali segna la fine del Governo imperiale della Chiesa romana e la ri nascita, anch’essa conseguente alla dissoluzione metafisica dell’Imperium cristiano, di un’idea razionalistica di Governo di Stato del tutto emancipato dalla morale religiosa: l’ideale scientifico di Governo come attività puramente razionale. Nasce così il concetto moderno di “politica” come religione secolare, ossia come tecnica sofistica di pervenire politicamente al potere e di mantenerlo. D’altronde, a seguito della rielaborazione del Mito universalistico cristiano, ciò che costituiva il collante interno del suo universo di senso, cioè la fede nel Cristo, nella sua versione religiosa secolarizzata diventa spirito transattivo, cautela legalistica, prudentia giuridicistica e insomma quella virtù compromissoria che ammettendo la “doppia verità”, teologica e mondana, spinge surrettiziamente allo equilibrio opportunistico che costituirà il terreno di coltura a-morale della

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guicciardiniana tendenza partigiana al “particulare”. È appena il caso di aggiungere, a completamento del discorso, che il concetto scientifico moderno di Governo puramente politico, in quanto attività dello Stato razionalisticamente pensato, è anch’esso astratto dalla concreta realtà del Tutto al pari del concetto moderno di Stato, per cui anche l’etica dello Stato assolutistico, emancipata da ogni legame morale, trasferita nella pratica dell’amministrazione reale della società, si trasforma in attività politica, ossia nel suo opposto logico, creando le condizioni della totale politicizzazione, interna ed esterna, degli Stati nazionali, e quindi del perenne conflitto reciproco, ossia nella negazione pratica di ogni loro teorico governo. Il Governo, garante ideale della pace, trasformato in conflitto politico, negando la sua pretesa assolutezza razionalisticamente ideale, nega anche la sua realtà storicamente reale, ossia se stesso, anch’esso dissolvendosi dopo essere stato il prodotto della dissoluzione dell’Imperium universale della Chiesa.

10. La critica cristiana al mondo romano, che in Agostino ha trovato il suo originario e principale campione, si è mossa in forme e metodi non diversi da quelli utilizzati dal Socrate dell’Eutifrone platonico, distinguendo cioè l’elemento religioso da quello socio politico prescindendo dal collante della fede che li univa e li armonizzava. Quando infatti Agostino critica il fondamento mitico delle credenze romane, definendo “fole” i racconti della fondazione di Roma e della genealogia degli eroi della patria,236 sta rielaborando razionalisticamente la fonte da cui scaturivano la dignità della stirpe, i valori morali della tradizione civile e il sentimento stesso del collante sociale, affidati tradizionalmente appunto al Mito.237 Lo screditamento dell’universo morale entro il quale era inscritta la storia romana, costituiva la versione cristiana della critica filosofica al Mito, la quale surrettiziamente tendeva, in origine, a sostituire alla antica credenza mitica la nuova fede razionalistica nella ragione filosofica, e quindi, nel contesto cristiano, a sostituire la religione tradizionale dei romani con la

236 Agostino, La città di Dio, III, 4; ed. it. cit., pag. 116.

237 Ved. Lattanzio,Divinae institutiones, 1, 11.

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nuova fede in Cristo, la qule, pertanto, si costituiva oggettivamente, nei confronti delle credenze mitiche pagane, come tendenza razionalistica e, per così dire filosofica, e verso la realtà socio politica come una rinnovata e più credibile dimensione religiosa.

La tensione demitizzante del Cristianesimo aveva come presupposto dialettico la visione naturalistica della vita, propria della Weltanschauung delle civiltà pagane europee, e solo alla condizione della persistenza di queste forme culturali nei popoli e in singoli individui l’azione critica del Cristianesimo riusciva a sortire effetti religiosamente e intellettualmente positivi. Sotto questo aspetto, lo stesso concetto cristiano del Male come privatio boni è da intendere come stadio di coscienza non pervenuta alla cognizione del vero Essere universale, quello spirituale, e invece attardatasi alla falsa credenza della realtà naturale del mondo e della vita. Sicché, ogni ricaduta nel naturalistico, e quindi conseguentemente nella logica delle relazioni ideali e morali a esso connesse, rappresentava per la coscienza cristiana un arretramento antropologico culturale alla condizione pre spiritualistica, e pre istorica rispetto alla sacra fenomenologia della sua visione escatologica. La situazione culturale cambia radicalmente allorquando si fu pervenuti a una complessiva affermazione storica dei fondamenti teologici dello spiritualismo cristiano nell’universo intellettuale europeo già romano. Nella nuova condizione culturale, la pur vigile dottrina ecclesiastica agiva su un terreno sostanzialmente arato dal coscienzialismo cristiano, e perciò insidioso non più nei confronti dell’universo di fede spiritualistico, ma verso l’impianto teologico del custode di quella fede, cioè la Chiesa romana, la quale si era eletta a difenderla in virtù del monopolio ermeneutico della sua interpretazione, che la legittimava ad escludere ogni ingerenza da parte di fonti intellettuali e religiose non autorizzate da essa stessa. Sicché, all’interno dell’universo di senso cristiano, il conflitto delle interpretazioni circa il rapporto tra il piano di coscienza di fede e il piano di coscienza di ragione, assume una natura dialettica che non riguarda tanto la conoscenza di Dio, quanto le sue implicazioni pratiche sul governo della cristianità. In altri termini, il conflitto ermeneutico sulla fede si sposta dal piano teoretico degli strumenti filosofici, al piano pratico delle sue conseguenze politiche. In questa prospettiva politica, la dottrina cattolica assume la funzione religiosa di legittimare

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teologicamente il governo della Chiesa, che da corpo mistico diventa istituzione ecclesiastica di governo della cristianità storica. Ed è in tale funzione che la teologia cattolica assume un carattere storicamente ideologico, tale perciò da provocare a sua volta una critica filosofica della sua natura mitica. Il razionalismo moderno, e l’opposto fideismo mistico protestante, sono originati da una tensione interna allo stesso universo di senso cristiano, e si determinano culturalmente come la dissociazione dei suoi rispettivi motivi originari, religiosi e razionalistici, che la sintesi cattolica aveva affermato per un millennio a seguito della rappresentazione romana della “Chiesa itinerante”. Non a caso, l’Imperium cristiano entra in crisi simbolicamente a ridosso della scoperta del Nuovo Mondo, cioè con la fine della dimensione europea dell’universalismo cristiano, rispetto al quale la declinazione nazionale delle confessioni cristiane assume una valenza politica più consapevolmente collegata alla religione, e perciò anche maggiormente scollegabile in caso di conflitto sull’esercizio del governo. A questo proposito, ogni tentativo ecclesiastico di definire ancora in termini teologici la questione del Potere, tendeva a riportare su un piano di fede ciò che la Chiesa essa stessa aveva decisamente contribuito nei secoli a stabilire su un piano di ragione, così che l’opposta reazione razionalistica a tale pretesa era non solo accreditata dalla nuova coscienza filosofica, ma avallata storicamente da una prassi ecclesiale consustanziale alla sua istituzione storica.

Trasferita dall’universo di senso teologico, nella dimensione del Governo politico della società, la questione del Potere assumeva inevitabili risvolti religiosi che mettevano in ombra il fondamento della fede come rinascita spirituale dell’uomo, a favore di esigenze tutte mondane di contenimento delle forze eversive interne alla convivenza sociale. La fede cristiana, in nome della quale Agostino aveva criticato la religione antica di Roma, diventata funzione religiosa al servizio del Potere, perde il suo carattere originario di tensione meta politica per assumerne uno del tutto politico di legittimazione morale del Governo, ossia di ideologia del Potere. tale funzione poteva considerarsi legittima, e quindi possibile, all’interno dell’universo fideistico cattolico, cioè della cristianità romana, ma ciò che al suo interno era assunta come “fede”, al suo esterno, la avvenuta rielaborazione ve lo definisce come mera credenza mitica, come una

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superstizione non diversa da quella che gli apologeti cristiani indicavano come propria della religiosità pagana. Il razionalismo umanistico e il fideismo protestante, agiscono da tensione convulsiva dell’ordine millenario cattolico, la quale appare eversiva all’interno di esso, ma che invece si dispiega come tensione profetica all’esterno dell’universo simbolico romano. Ed è a questo punto che l’ antico lògos della metafisica greca, già convertito nella addomesticata ratio cristiana, rivendica la sua arcaica genitura naturalistica, esigendo un riconoscimento epistemologicamente autonomo iuxta propria principia, non più mediato dall’universo di senso teologico. Da questa emancipazione metafisica del lògos dall’universo cristiano nasce la scienza moderna, che è la forma post teologica di conoscenza razionale del mondo naturale, quale sviluppo della originaria demitizzazione filosofica del cosmo antico. Nondimeno, esiste anche un’altra versione schiettamente filosofica della rielaborazione razionalistica dell’universo teologico cristiano, la quale insiste nell’ambito del suo fondamento spiritualistico dell’Essere, per ridefinirlo in termini filosofici (e dunque non scientifici né teologici), aggiornati alla coscienza post mitica del sapere moderno. Questa variante filosofica razionalista ma spiritualista, anti naturalista e quindi interna all’universo di senso cristiano - si sviluppa come coscienzialismo, la cui antropologia si basa sul fondamento teologico della natura spirituale dell’uomo, considerata a parte creationis. Il fondamento cristiano di questo umanesimo filosofico è nel suo spiritualismo, che lo distingue chiaramente e decisamente da ogni forma di razionalismo naturalistico, ossia da ogni scientismo, il quale ultimo si propone come una trasmutazione (Verwandlung) dell’ontologia cristiana, e non già come una sua rielaborazione filosofica interna al suo orizzonte di senso spiritualistico.

Il pensiero filosofico persegue un fine rielaborativo della mitologia cristiana, e non sostitutivo della sua fede ontologica, per cui la sussistenza stessa della tradizione filosofica è possibile solo all’interno dell’universo di senso spiritualistico, cioè cristiano, quale suo livello di coscienza logica. E’ chiaro che, essendo la logica antica lo strumento teoretico della metafisica naturalistica pre cristiana, dalla quale deriva il moderno scientismo, la moderna logica neo-spiritualistica non può essere la stessa

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antica, quella cioè che ha condotto allo scientismo neonaturalistico, ma deve costituirsi come un pensiero da essa autonomo, fondata su un’ontologia dello Spirito, e non della Natura. Ciò comporta che il contenuto del pensiero filosofico non può essere lo stesso di quello scientifico, ossia non può essere la Natura, ma lo Spirito.

in tal senso il pensiero coscienzialistico moderno non può non essere che una filosofia dello Spirito. Ordunque, a questo punto dovrebbe essere chiaro che la tradizionale ratio cristiana, proprio in quanto

del lògos naturalistico, mentre serviva da supporto strumentale alla teologia cristiana, era in realtà, ossia nei suoi fondamenti ontologici, lo strumento tecnico di una filosofia della Natura, la quale pertanto era in grado di pensare Dio come Natura. Il panteismo era inscritto nella stessa logica del pensiero antico, e nominare la Natura come Dio, risolveva la questione della conoscenza in puri termini nominalistici, lasciando impregiudicata la sostanza del suo Essere, che la filosofia antica non poteva che concepire come naturale, e non già come spirituale

deriva razionalistica del pensiero della dissoluzione metafisica cristiana, era inscritto nella possibilità dell’Essere naturalisticamente concepito come Natura, ossia come Idea dell’ente fenomenico, che nella prospettiva cristiana viene indicato, rispettivamente, come creato e come creatura, ma il cui senso ontologico non cambia rispetto al senso naturalistico greco.

La conseguenza di questo ragionamento, è che, nell’ambito dell’universo di senso cristiano, a seguito della Riforma, mentre la tradizione cattolica ha continuato a difendere la sua Weltanschauung medioevale della coniugazione della antica ratio con la fides ebraica, cercando di contenere lo scientismo nei termini di una supposta rielaborazione del Cristianesimo mitico, la tradizione protestante ha sviluppato una forma di pensiero filosofico, il quale, assumendo a suo fondamento ontologico l’Essere spirituale, è l’unico che può legittimamente ritenersi cristiano nello spirito, e non già nella forma stabilita dall’ermeneutica cattolica, di cui proprio il protestantesimo ne ha contestato appunto il monopolio, proponendo una propria esegesi delle Scritture, critica della tradizione romana. In questo precipuo senso, se c’è oggi una filosofia, questa non può che essere cristiana, essendo il Cristianesimo il Mito fondativo

184 logica
E
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. La

ontologicamente dell’Essere di cui la filosofia è una sua rielaborazione logica. D’antronde, una filosofia che non voglia costituirsi come un Mito nei confronti della scienza, lasciando a questa l’unica espressione teoretica della realtà, non può che definirsi entro la sua matrice cristiana protestante, fuori del cui livello di coscienza sarebbe solo una tecnica sofistica al servizio di qualsivoglia fondamento ontologico fideistico. Se l’espressione post cristiana di filosofia in senso greco è scienza, manca tutt’ora una denominazione cristiana della filosofia in senso spiritualistico. Questa mancanza si evidenzia palesemente dallo stesso mutuo linguistico dalla metafisica greca, acceso dalla ontologia cristiana. Senza la “causa”, afferma Cusano, “il causato da sé è niente”, per cui “è difficile cogliere la natura della contrazione quando resta ignoto l’esemplare assoluto”. E poiché non si hanno “gli strumenti per cogliere la verità precisa come essa è”, non si è neppure in grado di “arrivare a vedere” come essa sia.238] Cusano dà per scontato che la “precisione”, che è una qualità della realtà finita e misurabile secondo un rapporto di disuguaglianza fra gli enti, sia una qualità anche della “verità”, ossia dell’uguaglianza, pur dichiarata, come Dio, inconoscibile, perché “la misura differisce necessariamente dal misurato”, e “un’uguaglianza in atto è impossibile nelle cose diverse”.239 Da qui ne consegue che “la verità, astratta dalle determinazioni materiali, coglie l’uguaglianza come nella sua ragione”, dove è solo possibile coglierne la “proporzione precisa”. Occorre pertanto “liberarsi dai legami sensibili”, ossia dallo “orecchio dell’intelletto”, per cogliere “l’armonia” della “immortalità” dello spirito razionale, che “concorda” con la sua “immagine”.240 Infatti, solo nella dimensione dell’infinito è possibile escludere il più e il meno, essendo ogni dato dell’infinito esso stesso infinito. Mentre, la realtà finita della materia, il cui universo “racchiude tutte le cose che non sono Dio”, è “infinita” solo in senso “privativo”, cioè relativamente alla sua possibilità d’essere ciò che è, la cui attualità d’essere non può dunque essere infinita, come infinito è invece il potere

238 N. Cusano, D. I., II, Prologo, ed. cit., pag. 109. 239 Ivi, pag. 110.

Ivi, pag. 111.

185

240

eterno di Dio, che esprime “in atto tutta la possibilità di essere”. Diversamente dalla infinita potenza in atto di Dio, “l’universo non può essere più grande di come che è”; ma poiché nessuna realtà attuale può dirsi maggiore, esso “non ha termini”, e perciò è un “infinito privativo”, la cui attualità si pone, per sua natura costitutiva, solo “in modo contratto”.241 Ora, la realtà finita deriva il suo essere dall’eterno, ma, in quanto finita e quindi differente e imprecisa, “non ha da lui tutto ciò che è”, per cui “la creatura ha da Dio d’essere una, distinta e connessa all’universo, [ma] non ha da Dio invece, né da alcuna causa positiva, bensì per contingenza, che la sua unità sia nella pluralità, la distinzione nella confusione e la connessione nella discordanza”.242

In tal senso, la “creatura” è “tra Dio e il nulla”, e pertanto “come tale, non può dirsi una, perché deriva dall’unità; né può dirsi una pluralità, perché il suo essere è dall’uno; e neppure è le due cose unite insieme”. E poiché “il nostro intelletto [è] incapace di oltrepassare i contraddittori, non coglie l’essere della creatura”, 243 così come non riesce a comprendere “come Dio possa manifestarsi a noi per mezzo delle creature visibili”, poiché “anche se Dio ha creato il mondo […] è chiaro che egli non riveste una forma diversa dalla sua perché egli è la forma di tutte le forme; ed egli non appare in segni positivi e consistenti in se stessi, perché questi segni esigerebbero, parimenti, in quanto sono segni, altri segni ancora, in cui sarebbero, e così all’infinito”.244

La difficoltà sottolineata magistralmente dal Cusano, consiste nella impossibilità per la logica distinguente di assumere come dati ugualmente reali dei contraddittori, ognuno dei quali è in un rapporto non reciprocamente speculare, ma l’uno (il finito) come derivato dall’altro (infinito), tali che “la forma infinita è ricevuta solo in modo finito, sicché ogni creatura è, per così dire, una infinità finita o un Dio creato”. E poiché “Dio comunica l’essere senza diversità”, l’essere stesso delle

Ivi, pag. 113.

Ivi, pag. 114.

Ivi, pag. 115.

, pag. 116.

186
241
242
243
244 Ivi

creature finite “è ricevuto non diversamente da come lo permette la loro contingenza”, ossia “nella perfezione particolare che riceve dalla generosità di Dio”.245

Il salto logico di questa aporia è nella assunzione a priori del rispecchiamento dell’essenza nell’esistenza, tale che il passaggio dalla condizione ontologica alla condizione ontica avvenga senza mediazione, ma direttamente, salvo poi giustificarla con il concetto di “contingenza”, la cui imponderabilità viene ascritta alla stessa volontà creatrice di Dio, e perciò non può costituire una mediazione. La mancanza di una mediazione terza tra le due realtà ontologiche, consente di stabilire una relazione asimmetrica tra Dio e il creato, ma divinamente consustanziale in ciò che esso eternamente “è”, e privativo d’essere, e quindi ontologicamente negativo, in ciò che invece è contingente, cioè esistentivo e finito. Siamo dunque, mutatis mutandis, ancora all’interno della logica dialettica platonica. Si comprende bene come l’evento cristico costituisca, anche teoreticamente, una svolta decisiva nella concezione del mondo e nella sua rappresentazione.

Avendo spiegato la differenza tra l’unità assoluta dell’infinito, che si risolve nell’uguaglianza, e l’unità indefinita dell’universo contratto nella differente pluralità di genere, specie e numero, tale per cui “come è impossibile che la natura divina, che è assolutamente massima, si diminuisca al punto da passare nella natura finita e contratta, così la natura contratta non si diminuisce nella contrazione al punto da dissolversi del tutto come tale e farsi assoluta”, Cusano chiarisce che la contrazione dell’universo avviene nella “pluralità dei generi”, i quali egli afferma “sussistono solo in modo contratto nelle specie e le specie sono contratte negli individui, i quali, soli, esistono in atto”, e conseguentemente che si può “trovare l’individuo” solo “entro i termini della sua specie”, sicché nessun individuo può “raggiungere il termine del genere e dell’universo”.

Ciò significa che la differenza ontologica tra l’Uno e il Molteplice non è

187
246
245 Ivi, pag. 117. 246 Ivi, pag. 160.

colmabile in nessun punto di contatto mediano, mentre entro la dimensione molteplice l’ordine è stabilito secondo un criterio gerarchico che non può essere eluso e travalicato da alcuna perfezione o imperfezione individuale, le quali non potranno mai raggiungere “il termine della propria specie”, esistendo un solo termine, comune a tutte le specie, che è “il centro, la circonferenza e la connessione di tutte le cose”.247 Tale nomenclatura rappresenta una scala gerarchica propriamente cristiana, la quale prende implicitamente le distanze da ogni commistione mitologica pagana tra entità di natura diversa, come gli eroi omerici e romani, stabilendo di converso l’esplicita intrascendibilità individuale della struttura di genere dell’universo. Questa rappresentazione, asserendo che “l’ordine, l’armonia e la proporzione sono [possibili solo] nella diversità”,248 costituisce un motivo teoretico e morale tipicamente medievale, contrastante con le esaltate rappresentazioni rinascimentali della moderna individualità demiurgica, che nell’arte o nella politica o nella religione erano in grado di ri formare la struttura dell’universo estetico, sociale o morale. E in questo senso medievale dell’ordine sociale e spirituale, la confermata distanza invalicabile dell’ordinamento divino tra l’infinità di Dio e la finitezza umana, la visione del Cusano è intesa a porre dei limiti alle possibilità umane, i quali, per quanto mobili all’interno della pluralistica costituzione fisica, non possono mai giungere nella relativa conformazione a una trasmutazione ontologica. Infatti, egli afferma, così come “una specie non procede discendendo fino ad essere la specie minima di un genere, perché, prima di giungere al minimo, si trasforma in un altra”, parimenti “nel genere dell’animalità la specie umana, quando si sforza di raggiungere il grado più elevato degli esseri sensibili, è attratta verso l’alto fino a mescolarsi alla natura intellettuale; ma prevale in essa la parte inferiore, per la quale l’uomo è detto animale”.

È dunque nella natura

della

188

249
finita
costituzione del Molteplice 247 Ibidem. 248 Ivi, pag. 162. 249 Ivi, pag. 161.

l’eccezionale cambiamento di specie fino alla trasformazione di genere, ma la perfezione interna alla sua dimensione ontica deve essere comunque considerata entro l’orizzonte di senso infinito della realtà di Dio, fuori della quale ogni giudizio è una “opinione”, la cui giustezza è relativa al suo contesto di “paragone” . 250 L’ordine naturale nella differenza ontologica coincide con la stessa costituzione pacifica del cosmo divinamente strutturato, ossia con il valore morale stesso, dalla cui ignoranza discende il disvalore del disordine e dell’immoralità. Il Bene, pertanto, alla luce di tale ordinamento divino, consiste per l’uomo nell’accoglimento consapevole della propria posizione sia cosmica che storica, ossia nel riconoscimento formale dell’ordine naturale.

Dio ha fatto tutto questo perché ciascuno, pur ammirando gli altri, si contenti di se stesso e della propria terra, sicché il paese natale gli sembri tra i più dolci, per i costumi qui praticati e per la lingua. Ci sia così unità e pace senza odio, quanto più è possibile, perché la pace e l’unità sono possibili solo agli uomini che regnano con lui [Dio] che è la nostra pace ed è superiore ad ogni nostra percezione.251

Da questa prospettiva ordinamentale, ogni sommovimento emancipativo dall’ordine stabilito ad aeterno appare privo di ogni razionale e morale fondamento, sicché il contenimento dello spontaneo divenire del Molteplice in considerazione della sua finitezza ontologica, costituisce la ragione stessa della razionalità e della moralità dell’azione umana in ogni campo. E niente appare così distante come questa fondazione morale dell’ordine sociale dalla concezione dell’umanesimo razionalista di un ordine cosmico validamente possibile etsi Deus non daretur. Sempre restando nella prospettiva di Cusano, la concentrazione dell’attenzione dell’intelligenza umana sull’unica realtà attuale, quella individuale, rischia di essere fuorviante per la sua astrazione dai fini ordinamentali, la cui realtà è insuperabilmente molteplice, in quanto la sua perfezione è di genere, e questa condizione elimina ogni esclusiva

189
250 Ivi, pag. 163. 251 Ibidem

pretesa rappresentativa. Pertanto, afferma Cusano, se si potesse trovare un individuo di una data specie che fosse il suo massimo contratto, esso sarebbe necessariamente la perfezione di quel genere e di quella specie, come via, forma, ragione e verità nella pienezza della perfezione di tutti gli individui possibili in quella specie. Un tale massimo contratto, termine finale della sua contrazione, […] di essa avrebbe , al di sopra di ogni proporzione, la più alta uguaglianza con qualunque essere dato: sicché non avrebbe né maggiore né minore di alcuno, in quanto complicherebbe nella sua pienezza le perfezioni di tutti.252

Ciò vuol significare che la condizione molteplice implica la differenza, la quale è l’opposto dell’unità, sicché questa non può darsi in alcun modo nell’ambito del suo opposto. Questo argomento, se da un lato supera l’idealismo platonico confermando incommensurabilità dell’unità infinità con l’unità indefinita del molteplice, dall’altro lo riconferma, stabilendone la differenza sul piano dell’opposizione logica, e non ontologica. Infatti, la ragione dell’impossibilità della perfezione entro la realtà finita del genere, non consiste nella contraddittoria equiparazione dell’individuo al genere, poiché la dialettica si rende possibile proprio in virtù della differenza logica tra modello ideale singolare e pluralità degli enti fenomenici; differenza che rende possibile il giudizio di conformità e di esclusione. La ragione della impossibilità risiede invece nella differenza ontologica tra l’essere possibile e l’ente attuale, la quale stabilisce la inderivabilità logica del Molteplice dall’Uno, ossia della contingenza dalla necessità. Infatti, l’origine logica dell’ente dall’Essere presuppone la loro omogeneità sostanziale, che la differenza tra infinito e finito ha escluso da subito. Ed è tale inderivabilità a rendere Dio altro dall’umanità, ossia logicamente non necessario alla sussistenza dell’uomo, come comprovato dalla possibilità d’essere di civiltà pagane; così come è la stessa inderivabilità logica a richiedere la mediazione di Cristo per superare quella divisiva diversità ontologica.

La perfezione dell’uomo in Cristo non è divina in quanto riferita alla sua umanità, poiché le due nature non sono equiparabili, ma è divina in quanto non si realizza nella sua dimensione umana, ma solo nella sua

252 Ivi, pag. 164.

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realtà trascendente e infinita, che è appunto altra dalla realtà immanente e finita, e quindi eternamente possibile rispetto alla sua contingente attualità. Se infatti Cristo fosse stato “perfetto” nella sua umanità, non sarebbe stato uomo ma Dio, e come Dio non poteva finire con la sua morte in croce. Se la morte cruenta era inscritta nella necessità della finita ragione umana, quale risultato logico della condizione socio politica dell’uomo storico, il suo valore trascendente risiede nella sua significazione teologica, ossia in quanto inscritto in un universo di senso ultroneo rispetto a quello di Cesare. In una dimensione in cui la morte non è il fenomeno che s’intende nella dimensione terrena, cioè la fine della vita, ma è apertura all’infinito, ossia l’inizio della vita eterna. In quanto uomo, Gesù non poteva essere perfetto; la sua possibilità era legata alla sua condizione divina, che non era attuale durante la sua esistenza terrena, ma era possibile entro la dimensione della fede, nel cui orizzonte quella possibilità è confermata in eterno, cioè è sempre attuale (come invece non lo è la morte in quanto evento storico fisico, naturale). La divinità di Cristo risiede dunque nella sua eterna possibilità, e non nella sua perfezione umana, la quale è logicamente contraddittoria ma possibile in chi vi creda. E poiché la credenza è una opinione non vincolata da alcuna necessità, essa appartiene alla dimensione della fede e non della logica. La coesistenza in un’unica persona dell’umana finitezza e della perfezione divina è possibile non sul piano logico della coerenza razionale, ma su quello della fede nella “follia” della ragione umana. Senza la fede, non è più possibile quella coesistenza, in quanto il senso della realtà perderebbe il suo valore simbolico eterno e meta-razionale, per acquistarne solo quello logico legato alla sua contingente condizione attuale.

La fede, quale universo di senso possibile, non è il Mito della ragione, ma è la ragione del Mito. Voler giustificare logicamente, cioè con la ragione umana, la fede nel possibile, significa trasferire nella dimensione eterna la realtà attuale, e quindi profanare il divino, eliminando la fede dall’universo di senso mitico, e sostituirla con la filosofia. Da qui ogni tentativo razionalistico di confutare con l’attualità il possibile, sostituendo all’Essere l’Idea, destinando con ciò la ragione umana allo scacco ontologico, alla morte naturale di Gesù senza la redenzione spirituale di Dio.

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Coltivare la fede nell’Essere, come ragione della vita, anziché la logica come ragione del’Essere, significa assumere come valore morale la possibilità anziché l’attualità, e questa diversa declinazione ontologica rientra nella libertà insita nella stessa possibilità, e quindi nell’orizzonte inclusivo della fede. Il mutuo razionalistico della logica antica ha inciso nella destabilizzazione dell’orizzonte di senso della fede cristiana nei termini in cui l’ipotesi di una consustanzialità cristologica delle due nature, divina e umana, nella dimensione finita della Storia potesse sussistere altrimenti che misticamente nell’interiorità della fede personale, ma analogicamente nella costituzione formale della Chiesa, la quale, da corpus mysticum si è rappresentata come persona instituta, riservando a sé la duplice natura del Cristo come la sua imago terrena, divinizzando in tal modo il corpus Christi a prescindere dalla sua resurrezione, e quindi, idolatrandone la forma mondana e finita nel Mito della romana cattolicità. Da questa pretesa mito-logica discende la rappresentazione di una Storia sacra e terrena di tipo ecclesiale, parallela a quella meramente antropologica e sociologica, fornita questa di vita ma priva di spirito, presuntivamente incarnato nella Chiesa, intesa come custode della salvezza, originariamente riservata alla verità interiore dei singoli.

Come aveva giustamente avvertito Cusano, “se consideriamo la natura degli esseri inferiori” quale è quella di una istituzione storica come la Chiesa al cospetto della natura di Dio “e eleviamo uno di essi fino alla massimità, questo essere sarà Dio e se stesso” . 253 Ossia costituirà quella uguaglianza che è possibile solo all’infinità di Dio, e a nessuna sua creatura.254 Lo stesso Cristo possiede solo nella fede la sua duplice natura, e quindi anche quella divina, mentre, come Gesù storico, possiede solo quella attualmente umana. L’incontro nella stessa persona divino umana

253 N. Cusano, D. I., III, 3, tr. it. cit., pag. 165. 254 “Il massimo con il quale coincide il minimo deve comprendere una sola natura in modo tale da non escludere le altre, ma da abbracciarle tutte insieme. Perciò la natura media, che è il mezzo della connessione tra la natura inferiore e quella superiore, è unicamente la potenza di Dio massimo infinito che può essere convenientemente elevata al massimo”: N. Cusano, D. I., III, 3, tr. it. cit., pag. 166.

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di Cristo dell’eternità e del tempo è il contenuto del Mistero della sua Dòkema, che è insieme “visione” di Dio come uomo, soggetta quindi a umana considerazione razionale, e “fede” in Lui come potenza eternamente attuale, ossia infinita possibilità.

Nella concezione di Cusano, l’umanità è il prodotto più elevato dell’opera di Dio, e come tale “racchiude in sé tutti gli universi”. In quanto “microcosmo” l’uomo ha dunque “la pienezza di tutte le perfezioni dell’universo e di ogni essere singolo”, sicché se questa perfezione “fosse elevata all’unione con la massimità”, ossia con Dio stesso, “tutti gli esseri potrebbero raggiungere nell’umanità il loro grado supremo”.255

Il condizionale allude all’ipotesi della ragione circa la fede, ossia la possibilità insita in ciò che non è necessariamente attuale, per cui Cusano rappresenta la suddetta “unione con la massimità” in termini ammissibili soltanto dalla fede, solo la quale ammetterebbe che “un solo uomo”, espressione contratta dell’umanità, “sarebbe sia uomo che Dio”, e come tale “perfezione dell’universo”,256 ossia che, nella ammissione ipotetica della trasmutazione ontologica dell’umano in divino, potrebbe sussistere anche il superamento della sua negazione logica. Ciò vuol dire, in altri termini, che senza la fede nella sua possibilità, l’evento cristico non sarebbe (un Mistero), ma sarebbe un evento puramente naturale e umano, realtà di “vita”, ma non “spirituale”. L’ipotesi della ragione, dunque, è verità di fede, ipotesi creduta vera, la quale ammette che un uomo, in quanto sussisterebbe in virtù dell’unione [con la massimità di Dio], nella uguaglianza massima dell’essere, sarebbe figlio di Dio come il suo Verbo nel quale sono state fatte tutte le cose […]. Egli non cesserebbe, tuttavia, di essere figlio dell’uomo, come non cesserebbe di essere uomo.257

La potenza della fede è quella che tramuta l’ipotesi in verità, e di cui non è in possesso la ragione logica. E dunque ciò che per la logica costituisce il Mistero della fede, per la fede stessa è la sua verità. questo implica che

, pagg.

corsivo è nostro.

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255 Ivi
166 167. Il
256 Ivi, pag. 167. 257 Ibidem.

solo entro l’universo di senso della fede il Mistero coincide con la stessa verità di ragione, rendendo possibile quella coincidentia oppositorum altrimenti impossibile per la logica, ossia quella uguaglianza nell’infinito che non può sussistere nel finito. Di conseguenza, l’evento possibile per la fede, e cioè l’assunzione del Mistero come Verità, non è possibile per la ragione, la quale pertanto, volendo eliminare il Mistero della fede riducendolo a Mito, elimina in realtà la Verità sulla quale vorrebbe fondarsi, in quanto la Verità coincide col Mistero e non può separarsi senza nel contempo negarsi. In questo senso, ammettere la verità di ragione, risulta contraddittorio per la stessa ragione, in quanto ragionevole, come abbiamo visto, è solo il dubbio ipotetico, e non la affermazione della verità di fede. sicché, ogni qualvolta la ragione afferma la verità, afferma la fede e non la ragione stessa, che viene pertanto negata; e all’opposto, quando la fede ipotizza il Mistero, essa afferma il dubbio della ragione, negandosi come fede. Questa conversione degli astratti opposti in contrari reali segna l’intrascendibilità dell’orizzonte di senso simbolico, nel quale sono inscritti inconsutilmente i livelli di coscienza sia della fede che della ragione. Ma come rappresenta Cusano la figura del Cristo, “primogenito di tutte le creature”?

Per le azioni che Cristo esistendo come uomo ha compiuto (anzi, ha compiuto come fosse Dio, superando l’uomo); per le parole che di sé ha detto, riconosciuto veritiero in tutte; per i martiri che ebbero dimestichezza con lui e testimoniarono di lui con il loro sangue possiamo affermare con fiducia incrollabile, rafforzata da infiniti argomenti finora infallibili: Egli è colui che ogni creatura ha atteso, fin dall’inizio, che venisse nel tempo e che, per bocca dei profeti, aveva preannunziato che sarebbe apparso nel mondo. […] In lui, secondo la testimonianza di san Paolo, […] noi raggiungiamo la perfezione, la redenzione e la remissione dei peccato. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito di tutte le creature […].258

La sua “fiducia incrollabile” che Egli sia la figura del Messia annunciata dai profeti è fatta derivare da fatti, cioè da eventi naturali interpretati secondo “argomenti infallibili” razionalmente, rafforzati dalla

258 N. Cusano, D. I., III, 4, tr. it. cit., pag. 169.

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“testimonianza di san Paolo”, in base alla quale si deduce la missione irenica del Salvatore. Sono dunque i miracoli a suscitare la fede, e non la fede a smuovere le montagne. Il rapporto tra fede e ragione è qui capovolto nel senso della priorità assegnata alla ragione, ossia alla certezza degli eventi naturali, sulla cui cognizione viene costruito l’edificio della fede. L’evento naturale ha la funzione di accreditare ciò che dovrebbe essere il presupposto della sua interpretazione, e cioè la fede, indicando questa dunque come un succedaneo derivato dalla ragione. Ora, è esattamente questo procedimento metodologico ad essere stato adottato prima da Socrate per smentire Eutifrone e poi da Agostino per confutare la potenza degli dèi romani, sul presupposto gnoseologico che il fondamento veritativo della realtà sia di tipo razionale, da cui discende la conseguente antropologia classica, che non è confermata da Cusano, per il quale “l’uomo è il suo intelletto”, inteso come intuizione dell’eterno,259 ma che viene convalidata dalla teoria, poi ripresa da Hegel, per la quale è la “ragione” il luogo della sintesi di sensibilità e intelletto.260 Orbene, esattamente questa visione greca dell’Essere e dell’uomo è stata refutata dal Cristianesimo in quanto pensiero spiritualistico anti naturalistico, e come tale anti razionalistico. Cristianamente, il valore morale della fede in Cristo consiste nella sua prescindibilità dalla testimonianza avvenimenziale, la cui assunzione sposterebbe il regno della verità dal convincimento interiore e mistico alla opinione socializzata dalla oggettivazione del giudizio razionale. In conseguenza della oggettivata fatticità degli eventi mondani, la fede individuale verrebbe socializzata in termini di credenza religiosa, tale che lo stesso evento cristico divenga oggetto di giudizio razionale, e perciò universalizzato in senso cattolico quale ente di ragione. Che è quanto storicamente avvenuto. Infatti, in quanto ente di ragione, l’evento cristico è stato astratto dalla sua contestualità storica, cioè dal suo orizzonte di fede ebraica, e proposto nella sua paradigmatica singolarità onnirappresentativa alla guisa di un’Idea, ovvero di un modello di

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259 Ivi, pag. 170. 260 Ivi, pag. 174.

“umanità unita al Verbo” in cui si riflette la “immagine di Dio”, altrimenti “invisibile”,261 così come l’ente profano rifletteva l’immagine dell’Essere ideale platonico. E allo stesso modo in cui l’idealismo platonico è stato in seguito rielaborato dal razionalismo aristotelico, che ha confutato l’Idea come una superfetazione mitica, parimenti l’idealismo cristiano è stato rielaborato dal moderno razionalismo in senso demitizzante, facendolo rientrare nel processo mistificante svelato dal “nichilismo storico”. La figura di Cristo, intesa quale “visione” () ideale, è logicamente esclusiva,e quindi contraddittoria, e soltanto come mistica  è invece inclusiva di umanità e divinità. Ciò comporta a) che l’assunzione idealistica di Cristo come “immagine” del Dio “invisibile” ne fa una copia reale, e non lo costituisce come una mediazione tra il Non-Essere divino e l’Essere del mondo, e inoltre che b) dalla figura reale di Cristo si assume la passione della Croce, ma non la sua Morte quale evento risolutore della vita. Infatti, non essendo oltrepassabile la attualità dell’evento mortale, esso segna il limite insuperabile di ogni certezza razionale, consegnando la sua inattualità alla fede, intesa razionalisticamente come credenza nel non essere, Mito appunto. Cusano dedica un intero capitolo, il quarto, del terzo libro del suo capolavoro, al “Mistero della morte di Gesù Cristo”, in cui afferma in premessa il limite della conoscenza per ragione, soggetta all’influenza deviante dei sensi e perciò incapace di far raggiungere all’uomo “il fine dei suoi desideri intellettuali ed eterni”, quelli appunto spirituali, per cui “se la ragione domina il senso, bisogna che anche l’intelletto domini la ragione, per aderire, al di sopra della ragione stessa, mercé una fede ben salda, al Mediatore stesso e così Dio Padre possa attirarlo alla sua gloria eterna”.262 Il “potere” di ascendere alla “realtà eterna e celeste” di Dio oltrepassando la propria natura sensibile, è stato concesso solo a Gesù Cristo, affinché attraverso la sua espiazione terrena “tutti gli uomini che partecipano della

261 L’affermazione che il Salvatore sia “imago Dei” è in Agostino, Retractationes, 1.26, mentre che sia “l’immagine del Dio invisibile” è in Origene, In Lucam homilia, VIII, e Selecta in Genesim, IX, 6. 262 N. Cusano, D. I., III, 4, tr. it. cit., pag. 175.

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medesima umanità, possano ritrovare in lui e con lui, il riscatto di tutti i loro peccati”.263

La “partecipazione” mistica di Gesù alla divinità del Padre, diventa negli uomini una partecipazione naturale, legata alla sussistenza entro la specie umana, a cui manca in sé ogni elemento elettivo della Grazia, di una consustanzialità interiore di tipo puramente simbolico, costituita dalla natura razionale. 264 L’immagine di Dio, quindi, coincide per Agostino con l’anima rationalis, 265 la quale, afferma lo stesso Agostino nel Liber de vera religione, risiede in interiore homine, e in essa va ricercata la verità.

Il contenuto di questa divina verità coincide con l’immagine di Dio, cioè con Cristo, il quale, secondo Adamo, è mondato del peccato originale, che ha corrotto l’immagine di Dio negli uomini. Gesù, dunque, ha, come Mediatore celeste, il compito di correggere la deformazione naturale dell’immagine umana di Dio. Corruzione e deformazione sono sinonimi, per cui l’anima corrotta è quella deformata, ossia maculata da elementi irrazionali, che la corrompono spiritualmente. Ciò vuol dire che purificare l’anima deformata dal peccato originale dell’uomo significa riportare l’immagine di Dio a ragione: razionalizzare, ossia rielaborare il Mito cosmologico ebraico attraverso la nuova cristologia evangelica, la agostiniana “reformatio in novitate mentis ab illo a quo formata est ”.266 “Riformare la mente” in senso agostiniano equivale all’ingiunzione paolina a “non conformarsi alla mentalità di questo secolo”, e cioè a “trasformarsi” interiormente “per poter discernere la volontà di Dio”.267 Questa metamorfosi nella fede o reformatio o

, come ha ben visto Jung, non è una trasmutazione (Verwandlung), ma solo una apocatastasi, cioè una “reintegrazione di uno stato originario” perduto,

Ivi, pag. 176.

Come afferma Agostino, l’immagine di Dio risiede nella mente e nella ragione: Enarrationes in psalmos, XLII, 6.

Agostino, In Ioannis evangelium, Tract. LXXVIII, 3.

Agostino, De trinitate, XIV, 22.

Paolo, Romani, 12, 2.

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nella Totalità, rappresentata dall’immagine di Dio, ossia da Cristo.268 Cristo, come “immagine” di Dio, non è Dio, che nella sua infinita possibilità resta inconoscibile, ma ciò che di Lui si offre come Essere reale, cioè come attualità, e quindi come Storia umanamente possibile. Tale realtà possibile è la forma reale della infinita possibilità, cioè dell’eterno, e coinciderebbe, secondo le fonti cristologiche riportate, con la sua de finizione razionale. Ma, soprattutto, la proiezione storica del suo corpus mysticum, dovendo riflettere, sia pure imperfettamente, una individualità, deve costituirsi come una realtà unitaria, la quale, nella cultura umana, e segnatamente nella tradizione razionalistica classica, contrassegna la comunità sociale, la civitas o pòlis, che nella versione spiritualistica cristiana diventa la ecclesia. L’incontro della comunità sociale nella versione romanistica dell’Imperium universale, con la comunità spirituale dei credenti, dà origine alla Chiesa cattolica, riflettente la duplice natura storica e divina di Cristo. Nei confronti di essa, pensata come immanente totalità benigna incarnante storicamente il percorso irenico dell’éschaton, la parte umbratile della natura umana viene incarnata dalla città secolare, la cui persistenza maligna oppositiva a quella ecclesiale costituisce la condizione privativa di Bene () propria della molteplice imperfezione ontologica della realtà finita. In tal senso, anche l’Anti Cristo ha la sua deformazione individuale nella figura del Diavolo, e la sua realtà mistica nella molteplicità stessa della condizione storica dell’umanità.

Proprio la natura umana del Male, pur sempre consustanziale a quella divina in Cristo, fa della Storia cristiana una fenomenologia complessa, nella quale la polarità Bene Male è intimamente intrecciata allo stesso Mistero della fede, e cioè non scioglibile in un dualismo metafisico di tipo gnostico.269 La stessa origine umana di Gesù da Maria di Narareth ne sta a indicare, come del resto conferma la sua morte passionevole, l’elemento naturalistico soggetto alla reformatio spirituale, simbolizzata dalla purificazione battesimale. Ed è appunto nella redenzione

268 G. Jung, Aion. Beitrage zur Symbolik des Selbst (1951), tr. it., Torino, 1982, pag. 39.

269 Diverso il pensiero di Jung a proposito. Ved. Id., Loc. cit., pag. 41.

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paradigmatica di Gesù per tutta l’umanità, che si realizza la possibilità della conversione universale di ciascun credente entro il suo genere. La dialettica esistenziale individuale, come quella storica generale, è, rispettivamente, un percorso e un processo, in cui gi intrecciati momenti opposti delle due nature coesistono in una lotta insuperabile che è la fonte della libertà come responsabile scelta morale tra la occasionale preferenza di una delle due sull’altra. E poiché la parte elettiva e benigna dell’uomo viene indicata nell’anima rationalis, è consequenziale che ogni ricaduta maligna equivale, alla prevaricazione dell’elemento naturalistico su quello spirituale, secondo la disposizione () dell’anima individuale deviata dal peccato. In virtù di questa deviazione (), non è sostenibile, dal punto di vista cristologico, che il metodo strumentale del governo del mondo naturale, informato alla ratio o al lògos, possa costituire anche lo strumento ancillare del servizio pastorale improntato alla fede e alla carità. Non a caso Cusano, come abbiamo visto, sottolinea l’insufficienza della ragione rispetto all’intelletto ispirato dalla Grazia. Di conseguenza, la logica dialettica del sapere secolare, e quella politica del governo del mondo, non possono assumersi come gli strumenti regolativi anche dell’ordo amoris, la cui logica inclusiva rappresenta il contrario della logica esclusiva del sapere mondano e profano. E dunque, se la logica esclusiva è quella che regola i rapporti dialettici e politici dell’Essere attuale, la logica inclusiva deve poter inerire alla realtà spirituale dell’Essere possibile, ovvero a quella dimensione eterna e non contingente propria della infinita perfezione divina. Se ciò è vero, il linguaggio divino non appartiene propriamente all’anima razionale dell’uomo, ma all’anima spirituale, quella cioè liberatasi dalla contingenza del mondo finito. Questa dimensione spirituale, contrariamente a quella razionale, che è sociale, è invece interiore, personale e non socializzabile in termini politici. Ciò vuol dire che, rispetto all’attualità oggetto della logica mondana, il contenuto della conoscenza spirituale riguarda sempre la possibilità, ossia ciò che trascende la realtà finita. E ciò che trascende per fede la dimensione finita della condizione umana è l’evento della Morte e la vita eterna che ne consegue, ossia la Resurrezione, che nella prospettiva spirituale costituisce pertanto l’evento cristico fondamentale, l’unico che non-è

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razionalmente oggettivabile e dunque il solo possibile argomento di fede. Rispetto alla dimensione ontologia della mitologia naturalistica classica, il Mistero della fede cristiana, costitutivo della sua Verità, è un Non Essere, una assoluta Possibilità, come tale non oggettivabile dalla ragione e per essa non conoscibile. “È una vita che è morte, è un essere che è un non essere, è un intendere che è un ignorare”.270 L’inconoscibilità razionale di Dio, quale Non Essere o Essere altro rispetto all’attualità storica nel tempo, rispetto cioè alla fatticità ontica, implica che il suo incontro possa avvenire solo nella fede, e che l’orizzonte fideistico costituisca il risvolto meontologico fondativo di una alterità spirituale la quale riscontra nella trascendenza della sua possibilità, la sua stessa possibile presenza, che non può darsi che in spirito. Tale presenza spirituale, agostinianamente interiore, elude la dicotomia della polarità dialettica, poiché essa non coincide né con la positività dell’essere fenomenico e neppure con la negatività del suo opposto logico, e cioè col divenire, ma fonda in sé la sua stessa eterna infinità.

Rispetto alla fede ontologica nell’Essere, e all’opposto dubbio razionalista, la presenza assente di Dio si pone su un piano di assoluta diversità che è solo ambita dalla scoperta dialettica della alterità, che ha avuto il merito teoretico di aver riconosciuto, accanto all’essere naturale parmenideo, il negativo divenire dell’esperienza umana, la cui realtà non può in alcun modo essere assimilata a quella di Dio. Se dunque il pensiero pagano ha concentrato il suo sapere sulla relazione tra Natura e Umanità, riponendo nella realtà dell’Essere naturale il fondamento di ogni ri conoscimento teoretico e antropologico, lo spiritualismo cristiano ha instaurato una diversa polarità, altra rispetto a quella dialettica naturalistica, tra la Creazione e il suo Creatore, inscrivendo, al pari del razionalismo antico, nell’Essere la stessa realtà naturale dell’uomo, ma concependo il divenire di questi come conversione spirituale, assegnando perciò alla Storia una connotazione spiritualistica senza la quale ogni processo avvenimenziale si definisce come alterità entro l’identico Essere (). In tal senso, il 270 N. Cusano, D. I., III, 10, tr. it. cit., pag. 187.

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divenire altro da sé della logica dialettica è lo stesso Molteplice che si rappresenta come tale nelle opposte forme astratte dell’Idea e dell’ ente, inteso come suo “rispecchiamento” reale. Nell’ambito del Molteplice, l’ideale e il reale sono versioni astratte e polari di una stessa sostanza ontologica, intesa rispettivamente come Natura ovvero come Idea. Ed è questo l’Essere univoco di Parmenide e quello dialettico di Platone. Ma all’Essere originario dell’ontologia greca, cioè il Molteplice, si contrappone logicamente l’Uno dell’Idea, e non l’unità mistica e infinita di Dio da cui origina il Molteplice come sua creazione. Ed è l’Uno della logica dialettica a essere considerato dall’ontologia greca come l’alterità metafisica rispetto al Molteplice, di cui invece rappresenta solo la sua forma astratta priva della finitezza del divenire. E poiché, entro tale rappresentazione metafisica, il divenire, rispetto all’Essere Uno, è l’uomo, questi era un derivato naturalistico dell’Idea, e cioè dell’Uno, ovvero un elemento dello stesso Molteplice. Lo spiritualismo cristiano introduce una frattura ontologica, non entro l’Essere naturale, ma rispetto ad esso, e quindi rispetto alla stessa metafisica greca nel senso del Fedone. Non l’anima, ma lo Spirito è l’assoluta alterità rispetto all’Essere, e quindi la sua radicale di versità. Lo spiritualismo cristiano frantuma l’uni verso dell’ontologia classica, e lo rappresenta come di-verso. La concezione ontologica dualistica dello spiritualismo cristiano non può pertanto essere ascritta all’Essere in senso greco, il cui dualismo dialettico interno è solo formale e non sostanziale. La diversità spirituale cristiana si costituisce infatti proprio rispetto all’Essere, ossia rispetto alla Natura, sia nella versione realistica molteplice che in quella idealistica unitaria. L’Essere dell’ontologia greca è il Molteplice finito rispetto all’unità infinita di Dio, e tra le due realtà intercorre la stessa distanza che c’è tra il tempo e l’eterno. Una distanza incommensurabile, come abbiamo visto, che destinerebbe l’uomo alla contingenza della sua naturalità, se non intervenisse sua sponte la mediazione di Cristo, che è forma umano-naturale della sostanza divina. Ciò che Cristo rappresenta in termini umani, ossia il modello ideale di Uomo, non è l’analogon di Dio, la sua “immagine”, per cui tutto ciò che si può dire di Cristo è relativo alla sua umanità, e pertanto pertiene alla ragione. Infatti, “Cristo, capo e principio di ogni creatura razionale, è la

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ragione massima dalla quale deriva ogni ragione”.271 Pertiene invece alla fede quanto di Cristo, quale consustanzialità divina, non si può dire in quanto non umano e non razionalmente conoscibile. A questo punto ci è chiaro che la ignorantia di Dio coincide con la sua stessa fede in Lui, nel cui silenzio della parola ne evoca la presenza divina. La ragione del cuore è dunque una ragione muta, tale cioè che non de finisce Dio come la logica l’Essere, ma lo intuisce come totalità, nel cui ambito consiste anche l’Essere, ossia l’alterità del Molteplice, quale sua creatura. E in quanto parte del Molteplice, anche la stessa natura umana. Se rispetto all’Essere, lo Spirito è diverso, Dio che è Tutto, deve includere in sé sia l’Essere che lo Spirito. E se l’Essere, rispetto allo Spirito, è la sua mancanza, ossia il Male, in Dio deve trovarsi anche il Male se non si vuole che esso lo definisca e lo limiti. Ciò significa che il Male sussiste ogni qualvolta la Possibilità si manifesti come attualità, e lo Spirito diventi Natura. E poiché la Natura è la creazione stessa di Dio, ossia la sua limitazione della sua Possibilità nell’Essere, nel creato è insito quel Male che la scelta della fede deve vincere affermando le ragioni dello Spirito, ossia la Possibilità rispetto all’Essere, Dio rispetto alla Natura, la libertà rispetto alla necessità, la Morte eterna rispetto alla transeunte Vita. Riferendo a Cristo sia il modello umano che la presenza divina, della Sua esperienza la ragione ne privilegia la Vita, mentre la fede ne privilegia la Morte, ponendo al centro della sua considerazione spirituale la Resurrezione, nel cui evento si compendia il Mistero di Dio, e che in sé contiene, come nessuna realtà naturale finita, sia la umana morte fisica che l’eternità divina.

Nel capitolo dedicato al “Mistero della Resurrezione”, Cusano afferma chiaramente che l’ascensione di Cristo alla gloria dell’immortalità del Padre “non sarebbe potuta accadere prima della sua morte”, per mezzo della quale Egli si libera della sua “condizione mortale”.272 La Morte di

271 N. Cusano, D. I., III, 9, tr. it. cit., pag. 183.

272 “Cristo incorse nella morte, affinché con lui la natura umana potesse risorgere alla vita eterna e il suo corpo d’essere animale e mortale si facesse spirituale e incorruttibile. Poté essere l’uomo vero solo in quanto mortale, e poté elevare

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Gesù è libertà dalla finitezza della condizione umana, ossia dai limiti della stessa creazione divina. E in quanto creazione Gesù ha potuto avere un’esistenza individuale, mentre, in quanto mediazione divina “non ha potuto avere in sé una esistenza personale, separatamente da Dio”.273 Ma che cos’è la morte? È la “separazione” dell’anima dal corpo, ci dice Cusano,274 ossia un fenomeno naturale di scissione della vita in divenire dalla sua stabile fisicità. Senza il divenire della vita, la Natura perde la sua molteplicità reale e diventa un’Idea, cioè un Essere senza determinazioni ontiche, un’astrazione. La morte naturale, pertanto, in quanto opposta alla vita, è un’astrazione dalla dialettica del Molteplice, considerata in sé, senza il necessario rapporto con la vita. Vita e morte, nell’ambito del Molteplice, sono polarità astratte dal loro concreto processo in divenire.

Di conseguenza, la Morte che si riferisce a Gesù, non è la morte nel Molteplice, ossia non è un fenomeno astratto dal suo divenire, che è la vita individuale, ma rappresenta nella sua fisica simbolicità il trapasso dalla condizione finita a quella spirituale eterna. In altri termini, la Morte come Mistero della fede, non diviene altra vita mortale, cioè non continua il processo naturale,275 ma lo interrompe per rapportarsi a un’altra dimensione, quella spirituale della infinitezza e dell’eternità, dove avviene l’uguaglianza in Dio.

La Morte in senso spirituale dischiude la finitezza nell’avvenire dell’eternità, laddove la morte fisica realizza la sua finitezza naturale, tendendo alla unità amorfa del suo Essere. La vita, pertanto, si costituisce all’immortalità la sua natura umana esclusivamente spogliandola della condizione mortale mediante la morte”: N. Cusano, D. I., III, 7, tr. it. cit., pag. 177.

273 Ivi, pag. 178.

274 Ibidem.

275 “Dopo la fine del corso del tempo, che è la morte liberatosi anche da tutti gli accidenti che erano sopraggiunti nel tempo alla verità della sua natura umana Gesù è risorto, non in un corpo greve, corruttibile, che fa ombra, sofferente e soggetto a tutti i moti che conseguono alla sua composizione temporale, ma è risorto in un corpo vero, glorioso, impassibile, forte e immortale, come esigeva la verità sciolta da tutte le condizioni temporali”: N. Cusano, Loc. cit., pag. 180.

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come la forma dell’Essere che diviene l’ideale di sé, contraddicendosi indefinitamente. La dialettica scopre questa contraddizione dell’Essere e la rappresenta in termini astrattamente oppositivi di vita e di morte, di anima e di corpo. Ma la vita dell’Essere e così la sua morte, sono solo astratte determinazioni formali di ciò che è il Molteplice. La Morte, in senso spirituale, di contro, è del Molteplice, ossia una trans mutazione che si libera della sua forma finita per assurgere alla infinita possibilità, che è Una in quanto non definita e perciò molteplice. La possibilità è il silenzio rispetto alla parola, la fede comprendente rispetto alla logica distinguente. Tra loro non sussiste alcuna opposizione che possa pervenire a sintesi unitaria, ma insuperabile differenza insuscettibile di commisurazione. Il Dio di Abramo non è in questo mondo, e per questo è possibile viverci anche senza di Lui, alla maniera dei Gentili. Ma la possibilità di vivere etsi Deus non daretur è circoscritta alla molteplicità dell’Essere naturale e all’avvicendamento caotico del suo incessante divenire nichilistico. L’evento cristico costituisce quella mediazione tra Dio e la creazione, senza la quale la fede in Lui resterebbe la fede di Abramo e del suo popolo, e non la fede dell’Uomo e dell’umanità. Il nuovo Adamo libera la fede di Abramo dal suo rapporto con la finitezza naturale del giudaismo etnico, e la costituisce in fede umanitaria trans-nazionale. Orbene, aver interpretato questo passaggio cattolico nel senso dell’universalismo romano, è equivalso a circoscrivere nella dimensione finita, e sia pure imperiale, il senso trascendente di quella liberazione dello Spirito dalla finitezza del Molteplice.

Gesù, pertanto, liberando l’uomo dalla sua finitezza, ha simbolicamente liberato la sua fede dalle ragioni del mondo, cioè dai limiti della costituzione sociale dell’uomo storico, sottoposto a un Cesare, liberandolo dal potere del Leviatano politico per consegnarlo alla infinita Possibilità di Dio, ossia all’Unità spirituale della verità eterna, presso la quale gli uomini di fede accedono per “similitudine” e non per diretta partecipazione, come invece gli enti rispetto all’Essere ideale; ossia attraverso la mediazione di Cristo, che è “vita” naturale e “verità”

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spirituale.276 Gesù non poteva sussistere come persona a sé, in quanto simbolo spirituale dell’umanità spiritualmente Una e differente dalla naturalità molteplice. Cristo era già unito alla persona divina in quanto Spirito, ossia Possibilità, e non in quanto immagine incarnata, e come tale soggetta alla finitezza. Credere nella incarnazione è dunque credere nell’Essere naturalistico del pensiero antico. La vera fede è riposta nella spiritualità di Gesù, non nella sua vita terrena, ossia nella sua eterna in attualità, che è la stessa Possibilità alla quale si perviene liberandosi dalla finitezza delle determinazioni attuali. La fede in Cristo degli apostoli è elettiva in quanto precede la Resurrezione, assumendo già durante la vita di Gesù la sua essenza spirituale come la Sua infinita realtà eterna. In essi l’avvento è già evento, prima del suo compimento storico. Essi hanno manifestato la possibilità riservata alla fede di considerare attuale la stessa eternità, credendo che Cristo fosse Dio stesso in immagine.277 Ma questa loro fede non sarebbe diversa da quella del filosofo antico, che crede che l’ente sia l’Essere e che dietro il transeunte reale esista l’eterno ideale.278 La fede in Cristo assume tutta la sua portata spirituale allorquando cessa di venerare la figura reale o ideale che sia di Gesù, ossia la sua memoria storica, per estendersi alla venerazione dello Spirito che Egli solo naturalmente incarnava in forma umana. Non c’è altro Dio fuori di Dio stesso, di cui Gesù è la mediazione mortale, e nella cui Morte avviene lo Spirito. La costituzione terrena della Chiesa terrena come immagine di Cristo, ne afferma la Sua memoria storica, ossia la testimonianza della fede in Lui. Ma come l’immagine di Dio non è Dio, parimenti la Chiesa non è lo Spirito di Cristo Dio, né tampoco la fede in Lui, che si coltiva solo in

276 N. Cusano, D. I., III, 9, tr. it. cit., pag. 185.

277 “Solamente Cristo, perché fu partorito da una madre, è nato nel tempo ma non attese, per risorgere, lo scorrere completo del tempo, perché il tempo non toccò completamente la sua nascita”: N. Cusano, D. I., III, 8, tr. it. cit., pag. 181.

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“La fede”, ci dice Cusano, “è l’inizio della conoscenza intellettuale”, poiché “in ogni facoltà dobbiamo presupporre” alcuni princìpi primi, appresi con la sola fede, dai quali si ricava l’intelligenza di ciò che si discute”: N. Cusano, D. I., III, 11, tr. it. cit., pag. 188.

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interiore. E così come la Morte di Gesù lo ha liberato dai vincoli terreni della finitezza naturale, anche la fine della Chiesa sancirà l’avvento della fede nello Spirito. Su questa fine storica della Chiesa, la Riforma ha inteso affermare la nuova età dello Spirito come evento anch’esso storico, sostituendosi a parte fidelis alla Provvidenza, in parallelo speculare a quanto intenderanno fare i razionalisti a parte indifelium. Quanto alla “umanità contratta” di Gesù e alla sua “unità” in temporale con la divinità, esse sono entrambe fondate sulla fede, anche quando razionalmente argomentate, secondo quanto Cusano stesso crede affermando che “la verità contratta nella temporalità è il segno e l’immagine, per così dire, della verità sovratemporale”.279 Verità che è Mistero per la ragione e fede in Cristo quale manifestazione della potenza di Dio. “In quanto Cristo non è conoscibile in questo mondo (ove ci guidano la ragione, l’opinione e la dottrina […]), egli è appreso solamente nel momento in cui le persuasioni [della ragione] vengono meno e [al dubbio] subentra la fede” in Dio, “incomprensibilmente al di sopra di ogni ragione e di ogni intelligenza” del mondo.280 Questa cognizione meta-razionale e intellettiva di Dio costituisce quella “dotta ignoranza”, in virtù della quale la stessa conoscenza razionale di Gesù, ossia della sua umanità, perde la sua valenza mondana, inscritta nel tempo e nella parola, per rifarsi a un “udito interiore”, dove si ritrova il senso di tutto ciò che è stato scritto. Tale senso, l’incarnazione del Verbo, Cristo, “è, pertanto, la ragione incarnata di ogni ragione”.281 L’incarnazione, essendo motivo di fede, fa di questa la verità, che ha in Gesù la sua realtà.

La verità, quale realtà di fede, incarnata, ha trovato una sua dimensione finita e storica nella interiorità di ogni credente, secondo una relazione asimmetrica che in Cristo trova il suo momento più alto e infinito, e in ogni uomo particolare il suo vario momento fisicamente determinato, poiché, se in Gesù la potenza della fede è massima e minima insieme, “la fede di un uomo non raggiunge il grado di quella professata da un altro,

279 N. Cusano, D. I., III, 7, tr. it. cit., pag. 179.

280 N. Cusano, D. I., III, 11, tr. it. cit., pag. 189.

281 Ivi, pag. 190.

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perché è impossibile che gli uomini siano tutti uguali”, sicché ognuno la coltiva “per quanto è in lui”.282 Se, per un verso, la perfezione di Cristo costituisce per Cusano il luogo mistico di fusione di ogni esperienza di fede, che pertanto diventa comune a ogni credente di ogni luogo e tempo, d’altro canto la partecipazione alla verità pro ratione hominis, ossia la personalizzazione della fede, col relativo dimensionamento individuale particolare, ripropone l’insuperabile condizione di finitezza propria della natura molteplice nella quale l’uomo empirico si trova ad esistere, per cui la stessa potenzialità inclusiva della fede inclusiva della ragione introduce nel suo orizzonte totale quella dialettica fede-ragione propria della dimensione del Mito. Questa costruzione sintattica del sistema gnoseologico cristiano riproduce a livello teoretico lo schema teologico politico storicistico che vede nella realtà della Chiesa l’elemento cristologico unitivo, e nella molteplice esperienza secolare del popolo di Dio l’elemento particolaristico guidato dalla divisiva ragione mondana. Pertanto, l’oscillazione teorica che registriamo nella trattazione di Cusano, in cui la facoltà intellettiva, assistita dalla grazia, sopravanza la sola ragione, la quale, pur “incapace di andare oltre i contraddittori”,283 costituisce però a sua volta l’elemento tipicamente umano superatore della sensibilità animale, e perciò deve comunque avere una sua funzione mediatrice verso quella “unità infinita” che “conviene a Dio” in quanto “infinitamente anteriore a ogni opposizione”.284 Si possono riscontrare facilmente i primordi teorici del processo logico hegeliano, non a caso corrisposto da un analogo processo storicofenomenologico, le cui sequenze ideali sono dettate appunto dalla pregressa assunzione degli strumenti logici propri di una ontologia monistica entro una ontologia dualistica; la quale assunzione ha portato a ritenere che il problema cristologico della mediazione tra i due piani ontologici consistesse nella reductio ad unum dell’altrimenti insanabile dualismo metafisico, e quindi potesse trovare una soluzione,

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282 Ivi, pag. 191. 283 Ivi, pag. 102. 284 Ibidem.

rispettivamente, teologica nella intuizione mistica della sostanza unitaria e totale di Dio, ovvero logica nella “riforma della dialettica”, ossia in una modalità filosofica, alla quale si era sottratta o mostrata refrattaria la riflessione teologica per motivi meramente tecnici.

Proprio la sottovalutazione della essenza teoretica della fede, la cui considerazione pratico volitiva ha finito per relegarla a una sociologica funzione religiosa, ha fatto ritenere che la differenza tra i due piani di coscienza, teologico e filosofico, fosse superabile o attraverso la svalutazione mistica della ragione, oppure attraverso la demitizzazione dei termini simbolici della cristologia tradizionale nella traduzione razionalistica in termini logici, modernizzando per così dire l’impianto concettuale di origine aristotelica in una struttura metafisica più consona alla cultura scientifica dei tempi. Ma l’esito duplice e culturalmente contraddittorio di questa rivisitazione teorica della fondamentale questione cristiana del Mistero della fede, è già idealmente previsto nei contrastanti motivi interni che si agitavano, come abbiamo visto, nell’orizzonte culturale del pensiero cristiano tardo medievale e della transizione, e che in Cusano trova uno dei suoi principali interpreti, nella cui visione teorica sono compresenti sia i motivi mistici che quelli razionalistici. Significativamente, all’interno di una cornice argomentativa pretenziosamente confidante nel suo rigore matematico affiora, attraverso un uso altamente simbolico del linguaggio, una sensibilità unitaria molto diversa da ogni praecisio razionalistica, e che fa della sua cristologia un compendio delle contraddizioni culturali che per un millennio erano state sopite dall’autorevolezza della missione ecclesiale, ma che erano apparse sempre più evidenti in quella tarda stagione di tramonto della cristianità quando l’antico anelito escatologico si era viepiù mutato in una più mondana autorità ecclesiastica. Nella concezione della carità e della Chiesa possiamo riscontrare, in fine alla sua trattazione, i punti nevralgici dell’intera teoria cusaniana della Dotta ignoranza, che costituisce complessivamente, al di là dei singoli attempati mutui intellettuali, una laudatio Christi tra le più notevoli dell’intera tradizione cristologica. Dunque, nella carità Cusano scorge il lievito morale della fede che fa crescere il ben dell’intelletto in direzione della verità di Cristo, ossia il sottofondo spirituale senza il quale non è possibile alcuna razionale

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rettitudine. La carità è perciò il riflesso personale della grazia divina, ciò che consente all’intelletto di pervenire alla verità attraverso l’uso della recta ratio. Il senso unitario della verità cristiana, ci dice Cusano, è possibile in quanto “l’intelletto, a cui i sensi obbediscono, si rivolge a Cristo con una fede massima, [ma] una tale fede deve essere formata dall’unione con la carità: la fede non può essere massima, infatti, senza la carità”.285 La carità non è solo una virtù teologale, ma il segno della interiore  che attesta la avvenuta

spirituale, ossia quel rivolgimento d’animo incisivo sulla sostanza dell’essere umano, consentendogli quella vera trasmutazione ontologica (Verwandlung) che lo rende spiritualmente partecipe alla  di Cristo, al suo Mistero rivelato come verità. La carità è la “forza della fede che trasforma l’uomo in Cristo”.286 La fede nel Mistero, che coincide in Cristo con la fede nella Verità, realizzando quell’unione degli opposti di cui la ragione non sa rendere conto e che la fede non sa umanamente esprimere in un linguaggio comune. Il silenzio interiore della fede, che è contemplazione dell’Ineffabile, si rompe dunque non sul piano teoretico di una più sofisticata tecnica affabulatoria, dialettica o matematica, ma bensì sul piano più dimesso ma più radicale del sentimento, il cui luogo simbolico Pascal indicava nel “cuore”, entro il cui orizzonte altruistico trova armonia quanto i sensi, la ragione e lo stesso intelletto non possono far coincidere. Ed è questo orizzonte sentimentale che unisce l’Io intimo al Tu divino e cristianamente umano che Cusano chiama “carità”, e che costituisce il termine ascensionale e conclusivo delle altre due virtù della fede e della speranza287 sul quale si fonda l’ordo amoris alternativo spirituale all’ordine politico instaurato mercé la logica del mondo profano.

Nondimeno, il sostrato razionalistico dell’antropologia antica persiste nella dimensione conformativa dell’uomo cristianamente redento come

285 N. Cusano, D. I., III, 11, tr. it. cit., pag. 191.

286 Ivi, pag. 192.

287 Torna anche qui il simbolismo triadico che Hegel riprenderà per definire il pensiero del suo Geist.

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

momento superando nella scala ascensionale che giunge a Cristo, ma comunque caratteristico della sua natura propria, e quindi ineliminabile. E questo fa sì che la conoscenza di Dio, comportando la “perfezione completa della natura [umana]”, venga intesa come conoscenza ulteriore rispetto a quella razionale, ma pur sempre di un grado, per quanto più elevato, omogeneo al suo fondamento razionale. Tale ascensione verso l’unione mistica con Dio ha consentito di stratificare il suo processo fenomenologico in altrettanti livelli di coscienza, che da quello sensibile a quello sempre più rarefatto della fede divina consistono nella stessa esperienza umana, dando origine a quel progresso spirituale che si compie in proporzione inversa al progressivo abbandono di “tutte le cose visibili del mondo”.288 E cioè in una palese contraddizione con la prospettiva inclusiva della carità cristiana, nel cui orizzonte di senso rientra tutto ciò che fa parte dell’esperienza umana, naturalità e peccaminosità comprese. In altri termini, la visione gerarchica e ascensionale del cosmo cristiano, concependo la progressività al Bene in misura inversa e speculare alla sua deprivazione maligna, tende a vedere nella ragione una fase dell’unico processo irenico, e non una modalità di pensiero alternativa a quella caritativa, per cui la sua funzione di collegamento tra livello inferiore e livello superiore di coscienza umana, per quanto ancillare, finiva per assorbire nel senso della sua logica sistemica, ogni possibile riferimento esistenziale e noetico dell’esperienza della fede, giustificandola in relazione stretta con il suo grado di plausibilità razionale. Per tale fondamentale ragione gnoseologica, la stessa fede veniva associata piuttosto alla ratio che alla chiarita, per cui il modello cristiano di perfezione antropologica veniva riscontrato nello spirito intellettivo onniveggente, anziché nella perfezione caritativa della santità. E questo processo di razionalizzazione dell’ésprit de foi in ésprit de finesse è interno alla stessa cultura medievale erede di quella classica, rispetto alla quale il razionalismo teologico cristiano si pone in termini di inveramento formale, anziché di trasmutazione di senso. Questo ha condotto a dislocare nella forma

288 N. Cusano, D. I., III,11, tr. it. cit., pag. 192.

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logica, cioè nel sistema razionale, la totalità di senso attribuita all’evento cristico, concependo la sua mediazione ontologica come la rappresentazione simbolica di ogni possibile Soggettività umana, ossia un’ideale antropologico, la cui stessa perfezione spirituale scoraggiava ogni possibile emulazione storica. A ragione di ciò, la originaria mediazione esistenziale di Gesù trapassa in quella formale del cattolicesimo ecclesiale, che nella realtà mondana della Chiesa trasferisce il senso della rappresentazione dell’evento divino dal piano spirituale personale, a quello testimoniale istituzionale. La Chiesa non è più la realtà manifesta di individuali rappresentazioni della fede in Cristo, cioè una unità spirituale di molteplici determinazioni personali, ma una “congregazione di molti in uno”,289 cioè una comunità empirica, istituzionalizzata sul modello imperiale romano, che ha il compito missionario di colmare nell’esperienza terrena la distanza individualmente impossibile tra Dio e la sua varia umana creatura, ovvero, come piace dire a Cusano, tra “la verità della nostra carne” e del nostro “spirito”, e la “verità della carne” e dello “spirito” di Cristo.290

Questa rappresentazione della Chiesa come corpus Christi conferisce alla sua unità infra storica un ruolo rappresentativo supplente della superna unità della perfezione divina, interponendo così tra il piano della divina perfezione trascendente e quello personale della fede una ulteriore mediazione di tipo storico e collettivo, che raccolga in unità le sparse membra dell’umanità in cammino escatologico.291 La mediazione storica della Chiesa istituzionale può giustificare la sua funzione testimoniale solo ammettendo una diversa gradualità umana nella fede e nella carità, sulla scorta di un diverso approccio personale al Bene, e di conseguenza la relatività dell’evento cristico al livello di ricezione della coscienza. In tal senso la Chiesa, rappresentando l’intero “corpo” divino si costituisce come la sua terrena realtà organica, sicché “ciò che viene fatto a uno dei più umili, viene fatto anche a Cristo”,292

289 N. Cusano, D. I., III, 12, tr. it. cit., pag. 194.

290 Ivi, pag. 195.

291 Ivi, pag. 197.

292 Ivi, pag. 195.

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conformemente alla relazione mistica che la “Chiesa eterna” simbolizza. Ma, come la cattolicità ha dovuto rivedere i suoi confini romani a seguito della scoperta del Nuovo Mondo, così la Chiesa “una e massima” ha dovuto ricredersi sulla presunta impossibilità di una unione più grande della sua in conseguenza dello scisma riformistico, rivelando con una smentita fattuale la natura ideologica, e cioè mitica, della “coincidenza” della “massima unione ecclesiastica” con “l’unione ipostatica delle nature in Cristo”,293 riferibile al corpo mistico, quale unità spirituale, e non al corpo politico della unità istituzionale.

293 Ivi, pag. 197.

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L’era del significato Nascita, metamorfosi e speranza del diritto

di Marco Vinicio Masoni

“Il diritto signorile di imporre i nomi si estende così lontano che ci potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono “questo è questo e questo”, costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano”.

NIETZSCHE, Genealogia della morale

Premessa

Questo articolo, che potremmo intitolare anche “L’aspra guerra fra i significanti e il bisogno di unicità la norma”, tratta di origini e metamorfosi di un universo che appare oggi frammentato in macchie mimetiche occultanti un'unica “tensione”.

Ne chiariamo qui la struttura di fondo incorniciando subito l’argomento: se dico ”Quest’azione è giusta”, non è detto, come è arcinoto, che il significante “giusta” rechi con sé lo stesso significato che gli attribuisce chi parla. Può accadere infatti che un interlocutore risponda “Non la trovo affatto giusta”.

Il significante contiene quindi più significati possibili, ma dato che il linguaggio, cioè il più possente legame delle comunità umane, si regge in piedi a condizione che i significati siano garantiti e condivisi, ecco che si

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assiste da sempre a una lotta per difendere la loro unicità1. La cosa non è sempre evidente, poiché certi grandi2 affermano che significante e significato si presuppongono a vicenda, e la frase quasi inganna, induce a pensare all’esistenza di qualcosa che non c’è: una sorta di complementarità implicante una loro simmetria e uguaglianza di peso. C’è invece sempre uno scarto fra le due entità, una frattura, una differenza di massa e di potere che nel lungo tempo si modifica. La nostra narrazione si sforzerà di mostrare la tensione costruita dall’uomo verso la scomparsa dello scarto fra significante e significato.

Estenderemo il campo di questa lotta mostrando una parentela analogica del diritto col concetto di “significato” e intercalando il tutto con accenni a questioni psicologiche3 .

Si tracceranno così alcune note frammentarie di un racconto, privo di ogni pretesa di approfondimento, nel quale il diritto è visto come sviluppo nel tempo del “bisogno di unicità del significato”, il tema scelto come protagonista di questa storia, quindi, non è il diritto in sé, ma altro, qualcosa che riguarda il suo processo di formazione. Ci sono precedenti illustri: la storia immaginata da Marx è intesa come aspetto, come parte della storia di altro, cioè della eterna lotta delle classi. La storia della Chiesa, se scritta da un credente, appare come un aspetto del modo col quale la cristianità, spinta dalla fede, si organizza in attesa del Giudizio Finale, che è l’orizzonte escatologico che permette di dare un senso (il bene e il male) agli avvenimenti e alle azioni. Gli scritti di Platone illustrano il tema da lui più

1 L’anima di questo problema è antica, la si può far risalire, leggendo oltre i loro aforismi e le pagine esoteriche, a Eraclito e ad Hegel, investirà poi anche Heidegger.

2 Charles Sanders Peirce e Ferdinand de Saussure.

3 Anche se la psicologia è termine reso vago da troppe e troppo vaghe definizioni.

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amato, la parusia, cioè la presenza del mondo delle idee nella nostra realtà sensibile, ecc. Qui abbiamo chiamato “tertium” (alias, “bisogno di unicità del significato”) il soggetto della nostra storia, l’interprete principale, l’ospite sempre incombente ancorché vestito da un invisibile manto analogico. Sue caratteristiche, come si vedrà, sono il mostrarsi nel tempo con vari volti e lo scindersi e trasformarsi in entità parallele sincroniche. Riguardo al metodo in queste pagine si privilegiano alcune sintesi, da non intendersi come semplificazioni riassuntive, bensì come conoscenze di fondo, un po’ come il concetto semplice di camera oscura sta alla base del concepimento delle sofisticate fotocamere dei nostri giorni.

Qui il bosco metaforico che attraversiamo si fa riconoscere con poche impressioni di fondo: se un luogo è fitto di tronchi ed è verde e ombroso, tanto basta per suggerirci che è un bosco. Al botanico poi l’onere di approfondire. In altri termini le sintesi, come le si intende qui, sono comunicazioni costruite con parole più “stabili”, sono le radici e i tronchi del nostro sapere4 e vanno mostrate per opporsi ai danni, alle illusioni ottiche offerte dalle (pur necessarie) ramificazioni, fogliazioni e classificazioni5 .

4 Non sono certo le radici etimologiche ciò che qui intendo come conoscenza di fondo. Propendo invece per la formula witgensteiniana: “Il significato è l’uso che facciamo dei nostri segni”.

5 Sulla “serietà” con la quale si accettano le classificazioni si vada a rileggere sorridendo la classificazione di Borges, riportata all’inizio di “Le parole e le cose” di Focault. E si legga qui una critica di tale strumento portata da uno dei più grandi nostri esperti nel campo:

“Perché l’operazione di classificazione possa svolgersi senza errori, è necessario che, adottata una proprietà che possa differenziare le specie, essa venga applicata di volta in volta per produrre divisioni dicotomiche, ossia per dare origine a due sole classi, una che sia partecipe di quella proprietà e l’altra che ne sia priva […]. Non ci sono

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Queste ultime son fatte anch’esse di parole, ma son più “leggere” e con facilità possono cambiare, come le foglie che ingialliscono e cadono.

Le sintesi delle quali parliamo inoltre sono i pilastri, le formidabili tappe, il frutto continuo dell’interminabile autocostruirsi di una sorta di cerchio, un viaggio dell’umanità capace di auto arricchirsi di valori ad ogni giro. I concetti di significato e significante sono un grande esempio di queste tappe sintesi.

classificazioni scientifiche che soddisfino queste condizioni operative, in quanto che non esistono proprietà che differenzino rigorosamente e definitivamente l’uno dall’altro oggetti di una certa complessità; le stesse classificazioni biologiche, à la Linneo, che pure hanno la base del concetto di specie biologica, sono tutt’altro che stabili, se si pensa che molte specie attuali derivano da progenitori comuni” (Alfredo Serrai, 2002).

Avrete anche forse riconosciuto nella descrizione moderna delle classificazioni lo stile socratico platonico del procedere dicotomico, una figliazione mimetizzata del principio di identità, una costruzione umana, non una condizione della “realtà delle cose”.

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Prima parte: il Tertium

Le origini

Il nostro mondo è strutturato principalmente sul nostro linguaggio composto da “nomi” che, scritti o detti, reggono valori, credenze, certezze e anche tutto ciò che chiamiamo “norma”. Se vogliamo quindi indagarne l’origine è dal linguaggio che si deve partire e soprattutto dalle sue origini.

Fortunatamente, abbandonata l’ossequiosa obbedienza al veto della Société de Linguistique de Paris6 che proibiva ricerche sull’origine del linguaggio, un pullulìo di indagini su questo argomento, così affascinante e oscuro perché privo di appigli per la storia, ci manda buone idee ormai da qualche decennio.

Qui per ragioni di spazio taglieremo corto comunicando al lettore che propendiamo per il filone di ricerca che chiameremo intermedio: gradualista e continuista, che tiene insieme aspetti biologici e culturali7. Tale approccio dà grande importanza al sociale e propende anche per una continuità evolutiva del cervello che probabilmente non solo ha rincorso, ma ha

6 L’argomento è “Speculativo, troppo speculativo”. Questa l’accusa dell’editto emanato nel 1866 dalla Société de Linguistique de Paris con cui si vietava ai soci di presentare relazioni sul tema dell’origine del linguaggio.

7 La ricerca sull’origine del linguaggio si può schematizzare oggi in tre filoni:

1) Gradualista e continuista (il linguaggio ha origine sociale e culturale)

2) Chomskyano: fenomeno biologico (una “frattura” biologica ha permesso il salto di qualità)

3) Posizione intermedia, insieme biologia e società (fatti socioculturali e sviluppo contemporaneo del cervello hanno permesso la nascita del linguaggio)

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permesso cambiamenti essenziali nei rapporti fra ominidi. Non avendo competenze neurologiche mi limiterò a discutere il rapporto con la sfera culturale, mentre, sul lento mutamento del cervello nell’arco di centinaia di migliaia di anni, mi conviene aver fede in chi ne sa.8

Ora è proprio in questo filone, ove si vede il linguaggio nascere come convenzione umana9, che il “sociale”, sempre citato come terreno fertile per la sua crescita interattiva, sembra avere le caratteristiche di qualcosa di astratto, di una immagine ingenuamente semplificata del nostro presente; un contesto contorno umano di brava gente, di pace, armonia, prevedibilità e perfino, per i più ingenui, di democrazia10. Un po’ come se nominando la

8 Secondo Fitch (2017), punto di forza della moderna riflessione sull’argomento è la genetica e il suo contributo alla paleoantropologia. Per Arbib con il suo libro How the brain got language (2012) sono fondamentali le neuroscienze. Rizzolatti & Arbib (1998) Utilizzano le teorie sui neuroni specchio. Caruana & Borghi (2016), studiano “il cervello in azione”. Scott & Phillips (2017) pensano a un cervello sociale. Corballis (2020) studia le capacità di proiettarsi nel tempo e nello spazio della mente. Il cartesiano Chomsky, come è noto, teorizza da decenni la grammatica universale. Everett (2012) mostra che il linguaggio è il prodotto dell’evoluzione culturale, più che di quella biologica. Per un libro che non ne fa argomento centrale, ma che può aiutare a capire la ricchezza delle idee sul cervello con esempi affascinanti: Peccarisi Luciano, (2021), Quando il cervello immagina. Le due dimensioni della mente, Fabbrica dei Segni.

9 Che il linguaggio abbia origine naturale o convenzionale è controversia presente per la prima volta nel Cratilo di Platone.

10 Si tratta di un’idea del sociale dilagante solo ai nostri giorni. Basta andare indietro di un secolo e mezzo ed ecco come compariva: "I borghesi d'allora avevano della società un'idea un po' induista, e la consideravano quasi composta di caste chiuse dove ciascuno, fin dalla nascita, si trovava collocato nello stesso rango occupato dai genitori, e al quale nulla, salvo il caso di una carriera eccezionale o di un matrimonio insperato, avrebbe potuto sottrarlo per farlo penetrare in una casta superiore" (Proust. Alla ricerca del tempo perduto)

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parola “vapore” ignorassimo che quel nome così leggero, fumigante e impalpabile corrisponde anche a una continua tempesta di molecole pronte a sconvolgere ogni equilibrio al minimo mutar di grado e centigràdo. Il “sociale” non è tranquillo oggi, come probabilmente non lo era in epoche preistoriche.

Nei nostri vicini parenti, le scimmie antropomorfe, il maschio Alfa impone e fa rispettare il suo dominio minacciando e se non basta affrontando e a volte uccidendo il rivale che lo ha sfidato. La violenza e l’aggressività tese a costruire e a difendere gerarchie (legate a maggiori disponibilità sessuali e alimentari) sono uno stato presente nei gruppi di scimmie, anche quando ci sembra di osservare in loro stati di pacifico rilassamento.11

Questo, molto probabilmente, è l’ambiente periglioso che ha dato vita al linguaggio12 .

Ma come indagarlo?

Impossibilità della ricerca storica.

La ricerca sulle origini del linguaggio non ci consente di osservare dei “fatti”. Non possiamo quindi costruirne la storia13, ed è tardi per inventare miti.

11 A noi osservatori esterni il babbuino, scimmia non antropomorfa, ma comunque sociale, può sembrare in certi istanti che sbadigli, calmo e rilassato, ma il suo gesto è invece destinato a mostrare al suo gruppo i lunghi micidiali canini, a memento di chi comanda. (G. Vallortigara, 2014)

12 Per es.: “i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura delle vittime a vantaggio dei raccolti, l'orgia sessuale, il cannibalismo, la caccia di teste. Si tratta di una concezione tragica dell'esistenza, risultato della valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta.” [MR, pp. 173-178]

Mircea Eliade, (2014) Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri.

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Tuttavia, non è detto che per “vedere” il passato sia necessaria la storia. Se guardiamo le stelle e ricordiamo che la luce viaggia veloce, ma non abbastanza da essere istantanea, sappiamo di vedere il passato e possiamo, forzando l’analogia, pensare di vedere qualcosa di simile anche nel nostro apparente presente. Si tratta in un certo senso di “ricordare” qualcosa. 14

13 La storia, non è adatta a scoprire la “realtà” di origini oscure e mitologiche, ha invece un altro grande scopo: vuole creare continuità. Il bisogno di unità nella discontinuità della vita dei Greci ha favorito la sua nascita. Le storie di Erodoto e Tucidide contribuiscono a “costruire” i Greci, un popolo e una cultura che erano così amanti dei cambiamenti da rischiare di perdere il proprio volto e di non riconoscersi più.

Esistevano già storie, ma erano in forma di mito e non erano adatte a mostrare il continuum del mondo greco, a stabilirne e stabilizzarne il nome, “i Greci”, strumento che li ingessa in forma di concetto (l’idea di nazione, diremmo noi moderni) e che sconfigge il passare del tempo.

La nuova storia doveva essere riconosciuta come descrizione del proprio mondo consistente in quel presente tumultuoso, non poteva più stare in un “prima” mitico. I Greci confermano così il passaggio che Mircea Eliade ha tratteggiato come svolta da un mondo presente senza cambiamenti, la cui storia è relegata alle origini mitologiche e furoreggianti, a quello in cui ciò che furoreggia è il presente, con le origini trasformate invece in mito statico.

14 Fra l’altro se tentassimo di utilizzare gli strumenti tradizionali della ricerca storica ci imbatteremmo in un problema già evidenziato da Schiavone:

“Gli storici moderni, dimentichi di essere epigoni di chi traduceva un mito con la nuova disciplina e convinti che la ricerca delle origini possa acquistare una valenza scientifica si imbattono in una sorta di interdizione della genesi: un fenomeno che gli storici incontrano di frequente quando esplorano radici mediterranee (greche per esempio), e che contribuiscono a rendere le spiegazioni strutturali quasi sempre preferibili a quelle evolutive. Per quanto indietro tentiamo di gettare lo sguardo, non riusciamo a identificare, nemmeno in modo indiretto, una vera e propria condizione di “stato nascente”, i germi elementari e ancora disintegrati degli sviluppi

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Potremmo allora utilizzare quel traguardo raggiunto dall’umanità e chiamato “ragione”, e vedere come “logicamente” avrebbero dovuto essere le origini, con una sorta di interpolazione logica? Sarebbe un sentiero pieno di pericoli, dato che per “ragione” intendiamo quel costruire conoscenze e argomenti (logici) basati su coerenza, non contraddizione ecc., convincenti stati, ma non assoluti15. Altre culture, anche più portatrici di felicità della nostra, ne fanno a meno.16 Inoltre, la logica è prodotto storico e utilizzarla qui ci farebbe ricadere in una nota inanità: spiegare l’origine del simbolo utilizzando il concetto moderno di simbolo. Errore spesso compiuto da altri e sottolineato da Todorov: “credendo di descrivere l’origine del linguaggio e del segno

successivi”. 14 Schiavone A. (2005) Ius, l’invenzione del diritto in occidente, Einaudi, Torino.

15 Si potrebbe chiamare “ragione” il modo di “leggere il mondo “ degli animali, ma in tal caso diamo il nome di “ragione” al tipo di apprendimento che potemmo sintetizzare col Post hoc propter hoc ( a questo segue quello, questo è causa di quello), la ragione alla quale invece qui ci si riferisce è lo sviluppo articolato che noi chiamiamo oggi logica, pura creazione culturale. Si pensi alla magnifica complessità dell’astrazione che ci fa sembrare ovvio il principio di non contraddizione, che non ha alcun riscontro empirico: le “cose” non si contraddicono.

16 Per es.: il linguaggio orale della tribù amazzonica dei Pirahã procede offrendo sequenze di indizi, di visioni, di spiegazioni circolari: “Quando i Pirahã calpestano le foglie dai bigí superiori, si ammalano. Sono come le nostre foglie. Ma ti fanno ammalare". "Come fai a sapere che è una foglia del bigí superiore?” chiesi, "Perché quando la calpesti ti ammali". (Everett D. (2021), Non dormire ci sono i serpenti. Fabbrica dei segni). La cultura degli Achuar, altra popolazione amazzonica, si caratterizza per una ostilità non solo diretta verso il fuori, ma anche verso l’interno delle loro comunità. Ciò perché morte e malattie sono causate secondo loro dall’influsso malefico di qualcuno, che lo sciamano, entrato in trance, nominerà e che quindi verrà ucciso. Malgrado questo, Luigi Bolla, missionario, parla di questo popolo come del “popolo più felice che avesse conosciuto” (Padre Juan Bottasso, (2018), Gridò il vangelo con la vita, Elledici.)

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linguistico, o la loro infanzia, si è di fatto proiettata sul passato una conoscenza implicita del simbolo, quale esiste oggi”.17

Dovremmo quindi provare ad avvicinarci nei limiti suggeriti dal buon senso a come pensavano gli ominidi di 400.000 anni fa e quindi dirozzarci da tutte quelle incrostazioni che ci rendono incapaci di assumere atteggiamenti emici e fanno prevalere con arroganza quelli etici.18

Ma è possibile un’emica, cioè un’indagine sulle ragioni, nei confronti di chi non si conosce?

Il velo di ignoranza

Qualcuno ci ha provato, oggi, nel campo del diritto (tre secoli fa da parte di Adam Smith in quello della filosofia morale19). Mi riferisco alla proposta di Rawls20 di ricorrere al “velo di ignoranza”21

17 Todorov T. (2008)Teorie del simbolo. Retorica, estetica, poetica, ermeneutica: i fatti simbolici nella storia del pensiero occidentale. Garzanti.

18 Negli anni Cinquanta del 1900 l’antropologo Kenneth Pike raccomandava, in merito alle ricerche sul campo, l’utilizzo delle modalità “etico” ed “emico”. Possiamo sintetizzarle in questo modo: se etico significa ciò che riguarda la norma dell’osservatore, emico sta a indicare le ragioni per le quali l’individuo osservato trova sensata l’azione che mette in atto (anche se in contrasto con la norma di chi osserva). La ricerca non può quindi essere svolta guardando dal di “fuori” un’altra cultura, pena l’utilizzo delle categorie e dei filtri normativi dell’osservatore e la ricaduta nella sola dimensione dell’etico, ma deve implicare la conoscenza del punto di vista dell’altro. (Masoni M. V., Il popolo senza storia, introduzione a Everett D. (2021), Non dormire ci sono i serpenti, Fabbrica dei Segni.)

19 In: Smith, Adam, (1995) teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano. Adam Smith introduce l’osservatore immaginario, una situazione “astratta” in cui un ‘osservatore privo delle inibizioni e inganni visivi del mondo reale osserva gli eventi.

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Ne accogliamo qui l’idea per aggiustarla ai nostri bisogni, permettendoci di rimodellarla per affrontare lo scoglio più duro, arduo, inaggirabile della ricerca sull’origine del linguaggio. È infatti ormai accettato che si utilizzi il termine “simbolo” per riferirsi a ciò che, una volta “costruito”, ne ha permesso la nascita22 .

Qual è quindi lo scoglio, l’ostacolo formidabile che ci si para subito dinnanzi? Prima che sia accettato e costruito nel sociale il simbolo non è ancora tale e quindi come è possibile definire simbolo ciò che ancora non lo è?23

La corretta sovrapponibilità fra le valutazioni dell’osservatore immaginario e le nostre ci dà la prova che siamo nel giusto, provando un sentimento che Smith chiama “simpatia”.

20 John Rawls è ritenuto uno dei più grandi filosofi del diritto dei nostri giorni. Qui si fa riferimento a quanto scrive in ”Una teoria della giustizia” (2017) , Feltrinelli.

21 Il velo d'ignoranza è una metafora ideata da John Rawls (1921 2002), che suggerisce una situazione ipotetica, astratta, riassumibile in un “metti che le cose stiano così”.

22 Probabilmente Umberto Eco avrebbe sorriso per questa sbrigativa accettazione del termine “simbolo” senza definirlo, dato che per lui il simbolo “è troppe cose e nessuna. Insomma, non si sa cosa sia” (Eco U., (2019), Simbolo, Luca Sossella editore.).

23 Circolo senza uscita che Ferretti, citando Deacon (2001), sa illustrare molto meglio.

“Quando la si interpreta dal punto di vista dell’origine del linguaggio (…) l’idea della priorità del sistema simbolico sugli elementi costituenti apre la strada a un circolo vizioso: se le proprietà dei simboli dipendono dal codice simbolico, il codice simbolico deve prevedere i simboli ; ma il codice simbolico per essere tale deve essere costituito da simboli (…), il che significa che non è possibile avere il codice in

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Tuffiamoci allora nella liquida proposta di Rawls, in quel mondo immaginario governato dal velo d’ignoranza.24

Innanzitutto, come s’è visto, non si utilizzerà in questa prima parte lo strumento “storia”.

La seconda rinuncia sarà quella di alcune definizioni. Sarà dura, giacché l’argomento retorico della definizione, col suo potere nascosto, è alla base di tutti i procedimenti chiamati scienza. 25

assenza degli elementi costituenti, ovvero che i simboli devono precedere il sistema simbolico.”

24 Stiamo così modificando e riplasmando l’idea del velo di ignoranza di Rawls, che è stato inventato/utilizzato per ricercare in una immaginaria origine gli equi termini della cooperazione sociale.

I nostri usi di questo espediente sono qui diversi da quelli pensati da Rawls. La situazione che accomuna la sua ricerca e la nostra è solo il fatto che non c’è una autorità esterna o un libro sacro che ne imponga i criteri, né dobbiamo adeguarci a un ordine di valori preesistente e indipendente da noi.

25 “Una definizione […] non è semplicemente espressione di una identità e nemmeno è una classificazione. La copula “è” non vi rappresenta semplicemente il segno “=”. C’è in essa un’aggiunta, una sorta di strato significante che fa aumentare di “volume” ciò che stiamo significando, eppure si ha l’impressione che ancora si sia di fronte a una innocua identità, distratti dalla presenza del verbo essere. È in questa ambiguità, in questa situazione mimetica dell’aggiunta di significato, che è nascosta la tracotanza della definizione. La sua espressione di un potere.”. (Masoni M. V., (2021) (a cura di) Volontà, Fabbrica dei Segni). Si noti anche come, alle origini dell’idea si scienza, Platone ponga la definizione come ”fattore” fra quelli necessari per ottenere la conoscenza:” il primo fattore è il nome, il secondo la definizione, il terzo l’immagine, il quarto la conoscenza”. (Platone, Lettera VII, 342 a b).

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Come terza rinuncia aboliremo il bisogno di quantificare, nato, in senso moderno, nel Seicento. In sostanza è come se immaginassimo di ragionare con modalità almeno precedenti quelle di quel grande secolo.

Infine rinunceremo al rigore logico occidentale, favorendo a volte, come vedremo, sintetiche irritualità immaginifico analogiche.26

Il primo passo della rinuncia ad alcune definizioni è l’invito a farsi da parte del confusivo termine “simbolo”. Così facendo evitiamo di dover dire “questo è un simbolo” o “questo non è un simbolo”, si rinuncia cioè a pagare il prezzo più gravoso della dicotomia a cui ci costringono le definizioni (e i nomi). Si rinuncia all’astrazione dualista.

Rinunceremo inoltre alla definizione di segnale.

La definizione di simbolo, infatti, cioè di segno costruito e condiviso per convenzione e arbitrarietà, separa questo dal “segnale”, cioè da ciò che ha significato univoco e dètta le mosse dell’istinto. Rinunciando alle due definizioni e alla loro distinzione stiamo affermando una comunione qualitativa fra simbolo e segnale, precedendo così, in un viaggio all’indietro, l’idea classificatorio/divisiva proposta fra i primi da Hegel.

Insomma, chi ha l’autorità di definire, sa. Bauman vedeva bene: “Il potere è poter dare definizioni”.

26 Contro l’universalità della logica c’è, fra i moltissimi, l’esempio famoso di Luria:"All'estremo nord dove c'è la neve, tutti gli orsi sono bianchi. La Terranova sta all'estremo Nord e lì c'è sempre la neve: di che colore sono gli orsi?" "Non so, io ho visto un orso nero, altri non ne ho visti...ogni località ha i suoi animali". [...] Il sillogismo assomiglia così a un testo, fisso e isolato. Questo fatto mette in risalto la base chirografica della logica, mentre l'indovinello appartiene al mondo orale. (Ong, 2014)

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Se quindi il segnale sfugge alla condanna del nome che lo rappresenta limitandolo e ritorna al mondo pre classificatorio, occorre accettare che anch’esso sia convenzionale (e arbitrario, alla Saussure) e che, allo stesso modo, simmetricamente e analogamente, anche il simbolo faccia parte di energie istintive.

E’infatti ragionevole che il segnale, per esempio quella presenza di una macchia rossa che scatena l’aggressività dello spinarello27, abbia avuto un’origine e sia insomma il frutto di un’evoluzione28, e non solo di quella biologica, poiché la buona vecchia selezione darwiniana si è arricchita in questi decenni, come vedremo fra poco, di due importanti concetti e contributi: la teoria baldwiniana29e l’exattamento.30

È del pari ragionevole che qualcosa di diverso e di simile abbia preceduto il fatto che la trasformazione dei suoni e delle visioni in significati sia per noi oggi un processo automatico, involontario e obbligato; “una parte del nostro sistema cognitivo è cablata sugli stimoli linguistici: se esso ne individua nell’ambiente circostante non può fare a meno di elaborarli dando avvio al processo di comprensione.” (Ferretti, 2020).

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Lo spinarello (Gasterosteus aculeatus) è un pesce molto comune, durante l’epoca degli accoppiamenti i maschi vengono scelti dalle femmine grazie alla loro sgargiante livrea rossa, che però può segnalare agli altri maschi la presenza di un rivale, scatenando la loro aggressività.

28 "Ora, se il linguaggio è un adattamento dovuto alla selezione naturale, allora l’evoluzione del linguaggio deve essere interpretata in termini di modificazioni numerose, successive e lievi, ovvero in termini gradualistici." (Ferretti, 2020).

29 Effetto Baldwin: si tratta di un meccanismo evolutivo tramite cui il comportamento intenzionale può influire sull’ evoluzione, un meccanismo di tipo Lamarkiano.

30 Alla base della visione pluralista dei naturalisti è il concetto di «exattamento» (exaptation) introdotto da Gould e Vrba (1982).

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Baldwinismo ed exattamento

Abbiamo accennato alla teoria baldwiniana e all’exattamento, chiariamo. Per quanto riguarda la questione baldwiniana (una sorta di ritorno a Lamarck31) basti qui citare Kevin Kelly ed estendere la capacità da lui descritta anche al non umano. (1994):

“Con tutta probabilità, una biologia lamarckiana richiede un tipo di profonda complessità un’intelligenza che la maggior parte degli organismi non può raggiungere. Ma laddove la complessità è ricca abbastanza per l’intelligenza, come negli organismi e nelle organizzazioni umane, e nella loro progenie robotica, l’evoluzione lamarckiana è possibile e vantaggiosa…quando un organismo acquista sufficiente complessità nel suo corpo, può usare il suo corpo per insegnare ai geni ciò che essi devono sapere per evolvere…l’apprendimento culturale modifica la biologia così che la biologia diventa suscettibile di ulteriore culturalizzazione. Così la cultura tende ad accelerare sé stessa…questo implica che la ragione per cui abbiamo cervelli che possono produrre cultura è perché la cultura ha prodotto cervelli che potessero farlo…Quando si sono evoluti i cervelli umani, essi hanno creato cultura, il che ha permesso la nascita di un vero sistema lamarckiano di acquisizioni ereditate”32 .

In estrema sintesi: gli esseri viventi, oltre che esser nati con una eredità biologica più o meno adatta all’ambiente (Darwin), lottano, anche se non più

31 Per dirla davvero in breve e tagliandola con l’accetta, un esempio: per Lamarck la giraffa ha allungato il collo a furia di sforzarsi, nelle generazioni, per arrivare più in alto per procurarsi il cibo. Per Darwin invece la “volontà” di allungarsi non è la causa dell’allungamento, ma questo è frutto della selezione e dell’adattamento all’ambiente degli individui nati per caso col collo un po’ più lungo, ecc.

32 Kevin Kelly, (1994) Quello che vuole la tecnologia, Mondadori.

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adatti all’ambiente, per vender cara la pelle, e anche per questo si evolvono. (Baldwin).

Prendiamo ora l’idea di exattamento. Essa nasce nell’ambito degli studi sull’evoluzione e dice che alcuni caratteri costruiti dall’evoluzione allo scopo di adempiere a una funzione iniziano lentamente ad adempirne un’altra completamente diversa.

Alcuni esempi sono notissimi: le penne che diventano da protezione termica attrezzi per volare; gli occhi che nati per altri scopi finiscono col “vedere”; la vescica natatoria che diventa polmone, ecc. L’idea, che nasce nel mondo degli studi della natura, può qui tranquillamente essere utilizzata come analogia per descrivere eventi che stanno sulla linea di confine fra natura e cultura. Uno degli esempi più affascinanti e utili ad illustrare le pagine di questo capitolo è il modo col quale nella cultura sumerica, avendo la necessità di registrare la proprietà si iniziano a modellare dei sacchetti di argilla all’interno dei quali vengono messi piccoli simulacri di pecore, buoi, ecc. Col tempo si intuisce che la fase della rottura del sacchetto d’argilla per verificarne il contenuto poteva essere evitata, sarebbe bastato riportare sul sacchetto i segni (simulacri) delle varie proprietà. Il sacchetto non dovendo contenere più nulla cessa di essere cavità e diventa una semplice tavoletta di argilla. Il passare di altro tempo consente di schematizzare i disegni degli oggetti fino a renderli segni semplici, condivisi e veloci da tracciare (la scrittura cuneiforme)33. Il passaggio ulteriore, di portata enorme, consistette nel fatto che quelle merci, quei beni, quelle pecore, buoi, sacchi di frumento ecc., venivano chiamati per nome, corrispondevano a suoni e che alcuni simboli potevano essere utilizzati per comporre, col suono dei loro nomi, altri oggetti. Ci si avvia così alla scrittura fonetico alfabetica. Questi passaggi nascondono una grande discontinuità dei fini, mostrano un salto che se utilizzassimo il rigore logico e le celle impermeabili delle classificazioni ci

33 Anche se i primi embrioni di scrittura li troviamo già intorno alla metà del VI millennio a.C. nella civiltà danubiana.

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costringerebbe a dire: c’è un momento, un attimo, un nulla, nel quale il simbolo che raffigura il bue, grazie a uno scatto della mente diviene un suono capace di significare insieme ad altri suoni un oggetto diverso e quel nulla ci porrebbe davanti al compito difficilmente adempibile di capire perché quando e dove può essere avvenuto un tale passaggio condiviso. Il bisogno, la ricerca del punto di passaggio e dell’individuo geniale, sono figli della mentalità logico-quantitativa che ha regnato e regna dall’epoca dei Lumi34. Non riguarda, come abbiamo deciso, il nostro mondo ammantato dal velo d’ignoranza.

Un altro problema di fondo sta nella astrazione inaccettabile contenuta nella domanda: “quando la cosa diventa simbolo, cioè diviene fatto sociale”? Lo si è già accennato, in essa il “sociale”, perfino quando è implicito, non nominato, diventa un elemento logico, un’astrazione.

Pensare che sia sufficiente che in una proposizione le espressioni “mutamento sociale” o “convenzione” si comportino con correttezza formale, quasi obbedendo a regole sintattiche, è l’errore, l’inaccettabilità dell’astrazione, l’impotenza delle parole, la spocchia della logica.

D’altro canto, se ci limitassimo a dire, per esempio, che il passaggio dal simulacro al simbolo fonetico avviene lentamente, ci serviremmo di un sotterfugio narrativo debole e risibile.

C’è qualcosa di reale che andrebbe mostrato in quel “lentamente”; c’è qualcosa che soltanto nell’invenzione romanzesca o nella poesia si potrebbe a

34 Allo stesso bisogno è dovuta l’invenzione dell’”inventore”. Immagine statica necessaria per segnare i gradini di un percorso che viene visto come progressivo, così come per vedere la crescita di un albero non ci si può metter davanti e guardarlo, è molto meglio farne delle foto a intervalli determinati e osservarne poi la differenza. Il genio, l’invenzione, il grande artista sono le “foto” del progresso, necessarie ad illustrare una teoria del progresso, altrimenti difficilmente leggibile.

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lungo e degnamente mostrare; c’è la presenza in sangue e ossa della costruzione e difesa di diversi ruoli di quelle civiltà, di diverse gerarchie; c’è arroganza, sottomissione, schiavitù, dolore, morte. Perché il “contesto”, il sociale, non è un sociale fantasmatico, ideale. Immaginarlo così lo pone alla pari dell’astrazione “ragione” che, come disse Bobbio, è tale perché è considerata “non come una conquista che l’uomo faccia gradatamente con l’approfondimento di sé e del mondo esterno, ma come un possesso eterno e perfetto, immodificabile e indistruttibile, che appartiene all’essenza stessa dell’uomo”.

Immaginato e accettato che i mutamenti avvengono con la lentezza del contesto sociale per le dolorose ragioni suddette, si può ulteriormente approfondire e immaginare in che cosa altro consista tale lentezza. Essa, oltre ad essere provocata e costruita sulle differenze, sul potere, sulla forza, è alimentata anche da una sorta di “regola” che potremmo accostare analogicamente all’abituazione. Tentiamo di suggerire che il motore del cambiamento, in una dialettica fra individuale e collettivo, è anche la ripetizione.

Le abitudini

Le abitudini, infatti, non vanno intese soltanto come comportamenti che si ripetono, ma come comportamenti che inducono gli altri a ripetere le stesse risposte. Se cambi abitudine obblighi anche gli altri a cambiare e farlo è faticoso. Per questo le abitudini durano. Non si decide quindi di cambiare, urtando gli altri, accade, invece, che si cambi insieme, in un altro modo35, per

35

Il modo col quale nelle psicoterapie il terapeuta, rappresentando “gli altri” e mettendo in atto autocambiamenti, consente il cambiamento a chi chiede aiuto, è un buon esempio ed è illustrato in Masoni M. V. , Psicoterapia e perdono, Laterza, 2016.

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esempio abituandoci in tanti ad errori ricorrenti, infrazioni ripetute, che poi si scopre (in tanti) esser capaci di facilitare la vita.36

Leon Festinger, un noto psicologo statunitense, formulò a metà del secolo scorso la teoria della dissonanza cognitiva, che si può esporre in estrema sintesi così: due elementi che abbiano riferimento a ciò che è chiamato cognizione sono dissonanti se per una ragione o per l’altra sono incongruenti. Per fare un esempio la vista di un ferro di cavallo che galleggia sull’acqua mi provoca una dissonanza cognitiva perché nelle mie cognizioni il suo peso specifico non consente che un pezzo di ferro massiccio galleggi. Ora qui spingeremo fino ai limiti estremi questo concetto: anche ciò che appare come oggetto, come unità, in quanto differente dallo sfondo è dissonante rispetto allo sfondo. Potremo dire con semplicità che ogni cognizione di tipo nuovo provoca dissonanza cognitiva e che, quindi, l’apprendimento è costituito da una serie di dissonanze cognitive37. Cioè, utilizzando un termine più amico, è costituito da una serie di “stupori”.

L’abituazione spegne gli stupori, con essi l’attenzione, e con la scomparsa dell’attenzione, che non è necessariamente cosciente38, nei comportamenti umani e non solo, si apre la strada all’errore e infine all’exattamento39 .

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Un esempio dei nostri tempi può essere istruttivo: un gran numero di fumatori in questi anni ha smesso di fumare, la cosa è stata resa più facile proprio perché messa in atto da un gran numero di fumatori. C’è ovviamente chi resiste e, malgrado il senso comune possa ritenerli “deboli”, ”incapaci di farcela”, questi sono, al contrario, individui che potremmo definire particolarmente “forti”, giacché resistono al trascinante esempio di molti.

37

38

Masoni M. V. (2018), Il potere dell’empatia, Flaccovio.

Jaynes J. (2014) La natura diacronica della coscienza, Adelphi.

39

Non è difficile immaginare lo scandalo provocato da piccoli cambiamenti, messi in atto per errore o per pigrizia da qualcuno (e non da un “inventore”), in società dai comportamenti altamente ritualizzati, e nemmeno è arduo immaginare il lungo tempo

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Ora, malgrado si possa immaginare l’orripilazione di qualche purista dimentico della nostra intenzione di abbandonare le definizioni di simbolo ecc., stiamo per affermare che (siamo alla più forte delle preannunciate sintesi irrituali e immaginifiche, una delle modalità permesse dal nostro velo d’ignoranza), abbandonando l’ossessione analitica che spacca il tempo, divide il mondo e moltiplica i nomi, il” rumore”40 può essere chiamato “metafora” e viceversa.

Metafora perché il rumore suggerisce altri significati e Rumore perché le metafore possono essere spostamenti dei significati e possono diventare frequenti, ripetizioni quindi, tendenti a farci abituare ad esse fino a non sorprenderci più, diventando così metafore morte41. Anche questa è una faccenda exattamentale. Insomma: la comunicazione può essere fraintesa e nel tempo iniziare a comunicare altro

Significante e significato

Ora dobbiamo fare un rapido salto nel mondo di de Saussure e di Peirce e riprendere una frase fondamentale già citata in premessa.

in cui poi il cambiamento viene accettato, fino al momento in cui accettarlo appare utile in modo condiviso e non fa più perder la faccia ai pochi “sbagliati”.

40 Per Daniel Kahneman, Oliver Sibony e Cass R. Sunstein il rumore è la possibilità di compiere errori ovunque si eserciti il giudizio, a causa di fraintendimenti dovuti a un difetto del ragionamento umano. (Kahneman D., Sibony O., Sunsein C. R., (2021), Rumore, UTET.

41 Il termine catacresi o metafora morta si riferisce ad una metafora che ha perso la sua forza, profondità e originalità entrando a fare parte della comunicazione reale, dato il suo utilizzo ripetitivo, ma a volte le proposte innovative si riducono e possono essere condensate a ben vedere nella proposta di nuove definizioni, per es. nel loro primo libro del 1980 Metaphors we live by (Metafore attraverso le quali viviamo), George Lakoff e Mark Johnson sottolineano come le metafore morte o convenzionali siano più che mai vive.

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Per Peirce il significato è uno dei vertici del triangolo semiotico

L’unione di forma e contenuto, cioè di significante e significato, definisce il segno. Il significato è un concetto mentale che rimanda all’oggetto (il referente) e, per Ferdinand de Saussure, qui lo ripetiamo, significante e significato si presuppongono a vicenda42 .

Bene, che cosa accade al nostro segnale che abbiamo pocanzi equiparato a un simbolo? In pratica, che ne è ora, alle origini, di quel “significato” che poi, nel tempo del simbolo, verrà indicato dal concetto, dato che di concetti non ce n’è ancora?

42 Non va dimenticato che la distinzione è antica (siamo sempre sulle spalle dei giganti), già “Gli Stoici affermano che tre cose sono tra loro collegate: il significato, il significante e l’oggetto. Di queste cose il significante è il suono, per esempio “Dion”; il significato è la cosa stessa che è manifesta e la cui esistenza viene da noi colta come dipendente da nostro pensiero, ma che i Barbari non comprendono, sebbene siano capaci di udire la parola pronunciata; mentre l’oggetto è ciò che esiste all’esterno, per esempio Dion in persona. Due di queste cose sono corporee: il suono e l’oggetto, mentre una è incorporea ed è l’entità che è significata, il dicibile (lektòn), che è vero o falso” (Sesto Empirico, Contro i matematici).

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Dovremmo ricorrere a una sorta di pseudoconcetto tendente a divenire un protoconcetto.

Come chiamare il modo col quale il nostro spinarello, avendolo noi ingannato con un piccolo oggetto rosso, lo caricherà con la forza e l’aggressività di un ittio toro ritenendolo un rivale?

Lo si potrebbe chiamare una sorta di embrione di comportamento “concettuale con errore”, la stessa modalità con la quale il leone a volte non “riconosce” la gazzella e questa non riconosce il leone (l’errore può ovviamente riguardare altro, ho visto in certi documentari leoni infierire su un pupazzo ben fatto di leone, ritenendolo un rivale).

Esiste ancora quindi, anche nel mondo non ancora simbolico, il vertice superiore di quel triangolo immaginato da Peirce. Esiste già in quel mondo l’“errore”, la discrepanza fra significante e significato.

Esiste già il fatto che anche se significante e significato si presuppongono a vicenda, si mostra e richiama la nostra attenzione la dimensione vaga, ambigua, spesso cruenta, di quel “si presuppongono”.

Il “Tertium” (ricordiamolo, sta per “bisogno di unicità del significato”) sa presentarsi con durezza e con mille volti, sia nel percorso vitale del singolo individuo animale (l’antilope che “vede” o “non vede” il leone) o umano, sia in un sociale (sempre storicamente determinato), sia in un percorso diacronico (le nostre fasi della storia) che in copresenze parallele (per esempio come vedremo i poteri paralleli di invenzione occidentale: legislativo, esecutivo, giudiziario).

L’esistenza di ciò che chiamiamo “errore” è inizialmente resa evidente dalla reazione di chi difende l’unicità del significato. Vi si potrà leggere una storia e ci si potrà accorgere che, ancorché in modo sincopato, mimetico e rapido, è suggerita qui anche una sorta di telegrafico racconto dell’origine e della vita della norma e del diritto. Per quanto riguarda invece chi scrive, io, per me, voglio vedervi un lento autocostruirsi della dignità umana (come avrebbe

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detto Boudon)43. La “correzione” dell’errore da parte di un significato intollerante produce dolore e morte sempre meno accettabili, a mano a mano che il percorso circolare dell’umanità autocostruisce nuove dignità. La via d’uscita, conseguenza che ci sforziamo di proiettare in un futuro ipotetico sarà la capacità del significato di rinunciare alla propria unicità. Quando il significato saprà adeguarsi alla varietà dei significanti, saprà cioè mettere in atto autocambiamenti (potremmo chiamarli: tolleranza e perdono), il cerchio dell’autocostruzione della dignità si sarà concluso e se ne aprirà un altro.44

43 “Ora, nei nostri anni, in questo pianeta con quasi otto miliardi di esseri umani che se lo stanno divorando come locuste, lasciate cadere molte speranze, comprese quelle degli attimi fuggenti economici relegate a trasmissioni televisive, resta per molti solo quella di una razionalizzazione diffusa. Questo il nome che Raymond Boudon dà alle idee suggerite da Toqueville, Durkheim e Weber. Una sorta di sviluppo di un progetto di civiltà, di rispetto crescente per la dignità dell’uomo, che si auto definisce e costruisce nella storia e “in corso d’opera”.” (Masoni M. V., Op. cit. (2021))

44 Sarebbe estremamente interessante uno studio sul rapporto fra quanto ho scritto qui due “folgori” del pensiero e della storia: l’eterno ritorno dei Greci e il circolo chiuso col Giudizio Universale dei Cristiani. Sono tanti i modi che, pur differentissimi, dicono la stessa cosa. Croce e delizia del linguaggio.

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Parte seconda: frammenti per una storia del tertium.

La scimmia individualista.

Ci rifaremo qui, per iniziare, alle intuizioni e scoperte di Michael Tomasello, un noto studioso che insegna Psicologia e Neuroscienze in una università americana:45 le grandi scimmie antropomorfe sono in grado di capire il comportamento degli altri membri del gruppo con una differenza fondamentale rispetto al modo in cui lo fanno gli esseri umani. Privilegiano una dimensione individualistica sia dell’osservatore che del membro del gruppo osservato, ignorando la presenza degli altri.

“Così, i bambini sanno che se un adulto indica un secchiello nel contesto di un ’attività di ricerca, ciò probabilmente sarà in qualche modo rilevante per il loro fine congiunto di trovare il giocattolo. Ma le grandi scimmie non sanno, né possono, assumere che l’altro stia indicando a loro beneficio, e così non si chiedono: “Perché lui pensa che questo sia rilevante per me?”. Invece, vogliono sapere cosa l’altro possa desiderare per sé (poiché quando sono loro a indicare è sempre per fini egoistici). [...] Dunque le grandi scimmie semplicemente non vedono il gesto di indicazione come qualcosa di rilevante ai loro fini.”

Ora, rischiando di apparire ingrati verso i risultati delle sue importanti ricerche, ma autorizzati a farlo dalla scelta di ripararci col velo d’ignoranza, proseguiamo con le nostre inferenze rispettando l’impegno di evitare le dicotomie, evitiamo quindi di separare i mondi della comunicazione

Michael Tomasello, (2019) Diventare umani, Milano: Cortina

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46
45
46 Ibid.

individualistica e di quella sociale. Dimentichiamo le scimmie antropomorfe, nostre cugine in questa era e torniamo a quegli esseri di passaggio, a quelle scimmie nostre vere antenate di centinaia di migliaia di anni fa. Immaginiamo che il confine fra i due mondi, scimmia-uomo (“non simbolo”“simbolo”), non sia una linea logicamente netta, ma una fascia ampiamente sfumata e priva di nitidezze perché non illuminata da Lumi che vogliono vederle. Osserviamo ora un ipotetico maschio Alfa. Essere “capo” significa che la comunicazione “sono il capo” è diretta a tutto il branco e viene capita da tutto il branco. Se anche la competenza indicale non è maturata e il nostro maschio Alfa non sa ancora indicare qualcosa col dito, mostrando così un interesse per altro o altri che non sia il suo diretto interlocutore, abbiamo altresì una comunicazione che è uguale per tutti e che pur restando nella dimensione individualistica presenta una sorta di incrinatura della sfera solipsistica. Il gesto dell’individuo destinato a un suo “interlocutore” più debole è già parte di un linguaggio che il gruppo condivide. Potremmo chiamarla una condivisione espressa nel mostrare la fine che fa il malcapitato che osa contrastare il capo. Insomma, qui il gesto semisimbolico condiviso non è l’“indicare col dito”, ma lo spettacolo dell’aggressione del più forte verso il ribelle o il trasgressivo. Verso ogni ribelle. In questo senso ogni individuo del branco si relaziona agli altri e condivide con loro una sorta di significato comune. Ogni membro del gruppo vede che quando il maschio alfa è aggressivo ogni suo compagno lo teme e comunica di temerlo. La scimmia uomo osserva. Osserva, come sa fare e, sia pure, in un modo che ogni “individuo” tinteggia col proprio stile. Forse che oggi ognuno di noi umani non interpreta almeno per una frazione a modo suo, nella sua parte di “individualismo”, i messaggi che riceve? Ma tutti, ognuno a modo suo,

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temono anche la stessa cosa. Quella stessa cosa, uguale per tutti, “condivisa” sta lentamente avvicinandosi, ci metterà decine di millenni, a ciò che noi sbrigativamente chiamiamo “concetto”. Il maschio alfa, nel nostro mondo isolato dal velo d’ignoranza, sta facendo in modo che nel branco inizi ad aleggiare un’idea, un ectoplasma, una sfumatura …di simbolo.

In Origini della comunicazione umana, Tomasello distingue due tipi di segnali in grado di sortire degli effetti comportamentali negli altri: le “esibizioni comunicative”, ovvero tratti tipici geneticamente determinati e su cui l’individuo non ha alcun controllo volontario e i “segnali comunicativi”, espressioni prodotte in modo flessibile e strategico, al fine intenzionale di influenzare il comportamento degli altri. Ancora dualismi. Ci siamo tanto abituati a un certo stile classificatorio che i dualismi da esso generati ormai ci appaiono normali come il sale sui cibi. È vero che tale stile ha illustri origini, nasce con Socrate e si diffonde con Platone47, ma non è vero che debba essere l’unico modo di utilizzare il linguaggio. Il bisogno di classificare ha caratterizzato da sempre la ragione umana, ma il classificare può avere molti aspetti. Da circa quattro secoli il nostro modo di classificare è divenuto una sorta di pensiero vincente dell’occidente. Solo vincente però, non più “vero”.

47 La tecnica dialogica platonica (e socratica) si basa su definizioni duali: o “è” questo o “non è” questo e non si tratta di questioni solo discorsive, di chiacchiere: “ciò che è” è l’intellegibile, il vero, il mondo assoluto delle idee, l’altra parte tocca invece la finta realtà, transeunte e finita, le cose, le apparenze. Platone è intellettualmente aristocratico. La logica duale si è così fortemente radicata nella cultura umana da esser ritenuta una sorta di espressione naturale del mondo, così i calcolatori si basano su di essa con un linguaggio fatto di 1 o 0. E’ forse per questo che si può dire, intuendolo, che il computer non sarà mai come un cervello umano, il quale ha ben altre potenzialità e ricchezze dialettiche, a meno che nei pc non venga superato il linguaggio duale.

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In queste pagine riteniamo che si possa affermare sì, senza fare esperimenti sulle scimmie che fra “esibizioni comunicative” e “segnali comunicativi” non esista alcuna frattura se non quella immessa grazie all’impotenza dei nomi e del linguaggio, che non sanno cogliere insieme qualcosa che “è” e contemporaneamente “non è “. Certo, il vecchio principio di non contraddizione ha a che fare anche col non permetterci di intuire che il mondo reale non è imprigionabile dalle parole. Eppure, tentare di trasgredirlo non è affatto azione nuova, se duemilacinquecento anni fa lo fece Gorgia, un grande verso il quale sia Platone che Aristotele nutrivano rispetto, quando disse che Una cosa “è”, oppure “non è”, oppure “è e non è”. Insomma, tertium datur.

Possiamo anche non parlare quindi di individualismo se pensiamo ai nostri antichissimi progenitori, ma di embrionale costruzione del simbolo, soprattutto grazie alla forza e alla violenza del capo. La richiesta, ancora inconsapevole, del maschio Alfa, probabilmente non solo dei nostri antenati, ma anche di altri animali da branco, non poteva che essere: “il significato di ciò che avviene lo decide la mia forza”. La concettualità in embrione, può collocarsi già al vertice di quel noto triangolo semiotico. Il rapporto stretto, strutturato da un collante chiamato forza bruta, fra significante e significato c’è già: in questo caso è la violenza e “dipende da me”.

L’aggressione eventuale del maschio alfa verso un ribelle o uno sfidante viene posta a correzione di un errore dovuto a rumore: non è del tutto chiaro allo sfidante o al disobbediente, che si debba fare solo quello che è permesso fare, sarà con la punizione che lo scoprirà. Ora caro lettore, ti invito a dare corda alla fantasia e a guardare avanti, qualche centinaio di migliaio di anni, e, te ne parlerò fra poco, potrai cominciare a vedere perché tutti gli “Alfa” di ogni epoca hanno avuto e hanno in odio, pur non potendone fare a meno per mostrare il loro potere, il rumore, che per noi, nelle epoche civili, diventerà metafora e altro.

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Quando il tertium richiede il giuramento. Émile Durkheim, uno dei padri della sociologia, in un saggio famoso48 racconta l’origine del contratto ricavata dallo studio di riti antichissimi, l’idea verrà poi ripresa da Donald Davidson49, grande filosofo americano. Il “contratto” nasce quando nelle tribù arcaiche, nel villaggio, diventa concepibile e percettibile il passaggio fra l’interno e l’esterno, l’esistenza dell’altro, del mondo di fuori, la scoperta di una soglia, che rende diverso ciò che sta al di là. Tale mondo, strano, nuovo, non dominabile, è il divino. Il contratto nasce come patto fra l’io, il noi e il divino che è fuori. Il termine “divino” può trascinare con sé connotazioni moderne, è utile scolorirle e pensare a quel termine come a un’etichetta che ci offre un vago suggerimento non del tutto sovrapponibile al nostro concetto con lo stesso nome. Tale contratto si consolida attraverso qualcosa che per gli uomini ha una sorta di effetto magico, un ponte fra noi e ciò che è fuori, di là, la parola, il nome che viene dato alle cose, agli eventi, alle persone, agli oggetti. Il fatto che si possa nell’arco di migliaia di anni arrivare a concepire il simbolo, cioè che si possa dire “animale” e che “animale“ non voglia più significare l’entità viva e presente che sto osservando, ma animale in generale, questo passaggio che qui stiamo sfumando consente di intuire quanto fosse magica la parola, quanto diventasse nel lungo tempo magico il nome e quale vincolante impegno fosse il pronunciarlo. Sul nome si costruisce qualcosa che il tempo non può intaccare ed esso diventa il fondamento su cui basare il patto, duraturo, con l’altro e, inizialmente, col divino. Il nome è una storia concentrata: come la storia crea nella continuità una unità, così il nome fissa il transeunte.

Il patto, cioè il contratto.

48 Durkheim,(1978) Lezioni di sociologia: fisica dei costumi e del diritto, Etas

49 Davidson D.,(2001), Inquiries into Truth and Interpretation: Philosophical Esays, vol.2, Claeendon Press.

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La parola è così forte, così stabile nel tempo, così inattaccabile dalla vecchiaia, che su essa basiamo sperando in una tranquillità del fato i nostri accordi.

E Davidson ribadisce: la parola, la comunicazione, il messaggio fra gli umani vale, perché è un impegno. Ogni volta che apre bocca l’uomo mette in atto un impegno, cioè condivide un sapere che l’altro conosce e che quindi stabilizza, crea patti, crea cose comuni, crea relazioni. Il modo col quale si costruisce rapporto, la parola che si utilizza modifica il patto. Non c’è accordo che valga se il termine che si utilizza, infrangendo il patto, cambia significato.

Se è il divino a stabilire i significati e se utilizzo le parole per impegnarmi con l’altro, occorre che chiami lui a testimonianza, per garantire che il patto (il significato) non vada perduto o cambi.

Questa chiamata a testimonianza e a garanzia è il giuramento.

Che sia faccenda primordiale è suggerito dal fatto che esso è sempre legato a una gestualità comune in tutte le culture. Il gesto onnipresente è il levare le mani al cielo o toccare un collegamento col divino.

Il mito soccorre, questo è uno dei primissimi esempi che conosciamo: quando il Sonno fa promettere ad Era che essa gli darà per consorte Pasitea, una delle giovani grazie, pretende il seguente giuramento solenne50: “Giura per l’acqua inviolabile dello Stige, toccando con una mano la terra nutrice, con l’altra il mare scintillante, affinché ci sian testimoni tutti gli dei di sotto che circondano Crono”51

Altri documenti confermano la presenza del giuramento e la sua gestualità.

50 Massimo Jasonni, Il giuramento. (1999) Profili di uno studio sul processo di secolarizzazione dell’istituto nel diritto canonico. Giuffrè, Milano.

51 Iliade XIV, 271

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“[In Grecia] Si ponga a mente il ferreo rituale che caratterizzava il giuramento: chi giurava era di solito in piedi, volgeva le braccia al cielo (così in una medaglia di Colofone) o toccava con le mani un altare (in un vaso dell’Ermitage a Leningrado)”52

Ed è anche primordiale il fatto implicito che perché venisse concepita la formula del giuramento occorreva che fossero frequenti le trasgressioni, il cambiar significato della parola data, il non rispettare l’impegno.

Quando, molto prima, nella cultura assirica, il re assume caratteristiche divine, il giurante chiama questi a testimone e garante. E se all’inizio della sua secolarizzazione il contratto diventa tale in senso quasi moderno (assumendo l’aspetto di contratto commerciale), nascono, in un primo stupefacente embrione di divisione del lavoro, categorie di “specialisti” del giuramento.

“Abbiamo visto nei nostri studi sui contratti appartenenti alla seconda dinastia di Ur che in certi casi questi sono “giurati” in nome del re o in nome di re e divinità. In altri casi vengono nominati solo i testimoni, che sembrano prendere il posto del giuramento.

(nota 1: In Babilonia e Assiria i testimoni potrebbero aver formato una classe, il Sibutu, probabilmente costituita da anziani che esercitavano la testimonianza come professione.)”53 Sembra intravvedersi, in penombra, la burocrazia, il diritto e i suoi professionisti.

Op. cit. (1999)

Rev.Samuel Alfred Browne Mercer, Ph.D., (1912) The Oath in Babylonian and Assyrian Literature, Librairie Paul Geuthner, Paris

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Se noi consideriamo la letteratura sul tema del giuramento, notiamo come il punto di partenza assunto per le diverse analisi sia, con un generale richiamo all’autorità del Vico, il seguente: laddove sorge un consorzio umano, là si riscontra il giuramento, come sacro, solenne porsi del diritto54

La divisione del lavoro, locuzione già utilizzata in queste pagine, si manifesta all’inizio come presenza multiforme del “significato”.

Ne riassumiamo le tappe suggerite fino ad ora.

1. Il significante violento del maschio alfa

2. Il “divino”

3. Il giuramento col divino garante

4. Il giuramento con re divino garante.

Quando il tertium si trasforma nella invisibile forza della logica.

Ci sono poi territori che sembrano sfuggire all’attenzione della storia.

Mentre vivono a volte in parallelo le metamorfosi elencate, un’altra, non vistosa, si radica in quella parte della cultura chiamata linguaggio. Che cosa significa il fatto che le parole sono un impegno?

Per il maschio Alfa uno e uno solo era il significato del suo comportamento: “obbedisci”. Uno era il modo col quale tale significato era espresso: punisco l’errore. Si ricorderà che abbiamo chiamato “rumore” quella possibilità di commettere errori. E che il rumore era in realtà l’unico modo attraverso il quale, con la punizione del “reo”, si sarebbe manifestato il significato del 54 Op. cit. (1999)

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potere. Senza l’errore, il rumore, il “deviante”, il potere resta invisibile e svanisce.

In un modo del tutto analogo: senza la possibilità dello spergiuro il giuramento perde senso. Il giuramento significa garanzia che la parola usata sia quella il cui significato è condiviso (o deciso dal “potere”) e sia priva di rumore55. E perché ciò avvenga occorre che l’uomo abbia incontrato il rumore, il significato altro della stessa parola. Il termine moderno con quale indichiamo cioè che può significar altro da ciò che apertamente dice, è metafora

Stiamo illustrando, certo, solo con leggeri tratti di stecchi di carbone, come la metafora già appaia come l’ostacolo necessario affinché possa essere combattuto.

Ma non solo le parole sono un impegno, passano forse più decine di migliaia di anni di quanto si immagini, e ora son le “frasi” a diventarlo. Le frasi, composte da quelle parole il cui significato deve essere univoco, pena il diverso senso dell’intera frase e della relativa azione ad essa connessa56. Ora l’analogia si ripresenta con insistenza: perché si senta la necessità di garantire il significato univoco delle frasi occorre che si sia già vissuto e si viva il problema della frase che significa altro.

55 Il giuramento era rafforzato anche da un rigido rituale, a garanzia di ogni possibile fuga dei significati: “Nelle tradizioni nordiche, che avrebbero influenzato il diritto germanico, il giuramento costituiva momento di purificazione e sfida in cui l’accusato doveva attenersi a gesti e parole rigidamente regolamentati e muoversi, di fronte all’assemblea, nel rispetto di luoghi e ritmi altrettanto rigidamente disciplinati” . (op. cit. 1999)

56 "Language in its primitive function is to be regarded as a mode of action rather than as a countersign of thought. Malinowski" (da "Swearing: A Social History of Foul Language, Oaths and Profanity in English (English Edition)" di Geoffrey Hughes).

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E se diventa prassi abituale far sì che con severità le frasi siano chiare e vogliano dire ciò che tutti capiscono allo stesso modo, allora, per difendere ed evidenziare la prassi abituale, che diventa uno stato dell’essere o addirittura una “professione”, occorre che esista l’ostacolo, che esistano frasi che intendono dire altro o che, semplicemente, si dica altro.

In un luogo abitato della Terra in cui il potere assume ora vari volti, dove in una fase che già accenna alla decadenza nasce (combattuta) l’idea di democrazia, il potere non abita più nel divino o nel re divinizzato, ma nella capacità e possibilità di sconfiggere significati altri per far valere il proprio.

Tutto ciò prenda forma in Grecia57

In Grecia si garantisce l’unicità del significato con la nascita della logica e della retorica (senza che la violenza fosse bandita).

La logica abolisce il testimone del giuramento, o meglio lo rende invisibile. Nessuno ha più l’incarico di dire “tu spergiuri!”, ora un’entità senza corpo, ma di inusitata potenza, può dire “ti contraddici!”. La logica non contempla metafore. E’una gigantesca costruzione. Produce racconti che sembran veri anche in mancanza di prove perché essa stessa si arroga il diritto di essere una prova, è un corpo che si presenta di lato, parallelo al vivere umano, con lo stesso parallelismo che verrà assunto presto dal diritto.

Che forma prende la logica quando diventa ovvietà, verità logica del diritto? Diventa il rigore logico della legge. Ci suggerisce il grande esempio Sofocle: Antigone non “obbedisce” a Creonte, vuole dire altro sulla sepoltura dei 57 Questa è una delle tante meravigliose “colpe” dei Greci. Credo che Nietzsche per primo l’abbia detto: ”Detto tra parentesi: questi Greci hanno un mucchio di cose sulla coscienza: la falsificazione di ogni cosa è opera loro, l’intera psicologia europea è malata di superficialità dei Greci e senza quel poco di ebraismo ecc. ecc. “ (lettera a Overbeck, 21 febbraio, 1887).

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nemici uccisi e del fratello Polinice. La sua punizione è terribile58. Qui il conflitto, l’osare dire altro, è il non rispetto del giuramento giuridico, cioè delle leggi che regolano la vita della città. Se Socrate morirà per il rispetto rigoroso e “logico” della legge, Antigone urla il suo diritto al pianto. Non c’è logica, ma un rumore che scuote il potere. Non notate, con la vostra mente analogica, qualcosa che già richiama la separazione fra ciò che è accettabile (equo) e ciò che è legge? Non passerà molto, che nella Roma arcaica si inizierà a sentire la frattura fra l’equus e lo Ius e che prenderà forma il motto antico: Summum ius, summa iniuria

Per non appesantire queste pagine sulla metafora come pericolo e come indicatore dei tempi mi limiterò a qualche citazione privilegiando Tacito e avvertendo che ovviamente quando si parla di eloquenza si parla di linguaggio metaforico, rischioso quindi, per l’unicità del vero, come subito ricorderò con Aristotele,

“la metafora è rischiosa per la verità”59 , che in questa frase riassume proprio la visione che intristisce Tacito, che sotto Vespasiano è nostalgico della repubblica: “Tu mi chiedi spesso, o Giusto Fabio, per quale ragione mentre l’età repubblicana tanto fiorì di oratori eminenti per valore e per fama, l‘età nostra è a tal segno squallida e nuda di ogni gloria di eloquenza, che quasi si è perduta la parola stessa di oratore…”60

Viene murata viva per ordine del re Creonte.

in Jaynes J., (2014) La natura diacronica sella coscienza, Adelphi.

Tacito, Dialogo degli oratori, 1.

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Nessun rispetto era dovuto ai potenti, finché i magistrati non ebbero limitazioni al loro potere, Roma produsse una più valida eloquenza, come un campo non domato dall’aratro produce erbe rigogliose"61

Com’era la vera eloquenza? Sentite la risposta furiosamente ironica: «Era capace di lasciare il segno, nutrita di insubordinazione, compagna delle sedizioni, provocatrice di un popolo sfrenato, restia all’obbedienza e al rigore, insofferente, temeraria, arrogante, quale, insomma, mai nasce nelle città bene ordinate»62

Quando il concetto è in Dio

Il Medioevo appare come un mondo nuovo con nuove autorità.

Il vuoto lasciato da Roma resta incolmato per secoli63; nasce, figlio di una enorme varietà di letture, interpretazioni ed espressioni diverse del diritto, un lento nuovo accordo con la nascita delle università64

Lo strumento principe dell’intelligenza e della scienza, il linguaggio, doveva essere “composto” da parole il più possibile univoche. Nella prima fase, in gran parte dell’Alto Medioevo, non era opportuno giocare con i significati.

La nuova costruzione dei Chierici, i sapienti, gli intellettuali del tempo, si contrapponeva così al caos linguistico delle genti. Lucien Febvre65 racconta

Tacito, Tutte le opere, Newton Classici

Ibid.

Grossi P. (2017), L’ordine giuridico medievale, Laterza.

Mi piace definire l’università un accordo sul sapere planetario e immutato fin dal medioevo: “verum quod est pactum”.

Febvre Lucien (1980) Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Einaudi.

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come fino al 1500 circa nelle città si potesse sentire utilizzato un linguaggio privo di ogni rigore grammaticale e sintattico, ma la gente si capiva, sapeva interpretarsi e la vita, sulla strada, continuava. Il volgare aveva raggiunto nobiltà metaforiche mai sentite prima, da poco da parte dei trovatori s’era abbandonato il latino e ci si ingegnava a “trovar” parole che rendessero espressiva la lingua del volgo, ma questi parlavano d’amore, quello terreno, e non di Dio, per il quale invece necessitava ancora la lingua esatta, il latino, pena il rischio di pericolose interpretazioni dei libri sacri66 .

Il mondo è così diviso in due parti simbiontiche: senza il villano non può brillare il chierico.

Nella seconda fase, fino al XIII secolo l’univocità dei significati era necessaria per garantire ai chierici le coerenze e l’“esattezza” del pensiero unico del loro tempo. Intanto la divisione dei ruoli e la professionalizzazione del diritto, già apparsa potentemente in epoca romana67, si intensifica e la figura del giudice acquista una sua autonomia professionale, che potremmo già chiamare “specialistica” (i re, che avevano come compito il giudicare, ricorrevano nei casi difficili ad esperti consulenti68). Si affida a figura terza la terzietà del significato, inizialmente ancora sorretta dalle indicazioni religiose. Ho già utilizzato poc’anzi il termine “parallelismo”, che per questi argomenti trovo più icastico, più “suggerente”, dell’espressione “divisione del lavoro”. Ciò che accade infatti è che si formano “poteri” paralleli.

66

67

Masoni M. V. (2021), Volontà. Milano: Fabbrica dei Segni.

Data la estrema ritualità degli atti giuridici romani, ogni minimo errore poteva invalidare tutto, per muoversi fra mille insidie l’aiuto degli “esperti” era necessario. (Bretone M:, (1987), Storia del diritto romano, Laterza)

68 Le Goff J.,(2012) Il re medievale, Giunti.

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Quando il tertium è il “sociale”

Per quanto sia vaga e banale l’espressione “il sociale”, cambiando contesto e dato che la banalità è data dal contesto che la incornicia, qui ci possiamo permettere di utilizzare tale vaghezza per suggerire che può essere letta come altro aspetto, complesso, dell’intolleranza del significato. Quando si dice “socialmente non accettabile” intendiamo questo. Addirittura, in un eccesso di amore per le patologizzazioni, qualcuno dice: “è sociopatico!”

Insomma, c’è un sociale che è dentro di noi, che abbiamo incorporato frequentando la nostra gente e che lavora “usandoci”.

La cosa non è sempre stata indagata allo stesso modo.

Che sciocchezza, diceva Comte, l’introspezione. La fuga romantica nei giardini personali non può che darci una semiconoscenza di ciò che noi soli sappiamo già, nulla a che vedere con la scienza, che guarda le cose, la natura.

Ma "Contro la negazione comtiana della validità dell’introspezione Dilthey non soltanto rivendicava la possibilità di «riprodurre in noi, fino a un certo punto, nella rappresentazione» i fenomeni sociali, «sulla base della percezione interna», ma affermava che «questo nostro mondo è la società, non la natura»."

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Una società severa, che si regge in vita solo se si autoalimenta in quanto società, con la messa in comune dei significati. Questo vale sia per la propria autolettura che per quella delle “cose”.

"Che cosa ci ha autorizzato a confrontare del blu con del blu, invece che con un suono, o con una forma, con un animale? In quale modo ci verrebbe l’idea di raggruppare insieme dei termini per confrontarli, per trarne caratteristiche comuni, per generalizzare, se già non avessimo l’idea di una

69 da "Scritti filosofici" di Wilhelm Dilthey, Mario Rossi.

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comunanza, di qualcosa di comune, se non avessimo riconosciuto qualcosa di comune," 70

“Tutti cercano una certa somiglianza nel proprio modo di significare, di modo che i segni stessi riproducano, per quanto possibile, la cosa significata. Ma poiché una cosa può somigliare a un’altra in molti modi, questi segni possono avere, per gli uomini, un senso determinato se vi si aggiunge un consenso unanime” 71

Il sociale sa come fare. Sa costruire il consenso unanime. Possiamo dirlo grazie all’osservazione di cosa accade ai ribelli che non ci stanno, è lì che vediamo la rabbia che il sociale sa esprimere quando vede indebolirsi il collante che lo tiene insieme. Non solo, il “sociale” non può reggersi insieme senza dirselo, senza dirsi “la pensiamo allo stesso modo”. Per dirselo ha bisogno dei ribelli, che lo costringono a saggiar la colla, per verificare, ricordare e ricordarsi della forza aggregante, della propria potenza.

La trasgressione quindi e persino certa devianza, sono un dirsi del sociale, è dirsi “noi siamo”. Il così detto (e semplificato) sociale, la forza degli “uguali”, è un altro volto del tertium che sta al vertice del triangolo semiotico. Se esci dalle righe metti in pericolo l’identità chiamata “Noi siamo”. Ma solo se esci possiamo gridarti e mostrarti, aggressivi, il “Noi siamo”.

Dato inoltre che il sociale “è” in noi, lo stesso conflitto che si presenta in esso fra chi difende l’unicità del significato e chi ne propone altri è presente anche in noi, nel sistema individuo. Potremmo perfino utilizzare il termine “inconscio”.

70 da "Storia dell’idea di tempo: Corso al Collège de France 1902-1903" di Henri Bergson

71 Agostino, De Doctrina christiana, II, XXV, 38

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Una presenza conflittuale già presente nel Paolo della Lettera ai Corinzi, dove il doloroso scarto in noi fra significante e significato unico prende la forma e il nome di “peccato”:

“Il volere è in mio potere. Ma compiere il bene no. Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio quello che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato che abita in me”

(S. Paolo, Lettera ai corinzi)

e che anche Petrarca ha saputo descrivere con efficacia mai più raggiunta nel 1300, cinque secoli prima di Schopenhauer:

“Non sono ancor trascorsi tre anni da quando quella volontà dissoluta e perversa, che tutto mi possedeva, e che regnava sovrana nel palazzo dell’animo mio, cominciò a sentirne un’altra, ribelle e riluttante; tra le due da un pezzo si è ingaggiata una lotta estenuante ed ancor oggi incerta sul campo di battaglia dei miei pensieri per il dominio di quel doppio uomo che è in me.”

(Francesco Petrarca, lettera del Ventoso)

Quando il tertium è nel diritto naturale

Il grande passaggio si ha col sopraggiungere del diritto naturale teorizzato e messo in ordine da Pudendorf72 conciliando Hobbes e Grozio (e preferendo quest’ultimo). Qui il tertium acquista la forma moderna, non più la forza bruta, non più il divino e il sacro come garante e testimone della coerenza (giuramento), non più il ramo logico, con le sue ineluttabilità discorsive ( il principio di non contraddizione), non più il ramo signorile e reale garantiti da Dio, non più rivelazione (libro del vero), ma, per utilizzare la frase

72 Pudendorf Samuel, (2016) Il diritto della natura e delle genti. Libro primo.CEDAM

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famosa di Grozio, nei Prolegomeni al De iure belli ac pacis: ”Il diritto naturale dovrebbe essere ammesso anche se non si ammettesse l’esistenza di Dio”.73

Ciò significa che prima l’uomo riteneva di avere un fine soprannaturale e per questo aveva bisogno della legge rivelata da Dio e del giuramento, ora però in quanto essere razionale ha una sua autonomia, nel senso letterale del termine, cioè capacità di dare a se stesso le proprie leggi74. Si tratta di una formidabile modifica del volto del Tertium. Il giuramento diventa fenomeno residuale, quasi folcloristico, ancorché presente nelle attuali aule di giustizia.

Dall’insindacabilità della voce divina, si passa alla voce dell’uomo, così instabile da poter contemplare lotte per la “ragione”. Si tratta di una sorta di ritorno all’indipendenza greca dal divino, con la ri nascita della logica e della retorica. È una fase, una sosta, un sussulto della storia nel cerchio della autocostruzione di nuove dignità. La certezza, l’unicità dei significati, la si ricava confidando nelle ineluttabilità del processo logico razionale, come si era cominciato a fare con le scienze empiriche. Si tenta una scienza del diritto: more geometrico demonstrata, forte, vera, intangibile come le leggi matematiche e fisiche (le approssimazioni della fisica non destavano ancora preoccupazioni teoretiche)

Quasi un secolo dopo con Montesquieu i parallelismi assumeranno il volto dei poteri dell’organizzazione occidentale (e solo occidentale) della società. Legislativo. Giudiziario. Esecutivo. Il Tertium, il significato, si divide in tre parti e il sacro viene filtrato, tolto e differenziato definitivamente dal laico. Se il Tertium è faccenda umana, occorre che sia possibile il suo controllo con la

73 In realtà due secoli prima di Grozio era stata formulata una simile, pericolosa, affermazione, da Gregorio da Rimini, ma i tempi non erano maturi e non emersero conseguenze del peso di quelle che seguirono la frase di Grozio.

74 Carla Faralli,(2014) Le grandi correnti della filosofia del diritto. Dai Greci ad Hart, G.Ciappichelli Editore, Torino.

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divisione dei tre poteri, funzionanti con le regole del poker: nessuno dei tre ha la certezza assoluta di essere il “vincitore”. S’era visto infatti che la ragione non bastava e la civiltà dei tre poteri, la nostra, potrebbe essere definita la civiltà del sospetto. La scuola come fucina dei significati.

Ci sono casi, frequenti, nei quali il ricorso all‘etimologia si rivela un misero espediente di bassa retorica. In mancanza di argomenti si fa credere che il vero significato di un certo termine sia quello che aveva tra i Greci, o tra i Romani o tra gli Indoeuropei o addirittura fra chi scriveva in sanscrito. E’ vero che in certi casi la scoperta si rivela illuminante, per esempio leggere che il termine “essere” (nel senso di esistere) deriva da molte radici che significano “respirare” ci lascia intuire quali stupefacenti cambiamenti abbia operato il significato condiviso di certi termini, ma non significa certo che anche oggi “essere” significhi “respirare”!

Così liberiamoci subito dalle invadenti etimologie che ci raccontano cosa “davvero” significhi “apprendere” o “insegnare”. Quando ne parliamo fra noi ci capiamo (pur con tutte le sfumature dell’interpretazione individuale) e pensiamo soprattutto alla scuola. Questa a sua volta ha raggiunto una tale ovvietà istituzionale che la domanda “apprendere che cosa?” non giunge nemmeno alla mente, ci si accontenta di tastare la pellicola chiamata “programma” poggiata su uno strano intruglio di conoscenze ritenute indispensabili75. Vediamo quindi con quale costume il nostro Tertium si è infiltrato, mascherato, nel grande ballo dell’istruzione.

75 E’ vero che nella scuola italiana i programmi non ci sono ufficialmente più, ma posso assicurarvi che vivono come pesanti fantasmi nella testa di moltissimi insegnanti e della stragrande maggioranza delle famiglie.

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Si sa che all’apprendimento costruito nei milioni di anni sul DNA, al cosiddetto “istinto”, si aggiunge negli animali superiori qualcosa che già possiamo chiamare esperienza. Questa può essere diretta (quell’animale morde e fa male) oppure appresa (guarda come mamma scimmia pesca con un bastoncino le termiti dal termitaio). Tutto diventa più complicato quando subentra il linguaggio e sappiamo già che quel “subentra” non può essere settecentescamente istantaneo. Quando la scimmia Alfa consente nei millenni quell’ombra di concettualità alla quale abbiamo accennato alcune pagine fa, inizia a introdurre i primi insegnamenti sulla doverosa unicità dei significati. Questo è infatti la scuola: la fucina per la costruzione dell’unicità dei significati. Tale laboratorio inizia ad esistere come ridotta enclave nella tribù, fino a diventare dopo qualche centinaio di migliaia di anni la scuola centralizzata inventata da Napoleone affinché in tutto l’impero si difendano i significati che contano e garantiscono la sua sopravvivenza.

La conseguenza, dopo il passaggio da questo immane vaglio, è la riproduzione di un sapere sperimentato (l’idea di progresso è parte vitale di quel sapere) e la creazione di ostacoli a tutto ciò che sembra troppo “deviante” o, generalizzando e ampliando il significato del termine, troppo metaforico.

Qualora fossimo interessati alla scuola moderna. Quella che nasce due secoli e mezzo fa, quella che noi pensiamo collegata organicamente all’edificio scuola, alle aule e ai banchi, può risultare utile una sua rapida visione tramite due brevi lampi. Se è vero che, in un certo senso strutturalista, il presente consente di capire meglio il passato, una rapida visione di passaggio dello stato dell’università ci può consentire un’intuizione rapida della regola di tutta la scuola fino a quella dell’infanzia.

Primo lampo: chiedo a un amico, un vero amico, docente associato di una grande università, di produrre un capitolo per un libro collettivo e per diffondere alcune idee che abbiamo in comune. Questa la risposta.

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Caro Marco, esito a scriverti perché vorrei dirti di sì, ma devo essere realistico…quel poco che riesco a scrivere devo farlo secondo i canoni che l’università riconosce. Non si riuscirebbe a pubblicarlo in inglese , vero?...Vorrei non avere questi vincoli, ma è così.”

Secondo lampo: una giovane studentessa di psicologia, al terzo anno del suo corso, mi scrive indignata:

Ci hanno spiegato come si fa una tesi di laurea. In pratica:

1)Nella tesi non bisogna esprimere giudizi personali. MAI !

2)Ma solo citare altre persone (ogni due righe una citazione)

3)Riporto questo invito verbatim: “Ogni persona dotata di buon senso capisce perciò che la cosa più importante è sapere come si scrivono le note bibliografiche, cioè quando va messo il corsivo, quando lo stampatello, quando la virgola, quanti spazi bisogna lasciare tra i caratteri etc. E infatti ci hanno fatto esercitare a scrivere correttamente le note bibliografiche perché per esempio “Se invii un articolo ad una rivista scientifica e c’è un errore nella forma delle note bibliografiche non te la pubblicano”.

La studentessa alla fine conclude: Quante cose si imparano all’università!

Allo stesso modo, passando alla scuola pre universitaria, la “classe” nasce per porre di fronte all’oratore un gruppo omogeneo dedito all’ascolto, funzionale quindi a una scuola del monologo, del silenzio.

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Dewey narra che in America, nella scuola da lui frequentata, era proibito da parte degli studenti fare domande: uno quindi è il sapere, quello che ti viene passato, comandato, ordinato.

Ma i tempi cambiano, arriva la modernità e le teorizzazioni su come fare col gruppo classe si sprecano, dai divertenti sociogrammi (un faticoso esercizio grafico inventato per gli insegnanti e usato dagli psicologi perché agli insegnanti non serve), ai nobili strumenti di analisi del gruppo ecc. fino ad esilaranti e laboriose letture delle dinamiche del gruppo classe che portano a conclusioni sorprendenti, questa per esempio:

“Se risulta [dai grafici e dai calcoli] che la classe non è motivata, occorre motivarla”. (La fonte è in rete, evito di citarla).

E’sempre meno presente, però, la scuola del nozionismo ingenuo, ma nihil novum… Ora si fa una grande passo in avanti: oggi voglio che tu non apprenda pedissequamente, ma che tu pensi, ragioni, ovviamente a modo mio!

La scuola moderna, infatti, proviene da un’esperienza nella quale tutto era funzionale al passaggio di saperi comandati al maggior numero possibile di bambini e ragazzi, cioè saperi funzionali al mantenimento dell’identità di nazione che si stava allora affermando.

L’aula era (e rimane) il suo luogo, luogo della classe, dei banchi, della cattedra e del silenzio. La lezione era (ed è) unidirezionale, i saperi comandati non si discutono, si bevono. All’insegnante agli inizi (gli inizi sono sempre più leggibili e meno subdoli) non era dato l’incarico di insegnare facendo pensare, anzi, un eccesso di cultura era visto come pernicioso. Dagli Atti del Parlamento Subalpino, 26 marzo 1858:

" L'insegnamento delle scuole magistrali si limitasse a quella sfera in cui deve essere circoscritto; perché, succedendosi i capi dell'amministrazione della pubblica istruzione, non venisse per avventura loro il talento

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d'innalzare il livello dell'istruzione dei maestri primari, per farne diffonditori di un'eccessiva istruzione generale, più ampia e più diffusa."

Ma qui, ora, collocheremo la “sfida” del presente.

Il mondo è cambiato, le culture nazionali si spengono, la spinta alla scuola diventa la spinta a qualcosa che non è né chiaro né condiviso, Il mondo tutto sta cambiando in questi ultimi decenni più in fretta di quanto i suoi osservatori impieghino per mettere a fuoco le loro lenti.

Se ne accorge anche chi incarna il “senso comune”. I genitori scoprono che i saperi educativi appresi dalla famiglia nella loro adolescenza sono altri da quelli funzionali oggi. La scuola scopre, sempre più attonita, che la piramide di regole, gerarchie, poteri, per lei e per le sue abitudini palpabile, visibile e granitica, appare ai ragazzi come trasformata in vetro, così sottile da divenire a volte invisibile.

Insomma, il giovane disobbedisce!

E la scuola, non tutta, certo, chiede obbedienza e lo fa proponendo non solo regole sue, ma saperi, ancora, comandati. Saperi comandati a ragazzi disobbedienti.

In molti ragazzi d’oggi la scuola non è più il già noto, il già vissuto, parte già prevista del loro percorso di vita. Essa appare sconosciuta e aliena.

Se è vero che si può insegnare ciò che l’altro sa già, occorre capire che cosa è già pronto, che cosa è già noto, cosa i nostri ragazzi sanno già.

Sanno, molti di loro, confusamente, il diritto (nuovo) alle differenze individuali e quindi il diritto alla non omologazione. Non basta? Basta e avanza.

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Sono diritti letteralmente sconosciuti alle nostre, adulte, generazioni. Ma i ragazzi, gli studenti, lo sanno solo potenzialmente, a tratti, è un sapere tradotto in pochi sussurri che compaiono rari fra il rumore dei media. Di tutto ciò i ragazzi utilizzano più spesso i suggerimenti vistosi e volgari. Il disperato bisogno di identità, per esempio, in tempi nei quali essa non è più fissata con la nascita, in tempi nei quali il destino è tutto da costruire, si semplifica in trasgressioni e bullismi ripetuti. Solo infatti facendo sempre le stesse cose divento riconoscibili agli altri, indosso quindi una riconosciuta identità e a volte basta che a ripetersi sia solo l’immagine, per sentire che “esisto”

Allora ciò che sanno a tratti i ragazzi, per bagliori, per intuizioni non trattenute, occorre lo sappia anche l’educatore, il maestro, la guida. La guida ha i mezzi culturali per vedere meglio ciò che è già pronto e in attesa di nascita. E chi è già guida lo sia per altre potenziali guide.

La scuola, in tutte le sue espressioni (insegnanti, orientatori, ascoltatori di sportello, formatori, studenti), insegni alla scuola, a sé stessa, a vedere ciò che già è pronto. Il nuovo, timidamente, ogni tanto si affaccia. Il gruppo classe sta perdendo letteralmente di senso di fronte alle sperimentazioni dell’apprendimento cooperativo e della peer education.

L’insegnante diventa facilitatore e abbandona i saperi comandati.

I ragazzi, e i bambini, nientemeno, divengono co ricercatori.

Le differenze individuali vengono esaltate.

E la selezione? E il merito?

Il merito venga dato a chi offre differenze, a chi tenta di uscire dai binari, a chi si nutre del dubbio e rifiuta il rogo delle varie Giovanna d’arco. Ecco, forse è questo ciò che la scuola può dare in questi tempi bui e confusi, il diritto al dubbio. E non c’è miglior contenitore del dubbio, che la metafora senza confini. Un grande pericolo per il nostro Tertium.

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Quando il tertium “facilita” o della giustizia riparativa.

I secoli che ci separano dal distacco del diritto dal divino non possono essere riassunti in poche righe. Basti pensare al passaggio illuministico-positivista di Geremy Bentham e all’idea dell’utilitarismo76 e della moderna sorveglianza. Il Panopticon giunge, pur argomento separato e riguardante il controllo, come esempio icastico dello stato moderno.

Ma nello stesso tempo quel nostro circolo di aumento della dignità prosegue il suo corso e Antigone rivive.

Il diritto a un’equità non coincidente con lo IUS, il diritto al pianto per la sofferenza “simmetrica”, perfino della vittima e del reo (un termine antico lo chiama “perdono”), è portato avanti ora, ancora, da pochi, con coraggio e solo, per ragionevole prudenza politica, in occasioni particolari, capaci di non urtare i tempi lunghi della cosiddetta “morale di senso comune”.

Parliamo della giustizia riparativa.

“Per processo riparativo si intende ogni processo in cui la vittima, l’autore dell’illecito e, dove appropriato, ogni altra persona o componente della comunità, che ha subito pregiudizio a seguito del reato, partecipano insieme, attivamente nella risoluzione delle conseguenze del crimine, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. 77

E questa la sua dimensione deontologica (ibidem):

[…] l’equità, la reintegrazione necessitano di una funzione facilitatrice. Evidenziano il carattere terzo, equo e imparziale della figura

76 Il capitale ha già mostrato le sue leggi. Non per la gloria di Dio si vive, ma per sé.

77 Patrizia Patrizi. Prof. Ordinario di Psicologia Sociale, univ. di Sassari

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con tali funzioni, che deve possedere specifiche conoscenze e capacità ed essere adeguatamente formata.78

Qui il tertium, da sempre giudice, rappresentante e difensore del “significato”, non ha più ora l’avvallo, la copertura, la consacrazione di una astratta giustizia assoluta o naturale. Non giudica. Facilita il dialogo.

Il significato raggiunge una fusione assoluta col significante perché del significante ammette, capendole, le diverse letture della realtà. La metafora, ora ingigantita fino a divenire il dolore delle vite, è un significante che cessa di mostrarsi come sovrabbondanza, ostacolo e scarto rispetto al significato, poiché il significato si è ampliato e sa accoglierlo tutto. Il significato accoglie la metafora. Qui è il significato che si amplia, senza il bisogno di tarpar le ali al significante.

Non occorre in questa visione la devianza affinché la giustizia brilli.

La connessione fra significante e significato diviene in questa bolla utopistica completa.

C’è ancora un limite, il fatto che la terza figura, un tertium, ora incarnato nel facilitatore, abbia bisogno di una formazione. Il diritto insomma vuole ancora una teoria che lo sostenga e quindi un brandello di significato che evidenzi il “non esatto”, ma già ora tuttavia è suggerito, con forza mai raggiunta dalle altre forme del diritto, il percorso di dignità dell’uomo, suggerito per Raymond Boudon da Toqueville, Durkheim e Weber. Questo non ha bisogno di mostrare subito nei fatti i “luoghi” raggiunti. Deve porsi come traguardo, sogno, utopia che, se anche solo immaginata, può iniziare a vitalizzare con piccole gocce questo presente auto assetato di dignità. Poi il cerchio continuerà il suo ciclo, gonfiandosi in modi che ancora non immaginiamo.

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78
psicologa

Il senso del conflitto significante/significato

Se si pensasse ora che qui il continuo ricordare la necessità degli opposti, riassumibile con “la metafora appare come l’ostacolo necessario affinché possa essere combattuto” sia lo svelamento di una legge superiore, una sorta di verità assoluta che regola il nostro universo, si commetterebbe un errore che ad ogni costo vogliamo suggerir di evitare. D’altronde il nostro velo d’ignoranza non contempla né partenze da posizioni assolute, né giungimenti ad esse.

Questa lettura eraclitea infatti (comune a molte filosofie orientali e, dall’Ottocento, alle nostre) è solo frutto della nostra lenta costruzione di nuovi concetti ed è invenzione e non scoperta.

Non è la regola del conflitto degli opposti che guida le nostre vite, ma le nostre vite stanno suggerendo una possibile lettura della nostra condizione come conflitto fra gli opposti.

La tensione fra significante e significato suggerisce qualcosa che noi abbiamo costruito affinché suggerisca una tensione fra significante e significato.

Questo è il cerchio.

Il nostro passato è frutto del nostro presente.

Il suggerimento che abbiamo costruito, la nostra invenzione, possiede un ingrediente anch’esso costruito: una coerenza narrativa da noi plasmata, consistente in narrazioni, che producono i valori del nostro presente.

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E, infine, il luogo dello svolgimento e sviluppo della coerenza è la politica.

Questo è il cerchio al quale ripetutamente s’è accennato agli inizi e nel corso di questo scritto: la nuova dignità è il traguardo al quale si aspira ma il traguardo è stato costruito senza che si potesse prima chiamarlo traguardo. Esattamente come è avvenuto per il simbolo.

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Alle radici del concetto di sovranita’

di Luisa Bussi (Lublino 21 Settembre 2012)

Sommario: 1. Re e signori; 2. Auctoritas e potestas; 3. Rex non est mere laicus; 4. Il modello veterotestamentario; 5. Non è il re che fa la legge ma la legge che fa il re; 6. Il pensiero moderno; 7. Conclusioni.

1. Il concetto di sovranità del quale si discute in questa sede, la sovranità collegata con la figura dello Stato perché intesa, da un lato, come la sua indipendenza sul piano internazionale, dall’altro come il monopolio del potere di imperio su tutti gli individui che si trovano sul suo territorio o gli appartengono per cittadinanza, ovunque essi siano si è affermato nell’età moderna da fondamenti medievali, le cui radici si protendono così indietro nel tempo da far pensare che attingano a strutture profonde della cultura occidentale. Queste radici, e la attuale accezione, tuttavia, racchiudono in sé sia una profonda evoluzione, sia la compresenza di elementi diversi e intimamente confliggenti, su cui può essere utile soffermarsi.

La proteiforme complessità del concetto è peraltro in qualche modo suggerita dallo stesso termine che, usato in molte lingue europee per definirlo sovranità, souveränität, souveraineté, sovereignty, soberanía, suwerennosc , oggi implica un’idea di assolutezza, pur derivando dal latino super, superus (sopra, superiore, donde il termine medievale, sconosciuto al latino classico, superanus), che rinvierebbe piuttosto a un concetto relativo, dunque

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distinto da quello originariamente indicato dal superlativo supremus (al di sopra di ogni altro)1 .

Forse non è un caso che lo slittamento dal significato comparativo al superlativo si sia manifestato presto nella lingua francese, che da superanus derivò soverain, usato infatti nella nuova accezione, come è evidente nell’espressione soverain père, souv’rain seigneur per indicare Dio. Proprio in Francia, infatti, si verifica per tempo il trapasso dall’ organizzazione gerarchica caratterizzata dal decentramento dei poteri e delle funzioni di governo - propria del mondo feudale a quella in cui poteri e funzioni sono invece monopolisticamente accentrati al colmo della gerarchia - propria del mondo moderno. Anche in Italia ove la Signoria aveva anticipato questo processo, riconoscendo al signore l’arbitrium2 , ovvero la somma di quei poteri che erano stati sin qui appannaggio delle magistrature cittadine si rinviene, a partire dal XIV secolo, l’espressione “potere sovrano”, per indicare appunto un potere sovrastante tutti gli altri, usata cioè nel senso in cui ancor oggi tale espressione viene intesa.

Sin qui, se il re signore dei possedimenti regali era souverains par desor tous, il barone era souverains en sa baronie3 Come è stato da tempo

1 H. QUARITSCH, Souveraenität, Entstehung und Entwickulg des Begriffs in Frankreich und Deutschland vom 13.Jh. bis 1806, Berlin 1986, p. 13.

2 Vedi G. CASSANDRO, voce Signoria, in Nuovissimo Digesto Italiano, vol. XVII, p. 327.

3 PHILIPPE DE BEAUMANOIR, Coutumes de Beauvaisis [1283], ed. Beugnot, Paris, 1842; ed. Salmon, 1900; The Coutumes de Beauvaisis of Philippe de Beaumanoir, trad. F. R. P. Akehurst, Philadelphia 1992.

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osservato4, la concezione patrimoniale dello “Stato” comportava tanto che gli stessi regni non fossero considerati altrimenti che come grandi domìni, quanto che i dominia mostrassero relazioni di imperio, la qual cosa emerge in tutta evidenza sol che si osservi la dottrina (canonistica e civilistica) e la prassi in tema di diritto di guerra5. Perché se è vero che titolare del gladium sanguinis (inteso sia come arma di guerra sia come suprema giurisdizione) era il rex6 , è anche vero che alla qualità di dominus si accompagnava la possibilità di difendere persone e cose del proprio dominio, respingendone gli aggressori o eventualmente recuperandole dagli stessi. Certo, tale possibilità era limitata dalla condizione che ciò avvesisse rispettando il moderamen inculpatae tutelae e cioè come chiariva la Glossa incontinenti (contestualmente), flagrante adhuc maleficio; ma un autorevole giurista come Piacentino chiariva che la contestualità doveva ritenersi rispettata anche qualora si tentasse di recuperare il possesso perduto dopo un certo intervallo, purchè:

4 E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Milano 2002 (con introduzione di G. Grasso)= 3a ed. riveduta e ampliata , Cagliari 1970. Cfr. P. GROSSI, Le situazioni reali nell’ esperienza giuridica medievale. Corso di Storia del Diritto, Padova 1968, pag. 160 e segg.; M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 2004, p. 157; A.J. GUREVIC, Le origini del feudalesimo, Bari 1990, pp.56 57.

5 Per le osservazioni che seguono rinviamo a L. BUSSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, Roma, 2001, I, p. 125 e ss.; IDEM, Echi dello jus belli romano nella dottrina canonistica della guerra giusta, in Jus antiquum Древнее право, 1 (13) 2004; anche in Diritto @ Storia, N.3 Maggio 2004 Memorie (www.dirittoestoria.it ).

6 A ragione della sua funzione di punire gli iniqui:“Non autem sine causa gladium portat rex. Vindex est enim contra omnes iniquos, ut terrore comprimat quos nequit corrigere monitis salubribus”. Così IVO DI CHARTRES, Panormia, VIII, 54, in P.L., 161, col. 1315.

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…non assumpto alio negotio, id est, non reservet nec differat post dies, sed instet: amicos, vicinos, consanguineos, rogitet, anxie defudet, ut congregatus coetu eum qui se expulit expellat... Permissum est enim unicuique iniuriam repellere, non vindicare7; e gli faceva eco Azzone: ...et intellige incontinenti antequam ad alia divertam negotia… unde si laboravi in acquirendis amicis per annum, nec postposui hoc negotium, incontinenti videtur factum8 .

L’intero quadro delle istituzioni medievali non presentava insomma distinzione qualitativa fra “domini di diritto interno” e “domini di diritto internazionale”, restando unicamente rilevante la complessa rete gerarchica che tutti li legava all’interno di una medesima societas. Ancora nel XVI secolo, un’esponente della media nobiltà ungherese poteva affermare: “Cosa deve importare a me del re? Anch’io sono un libero signore e domino borghi che ho ereditato da mio padre”9 .

2. Alla accezione relativa dell’idea di sovranità era funzionale il distinguerne due aspetti: l’auctoritas e la potestas. Questo consentiva di ammettere la supremazia dell’auctoritas dell’imperatore, pur nella molteplicità gerarchica delle potestates dei signori feudali, delle città, delle corporazioni. La contrapposizione, la cui rilevanza è testimoniata dall’attenzione che ad essi è stata rivolta sia dalla giurisprudenza medievale, sia dalla storiografia giuridica contemporanea, si era per la verità affacciata

7 PIACENTINO, Summa codicis, in C.VIII, 4, 1, ed Moguntiae MDXXXVI, (=Torino 1962), p. 374.

8 AZZONE, Lectura super codicem, in C.VIII, 4,1 (Unde vi), ad v. Recte possidenti, 2.

9 Cfr. L. BUSSI, Fra unione personale e Stato sovranazionale. Contributo alla storia della formazione dell’Impero d’Austria, Milano 2003, p. 498.

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nei rapporti fra potere religioso e potere temporale10. Presente già in una lettera di papa Gelasio I all’imperatore d’Oriente (a. 494), ove il termine auctoritas viene usato per l'ufficio papale e potestas per quello regale 11 , tale contrapposizione, se da un lato proclamava l’autonomia del potere religioso rispetto a quello politico, dall’altro forniva le basi, nella sua interpretazione più ierocratica, all’idea che l'intera Cristianità totum corpus ecclesiae dovesse convergere nel principatus della Chiesa romana12, restando il regno un dono divino, e la legittimazione a regnare del re derivando esclusivamente dalla defensio ecclesiae affidatagli 13 , per cui il potere regio si poteva perdere per indegnità14 .

Sino all’età moderna, si era quindi di fronte ad un potere “pubblico” ritenuto relativo a giurisdizioni determinate, coesistenti sullo stesso territorio. Questa

10 Ma risaliva all’età repubblicana di Roma, vedi G. CASSANDRO, Lezioni di diritto comune, I, Napoli 1971, p. 52.

11 "Duo sunt quippe quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas. In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipsis regibus Domino in divino sunt reddituri examine rationem”. Il passo (recepito peraltro nel Decretum grazianeo, c.10, D.XCVI), in P. JAFFE', Regesta pontificum romanorum, vol. I, Leipzig 1885, p. 85, n.632; MIGNE, P.L., LIX, coll.41 47.

12 Secondo W. ULLMANN, The Growth of Papal Government in the Middle Ages, London 1955, p.22, l’idea ierocratica sarebbe già presente nel pensiero di Gelasio. Ma contra vedi E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, Milano, 1962, II, p. 207 e ss.; nello stesso senso W.ENNSLIN, Auctoritas und Potestas. Zur Zweigewaltenlehre des Papstes Gelasius I, in Hist. Jahrbuch, 1955, p. 665 e ss.

13 Lo stesso Imperatore, in questa prospettiva, doveva lasciarsi guidare dal sacerdotium, giacchè si doveva ritenere che ogni potere sovrano derivasse da Dio come divinum beneficium e ai sacerdoti spettasse, in virtù della loro qualificazione funzionale, il valutare la corrispondenza degli atti dei principi ai precetti divini, W. ULLMANN, Principles of Government and Politics in the Middle Ages, London, 1966, tr. it. Principi di governo e politica nel Medio Evo, Bologna, 1972, p. 61.

14 W. ULLMANN, Principi di governo, cit., pp. 70, 148 e ss.

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concezione, che potremmo chiamare della doppia o plurima sovranità, viene teorizzata ancora nella pubblicistica settecentesca del Sacro Romano Impero15: non solo il potere dell’imperatore rispetto all’Impero, ma anche il potere del signore territoriale rispetto al suo Land non appare altro che un complesso di diritti di diversa natura riuniti in capo al signore territoriale (Landesherr) - la cui unitarietà sta solo nella persona del loro titolare.

Di fatto lo Stato patrimoniale feudale non riconosceva al re un potere onnicomprensivo. Questo viene teorizzato dalla giurisprudenza, a partire da quella medievale, passando per la configurazione della regalità francese a opera dell’Umanesimo giuridico, per finire con lo Stato di Polizia oggetto dell’attenzione dei cameralisti tedeschi. Sino all’età moderna, il potere “pubblico” si ritiene essere relativo a giurisdizioni determinate, coesistenti sullo stesso territorio, sicchè è perfettamente concepibile una “doppia sovranità”, e questo tanto nel pensiero medievale quanto nella pubblicistica settecentesca del Sacro Romano Impero, da cui prenderà le mosse il diritto pubblico contemporaneo16 .

3. La prima impasse nella quale si dibatte la giurisprudenza è se al princeps dovesse o no essere riconosciuto il potere di legiferare. Era lo stesso Corpus juris giustinianeo a parere contraddittorio, perchè, pur raffigurando a più riprese il

15 Oggi più che mai interessante nell’ottica delle istituzioni europee, per lo straordinario equilibrio fra potere imperiale e potere dei ceti riflesso nella Pace di Westfalia. Su ciò E. BUSSI Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, Padova, vol. I 1957, vol. II 1959.

16 Su ciò E. BUSSI Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, Padova, vol. I 1957, vol. II 1959.

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princeps come legibus solutus17 , conteneva però anche la famosa costituzione Digna vox, ove Teodosio proclamava l’opportunità che l’imperatore si professasse legibus alligatus18 . E in effetti il principe medievale era obbligato a osservare strettamente gli obblighi giuridici che su di lui incombevano, per via dei contratti feudali, della consuetudine, ovvero anche solamente di una sua precedente determinazione19 .

tale antinomia si affaticano glossatori e commentatori tesi a far combaciare l’immagine dell’imperator che desumevano dai testi giustinianei20 con quella dell’imperatore dei tempi loro, sfruttando nella definizione di questa immagine anche gli apporti nuovi offerti dalla scuola canonistica. Questa già dalla seconda metà del XII secolo parla di una plenitudo potestatis pontificia riconducendola al potere del pontefice di legare e sciogliere in materia spirituale, e di concedere dispense21. E tuttavia anche il potere del Papa si doveva ritenere limitato da quello che laicamente può essere considerato una sorta di testo “costituzionale”, vale a dire il complesso delle prescrizioni derivanti dalle Sacre Scritture.

Dominava peraltro la visione delle cose terrene l’idea di una somiglianza fra metafisica e fisica tutta informata a quella struttura trinitaria che una interpretazione analogica delle Sacre Scritture suggeriva essere l'ordine di

Dig. 1.3,31; Inst. 2,17, 8 in fine.

Cod. I,14, 4.

E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Milano, 2002, p. 165.

G. CASSANDRO, Eclissi e rinascita del diritto romano, in La storia, I, Il Medioevo, 1. UTET, Torino 1988, ora in Lex cum moribus. Saggi di metodo e di storia giuridica meridionale, I, Bari 1994, p.247.

E. CORTESE, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma 1966, p. 123.

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quelle celesti22. Tale ordine era stato tratteggiato a suo tempo dal De coelesti hyerarchia dello Pseudo Dionigi, ove l’intera creazione è improntata in senso gerarchico, e la sua struttura tripartita, immagine dell'armonia esistente entro la Trinità stessa, sottintende la somiglianza fra il Creatore e le sue creature23 .

E’ certo che già nella corte franca il testo dionisiano (inviato a Pipino il Breve dal papa Paolo I, e poi portato direttamente da Bisanzio dagli ambasciatori inviati dall'imperatore Michele a Lodovico il Pio) fu a domanda dell’Imperatore franco ripetutamente tradotto: prima sotto la direzione di Ilduino , poi da Giovanni Scoto Eriugena24 .

Aveva ragione Schmitt quando osservava: “alle praegnanten Begriffe der moderner Staatslehre sind saekularisierte theologische Begriffe”25 . La costruzione teorica di Dionigi e dello Eriugena, che concepiva il mondo come organizzazione gerarchica, in funzione del suo ritorno a Dio26, ebbe rilevante influenza politica. Non è solo l’ ordinatio Imperii dell'817 a riflettere nel diritto pubblico, come suggeriva Mitteis, il dogma della Trinità,

22 Sull'interrelazione fra simbolismo e interpretazione giuridica, vedi V. PIANO MORTARI, Dogmatica e interpretazione. I giuristi medievali, Napoli, 1976, p.125 e ss.; sulla mentalità simbolica, cfr. M D. CHENU, La teologia nel Medio Evo, cit., p. 192 e ss.; vedi anche dello stesso A. La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., p. 48 e ss.

23 Vedi De coelesti Hierarchia, XIII, III, in MIGNE, P.G., III, col.304, (303), A,B.

24 Versio Dionysii, in MIGNE, P.L., CXXII, coll.1029-1194. Classico, sullo Eriugena (il quale compare alla corte di Carlo il Calvo intorno all'850), lo studio di M. CAPPUYNS, Jean Scot Erigène. Sa vie, son oeuvre, sa pensée, Louvain, 1933.

25 C. SCHMITT, Politische Theologie, Vier Kapitel zur Lehre von der Souveraenitaet (2 Aufl.) Muenchen).

26 De divisione naturae, IV, in MIGNE, P.L., CXXII, I, col.490 e ss., IV, col.773.

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appena definito 27; è l’intera concezione del corpus morale et politicum dello Stato ad evolversi da quella del corpus ecclesiae mysticum cui quella teoria rinviava. Nell’Impero insomma, in quell’Impero che con una formidabile operazione politica la Chiesa aveva, come diceva, “traslato” da Oriente a Occidente, in occasione della incoronazione di Carlo Magno, e di cui veniva a partire da Ottone III sempre nuovamente vagheggiata la renovatio 28, si afferma originariamente un’idea del potere monarchico che, piuttosto che al modello romanistico, si rifaceva a quello proposto da una lettura in chiave dionisiana delle Scritture29 .

Nella famosa miniatura dell’evangeliario di Aquisgrana, eseguita intorno al 973 nell’abazia di Reichenau, l’imperatore Ottone II è assiso in un trono che poggia su una terra già di per sé sollevata rispetto al piano dei principi che gli stanno a lato, mentre sulla sua testa, divisa dal tronco da un velo sorretto dai quattro evangelisti, a indicare che essa non solo tocca il cielo ma è nel cielo, si protende la mano di Dio, da cui discende la corona dell’imperatore. Il simbolismo non potrebbe essere più chiaro: se il potere di quest’ultimo si

27 H. MITTEIS, Le strutture, cit., p. 113; cfr. H. BARION, Besprechung ai Saggi Storici intorno al Papato, cit., in Zeitschr. der Sav. St. für Rechtsg., Kan., vol. 77, (XLVI), 1960, p. 485 e ss.

28 Sacro Impero in cui la preminenza e la forza imperiale dovevano garantire «libertà e sicurezza della Chiesa di Dio».

29 Tale lettura si fa molto attenta a partire dal XII secolo: il tema della Gerarchia diviene la chiave del sistema, e il concetto di ordo, che ne è la trasposizione latina, pur rendendo male la potenza della terminologia dionisiana, è destinato a esercitare una seduzione stupefacente tanto che la frase di Guglielmo di Conches: est mundus ordinata collectio creaturarum, sintetizza una Weltanschauung che può ritenersi largamente diffusa: per S. Tommaso “genus humanum consideratur quasi unum corpus, quod vocatur mysticum cuius caput est ipse Christus et quantum ad animas et quantum ad corpora”. S.TOMMASO D'AQUINO, Summa theologica, pars III, q.8, a. 1,2. Cfr. M. D. CHENU, La teologia nel Medio evo, tr. it., Milano, 1972, pp.137 142, 263.

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esprime sulla terra, esso non può tuttavia essere ispirato da una ragione solo terrena. In questo senso va intesa l’idea, espressa dalla dottrina medievale, da Marino da Caramanico a Bracton30, che il rex non est mere laicus : il re non è equiparabile ai laici. A distinguerlo dagli altri signori che esercitano anch’essi poteri simili ai suoi, non è la differenza qualitativa delle funzioni, non è la monopolizzazione del potere, che anzi condivide con essi, bensì la sua consacrazione. Il sovrano, consacrato dalla unctio, entrata nell’uso medievale almeno a partire da quella di Wamba nel 67231, appariva così sospeso fra cielo e terra, rispecchiava le due nature umana e divina del Cristo32, il quale in rege suo...regnare cognoscitur33 . E’ per questo che il re si eleva al di sopra degli altri poteri terreni34. In un trattato anonimo dedicato appunto a questo tema, il De consecratione pontificum et regum35 , si invita a

30 E. KANTOROWICZ, The King's Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton, 1957, tr. it. I due corpi del Re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, 1989, p. 41; cfr. F. CALASSO, I glossatori e la teoria della sovranità. Studio di diritto comune pubblico,3a, Milano 1957,p. 189.

31 E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, I, Roma, 1995,p. 179 n.

32

"Et secundum priscam consuetudinem sollempniter ad Imperii sceptra proveximus et augustali nomine decoravimus, ungentes eum oleo extrinsecus, ut interiori quoque spiritus sancti unctionem monstraremus; constituentes ad imitationem scilicet veri regis Christi domini dei nostri..., ita ut quod ipse possidet per naturam, iste consequatur per gratiam" sono le parole di Giovanni VIII raccolte in un canone della Collectio canonum, del Deusdedit, IV, 92 ed. Glanvell, I, p. 439, riportato anche da Anselmo da Lucca, Collectio Canonum, a cura di M. Thaner, Innsbruck, 1906-15, p. 52 e ss.; vedilo in Migne, P.L., CXLIX, 489. Su ciò E. KANTOROWICZ, I due corpi del re, cit., p. 55 e ss.

33

PIER DAMIANI, Ep. VIII, in MIGNE, P.L., CXLIV, 436.

34 Su ciò E. BUSSI, Evoluzione storica, cit., p. 178.

35 Vedi De consecratione pontificum et regum, in M.G.H., Libelli de Lite, III, p.669. Sull'Anonimo normanno vedi G.H. WILLIAMS, The Norman Anonymous of 1100 A.D., Cambridge Mass., 1951, p. 158, 225 e ss.; E KANTOROWICZ, op. cit., p. 77.

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riconoscere nel re una duplicità di persone, una che deriva dalla natura, l’altra dalla grazia: attraverso la prima egli si eguaglia agli altri uomini; attraverso l’altra, per il potere del sacramento della consacrazione, egli eccelle su ogni altro. Anche i re, come i Vescovi, si legge nel trattato, sono consacrati affinchè: “... inter Deum et populum mediatores effecti et in coelis conversentur et in terris subditis moderentur”36

Su questo piano si poneva la dialettica fra potere dell’imperatore e potere del pontefice: agli albori del secolo XII Ugone di Fleury faceva rilevare l'organica unità del Regnum, inteso come corpus, al cui vertice è preposto il rex, il quale: "...in regni sui corpore Patris omnipotentis optinere videtur imaginem et episcopus Christi. Underite regi subiacere videntur omnes regni ipsius episcopi, sicut Patri Filius deprehenditur esse subiectus non natura sed ordine"37

Così, la potestas dell’Imperatore viene definita grande e santa, cooperatrix della grazia di Dio. L’idea non è un’invenzione del pur fertile pensiero medievale. La regalità, alla quale l’ autore del trattato anonimo si ispira, è quella dei re “unti” dell’Antico Testamento: è il loro modello di sovranità a fornire i termini concettuali di quello dell’Europa medievale e moderna38

36 E quello di moderator Imperii è titolo che torna nella titolatura imperiale ancora coi primi Staufen. Vedi R.M. HERKENRATH, Regnum und Imperium. Das "Reich" in der Frühstaufischen Kanzlei (1138 1155), Wien, 1969, p. 13.

37

HUGONIS MONACHI FLORIACENSIS Tractatus de regia potestate et sacerdotali dignitate, I, 4, in M. G. H., Libelli de lite, II, p.468.

38 G. CASSANDRO, Lezioni di diritto comune, cit., p. 72 e ss.

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Mi si consenta di ricordare brevemente le linee che sin dal suo sorgere hanno caratterizzato tale modello. Per farlo, è necessario risalire assai indietro, alla formazione stessa del popolo cui si deve il testo biblico.

4. Pur riconoscendo un ruolo centrale ad un nucleo che riconduceva le sue origini a Giacobbe, si ammette oggi che i clan che lasciarono l’Egitto sotto la leadership di Mosè avevano un background abbastanza variegato. Ad essi la Bibbia allude come ad una “massa di gente promiscua” 39 . Nel deserto, come in Egitto, tali gruppi non avevano uno status suscettibile di assicurare la loro sopravvivenza politica. Perciò essi si uniscono in una nuova comunità, grazie a un accordo il cui testo si riflette nel cosiddetto “Codice dell’alleanza”, che ha il Decalogo alla sua base40. Si tratta di un vero e proprio contratto sociale, come sarà delineato dai teorici moderni, solo che il sovrano cui viene riconosciuto ogni potere non è Mosè, che sin qui è stato il loro leader carismatico, ma Dio stesso, cui la comunità si lega con un patto giurato, la cui struttura riproduce quella dei trattati vassallitici dell’antico Oriente: tale struttura antepone il beneficio ricevuto, in questo caso la liberazione dall’ Egitto, quale premessa alle clausole che definiscono le obbligazioni del popolo vassallo: per Israele le prescrizioni del Decalogo e del Codice dell’Alleanza41 .

“Ancient judaism

postumo fra le Gesammelte Aufsaetze e pubblicato in traduzione inglese nel

Weber insiste sulla connessione fra culto e alleanza: Jahwe è il Dio dell’alleanza, e questa idea costituisce a un tempo la base delle relazioni con Dio e della coesione sociale di Israele,

MENDENHALL,

and the Ancient Near East, 1955

279
In
” comparso
195242
39 Esodo, 12, 38. 40 Esodo 21 23. 41 G.
Law and Covenant in Israel
(il testo è rinvenibile in rete). 42 M. WEBER, Ancient Judaism, 1967, p. 81

cioè del Bund, di cui lo stesso Jahwe è parte e sovrano43. Essa si lega quindi alla sopravvivenza di Israele come popolo e come cultura, cioè alla sua sopravvivenza come nazione nella sua terra, evidentemente possibile solo se tutto il popolo, a cominciare dai capi, si manterrà fedele al patto giurato. Anzi, tali capi dovranno essere coloro sui quali si posa lo spirito di Jahwe. Come gli interpreti della sua parola, profeti e giudici, il re non può che essere egli stesso solo un intermediario fra Dio e gli uomini: come Davide che, da ragazzo delle campagne della Giudea, diviene re grazie alla benedizione di Jahwe. O come Salomone, che elevato il Tempio assume egli stesso funzioni sacerdotali44. Il punto è che in questa logica è evidente come non si possa dare se non un re per così dire “costituzionale”, che in tanto può regnare in quanto porti ad effetto quella che è la base stessa dell’esistenza di Israele, il patto con Dio, il vero sovrano.

Benchè l’Antico Testamento registri più di un re il quale secondo la formula usata “fece ciò che è male agli occhi del Signore”, nel senso che non si attenne alle prescrizioni del Codice dell’Alleanza, tuttavia è chiaro che la legittimazione del potere regio deriva dalla fedeltà del re a questo corpo di norme che nessuno, né il re, né il sommo sacerdote, sono legittimati a mutare.

5. Orbene, è questo modello di regalità quello che si trasmette all’Occidente medievale. Nell’articolato dialogo di Gregorio Magno con i monarchi del suo tempo, ricostruibile attraverso il suo epistolario, il riferimento alla Bibbia è costante, non solo per il continuo impiego di citazioni scritturistiche, e il ripetuto richiamo a figure bibliche esemplari, ma anche perché tutta la riflessione gregoriana sulla regalità, sulle sue prerogative e doveri, sulla sua funzione nel mondo, si fonda sul messaggio biblico45. Da un lato, come gli

43

WEBER, Ancient Judaism, p. 12; IDEM, The theory of social and economic organisation, New York, 1964, p. 324 392.

44 I Re, 8, 62 64.

45 Vedi C. AZZARA, Gregorio Magno e il potere regio, in Gregorio Magno, l’Impero e i Regna (a cura di C. Azzara), Firenze 2008,p. 9. Sulle relazioni epistolari fra

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antichi re di Israele, si ammette che il sovrano sia designato da Dio quale suo mediatore con gli uomini; dall’altro, il suo potere è limitato non solo dal diritto divino che nessuno, nemmeno il Papa è legittimato a mutare , ma anche da quel diritto che affonda le sue radici nella tradizione e nelle consuetudini popolari. Nel Ludus de Antichristo, redatto nella regione tedesca del Tegernsee, probabilmente intorno al 1160, l’Anticristo proclama che distruggerà gli usi antichi e li sostituirà con nuovo diritto 46 . San Tommaso chiarisce la condizionalità dell’obbligo di obbedienza47. Il sovrano che si sia fatto arbitrariamente legislatore si pone ipso facto come tiranno, hostis publicus, attirandosi la legittima resistenza dei sudditi. Come nel rapporto feudale la mancata osservanza dei suoi obblighi di difesa e protezione comportava per il signore feudale il rischio di perdere la fides del vassallo e dare origine alla sua legittima resistenza, così nel rapporto principe sudditi è ammessa la disubbidienza al principe tirannico, e la resistenza alla sua azione illegittima, pur se regolata mediante un procedimento complesso del quale erano parti in posizione paritetica il principe, laico o ecclesiastico che fosse - e i cives, organizzati nei ceti. A partire dal volgere del XIV nel XV secolo, questi appaiono pressoché ovunque organizzati nelle Diete, ove signore territoriale e ceti stavano l'uno di fronte all'altro come due soggetti autonomi del diritto e del potere dello Stato uniti in una stessa sovranità bifocale 48 Il principe agisce solo “col consiglio” e “nel consiglio” perché solo questo modo di agire offre garanzie di giuridicità: un comportamento contrastante si esporrebbe al rischio di una legittima resistenza, poichè si imperatore e reges vedi IDEM, Pater vester clementissimus imperator, in Studi medievali, III serie, 36/1 (1955), pp. 303 20.

46 “Deponam vetera, nova iura dictabo”. vedi Ludus de Antichristo/ Das Tegernseer Spiel vom deutschen Kaiser und vom Antichrist, ed T. Sehmer, Frankfurt/Main 1965, p. 52.

47

S.TOMMASO D'AQUINO, Summa theologica, pars II, II, 104, 6.

48 HINTZE, Typologie der ständischen Verfassungen des Abendlandes, ora in Staat und Verfassung. Gesammelte Abhandlungen zur allegemeine Verfassungsgeschichte (a cura di G. Oestreich), Göttingen 1970, I, pag. 121.

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porrebbe come violazione di un diritto al contempo tradizionale e consacrato49

Come avverte Bracton, non è il re che fa la legge, ma la legge che fa il re50. Il consigliere di Enrico VI d’Inghilterra, John Fortescue lo precisa molto bene: “Non potest rex Anglie ad libitum suum mutare regni sui leges”51: una affermazione che in tanto può essere accolta in quanto si ammetta che vi sia un corpo di norme cogenti che nemmeno il titolare temporaneo della sovranità può arbitrariamente mutare.

L’ammissibilità teorica di un tale corpo di norme fino a Grozio e ai suoi allievi tedeschi non era in discussione: esso non derivava da una manifestazione di volontà umana, bensì era espressione di una volontà superiore, resa palese nel diritto divino, cioè nell’Antico e Nuovo Testamento, e nella umana natura. Si ammetteva che questo restasse per il diritto umano un limite invalicabile, anche quando la volontà del sovrano fosse supportata dal consenso di una assemblea rappresentativa: jura

49 Citando la l. ut vim del Digesto, che sancisce la legittimità dell’autodifesa, Baldo ritiene che un re possa essere espulso dai sudditi a causa del suo governo intollerabile e tirannico. BALDO DEGLI UBALDI, In primam Digesti veteris commentaria, in l. ex hoc iure, f.10v. Su questi problemi, e sulla rilevanza del fattore della sacralità come radice e chiave di interpretazione del pensiero giuridico medioevale vedi O. BRUNNER, Dall'investitura per grazia di Dio al principio monarchico, in Neue Wege der Verfassungs und Sozialgeschichte trad. it. Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970, pag. 171.

50 “Ipse autem rex non debet esse sub homine sed sub Deo et sub lege, quia lex facit regem” H. De BRACTON, De legibus et consuetudinibus Angliae, ed. Woodbine, London 1968 77, II, p. 33.

51 J. FORTESCUE, De laudibus legum Angliae cap. IX, Cambridge 1825, p. 218.

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naturalia sunt immutabilia52, ovvero, come diceva il von Justi:”Wie koennte er über etwas Gewalt haben was der Ursprung seiner Gewalt ist?”53 .

6. Oggi, come è noto, il concetto stesso di norma cogente54 si è relativizzato e presuppone, sullo sfondo, un procedimento più o meno complesso di revisione 55 . Ma nessun sistema si può fondare su basi logiche contenute nel sistema stesso, e la rinuncia ad un’ etica sovraordinata, a favore di un’etica convenzionale, ha comportato una involuzione piuttosto che una evoluzione, mentre la negazione dell’antico principio di autorità, sfocia oggi in una impasse teorica dei sistemi giuridici, che non è priva di gravi risvolti concreti. Se i grandi princìpi non hanno fondamento, se la legge non esprime null'altro che una disposizione provvisoria, essa non è fatta ormai se non per essere

52 In tema vedi G. GORLA, Jura naturalia sunt immutabilia. I limiti al potere del “principe”nella dottrina e nella giurisprudenza forense fra i secoli XVI e XVIII, in Diritto e potere nella storia europea: atti in onore di Bruno Paradisi: quarto congresso internazionale della Società italiana di Storia del diritto, Firenze 1982. D. QUAGLIONI, Il lessico della Politica di Johannes Althusius, Firenze 2005, p. 222.

53 T.H.G. VON JUSTI, Die Natur und das Wesen der Staaten als die Grundwissenschaft der Sfaatskunst, der Policey und aller Regierungswissenschaften desgleichen als die Quelle aller Gesetze, Berlin Stettin und Leipzig 1760, § 46, pag. 74.

54 G. MORELLI, A proposito di norme internazionali cogenti, in Rivista di diritto internazionale, 1968, I, p. 116, per il quale mancando un’ adeguata soluzione del problema imperativo, non sarebbe adeguatamente configurabile la mancanza di validità e la non liceità della eventuale norma derogante alla norma cogente.

55 E’ da ritenersi di valore puramente politico l’affermazione della non modificabilità di alcune norme costituzionali (p. es. la prima parte della Costituzione Italiana) rispetto ad altre (la seconda parte della medesima Costituzione). Su ciò vedi G. CONTINI, La revisione costituzionale in Italia, Milano 1965.

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imposta e l'azione non è più che un calcolo in funzione dei risultati, non dei princìpi.

L’evoluzione del concetto di sovranità si avvale delle suggestioni della rinata scienza giuridica, ma si completa grazie alla spinta potente delle guerre di religione che spezzando l’unità etica delle comunità politiche europeemostrano la necessità di un potere capace di affermarsi al di sopra delle divisioni religiose e di imporre le pace all’interno di quelle stesse comunità. E’ a partire da questo momento che si chiudono le frontiere politiche e giuridiche e che i diversi ambiti territoriali aderiscono gli uni agli altri non per via dei complessi legami giurati che sin qui li tenevano coesi, ma per la capacità oggettiva di quel potere di affermarsi su di essi.

Oltre alla Riforma, altri fattori concorrono a determinare tale evoluzione: anzitutto lo spirito del Rinascimento, che insieme a tutta la cultura classica porta ad esaltare anche il concetto di s, come formazione politica nella quale tutto è asservito allo Stato, che può comandare a tutti; ma soprattutto un nuovo orientamento della giurisprudenza, che prendendo le mosse dall’Umanesimo giuridico e incentrandosi sulla natura e i limiti del potere regio, sostiene l’idea che il sovrano exempt et solu de toutes lois (solutus a legibus) dovesse avere toute puissance et autorité de commander et de faire ce qu’il veut56 .

A porre con acutezza senza precedenti la questione è Bodin nei Six livres de la République, pubblicati nel 1576, e scritti quando in Francia la frattura

56 Così p. es. Budé, il quale, soprattutto ne L’institution du prince (1515 1519) dedicato a Francesco I, sostiene che i poteri sovrani sono di derivazione divina, e invita il sovrano a compiere una codificazione del diritto francese sull’ esempio di Giustiniano. Veniva riconosciuta a quella regia la maestà che era stata propria dell’Imperatore del Sacro Romano Impero. Appartiene ai primi anni del Duecento, e ad Azzone l’affermazione “hodie videtur rex eadem potestatem habere in terra sua quam imperator”, E. CORTESE, Il problema della sovranità, cit., p. 15.

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religiosa era al suo acme. E’ di qui che nasce in lui l’esigenza di teorizzare l’accentramento di ogni potere nelle mani di uno solo, cercando di disegnare uno Stato capace di garantire tranquillità e sicurezza, garanzia che per lui può essere assicurata solo se i singoli individui rimettono i propri diritti nelle mani di un sovrano che li rappresenta tutti. Bodin parla di majestas, legibus soluta potestas, summa potestas, reipublicae cardo. Si tratta di espressioni che tendono alla definizione della sovranità, identificata con la volontà del monarca. Con questo si raggiungeva la pace all'interno di ogni principato, a prezzo, però, di un profondo mutamento nell'equilibrio della società57. Molti diritti che erano rimasti sin qui decentrati devono ora essere monopolizzati dal Principe, lo jus ad bellum58, come lo jus.

57 Cfr. R. KOSELLEK, Critica illuminista..., cit., pag. 21; sulla necessità di distinguere a questo proposito fra un illuminismo giuridico come ideologia dei sovrani, e un illuminismo giuridico come ideologia di opposizione di fronda, vedi G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna..., cit., I, pag. 227; su questi concetti torna a più riprese O. BRUNNER, vedi in particolare «Feudalismus. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte», trad. ital. Feudalesimo, un contributo alla storia del concetto, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970, pag. 90.

58 Come si è cercato di spiegare, ancora nel tardo medioevo non vi era una differenza qualitativa fra faida, guerra e mantenimento dell’ordine pubblico (cfr. O. BRUNNER, Land und Herrschaft cit., pag. 39, ma in realtà tutto il I capitolo su Friede und Fehde). Solo il rafforzamento del potere del principe porta alla elirninazione della faida (cfr. ancora O. BRUNNER Von Gottesgnadentum zum monarchiscben Prinzip, trad. ital. Dall'investitura per grazia di Dio al principio monarcbico in Per una nuova storia costituzionale e sociale cit., pag. 179). Ancora la dottrina del tardo XVII secolo lascia trasparire questo processo. Cfr. J.N. HERT, Dissertatio de superioritate territoriali, Gissae Hassorum 1682. Nel § XXI (De Jure belli ac pacis, pag. 17) si dice che secondo il diritto romano lo jus belli compete al solo Imperatore e si richiamano le ripetute leggi dell'Impero in materia. Ma queste norme vengono assimilate a quelle che si instaurano all'interno di un Bund, di modo che si dice esse vanno interpretate «non stricte sed laxius» Ecco dunque che si ripropone il problema dello jus belli dei domini regionum, jus belli che si può estrinsecare in «bella civilia, socialia et externa». Le prime «Domini regionum eatenum permissa videntur» per indurre i sudditi all'obbedienza. Le seconde sono interdette «scopo harum rempublicarum»; le

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condendi leges: la legittimità della legge non risiede più nella sua corrispondenza ad una equità superiore, ma nella legittimità della sua fonte di produzione.

L’assolutismo viene inteso come la negazione del particolarismo feudale: il re ha un potere perfetto e assoluto, che non divide con nessuno, né con i signori, né con le assemblee rappresentative: la sovranità non è più un mantello che con la consacrazione si posa sul sovrano, facendo di lui il tramite fra l’equità tradotta in norma costituita e l’equità eterna, che si riflette nella natura umana; bensì tende a identificarsi con la persona del re, il che preluderà alla sua identificazione con lo Stato tout court. La competenza delle competenze diventa così il cardine della sovranità interna: senza di essa non sarebbe concepibile lo sviluppo degli Stati moderni.59

La regalità moderna è quindi definita “assoluta” in quanto il potere agisce senza controllo vincolante da parte di altri organi, i sudditi non possono chiedere conto delle azioni del re ma non per questo è dispotismo o tirannia, in quanto il re riconosce ancora i limiti posti dalla osservanza della legge cristiana nonché dai contratti, dalle consuetudini e dai privilegi vale a dire dalle leggi fondamentali del regno.

A racchiudere l’avvenuta trasformazione in una teoria destinata a influenzare potentemente il pensiero politico successivo è Hobbes, che però fa un passo ulteriore: il suo Leviatano, le cui carni sono composte dai corpi degli stessi sudditi che hanno rimesso in lui i propri diritti, ha nelle mani sia il potere politico sia quello religioso60. E’ lui a decidere non solo ciò che è lecito o altre sono permesse in quanto «ipsa necessitas jus porrigit», potendosi presentare il caso improvviso «externae iniuriae reprimendae».

59 L’osservazione è di H. QUARITSCH, Souveraenität, cit., p. 36.

60 La prima edizione del Leviathan, or the Matter, Form and Power of a Commonwealth, Ecclesiastical and Civil (1651), reca la famosa pagina con la stampa

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illecito, legale o illegale, ma anche ciò che è giusto o ingiusto, equo o iniquo: egli è la fonte a un tempo della legge e della morale, nonché del potere per affermarle entrambe. Egli è superiorem non recognoscens non solo in senso politico, ma anche in senso morale. La sensibilità occidentale inorridisce oggi di fronte agli eccessi dell’Inquisizione, dimenticando spesso che l’identificazione fra eretico e ribelle fu tutta funzionale al rafforzamento del potere sovrano.

7. Poco più di cento anni separano questa figura teorica di sovrano delineata da Hobbes dalla sua palingenesi rivoluzionaria. Quando Robespierre e Saint Just taglieranno la testa al sovrano francese, essi vorranno consapevolmente compiere un gesto simbolico61, volto ad affermare la sovranità assoluta dello Stato non solo nei confronti di qualunque altro potere terreno, ma anche nei confronti di quel potere ultraterreno cui il sovrano francese - e non solo lui si riconoscevano subordinati. Gli individui non sono più legati da specifici vincoli di fedeltà ad un signore, una corporazione, una città, ma sono tutti nella stessa misura vincolati da un obbligo generale onnicomprensivo nei confronti dello Stato, che ora ha un potere assoluto in quanto non più

ove, su un paesaggio chiuso dalle colline, domina torreggiando il corpo di un gigante coronato, composto dalle figure di tanti esseri umani e recante nelle mani la spada e il pastorale.

61 Soprattutto ne L’Homme révolté (1951) A. CAMUS indaga le radici metafisiche della rivolta dell'uomo contro la propria condizione umana, quindi anzitutto contro Dio che permette il dolore e la morte, e in secondo luogo contro un ordine sociale e politico che non è capace di realizzare la giustizia. E qui egli colloca le radici della rivolta storica: l'esecuzione di Luigi XVI il 21 gennaio 1793, come quella poi dei Romanoff a Ekaterinenburg il 17 luglio 1718, simboleggiano a suo modo di vedere, così la sconsacrazione della storia, come la disincarnazione di Dio, e vengono attuate nella consapevolezza di tale significato simbolico.

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sottomesso a Dio bensì alla ragione. Se lo Stato è agente della ragione argomenta il pensiero rivoluzionario sarà legittimamente forte e autoritario, capace di esprimere leggi dettate per l’appunto dalla ragione, necessarie al progresso, conformi alla felicità terrena dei sudditi. Felicità terrena immaginata ieri da prìncipi illuminati, nell’età contemporanea da Stati virtuosi determinati a intromettersi nella vita dei sudditi al fine di renderli, ad ogni costo, felici anche contro la loro volontà.

Dobbiamo a un tanto acuto, quanto troppo spesso dimenticato, intellettuale del Novecento, Albert Camus, una critica radicale di questo pensiero, che apre l'età contemporanea sopprimendo quanto sino ad ora costituiva i princìpi in nome dei quali esso si era sviluppato. Ai comandamenti divini dice Camus i Giacobini hanno sostituito la legge, che ritenevano dovesse essere riconosciuta da tutti in quanto espressione della volontà generale. Ma si è trattato di una legge che non era il prodotto di una ragione universale, bensì di una ragione parziale, dal momento che il XIX secolo e il successivo hanno conosciuto il trionfo del principio di nazionalità.62 Così i giuristi borghesi dell'Ottocento avrebbero preparato i due terribili nichilismi del Novecento: quello dell'individuo e quello dello Stato, mentre la legge ha finito con il confondersi col legislatore, e con un sempre nuovo beneplacito.

Inizialmente, l’equiparazione dei singoli sovrani alla figura ideale dell’Imperatore, ha nascosto i rischi del processo di negazione del principio di autorità e della riduzione delle norme costituenti le fondamenta etiche dello Stato alla stessa dimensione convenzionale di ogni altra norma. Lo Stato territoriale moderno, nato dalla unificazione della società particolaristica medievale e dall'emancipazione verso qualunque altro potere superiore, è divenuto l’unico giudice della legittimità dell’uso delle armi, verso l’esterno come verso l’interno. Ne viene che la sua sovranità significa

62 A. CAMUS, L’uomo in rivolta (trad. it. L. Magrini), Milano 1957, p. 147.

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ora in via di principio non solo monopolio del potere di legiferare e di portare ad attuazione le leggi poste con l’uso della forza legittima, ma anche quel che è di più - di decidere della vita, della libertà, dei beni e del benessere dei suoi sudditi. Connesso a questo monopolio del potere legittimo, è il dovere di ubbidienza allo Stato dei cittadini (art. 54 Cost. R.I.) i quali non sono legittimati a resistergli se non nei termini che esso stesso decide di concedere loro.

Se il monarca è stato colui grazie al quale è esistito il regno come sintesi unitaria trascendente le singole articolazioni territoriali e corporative, questa funzione è oggi astrattamente ripartita negli organi dello Stato, ma concretamente esercitata da una élite teoricamente interessata al pubblico bene, di fatto troppo spesso preoccupata del proprio.

Si ammette oggi una società di individui originaria (popolo o nazione) cui è affidato il potere costituente, un potere sovrano che teoricamente preesiste allo Stato e lo determina: il popolo è divenuto, prima accanto al monarca, poi da solo, la sorgente della giustizia e della morale, il punto di riferimento ultimo del potere, la solenne incarnazione dell’autorità. Ma è nei fatti la volatilità della base sociale dello Stato, se non altro dal punto di vista demografico, e dunque l’evanescenza del concetto di popolo, in una babele di orientamenti diversi, ove la pubblica opinione è nelle mani di una élite attentissima al controllo degli strumenti (istruzione, media etc.) grazie ai quali il senso critico può formarsi ed esercitarsi. Non è pertanto un caso che si assista sempre più a un processo di serrata competizione volta all’attribuzione di quote di potere fra il popolo e i suoi rappresentanti.

Dietro la maschera di una sovranità che si autoproclama democratica per definizione, il potere dello Stato non ha più limiti, e nulla vieta che come la corrusca storia del Novecento ha dimostrato nel pieno rispetto delle norme organizzative che si è dato, esso ponga in essere attività che in un’ottica meno contingente appaiono abiette. Ripetendo il commento che, da controrivoluzionario, Mounier scriveva a proposito degli avvenimenti francesi nel 1792, si potrebbe dire che presso un popolo che ha la disgrazia e

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la stupidità di credersi sovrano, il trono è vuoto, la sovranità vacante e più nulla si oppone ai guasti dell’anarchia63 .

63 MOUNIER, Recherches sur les causes qui ont empêché les français de devenir libres, Ginevra 1792, II, 158.

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