Coscienza storica

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: San Girolamo, Michelangelo Merisi da Caravaggio,1605-1606,olio su tela 112Ă—157 cm Galleria Borghese, Roma

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Coscienza Storica Nuova Serie

L’apocalisse del moderno

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Il valore cristiano della libertĂ come essenza della decisione morale

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L’Apocalisse del Moderno La

comunicazione

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distanza oggi rischia di smarrire il suo contenuto a favore della mera pervasività, con una ricaduta di fruizione pari alla sua facilità di accesso. Molti, anzi la gran parte, dei messaggi toccano il vasto pubblico ma non lasciano il segno. Per una ragione molto semplice: sono privi di pensiero e più vicini alla immagine della realtà. Se c'è oggi un bisogno tanto impellente quanto rimosso è il bisogno di pensiero. Se dunque oggi si coltiva tale bisogno non è per stabilire una differenza elitaria rispetto alla comunicazione orale di massa, bensì per segnare il limite di ciò che la comunicazione semplificata non può conseguire. Ossia l'orizzonte stesso del pensiero, la sua frontiera, coincidente con il limes del senso razionale. Se oggi, pertanto, si vuole tradurre il bisogno di pensiero in contenuto di senso razionale, occorre conseguire quel limite per valicarlo, superando la linea critica per una nuova prospettiva di contenuti positivi. Chi, invece, volesse mantenersi entro l'orizzonte di senso della tradizione razionalistica, ovvero al di sotto delle sue più mature determinazioni, non farebbe altro che divulgare, riepilogare o volgarizzare l'esperienza acquisita senza investire a partire da essa una intelligenza del mondo ultronea rispetto a quei pur maturi risultati critici, assegnandosi un ruolo gregario ed epigonale destinato alla divulgazione erudita o più modestamente accademica, rinunciando così allo sforzo di costituirsi come avanguardia profetica La profezia nel nostro tempo è lo sguardo oltre l'orizzonte filosofico, nella regione del Mistero, dove ab antiquo regna la Verità inclusiva anziché esclusiva del Logos, che è il regno del légein originario, della parola di senso simbolico designante la sacertà della condizione divina.

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Infatti, la risalita alle origini del pensiero non può fermarsi al terminus a quo del filosofare, ma occorre andare oltre quella soglia per rientrare all'Origine, ove risiede la scaturigine del Logos, che è il Mito. Il Mito è il luogo della indeterminazione da cui sorge ogni pensiero determinato, la cui elaborazione di senso univoco conserva in ogni sua determinazione la matrice mitica originaria, indicata dal filosofare come Niente rispetto all'Essere del Logos. Ebbene, esaurito nel moderno il moto di fuga del Logos, orfano per parricidio doloso del Mito, non è più consentito al pensiero più consapevole limitarsi a vegliare alle frontiere dell'Essere i cimenti impavidi dell'azzardo scientifico, ma gli è dovuto valicare quel limbo prodigioso, per conseguire un nuovo abbrivio, più ricco di avvenire. La "terza navigazione" della coscienza post-moderna perché post-filosofica deve ritrovare la paternità perduta andando oltre l'Essere, nel regno ignorato ed escluso dal Logos, in cui la parola oggettivata ritrovi le sue neglette spoglie soggettive, per addivenire a una nuova rappresentazione del mondo all'insegna non dell'astratta universalità del dilatato prese ma della presente ma della eterna concretezza del Tutto. Ebbene, pensare il Tutto anziché l'Essere significa per la coscienza post-filosofica ristabilire quel rapporto col sacro reciso programmaticamente dal razionalismo per statuto epistemologico. E dunque riconsiderare all'occorrenza il valore d'esperienza conoscitiva del linguaggio simbolico, poetico e religioso, custode di una fede ontologica costitutiva del fondamento di ogni ragione, introvabile entro il suo orizzonte. La crisi del pensiero razionalista moderno è conseguente all'oblio del fondamento mitico di ogni pensiero; fondamento che per la nostra tradizione europea è quello cristiano. Il modo di pensare europeo è fondamentalmente cristologico. L'antico Logos della sapienza pagana si fa carne come Verbo cristiano, divenendo fonte archetipa di ogni elaborazione di senso razionale: teo-logia.

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La scissione moderna della sua radice cristiana ha fatto dell'umanesimo del Logos l'antesignano razionalistico dello scientismo attuale, potenza tecnica negatrice del sacro Mistero che circonda l'Essere, e pertanto priva di ogni affabulazione e negatrice della stessa tradizione letteraria che contrassegna la nostra civiltà. La realtà della dissoluzione del mondo, profetata da Daniele, con la congiunta persecuzione degli uomini santi, riguarda, come è noto ai credenti, l’avvento dell’Anticristo, portatore di avversità, qui adversatur, e di discordie, l’antikeimenos, di cui parla Paolo nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi.

Dall’incontro della fede escatologica evangelica con il Logos filosofico nasce la tradizione intellettuale e teologico-politica romano-alessandrina, ereditata storicamente dalla universale civiltà europea. Orbene, questa millenaria sintesi etico-teoretica della civiltà cristiana, erede di quella antica, è sopravvissuta ai due grandi scismi cristiani, d’Oriente e d’Occidente, e si è infranta con la nascita della cultura moderna e dell’umanesimo razionalistico neo-fisicalistico. Con lo scientismo moderno, la fede cristiana è diventata una questione puramente religiosa, distinta e separata dal sapere e dalle teorie razionalistiche della conoscenza della realtà naturale e storica.

Il primo portatore di discordie, nel mondo antico, fu Socrate, il quale inaugurò quel metodo dialettico che Platone, suo discepolo, lo teorizzerà in senso universale e non solo più relativo alla sfera etica. Nel mondo cristiano, portatore di discordie e di divisioni fu lo stesso Cristo, che, contestando la tradizione legalistica custodita dai Farisei, inaugura quella libertà ermeneutica della verità custodita dal Vecchio Testamento che verrà canonizzata nei Vangeli e quindi nella tradizione esegetica patristica. Mutato il paradigma interpretativo della Verità, muta anche il senso della sua annunciazione. La verità mitica, attraverso la mediazione della lettura filosofica, sposta il baricentro della credenza razionale dalla dimensione puramente politica dell’ossequio al Potere costituito, alla dimensione antropologica dello homo rationalis, interprete di valori etici superiori alla stessa legge positiva perché ideali.

Dal punto di vista della fede, la svolta umanistica l’ha ridotta a religione, surrettiziamente riconsiderata all’interno della sua funzionalità politica, dalla quale la predicazione di Cristo come fede nella Verità l’aveva in origine voluta emancipare. Dal punto di vista culturale, lo scientismo umanistico, riabilitando il sapere antico, distinto dalla sintesi teologica cristiana, riportava in auge le categorie di pensiero pagane, liberandole da ogni mediazione morale ed escatologica, riconsiderando la storia spirituale dell’umanità in termini puramente biologico-politici, rispetto ai quali ogni rappresentazione spiritualistica acquistava il valore di una superfetazione mitica e fantasiosa. La verità cristianamente pensata diventava per la ragione moderna un Mito, verso cui il sapere scientifico operava come già la filosofia greca aveva operato sulla mitologia pagana.

Parimenti, la verità biblica, attraverso la mediazione della lettura evangelica, sposta il baricentro della fede dalla dimensione puramente legale dell’ossequio al Padre, alla dimensione antropologica della divinoumanità del Figlio. Una stessa fede dunque si dispiega col Cristianesimo in termini di apostolato e di messianismo storico, non solo più come destinazione etnico-nazionale a un popolo privilegiato e depositario unico di essa.

Il germe della dissoluzione era già interno al Cristianesimo, ed era appunto costituito da quell’universalismo ideale che era stato il portato del pensiero dialettico greco, la cui tecnica, liberata da ogni finalismo teoretico, diventava il metodo scientifico di considerare ogni ordine della realtà in senso razionalistico. Ciò che tratteneva () la deriva ateistica e l’apostasia (descessio) dello scientismo razionalistico dalla Verità trascendente ogni naturalistica certezza empirica, è stata nella Cristianità considerata la Chiesa (), e non già quella fides senza la quale la pagana ratio diventava una mera tecnica (), confondendosi la creatura divina di Dio, il Suo strumento storico, con il suo Creatore, nel quale il credente era chiamato appunto a credere.

In questa esigenza cattolica del Cristianesimo storico e universalistica della ragione dialettica, si trova il punto di raccordo della sapienza antica e di quella nuova, che ricuce in una novella sintesi teo-logica la frattura culturale apertasi dalla follia della predicazione del Cristo entro il cosmo naturalistico greco.

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Rispetto alla antica fede giudaica in Dio, la fede in Cristo assumeva un valore di rinnovamento spirituale in senso non più etnico-culturale particolare, ma transnazionale e antropologico universale, e quindi inclusivo dell’antico nel nuovo credo. Tuttavia, questa rinnovata fede in Dio attraverso la fede nel Cristo, non poteva né può confondersi con la fede nella Chiesa come istituzione storica e struttura mondana di organizzazione religiosa internazionale. Infatti, proprio questa indebita confusione della creatura col Creatore ha storicizzato lo stesso oggetto della fede, riferendola a una realtà umanamente imperfetta, al pari della struttura sociale e dello Stato. L’idolatria ecclesiale, non soltanto è stata fomite di divisioni interne al Cristianesimo, ma ha contribuito non poco alla determinazione della Verità di fede come un oggetto di pensiero, suscettibile di una definizione teoretica di carattere logico-filosofico, e quindi dialettico, al pari di ogni ente ideale. E infatti lo stesso processo culturale che ha condotto la Chiesa, comunità di fede e strumento divino, a trasformarsi storicamente in una umana istituzione di Potere religioso, in grado di competere sul piano politico con le altre potenze secolari, ha condotto al culto fideistico dello strumento razionale (Lògos) privato di ogni télos trascendente il suo stesso metodo, e dunque alla rimozione sistemica della Verità dall’orizzonte di coscienza dell’epistemologia moderna, che l’ha confinata alla dimensione privata del foro interiore come una rappresentazione non razionalmente sostenibile della realtà. Il motivo protestanico della sola fides, astratto dal suo fine escatologico divino, è anch’essa superstiziosa credenza nella realtà dell’ente come speculum Dei, e va considerato opposto ma omologo al motivo istituzionalistico cattolico, che fa dell’ente ecclesiale l’idolum tribus ecclesiastico, rappresentando i due volti storici della rispettiva apostasia dalla fede comune in Cristo, l’unica Verità. Rimossa la fede nella Verità cristiana, e considerato il suo credo alla stregua di una qualunque credenza mitica dell’attempato e metafisico homo religiosus, oggetto culturale transeunte, destinato a essere superato come ogni altra similare credenza religiosa nel processo del nichilismo storico, i termini esistenziali della realtà umana sono stati razionalisticamente omologati e a quelli naturalistici di

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ogni altro essere vivente, ritenendo un errore la separatezza metafisica tra res cogitans e res extensa, ma non la considerazione dell’uomo come una res astrattamente oggettivabile alla pari di ogni contenuto di pensiero razionale, facendo così della umanità un’Idea, e della salvezza dell’uomo un ideale storico, e come tali affrontabili con gli strumenti offerti dalla ragione umana e dalla sua tecnologia. Sul piano della realtà sociale, l’ideologia umanitaria assume le forme istituzionali della democrazia, mentre lo strumento della salvezza biologica dell’umanità viene fatto consistere nel sistema capitalistico. L’Anticristo non è, come potrebbe pensarsi, un qualcuno in senso singolare, come potrebbe essere un dittatore, ma è l’ente mondano venerato come il rispecchiamento dell’Essere, ovvero, nei rapporti politici, il Popolo idolatrato come il Sovrano, e nei rapporti economici la Ricchezza idolatrata come lo stesso benessere dell’umanità, fuori di ogni tensione finalistica verso l’affermazione spiritualistica dell’uomo, in cui consiste la salvezza cristiana. La salvezza celeste secondo Agostino è appunto la affermazione spirituale dell’uomo cristiano sull’animale sociale pagano. Allorquando Tertulliano afferma che “l’imperatore è grande proprio perché è subordinato al cielo: infatti, anche egli appartiene a Colui al quale appartiene il cielo e qualsiasi altra creatura”, e che “egli è imperatore grazie a colui in ragione del quale è anche uomo, prima che imperatore; provenendo il suo potere dalla stessa origine del suo spirito” (Apologeticus Adversus Gentes pro Christianis, XXX, 1-4), esprime in linguaggio arcaico la natura stessa della questione politica moderna, che fonda sulla superstiziosa fede nella sovranità popolare la legittimazione del Potere, ponendo al posto della volontà di Dio la volontà dell’elettorato, così come al posto della Verità trascendente, la credenza nell’ipotesi epistemologica della comunità scientifica. La crisi di valori attuale, in un mondo dominato dalla superstizione idolatrica nel benessere materiale, a garanzia del quale si confida nelle risorse infinite della scienza, non può essere affrontata con espedienti dottrinali o con politiche di piccoli passi diplomatici, ma ogni soluzione deve partire dalla consapevolezza che le categorie di pensiero che hanno fondato il

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cosmo culturale cristiano erano tarate da sincretismi razionalistici di retaggio naturalistico pagano, che si sono rivelati funzionali alla conservazione del mondo antico sotto mentite spoglie cristiane, ma che non sono serviti a cambiarlo in senso spiritualistico.

americano, che può esportare efficienza tecnologica e rappresentazioni mitizzate del suo modello di vita capitalistico e democratico, ma non può confutare le verità che sostengono l’esistenza concreta dei popoli che lo subiscono.

L’intento di cambiare il mondo in senso spiritualistico non può conseguirsi come un obiettivo politico, facendo della fede cristiana una ideologia da zeloti o da feddain o da talebani. Al contrario, la fede cristiana consiste esattamente nel superare la dimensione politica della vita sociale a favore della dimensione singolare in senso esistenziale di Kierkegaard, trascendendo la figura personale dell’uomo che a tanti equivoci concettuali si è prestata per la polisemicità del suo uso, promiscuamente giuridico e teologico. La salvezza dell’Uomo non equivale alla salvezza di un popolo, di una razza, di una nazione, di uno Stato o di una classe sociale. Ma neppure alla salvezza di un Impero o di una astratta Umanità, sia pure religiosamente connotata come Chiesa universale. Così come la salvezza dell’Uomo non può essere fatta coincidere con un sistema economico, sia pure globalizzato. Questi sono ideali mondani e storici in senso empirico, e costituiscono oggetto di credenza alla stregua di una teoria scientifica, che è valida fino a prova contraria, per cui basterebbe far tacere ogni prova confutatrice per salvaguardare la presuntiva fondatezza dell’ipotesi. Questo oggi sta avvenendo per le ideologie politiche, viepiù uniformate al modello storicamente vincente dell’american style of life. Come ogni astratto modello ideale, anche quello storicamente vincente che vi si ispira può essere universalizzato senza perdere la sua natura empirica e transeunte di ente finito, e perciò imperfetto e diveniente. Ciò comporta che la sua espansione geopolitica è ostacolata dalla concretezza dei fenomeni locali, significativi secondo la propria natura ideale e il proprio fondamento ontologico, ossia la loro fede metafisica. In tal senso, la globalizzazione capitalistica trova nelle tradizioni religiose locali una resistenza simile a quella che fu il cristianesimo alla espansione dell’ideologia romana. La forza del cristianesimo non fu certamente politica, come quella della Chiesa, ma fideistica. Infatti la forza politico-militare romana si fermò davanti alla dichiarazione di Gesù circa la esistenza della verità, di cui Pilato ignorava il significato. Lo stesso accade oggi all’imperialismo

Ed è questa sostanziale ragione che obbliga il Potere imperialistico occidentale a cercare di neutralizzare le fonti locali della verità, facendo direttamente appello ai bisogni vitali dei popoli e alla loro legittimazione politica attraverso il consenso elettorale, senza passare attraverso la mediazione culturale delle tradizionali élites intellettuali e religiose. In questo senso esso opera come una potenza anti-spirituale e anti-storica, che ribalta l’origine della sovranità dal cielo dei princìpi alla potenza delle forze terrene, secondando la previsione profetica di Paolo di 2 Ts, che prevedeva l’apostasia o discessio della potestà politica, che riceve autorevolezza dalla rappresentanza popolare, cioè del Potere mondano, legato alla mediazione della forza sociale, dalla autorità morale del Cristo generato da Dio,cioè dal Governo assoluto, divinamente ispirato dalla fede. E proprio questa separazione, conseguente a quella intervenuta nel corso razionalistico del pensiero moderno, dove il Logos antikeimenos si è scisso dal suo fondamento ontologico di verità di fede, ad essere foriera della anomia dilagante nella attuale società liquida.

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La fede cristiana, rivedendo i fondamenti della propria teologia politica, deve proporsi di riconsiderare le ragioni teologiche di tale scissione metafisica, che ha riconsegnato la civiltà alla teoresi naturalistica neopagana, per riproporsi come fonte spirituale di una concezione impolitica della storia umana, e pertanto, rispetto al corso politico moderno, non già come ispirazione di una politica contro-rivoluzionaria ma bensì di una cultura contraria alla mera rivoluzione politica, per riprendere la celebre espressione di de Maistre,. Posizione che fu quella assunta da Gesù, che si oppose all’ideologizzazione religiosa della fede da parte degli zeloti, negando col martirio che la politica potesse avere il posto di Governo che spetta solo a Dio. Oggi lo zelotismo, che ha interessato anche alcune correnti teologiche libertarie, si diffonde nell’Islam, e perciò il cristianesimo può vantare verso quella tradizione monoteistica una superiorità morale e

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teologica non sottacibile dietro contingenti prospettive ecumeniche o alleanze tattiche contro l’ateismo tecnocratico. A questo scopo, le stesse Chiese cristiane devono dismettere ogni politica conciliatoria con il Potere secolare, per concentrare la loro azione pastorale nella predicazione contro il falso idolo tecnocratico e a favore di una storicità dell’Uomo spirituale, promuovendo la ricerca di una rinnovata rappresentazione dei nostri tempi, avente per oggetto la loro dimensione apocalittica. Solo infatti abbandonando le false illusioni del catechon democratico, si potrà pervenire al completo disvelamento della natura anti-cristica del Potere tecnocratico dilagante col capitalismo, confutando il suo carisma edonistico presso le masse, e attraverso un rinnovamento spirituale della tradizione culturale cristiana uscire dalle paludi ormai mefitiche dell’ultimo scorcio dell’età del Logos politikos per inaugurare un nuovo eone storico, quello dello Spirito di carità. Il senso dell'impegno attuale, a un tempo letterario e di pensiero, deve auspicabilmente percorrere vie traverse che aprano altrettanti varchi noetici che conducano al Principio, alla terra del Padre, da dove tutto ha avuto inizio. In questo peregrinare incontreremo molti auctores, antichi e moderni, che, a partire dal più grande e più illustre, da cui tutti appresero tutto, Platone, ci intratterranno con generosa dovizia di senno e di dottrina. Speriamo di non rimanere soli lungo il viaggio ma che altri vorranno tenere compagnia ai nostri passi, magari per farne tesoro. E con questo auspicio inauguriamo la nuova serie on line di Coscienza storica, aperta alla collaborazione di quanti ne condividano lo spirito di ricerca e i fini non ideologici della testata. C.M.

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Il valore cristiano della libertà come essenza della decisione morale di Costantino Marco

“Il cristianesimo non avrà mai una reale efficacia né una reale esistenza e non farà mai reali conquiste se non con la forza dello spirito che gli è proprio: con la forza della carità.” (E. de Lubac)

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on si possono negare i benefici della specializzazione del sapere. La sua necessità è legata, in tutti i campi, al procedere delle scienze. S'affaccia, però, l'altra esigenza complementare: la proposta di un'unità che possa rendere conto delle loro multiple direzioni. Se ne rese conto persino il pensatore più “positivo”, A. Comte, che inveì contro “il deplorevole spirito di specialità dispersiva” che affliggeva il mondo accademico già del suo tempo, ostacolandone lo “sviluppo morale”. La specializzazione è formulabile sulle indicazioni di tecniche determinate, di volta in volta richieste dalle circostanze. Ma com'è possibile proporre un'unità del sapere? I tentativi, che hanno preteso di definirla univocamente, sono apparsi storicamente sospetti. La via maestra s'è affidata alle risorse del Sistema. Con questa soluzione, si sono aperte difficoltà, che, da tempo ed in modo esauriente, sono state messe in luce e su cui è superfluo ritornare. Allora, di fronte allo scacco storico del sapere sistematico, che si predica come un a priori generalizzato, bisogna rinunciare a proporre una qualsivoglia forma d'unità? Se la sua formulazione, indipendentemente dalla pretesa sistematica e totalizzante, è ancora possibile, deve necessariamente affidarsi ad una tesi indiretta, che ne mostra l'implicazione in ogni evento, qualunque ne sia la natura. Ogni rappresentazione di realtà, per essere oggettivabile e descrivibile, richiama, nei diversi modi del suo darsi, il profilo unitario della sua interna organizzazione. Quest'aspetto discriminante è la qualificazione originaria del senso. Sennonché, la sua semplice nominazione suscita sospetto negli alunni del nichilismo e nei devoti del postmodernismo. Queste anime, apparentemente scaltrite, che

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hanno scambiato, con supponente sicurezza, l'impotenza verso ogni slancio dell'inventio con lo squisito esercizio della negazione, storcono il naso: ogni affermazione del senso inevitabilmente sembra ricondurre al fantasma dell'aborrita totalità sistematica, idealistica o d'altra provenienza. La questione è decisiva. La soluzione complementare è, del pari, insoddisfacente. Infatti, anche ammesso che l'intero sapere sia solo un gioco linguistico, più o meno sofisticato, i suoi esiti possono dirsi riusciti, se appaiono dotati di un qualche senso. Per chiarire il problema, bisogna distinguere, sul piano metodologico, la presenza dal significato. Ogni fatto è tale in quanto, fissato da definiti parametri spazio-temporali, si rende kantianamente presente in un'esperienza possibile. Ma il suo orizzonte di significato non si risolve integralmente a questo livello, perché qualcosa deborda oltre la pura presenza sensibile. La tradizione occidentale, sin dalle origini, ha individuato tale irriducibile residuo nell'universale. I tempi della sua storia sono noti. S'è cominciato con l'applicarlo alla physis, per poi allargarlo alla sfera della conoscenza, dell'arte, della morale, della politica. Lo s'è visto interagire, infine, con la storia stessa. In tutte queste forme, in un modo o nell'altro, la sua posizione è inseparabile da quella simmetrica che afferma i diritti dell'individuale. Ogni proposta d'universalità risulta vana, se non trova un punto d'appoggio sulla sua correlativa offerenza. Si può allora affermare che l'orizzonte del senso emerge dalla relazione costitutiva tra queste polarità. Solo che, rispetto alla tradizione, occorre rilevare un'ulteriore caratteristica: nell'individuale è contenuto un fattore di sorpresa che non è di pertinenza dell'universale. Col suo semplice affacciarsi al mondo, ogni evento singolarizzato contiene in sé qualcosa di proprio e d'irriducibile. Anche ammesso che la possibilità di pensarlo implichi una prospettiva che deborda oltre i suoi limiti ristretti (quale la platonica idea o l'universale idealistico), è altrettanto vero che l'individualità d'ogni evento annuncia una configurazione inedita del mondo. Questo fattore

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incrementale innesca una vicenda e mette in gioco un complesso d'aggiustamenti di mira che confluiscono nella struttura del senso. Ciò che però differenzia il suo assetto tradizionale, da quello qui abbozzato, è la diversa configurazione della compiutezza e dell'incompiutezza. Nella prospettiva sistematica, pur dandosi di volta in volta, secondo la caratteristica della sua storicità, il senso è, nella sua essenza, sempre compiuto. Nell'altra direzione, viene accreditato un margine d'incompiutezza che si dispone nella forma dell'implicito. Non tutto s'offre sotto l'aspetto dell'esplicito. In ogni avvenimento, permane un risvolto sottinteso, che, annunciandosi nella forma del non indagato, si propone temporalmente come un non-ancora. Tale residuo, che decide l'inesauribilità del senso, rientra anch'esso, secondo una particolare modalità, nell'orizzonte generale della storia. Occorre però ancora ulteriormente distinguere i due livelli della storicità e della storicizzazione. La prima sanziona l'essere di fatto della singolarità degli eventi; la seconda definisce, all'interno dell'orizzonte della universalità di tempo, ciò che è stato prodotto (detto o agito) in vista di una ulteriore decifrabilità di senso. Entrambe le prospettive condividono l'attenzione alla realtà. Ma la seconda include una attività ermeneutica che prefigura il cammino dell'ulteriorità, lasciando aperto il campo del dialogo. Questa condizione è all'origine dell'attenzione che la presente riflessione intende dedicare alla storia.

2. Nell'ambito della storicizzazione, l'attenzione ai fenomeni etico-politici soddisfa il punto di vista dell'indirizzo umanistico del sapere in quanto comprende in sé l'intima connessione tra teoria e prassi che, attraverso le scienze umane, riflette la dimensione ideale della nostra civiltà, quale modello di autocoscienza universale. L'indicazione programmatica che il Manifesto intende rispettare, in nome dell'unità del sapere, non impone confini epistemologicamente prefissati, ma neppure indulge verso la moda corrente del privilegiamento settoriale dell'erudizione. Nel migliore dei casi, il suo esercizio assolve una funzione preparatoria all'esito destinale del sapere, che è la definizione razionale dei valori, mentre la stanchezza filologica ha tentato di surrogarne l'autonoma legittimità, così che subdolamente l'accidentale s'è paludato dell'essenziale. Proprio sotto il punto di vista dei valori, alcune scelte del pensiero contemporaneo si possono con sicurezza dichiarare insolventi. Il nichilista, lo scettico attore di una sovrana

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negazione che non risparmia la stessa dignità della componente tragica dell'esistenza, ed il dogmatico, il cerimonioso devoto dei fatti, presentano un tratto comune: sotto la apparente stanchezza del sapere, di chi ha perso la capacità di sorprendersi e di aprirsi alle promesse del nuovo, si cela la pigrizia spirituale di chi rimane ai margini del suo travaglio millenario, refrattario a ripercorrerne i momenti salienti della sua storica definizione, accontentandosi della seduzione polemica verso i i suoi frutti meno riusciti, scorgendo così nella decadenza l'esito di un percorso, anziché l'impervio ostacolo al suo proseguimento. Questo atteggiamento soggiace all'illusione che Whithehead definiva della “concretezza mal posta”. Nel caso del nichilista, l'invasione del nulla ha divorato le sue stesse premesse; nell'altro caso, il dogmatico ha finito con lo scambiare i pregiudizi per la realtà, rinunciando anch'egli, in nome del comodo arbitrio, a pensare con la fatica del distinguere. L'indifferente criterio livellante delle equivalenze ontologiche, che fanno dell'essere il gratuito dono del nulla, allinea entrambi sulle posizioni del negatore d'ogni autentica realtà, dimentichi che i supposti "fatti" sono solo un anonimo involucro che può essere riempito, a piacimento, da qualsiasi contenuto. Nei confronti di questi cedimenti, la funzione della riflessione storico-filosofica appare essenziale ai fini stessi della congruenza ai valori dell'impegno negli affari pubblici, odiernamente pervaso da pregiudiziali riduzionismi etici spacciati per oculato realismo politico. Un realismo che non sia guidato dalla luce dei valori, che non ne rechi le tracce, è destinato a misurarsi con la nuda fatalità del successo, che, anche quando viene, il più delle volte non è premio alla virtù ma effimero e sterile conforto dell'oggi. Dal punto di vista della ricerca, dove si decide, in ultima istanza, la rilevanza della filosofia, della storia e della letteratura, essa assolve ai suoi compiti teoretici se si dimostra capace di legare assieme ambiti tematici diversi, e se, da quello soggettivo dell'interpretazione, rilancia agli interlocutori l'istanza del dialogo, che non riconosce altra autorità che non sia quella della validità e del rigore argomentativo. Solo grazie a questo presupposto, può legittimamente aprirsi un fruttuoso ventaglio di possibilità interpretative. Infatti il testo non può sussistere senza l'apporto decisivo del lettore. Per quanto faccia, l'autore, nel migliore dei casi, può assumere su di sé un'istanza d'alterità, ma, malgrado si sforzi d'oltrepassarsi, non può, in ogni caso, uscire fuori da sé medesimo senza farsi interprete della propria

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opera, e quindi a sua volta lettore. L'appello al dialogo è un'offerta ed un ricorso. Per parte sua, il lettore è, ad ogni passo, chiamato in causa come l'essenziale coadiutore del senso che si va svolgendo sotto i suoi occhi. Un senso che, per essere in fieri, necessita dell'apporto critico del dialogante, acché le tesi offerte in dialogo siano pretesto al conseguimento di verità comuni, non criptate dal vaniloquio dell'autoreferenzialità, i cui esiti, fuori del magistero poetico, non sono condivisibili. Questo criterio discriminante non va confuso (come spesso è avvenuto nella scolastica del neoilluminismo) con l'esibizione compiaciuta della banalità. Al contrario, ciò che è chiaro coesiste col difficile. Per farsi rilevante, la parola è costretta ad esporsi al rischio della ratio difficilis. Si può dire, anzi, che il criterio di misura della verità degli enunciati filosofici è correlativo al coefficiente di rischio che il soggetto del discorso è chiamato ad affrontare e la cui affidabilità, non di meno, è affidata alla trasparenza logica dell'espressione.

3. Ogni epoca è, nel senso di Dilthey, dotata di una costitutiva autocentralità. E' però arduo coglierne l'aspetto unitario. Per farlo emergere, si può ricorrere esplicitamente al potere rivelativo di determinati eventi, che, pur nella loro singolarità, riflettono significativamente il polso dei tempi. E' la grande intuizione che sostiene l'impianto della hegeliana Fenomenologia dello Spirito. Accanto a questa proposta, sussiste un'indicazione indiretta, che, sorreggendosi sul metodo delle analogie, consente di cogliere un parallelismo tra alcuni elementi specifici dell'età in questione (in questo caso, la nostra) in relazione a caratteri propri d'altre epoche, su cui è caduto un consolidato giudizio storiografico. Seguendo quest'indicazione, si può rilevare una corrispondenza tra il periodo attuale e quello ellenistico. Molti sono le corrispondenze che giustificano tale simmetria. L'ellenismo ha inaugurato la specializzazione, quella stessa che è diventata dominante nel nostro tempo. Questa configurazione - che non investe solo il sapere, ma l'organizzazione stessa della vita - trova le sue radici in un generale assetto eticopolitico. Alla figura del cittadino, dominante nell'età classica, è subentrata, per l'azione livellante delle monarchie ellenistiche, quella del suddito. Questa condizione spiega come il ripiegamento sull'interiorità sia apparso al sapiente, nel sembiante morale del saggio, una via obbligata. L'individuo, respinto ai margini della vita pubblica, ha potuto trovare nel rifugio

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dell'esistenza privata, dove la coscienza non è sottomessa ad alcun imperativo esterno, le proprie risorse. Perduta l'equivalenza dell'interiore e dell'esteriore, la filosofia ha potuto così rilanciare la sua vocazione morale. Diversamente, per l'uomo socratico-platonico, il concentrare l'attenzione su se stessi, per scoprirvi le leggi che governano la vita interiore, s'allinea all'invenzione dei princìpi che regolano il cosmo. All'origine di questa correlazione, si ritrova una motivazione etico-politica: ogni cittadino libero ha la possibilità di fare sentire la propria voce nell'agorà. Di questo officium rimane oggi solo lo scranno in Hyde Park, dove tutti possono parlare, purché non pronuncino offesa alla regina. Ma è solo un vestigio. Nelle democrazie moderne, convivono paradossalmente, nel medesimo individuo, il cittadino ed il suddito. La figura del primo è formalmente garantita. Tuttavia, vi s'affianca una sudditanza diffusa, dove vige un'imposizione anonima, che, a differenza della condizione imposta dal Signore ellenistico, non ha né nome, né volto. Il suo inquietante apparire è imputabile all'ultimo atto, subdolamente insidioso, dei totalitarismi del secolo XX: la tecnocrazia. In questo regime, è andata perduta l'istanza superiore della formazione della personalità morale dell'uomo, a favore di una sua funzione pratica di legittimazione del sistema istituzionale fondato sul consenso democratico, surrogato secolaristico dell'antica legittimazione teologica della sovranità. In questa sua funzione, la libertà personale, in quanto elemento cellulare della struttura del consenso, è soggetta a un condizionamento latente ma pervasivo, riduttivo della sua potenzialità trascendente la sua destinazione finita. Questo pericolo, legato alla massificazione tecnocratica, è dei tempi, e non è eludibile attraverso meri correttivi istituzionali, i quali intendono confermare surrettiziamente l'assunto antropologico moderno della riducibilità dell'esperienza umana ai soli postulati di una socialità economica, al cui ordine pacificatore è demandato il crescente controllo bio-politico da parte del potere provvidente, la cui invadenza rischia di negare, con un'universale indifferenza assiologica, la stessa essenza ideale del cittadino. Diversa è la nostra temperie da quella dell'età classica, dove campeggia la figura, in senso auerbachiano, di Socrate, verso il cui carisma apollineo è notoria l’astiosità nietzscheiana. Nell'Atene del V secolo la si ritrova diffusa ovunque, a incarnare proiettivamente il sophòs, che non ha il suo habitat naturale nel chiuso delle biblioteche, ma vive ed opera all'aperto, artefice

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degli incontri pubblici quanto informali, sostenitore delle implicanze etico-politiche della ragione quanto negatore implacabile del mercimonio utilitaristico della dialettica sofistica. Quest'ubiquità ermeneutica non sarebbe stata possibile se non fosse stata favorita da una città aperta a tutte le voci che arrivavano sia dalle terre segnate dall'appartenenza greca che dai mari solcati dalla sua signoria. Il mercante, che veicola con le merci anche l'incidenza delle idee, è il simbolo di queste multiple interazioni, dove lo scambio, trascendendo a suo modo l'autoreferenzialità della pòlis tradizionale, acquista il valore di correttivo alla totalizzazione della dimensione politica. Dallo scambio delle merci allo scambio delle idee sussiste la stessa differenza che intercorre tra il dibattito delle opinioni e il dialogo filosofico. Ovunque corre la promessa espressiva della parola ed il segno elettivo del suo contenuto sapienziale, l'orizzonte esistenziale si allarga alla comprensione del senso fondativo dell'essere, in un movimento che valica sempre la esperienza fenomenica in direzione di ciò che è e permane oltre ogni apparenza. Attraverso i percorsi dialogici, la coscienza greca consegue quella superiore unità ideale che la frammentarietà politica delle poleis tradizionali non riuscì mai ad attingere, delegando i segni della sua universalità a una dimensione fondamentalmente extrapolitica, che nell'atto stesso di estinguere la sua parabola istituzionale, la sublima nei modelli della sua teoresi. Significativamente, l'ateniese civiltà della parola ha fatto da sfondo all'immaginario concettuale di una modernità liberal-democratica, qual è stata delineata da Alexis de Tocqueville e da John Stuart Mill. Dallo spessore dei secoli, risorge intatto il diritto di tutti gli uomini liberi di farsi avanti nelle assemblee. Quest'isegoria, imponendosi da criterio di misura della marcia storica della democrazia, è il sembiante visibile dell'eleutheria, radice insieme dell'individuo e del cittadino. Lo sfondo è ancora la cultura dell'agorà, che, nella passione dell'argomentare, ha sancito, una volta per sempre, la promettente identificazione del procedimento del discorso con il momento decisivo della deliberazione. Ma lo specchio critico della modernità riflette di rimando un'immagine alterata in senso illiberale della fisionomia originaria dello spoudaios coltivato nelle premesse morali della sua paideia, per cui il modello dialogico viene a perdere il suo carattere inevitabilmente aristocratico di fronte alle istanze di una aprioristica partecipazione deliberativa, che da espressione della responsabilità dei liberi

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diventa vieppiù tecnica di consenso di massa, nel cui clamore è difficile distinguere le voci sempre più flebili del ragionato dissenso personale. Per una sorta di rovesciamento dialettico, la libertà partecipata orizzontalmente, perdendo le sue referenze logiche nell'esigenza puramente asseverativa del consenso maggioritario, finisce progressivamente per soffocare il senso della sua distinzione dall'opinione comune, inevitabilmente maggioritaria, trascinando in questa sua perdizione il valore stesso della libertà come affermazione di valori distinti dalla forza dell'ipotesi condivisa. In tal senso, si è stabilito nella tarda modernità un rapporto perverso tra libertà e possibilità, in cui la gratuità delle opinioni soggettive, ridotte ad asserzioni non vincolate ad alcun appello di ragione, si tramuta in diritto al loro riconoscimento pubblico, così che l'equivalenza dei giudizi affrancati da ogni delibazione razionale producono un infinito e non derimibile dibattimento, che ripropone, sotto mutate spoglie, la conflittualità babelica della natura pre-sociale hobbesiana, e con esso un criterio pacificatore implicitamente demandato alla forza del numero sociale, a tutto scapito del dissenso ragionato ma politicamente minoritario. Bisogna allora riconoscere, con l'Alexis della Yourcenar, la vanità della lotta, dai crepuscolari sublimata nella poetica del sentirsi morire? No: il coraggio delle idee è pari all'umiltà che si deve all'eterno. Il kantiano "sapere aude" non è una lotta vana. Del resto, ogni deprecatio temporum mostra presto il suo limite. Si tratta piuttosto di dare ancora forma ad un pensiero che si ponga al di là d'ogni ordinata barbarie. La stessa intensità dell'esistenza, le estreme prove del gesto e della parola, nel loro disporsi come delicati pretesti delle avventure del senso, ci appartengono ancora. L'invito socratico all'ulteriorità dell'indagine non è spento. Ma lo si può accogliere, solo se non si soggiace al demone della fretta, che, da ogni parte, sembra sedurre l'uomo contemporaneo con vane promesse di efficacia. L'avvenire si profila all'orizzonte della pazienza del tempo. Non a caso, Nietzsche ha paragonato Schopenhauer al cavaliere di Duerer, quale simbolo della ricerca mai conclusa e mai appagata della verità. D'altro canto, tutta la tradizione, per quanto grande, se non è attraversata da una vitale intenzione che la risveglia dallo stato di riposo dei secoli, è solo una macchina da intrattenimento erudito. Dunque, per quanto concesso, nonostante la malinconia dello spaesamento, bisogna osare. La bussola delle coordinate del mondo continua, anche nelle burrasche, a puntare la direzione. Analogamente

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alla vigilanza dei sensi del contadino, che conosce la terra e gli animali, su un altro piano, l'uomo di cultura (il filosofo, lo scrittore, lo storico) può ancora individuare il "verso" che è costitutivo del senso. Tra i possibili orientamenti, sono preferibili quelli che non si limitano a riflettere la nuda contingenza, ma che, esplicitamente o implicitamente, s'impegnano a mobilitare l'insorgere d'aspirazioni volte ad interpellare l'avvenire. Noi, i contemporanei, ci troviamo però, rispetto ai grandi esempi del passato, in una situazione difettiva. Quest'insolvenza non è imputabile ad un capriccio del caso, ma ubbidisce ad una precisa situazione culturale. Alla sorprendente accelerazione della storia recente, non è corrisposto un pensiero che possa comprenderla nella complessità delle sue relazioni. Per soddisfare questo disegno, occorrerebbe uno schema esplicativo unitario, che tutt'ora difetta. E' il disagio del filosofo contemporaneo e la coscienza infelice della postmodernità. Pensare la nostra epoca, riproponendo semplicemente le grandi filosofie del passato, con la sola pretesa di vergare note in margine ai suoi autori, vuol dire abbassarla ad un'inerte spoglia. Similmente, continuare ad esercitare il sospetto e rivestire i risentimenti privati col salvacondotto di una deviata pubblicità, non conduce, nella torsione della negazione, a nulla. Si rimane smarriti nel bel mezzo di un mondo incomprensibile. Od ancora, quando si distende sopra la sterilità della coscienza morale e l'impotenza del pensiero inventivo il manto ingannevole di un depistante sapere, si finisce col chiudersi nel cerchio sofistico di uno sterile solipsismo. Si ripropone allora la necessità dell'approfondimento critico della correlazione fra tradizione e rinnovamento. La prima si giustifica per il fatto stesso che non esiste pensiero senza presupposti; ugualmente, urge la spinta d'andare al di là del loro potere sanzionatorio. E' la Stimmung della ricerca filosofica. Ma, per noi, nell'attuale fase del sapere, s'addensa lo spettro di una particolare e declinante incompiutezza: quella d'aggirarci tra i cimiteri della storia, senza vedere il sorgere dei "filosofi del mattino" che Nietzsche auspicava. 4. Le Roy chiamava "dilettanti" i filosofi che accettavano i termini usuali di un problema, anziché "creare", con la soluzione del problema, anche la sua posizione. Infatti, come affermava York, "è sempre una nuova posizione e concezione della vita quella che introduce e determina una nuova epoca". In un mondo dove la

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sicurezza morale è affidata alla convenzionale, ma spesso non chiarita, corrispondenza tra pensiero (della vita) e (pensiero della) storicità, quale statuto di ricomposizione della scissione moderna tra uomo e mondo introdotta dall'irruzione della razionalità scientifica, il compito del filosofo non sprovveduto, una volta evitati gli scogli del nichilismo, consiste nel riproporre l'interrogazione ontologica (sull'essere) come il senso della vita umana (dell'ente storico), evitando, col trascendere la temporalità del finito, di arenarsi nelle secche dello sperimentalismo empiristico delle epistemologie verificazionistiche, che, come l'asino della parabola che si rende conto di non dover attraversare il guado solo all'atto del suo annegamento, declina il sapere come esperienza, cioè affermando la sua esigenza fondamentalmente unificante nell'atto di negarlo sotto la forma della razionalità scientifica. Il viaggio del pensiero interrogante è tra la Scilla della logica nichilistica del Candido di Voltaire, il quale, sapendo di non sapere, finisce per credere ogni sapere, equiparando la sapienza alla superstizione, e la Cariddi della massificazione delle conoscenze scientifiche, che non rintraccia dietro i fenomeni oggettivati i percorsi della coscienza storicizzante di cui sono simbolica rappresentazione, ma li assume come fatti esterni, indipendenti, al suo modo di porsi, e perciò esposti all'estetizzazione e alla manipolazione tecnica proprie della contemporanea società dello spettacolo. Ed è questa intersezione a creare le condizioni per cui di una civiltà umana si possono distruggere le vestigia senza sentire alcuna colpa morale, non appartenendovi, restando realisticamente indifferenti per quanto possa implicare il diniego/adesione alla deliberazione politica, definendo tale sospensione di senso come indipendenza da ogni convinzione, come libertà. Ma non è forse la libera adesione al Kratos a costituire la sua forza legittimante? Senza tale adesione, il Potere si riduce a contingente risposta hobbesiana al caos sociale, nella quale la dimensione meramente ontica dell'esserci configura uno spazio di oggettivazione reificante dell'esperienza umana, e come tale assimilabile alle ragioni della (soggettiva o impersonale) volontà di potenza, non derimibile se non attraverso la speculare e a-dialettica volontà ostativa dello hostis. Non ubbidivano forse alle ragioni contingenti del Potere i soldati americani che bombardavano Dresda?, o quelli tedeschi che nel 1943 davano fuoco con la benzina all'Archivio storico di Napoli?, o gli aguzzini stalinisti che tenevano a bada gli assiderandi del Gulag? Sarebbe ingenuo,

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oltreché pericoloso, ritenere che i rischi connessi all'accoglimento - quiescente o convinto, poco rileva - della logica machiavellica possano essere neutralizzati preventivamente dalla legittimazione del consenso pubblico, riscontrato attraverso i riti periodici elettorali o quelli più informali e ravvicinati della demoscopea. Il compito della filosofia che non si riduca a prezzolato sofisma mass-mediale di una agorà parodiata a talk-show, deve ribadire le ragioni dell'Ethos, le quali fuggono (in avanti, ma comunque fuggono) il senso comune quando è manzonianamente spaiato dal buon senso, e perciò si rivelano irrimediabilmente impolitiche in un contesto in cui l'appartenenza ai gruppi dominanti è richiesta come fedina politica agli intelletuali di professione. Proprio in tale contesto, il distacco dell'uomo libero dalle pastoie del consenso organizzato è prodromico al dissenso del pensatore dall'irretimento dell'opinione. Chi confida nelle risorse della libertà non può indulgere alla rimozione della sua antitesi dialettica, che è la necessità della sua limitazione, attraverso la mediazione politica, a opera dell'attività delle istituzioni sociali, che è sempre attività costrittiva rispetto agli aneliti individuali. Il senso della libertà è dunque nella relazione della volontà col potere costituito. Una relazione storicamente definibile a seconda delle condizioni della sua effettualità, per cui essa si presenta di volta in volta come tensione eversiva delle ristrettezze di un potere sbilanciato in senso oligarchico od organicistico, dal quale difendersi nei modi proprii di una libertà da la pervasività dello Stato; oppure si presenta come petizione di legittimi diritti già conquistati o in via di affermazione morale, dispiegandosi quindi come libertà di partecipare alla vita pubblica nelle forme giuridicamente sostenibili. La libertà dei nostri tempi si definisce e concepisce all'interno di una dichiarata universalità orizzontale, che trova i suoi criteri di affermazione nel principio dell'uguaglianza fra gli uomini, intesa non più e non solo nell'accezione morale stoico-classica e cristiana, che consentiva il dispiegamento responsabile e non meramente convenzionale delle individuali personalità, ma nel senso del pratico conseguimento, verso il quale sono indirizzati gli sforzi economici e legislativi delle classi dirigenti. La politica concepita come strumento di un'omologazione giuridicamente controllata, facilmente si declina in termini di morbosa burocratizzazione amministrativa, priva di ogni respiro avveniristico perché pre-occupata a derimere questioni di equilibrio consensuale e di compensazione delle

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insopprimibili diversità della compagine sociale. All'interno di queste coordinate ideologiche, la libertà democratica si dispiega nei termini di un'ansia partecipativa, tesa piuttosto a consolidare le scelte politiche non più ispirate da un movente teleologico dichiarato, che a coinvolgere le coscienze individuali alle responsabilità comuni, per cui si tende incoerentemente a dissociare gli eventuali esiti nefasti di quelle scelte dal consenso preventivo delle maggioranze, stabilendo uno hiatus tra responsabilità politica dei mandatari e responsabilità morale dei mandanti, che, assolvendo sempre questi dai proprii errori di valutazione, ne decreta l'espiazione sotto forma di mobilità dei ceti politici, la cui conseguente precarietà li autorizza a compensare la labilità di un mandato non imperativo con la legittimazione pubblica di interessi privati, primo fra tutti la conservazione del consenso. La politica intesa come trascrizione in chiave di riconoscimento pubblico nelle sedi canoniche di istanze propriamente privatistiche di gruppi politici particolari, non riesce a contemplare alcun movente ideale inafferente alla logica e alla pratica degli equilibri democraticamente sanzionati, esautorando pertanto i profeti del disincanto, cioè i filosofi, da ogni ruolo di rilevanza pubblica, trasferendo quindi, dopo la religione, anche ogni altro pensiero teoretico nell'alveo innocente e innocuo della coscienza privata, la cui libertà viene garantita dalla stessa condizione di inagibilità politicamente rilevante. La libertà, nella sua declinazione democratica di libertà con, perde il suo originario connotato di libera determinazione dei rapporti consensuali, trasformando la sua insopprimibile istanza di trascendimento della condizione umana finita, in tecnica di controllo sociologico delle pulsioni individuali extra-politiche, accusate di colpevole agnosticismo verso le ragioni pubbliche, comunque individualmente non dominabili. 5. La posizione che oggi può assumere la coscienza filosofica del nostro tempo non può che partire dalla denuncia della totalizzazione acriticamente asserita dell'orizzonte della finitezza come orizzonte ultimativo e intrascendibile della soggettività, intesa come ente poieticamente produttivo di realtà. Proprio la consapevolezza della relazionalità della libertà umana deve prevedere una polarità dialettica di senso universale, che renda ragione della finitezza superandola in direzione della integralità della condizione umana, odiernamente sottoesposta all'unidimensionalità della sua esperienza intrascendente.

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Questa sottoesposizione dell'uomo nell'orizzonte della finitezza, non soltanto esautora il pensiero critico dall'agone pubblico, ma stabilisce le condizioni ontologiche della manipolabilità degli enti indeboliti dalla loro stessa assolutezza ontica. Infatti, solo la coscienza della totalità può stabilire il bisogno di trascendere la finita determinatezza degli enti, e solo la rimozione di tale coscienza può esporre gli enti all'illusione della loro autonomia, conducendoli dal luogo della loro conprensione allo status della loro con-pressione, regolativo della loro esistenza ma non liberatorio della loro essenza rimossa. L'asserto dell'identità della liberazione dell'ente dal suo referente universale, con l'emancipazione della condizione umana da ogni immanenza del divino, conferisce una preminenza ai dati puramente fenomenici, irrelati da ogni riconoscibile semantica metafisica, destinata dal suo stesso ostracismo ad alienare il senso ontologico dell'avvenimenzialità interna alla temporalità storica nel totalmente altro rispetto alla sua esperibile visibilità. Il tentativo di dare una dimensione precipuamente filosofica alla libertà, contrapponendola sia al determinismo materialistico e al fatalismo naturalistico, che a ogni prospettiva teologica, ha condotto il pensiero a riguardo più maturo, quello di Croce, a una "scissione" - come è stata definita - tra una metafisica della libertà, soggetta alle necessità delle sue articolazioni ontologicoconcettuali, e una pratica della libertà, esposta alle più indeterminate risoluzioni empiriche, le quali poi, assumendo il soggetto creatore di libertà come l'unica reale istituzione storica, finiscono per coincidere con la produzione stessa dello spirito ideale, vanificando ogni sforzo di stabilirne una fisionomia politico-istituzionale. Si è creduto di superare questa indeterminatezza tornando a una visione giusnaturalistica ed empiristica delle libertà, che, salvaguardando l'inviolabilità dei diritti della persona, traccia nel contempo anche i limiti del potere politico, rinunciando così di assegnare alla libertà un carattere filosofico e ripiegando sul più modesto traguardo epistemologico di circoscriverla nei termini della sua efficace strumentalità praticoistituzionale. In realtà, la scissione tra pensiero e azione non è un limite della filosofia crociana della libertà, ma è propria di ogni pensiero che neghi la dimensione di totalità propria della teoresi filosofica, volendola privare del suo carattere religioso per assegnarle quello moderno di scienza dello spirito. Ma che la riduzione della filosofia a metodologia storiografica non fosse un esito

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necessario del pensiero della libertà, lo conferma lo stesso carattere religioso del liberalismo crociano, il quale afferma, di fronte ai totalitarismi trionfanti, le ragioni della verità contro quelle della storia effettuale, confutando indirettamente l'asserita riducibilità e convertibilità assoluta del pensiero all'azione propria dello storicismo immanentistico. Il liberalismo filosofico di Croce segna lo stesso limite del pensiero moderno, sospeso tra l'assolutezza della ragione trascendentale, che riporta tutta la realtà al pensiero, e l'accidiosa indifferenza verso ogni ideale etico e ogni istanza morale, che assegna alla forza sociale il fine stesso della prassi. Ma la coscienza viva della differenza tra la sfera teoretica e la sfera pratica, al di là di ogni sforzo di ridurne i nessi a presuntive necessità logiche, conferma la problematicità di un pensiero della libertà che, nato nell'alveo della metafisica cristiana e pur inteso a liberarsi delle sue originarie radici teologiche, perpetua una insopprimibile tendenza assolutistica, sia pure nella moderna chiave secolaristica, che riserva esclusivamente all'uomo le ragioni del bene e del male della vita, contentandosi delle precarie certezze della sua fallibile intelligenza, costretta dai suoi stessi assunti storicistici ed empiristici a sperimentare il male prima di riconoscerlo, rendendo labile ogni resistenza razionale. La filosofia crociana ci ha mostrato che se è impossibile assegnare alla storia una dinamica indipendente dalla coscienza storica dell'uomo, simile alla dinamica della natura, pare altresì improbabile ricorrere alle istanze teoretiche della ragione, e quindi a criterii di necessità vincolanti la prassi storica, partendo dal presupposto della assenza di ogni fede a fondamento legittimante di quella stessa conforme necessità. Infatti, la "religione della libertà" presuppone una istanza trascendente le storiche determinazioni della realtà socio-politica, anche se non necessariamente trascendente la dimensione storica. L'identità di storia e di filosofia rischia di sopprimere proprio quell'istanza trascendente in cui consiste la libertà dell'uomo, che ne impedisce la risoluzione alla prassi, cioè alla mera volontà, e si apre al destino come ricerca responsabile di auto-determinazione morale. Di fronte alla necessità della storia, l'istanza liberale che vi si oppone in nome di ragioni trascendenti gli assetti fenomenici, si dispiega come risposta religiosa alla impotenza della volontà, come fede, cioè, in ciò che trascende la realtà attuale in nome di una storia inattuale e condenda. Ma questa risposta religiosa, che si fa cosciente nel liberalismo etico di Croce, è la

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stessa risposta filosofica alle domande di senso della storia. E' la interrogazione filosofica, infatti, che (inter) rompe il tradizionale nesso necessario tra potere e coscienza introducendo la domanda di senso, la quale astraendo dai dati fenomenici della realtà tràdita ne mette in discussione la sua necessità, opponendo al suo essere storico le ragioni del dover-essere ideale. Ed è questa risposta religiosa a legare in un rapporto di essenziale filiazione il liberalismo filosofico alla matrice fideistica cristiana. Fu infatti il cristianesimo a costituire la più poderosa risposta religiosa della coscienza filosofica alla necessità della storia tradizionale. Proprio in virtù di questa sua natura filosofica, il cristianesimo provoca a ogni formazione istituzionale consolidata una interna tensione ideale oggettivamente destabilizzante gli assetti storici, la quale va a sua volta compresa e inserita nell'alveo di una corrente dinamica che vi si alimenta senza tralignare. Ma questa comprensione e questo inserimento non sono sempre possibili, o per deficienza dell'interprete istituzionale o per prorompente inattualità della domanda religiosa, per cui l'atteggiamento filosofico si traduce in dinamica rivoluzionaria, con effetti eversivi dell'ordine costituito. Caso paradigmatico fu quello della Riforma, che ripropose entro la cristianità la dialettica fedepotere già sperimentata dal cristianesimo entro l'Impero di Roma. E fu, d’altro canto, la risposta insufficiente della cristianità contro-riformista a provocare la nuova domanda rivoluzionaria in Europa, tanto filosofica quanto religiosa, mirante questa volta a fondare una nuova religiosità storica, anziché a riformarla come nel sec. XVI. La tendenza moderna ad esautorare la fede religiosa da ogni ambito di rilevanza pubblica è collegata alla similare tendenza tardo-moderna a svalutare il pensiero filosofico in ambito teoretico inducendolo a trasformarsi in una estenuante metodica disciplinare al pari di ogni scienza empirica a cui si aspira omologarlo. Ma la tensione repressa in ambito teoretico riemerge come istanza ideologica e politica, provocando i disastri totalitarii che conosciamo. Dopo anche queste terribili esperienze, si è proceduto a una sistematica sinecura filosofica dell'ufficio politico, ridotto ad amministrazione economica della società, procedendo a quell'opera di rimozione del problema religioso nato nella cristianità in età moderna, che di fatto ha delegato a religioni secolari quella funzione filosofica propria del pensiero cristiano, ma che esse non riescono a svolgere con la dovuta profondità, volendosi porre programmaticamente fuori dell'orizzonte

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ermeneutico della civiltà cristiana, traducendo l’anelito trascendente della libertà personale in termini olistici arcaicizzanti con ricadute ideologiche cruenti, in ogni caso inefficaci rispetto ai bisogni, non solo della più avvertita coscienza del nostro tempo, ma delle stesse masse, che si rifugiano in superstizioni surrogatorie di tipo soprattutto neo-edonistico o, come oggi si dice, consumistico. In assenza di un adeguato ripensamento della crisi religiosa inaugurata dalla modernità, anche le forme istituzionali dei regimi democratici contemporanei restano sospese all'alea della sola forza della loro possibilità economico-politica, senza alcun sostegno etico-morale che funga da riserva religiosa del sistema in caso di crisi istituzionale. Né la mitologia del mercato, coi suoi idoli blasfemi e neo-pagani, potrà reggere l'urto di una dissoluzione civile conseguente al venir meno delle premesse edonistiche sulle quali si regge l'equilibrio politico-sociale post-totalitario. La religione del mercato secerne fede solo quando sono visibili i miracoli del benessere, ma in tempo di vacche magre scema col benessere anche la fede nel libero mercato, che si tramuta in sinonimo di paurose miserie e insopportabili ingiustizie, tanto più devastanti quanto maggiore è il ricordo delle vacche grasse. Il paradosso delle filosofie empiristiche che stanno alla base delle idolatrie mercantilistiche e democraticistiche è quello di confermare modelli di società e paradigmi di socialità del tutto avulsi da ogni dimensione compiutamente storicistica della esperienza umana, traducendosi in ipostasi metafisiche, astrattamente polemiche verso la totalità filosofica, ritenuta privativa di libertà, e contro la quale viene opposta una presuntiva centralità morale degli individui del tutto destoricizzata e perciò mitologica, che assegna al consenso quel fondamento che la ragione astratta non riesce a legittimare. Slegata da ogni fondamento di fede, l'ipotesi di potere democratico, il cui pluralismo unitario è costruito sulla falsariga dell'unità fittizia dell'Io propria dell'associazionismo empiristico e meccanicistico delle sensazioni, non è suscettibile di altra confutazione che non sia quella della verifica sul campo. A quello di battaglia dei tempi eroici si è sostituita la competizione elettorale, ma anche la forma pacificata odierna costituisce pur sempre una sorta di ordalia, che affida all'alea del responso occasionale delle maggioranze la veridicità delle proposte politiche. Questa attesa del successo o della disfatta, ugualmente comprese come legittimi esiti dell'azione e del pensiero umani, trasforma ogni impegno politico

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in esercizio cinico e retorico del potere, valido finché dura e poi rinnegabile per un ulteriore cimento probatorio dagli stessi interpreti che già ne peroravano la causa rivelatasi sbagliata, e ogni impegno intellettuale in sodalizio sofistico coi potenti, all'ombra dei quali si rifugia la debolezza di un pensiero ridotto a mutabile opinione, relativa e temporanea come il potere. 6. Di fronte al successo del cinismo, di quell'atteggiamento mentale che modernamente viene ripreso dal Machiavelli del Principe, si può ripetere la stessa obiezione che Maritain oppose al realismo politico di Aron, e cioè che il machiavellismo trionfa ma non dura. E questo vuol dire che il senso del potere non è riposto nel potere stesso, ma in qualcosa che lo trascende e che lo rende strumentale, e senza il quale il suo esercizio rimane come sospeso all'imponderabile gioco del caso, della fortuna. Ma ci si può affidare al caso, alla fortuna, nel governare gli uomini? E, inoltre, se veramente l'autentica esistenza umana fosse l'affermazione dei singoli individui, perché lo sforzo dell'intelligenza dovrebbe applicarsi alla questione della socialità, anziché alla ricerca dei più semplici e immediati rapporti interindividuali? La risposta più ovvia è che la vita individuale non può essere garantita che dalla socialità; ma se questo è vero, la pretesa di voler costruire una convivenza basata solo sugli appetiti individuali, diventa falsa e pericolosa alla stessa sopravvivenza di ogni civiltà della specie umana. In virtù del principio di socialità, solo negli uomini la salvaguardia della specie coincide infatti con la salvaguardia della civiltà. Ciò ulteriormente vuol dire che noi occidentali, che pure vogliamo esportare i nostri sistemi di valore, la nostra civiltà, quale più avanzato modello sociale della specie umana, siamo assisi su una grande illusione, quella dell'individualismo, il quale, prendendo il posto di una vera religione, si può definire come la più radicale superstizione della cultura occidentale contemporanea. In questa situazione di decadenza ideale della nostra civiltà, l'affermazione di modelli istituzionali liberaldemocratici può trovare un senso etico-politico solo in riferimento polemico alle esperienze totalitarie, senza però offrire alcuna risposta risolutiva alla questione morale del nostro tempo, che è religiosa perché metafisica. Il supposto fondamento nichilistico della metafisica occidentale non rende ragione di una possibilità di convivenza umana che non sia ridotta allo scontro delle singole volontà di potenza, ossia alla permanente condizione conflittuale che l’ordine politico dovrebbe

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regolamentare, se non scongiurare. La convivenza come con-flitto è il risvolto barbarico della negazione della civiltà umana come costituzione di forme culturali di senso trascendente la mera esistenza biologica, senza le quali non sarebbe possibile alcuna rappresentazione dell’esperienza antropologica nel tempo come Storia. Priva di coscienza storica, la odierna ricerca della libertà si propone in termini di mera regolamentazione istituzionale dei flussi emozionali originati dalla rimossa ma latente tensione religiosa delle masse consumistiche, cercando di neutralizzare in sede di rappresentanza di interessi sociali le potenziali spinte politicamente eversive, riducendo pertanto la attività politica a tecnica del consenso, in omologata sintonia col puro principio economicistico della massimizzazione dei profitti commerciali. Questo svuotamento di contenuti delle forme istituzionali della socialità non produce solamente anomia ma fa scaturire dall'assenza di fondamenti filosofici un bisogno di sicurezza epistemica delegata interamente alla politica, cioè alla regolamentazione imperativa delle forze sociali. A seguito di tale delega, la politica, sia pure svuotata di ogni contenuto filosofico, acquista perciò dimensione totalizzante anche in un contesto istituzionale democratico, comportando a correttivo di questa sua fondamentale tendenza l'applicazione di rimedii giuridico-istituzionali di tipo formale, a loro volta abbisognevoli di garanzia politica per la loro effettualità. Diversamente si orienterebbe un approccio religioso al problema della sovranità e della legittimità del potere politico, fondato non su astratti valori normativi stabiliti ne varietur ma sulla coscienza della storicità di tutti i dati normativi, funzionali non all'ossequio a una astratta eticità metafisica ma bensì ai percorsi stessi della coscienza filosofica e alle sue istanze di libertà trascendenti i dati della empirica formalizzazione istituzionale del potere. Senza l'assunzione cosciente della trascendenza della libertà rispetto a ogni determinazione empirica del potere - e cioè della regolamentazione della stessa libertà -, l'opposta ipotesi immanentistica dello storicismo ha come correttivo ultimo della struttura istituzionale di potere solo la rivoluzione, cioè l'eversione dell'ordine politico, costituito come sintesi totale di una volontà unitaria, in nome della totalità della vita, cioè di valori religiosi surrogatori. La riforma religiosa costituisce il movimento stesso della storia della coscienza, ed esplode

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come rivoluzione, cioè volontà politicamente eversiva, quando le sue istanze reattive a forme di pensiero inadeguate non trovano accoglienza in seno alle istituzioni formative della coscienza comune. E' la rivolta della coscienza critica contro le forme consolidate della coscienza comune; rivolta che si dipana come filosofia, ovvero come razionalizzazione delle esigenze religiose della coscienza umana, e come ideologia, ovvero come traduzione in formule pratiche di istanze teoretiche. Nel nostro tempo, l'apparente aumento della libertà soggettiva dal potere politico, viene compensata in senso conservatore dalla sostanziale privatizzazione di ogni istanza morale, trasformata in anelito sentimentale, con conseguente neutralizzazione delle spinte eticamente eversive attraverso una loro pubblicizzazione in senso ludico-spettacolare. Infatti, ogni manifestazione non conforme, cioè non formalizzata dalle istituzioni dominanti, viene socialmente tollerata come espressione eslege di una coscienza infelice, non integrata nel sistema di valori dominante. E poiché tale sistema seleziona le integrazioni sociali sulla base di criteri relativi alla propria conservazione, la disintegrazione acquista valore di demerito soggettivo degli esclusi, ritenuti incapaci di strumentalità funzionale. Ora, la filosofia, a partire da Socrate, ha esattamente svolto questa funzione di riserva anti-sistemica confutativa delle pretese metafisiche del potere temporale, intese come rappresentazione assolutizzata di una realtà ideale (e della sua proiezione socio-istituzionale) tendente a negare la storicità della realtà della vita, e quindi il suo transeunte divenire. Contro una tale pretesa socio-epistemica, ovvero bio-politica, la filosofia si pone come critica radicale della struttura metafisica del Potere e contro il suo riduzionismo anti-storico, ovvero come apertura religiosa all'unità della vita, e quindi come trascendenza. In questo senso, ancora oggi, al di là delle pretese definitive degli assetti dominanti nella società contemporanea, quello che la filosofia può offrire è segnare una traccia di ricerca finalizzata a indicare, se non proprio a conseguire, un orizzonte di senso totale, e quindi religioso, alla vita, e a tal fine deve poter superare la scissione del pensiero e della volontà propria della posizione astrattamente razionalistica dello scientismo odierno, rintracciando il legame trascendente che unisce l'esperienza dell'uomo come essere spirituale e come attore nella realtà empirica. Come ogni periodo di trapasso della coscienza da una ad altra forma storica della realtà cosmica,

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anche quello presente ha un carattere religiosamente tragico, che accompagna e segna la svolta del paradigma moderno della libertà come soggettività. La attuale libertà con-sensuale esige una sovrapposizione del noi all'io che restituisce almeno in parte - sia pure in chiave massificata - il sentimento della fluidità della vita sociale, preludio a ogni cambiamento di fede. La forza inerziale delle istituzioni storiche, per quanto corroborata da impulsi normativi sempre più complessi e pervasivi, sempre più svincolati dalle tradizionali fonti di sovranità nazionale, cerca vanamente di arginare un decorso vieppiù nichilistico, corrosivo dell'antica fede e dei mitologemi secolaristici più recenti e tendenzialmente anarchico. Da questa condizione tardo-moderna di transizione emerge il bisogno, sia pure sottaciuto, di nuove forme di religiosità, che sappiano affondare nelle radici della tradizione per germogliare frutti ricchi di avvenire. Il dramma, anzitutto della cristianità e quindi dell'umanesimo ateo, si è consumato nella lacerazione moderna della libertà dalle sue radici religiose, provocando quella scissione tra fede e ragione che sostanzia la crisi del mondo moderno e caratterizza la decadenza della nostra civiltà. I tentativi di risposta tentati separatamente dalla religione e dalla filosofia, dalla Chiesa e dalla cultura, hanno solo acuito la frattura moderna, senza poter rimarginare la ferita della lacerazione teoretica. Ora è tempo che l'approccio vada tentato nel segno dell'armonizzazione, del dialogo e della comune consapevolezza dello stesso percorso. In questa prospettiva di comunione, sia le posizioni integralistiche che le posizioni ateistiche sono un attempato non-senso, che non aiuta la ricerca delle nuove frontiere della verità. Ne consegue che anche l'ecumenismo religioso, da un lato, e lo scientismo universalistico, dall'altro, rimangono espressioni superate di una coscienza dimidiata, fissa alla sua superstizione metafisica, negatrice della conoscenza in nome della vita e viceversa, entro la quale la scissione tra coscienza e mondo resta una datità di elementi irrelati e non unificati da una superiore autocoscienza spirituale. L'esperienza del nostro tempo suggerisce proprio il superamento delle posizioni astrattamente scientifiche, rassicurazioni temporanee prive di verità, ma non può fare ricorso a un'esperienza religiosa forgiata e delimitata da assunti dogmatici discriminanti l'intelligenza della ri-cerca di quella verità che, prima che nei cieli, abita in interiore homine, e che perciò ha una ineliminabile componente personale, non soltanto nella sfera morale, ma anche nel percorso dell’esperienza teoretica e nell’uso stesso del linguaggio

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filosofico. E' stata la rappresentazione dogmatistica della fede, cioè di una metafisica non storicistica, a provocare la scissione, prima, tra religione e fede, e poi tra religione e filosofia, che ha perseguito un percorso ateistico a sua volta metafisico, e quindi la reazione relativistica prodromica al “nichilismo classico”. Lo stesso magistero ecclesiale anti-modernistico e anti-razionalistico si è definito in termini relativistici allorquando ha accettato di rappresentare dogmaticamente il pensiero cristiano come ermeneutica della fede anziché della verità, la quale ultima, non essendo un traguardo “oggettivo” della ragione, non è positivamente rappresentabile. Ma solo la posizione scientista equipara tale impossibilità razionalista con l’agnostica desistenza filosofica, relegando la fede nel territorio dell’irrazionale e dell’emozionale, ossia appunto del dogmatismo teologico, offrendo ai suoi detrattori l’idea pretestuosa che, volendo trattare dell’absconditus, ne parla in libertà perché tanto lo considera comunque inconoscibile. Se ci si trincera dietro la tradizione dogmatica come in un fortilizio assediato dalla critica, non solo si perde la fede nella verità, - la quale, non potendo essere parziale, minoritaria o maggioritaria, ma di tutti e per tutti, non può escludere nessuno dal dialogo della sua ricerca ma non si giustifica la pretesa di guidarla. Solo ristabilendo uno stretto rapporto tra la fides e la ratio si potrà sortire da quella che Comte chiamava la “malattia occidentale” della critica dissolvente ogni ipostasi ontologica, che Nietzsche attribuì all’essenza stessa della nostra tradizione di pensiero, che monta e smonta i suoi feticci metafisici, in un gioco infinito e vano di illusioni a termine. Ma solo se si fa coincidere il mistero della croce con la verità, si può offrire alla ragione quella rettitudine graziosa che la salvi dalle deviazioni della volontà del pensiero finito dell’uomo, e che è il conforto della fede. Tale coincidentia oppositorum è lo stesso spirito del Cristianesimo, la carità, che de Lubac indicava come la sua “forza”. La ragione della sua forza. La “ragione del cuore” di cui diceva Pascal. Sia l'universalismo religioso senza il supporto dell'universalità della ragione, sia l'universalismo razionalistico senza il fondamento legittimante della fede ontologica, trovano reciproco ostacolo alla loro distinta affermazione universale nella contraddizione della loro intestina divisione, che ne delimita la pretesa universalità veritativa, facendone due emisferi vuoti a metà. L’emisfero della fede, spaiato da quello della ragione, non può essere abitato a uomini

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dimezzati come il barone di Calvino, e finiscono per appartenere a due diverse umanità, che hanno in comune ciò che reciprocamente manca loro, l’ombra del vuoto, appunto. Le ripercussioni esistenziali e politiche di questa crisi sono intuibili, e sono ben chiare soprattutto fuori dell’Occidente, dove l’impressione di un gigante forzuto ma senza direzione è ben più di una malevola diceria. La “questione occidentale”, impostata come problema geo-politico, è affrontata ignorando le sue zone d’ombra, che sono essenzialmente religiose, ossia ineriscono i rapporti interni alla cristianità e alle sue distinte confessioni, che si articolano storicamente nel confronto tra la tradizione cristiana e la cultura cristiana moderna. Tradizione e modernità sono due versioni di una stessa cultura, che, se sogguardate dal rispettivo versante interno, sembrano apparentemente diverse, oltre che configgenti, ma dalla prospettiva del loro comune orizzonte universale sono in realtà due sorelle in dialogo contenzioso per la stessa eredità. La tradizione la dichiara indivisibile, mentre la modernità la vorrebbe divisa, per cui la prima ammette solo la comunione dei beni in famiglia, mentre l’altra vorrebbe emanciparsi per farsene un’altra. Se la Chiesa cattolica si comportasse come il padre verso il figliuol prodigo, dovrebbe, dopo l’amarezza e le rampogne, slargare le braccia e aprire le porte della casa comune, ammettendo che anche i figli, bene o male, crescono e si svezzano. Se il “bene” dei figli si deve alla Madre, questa non può trarsi indietro di fronte al loro “male”, ma imputarselo anch’esso. Entrambi vanno riconosciuti, e soltanto così accolti o emendati. Fuori di metafora, solo il dialogo sulla fede consente che si svolga nella fede, e divenga così, per tutti e per ognuno dei dialoganti, il dialogo della fede. Il principale problema della fede è il rapporto con il Potere, che oggi è politico-economico. La divisione medievale dei poteri spirituale e secolare, agendo il primo sull’universo morale dei soggetti e l’altro sul collettivo della società, poterono concepirsi distinti e opposti nella presunzione che avessero in comune lo stesso orizzonte di fede e di valori cristiani. Modernamente, sulla scia dell’emancipazione del politico dalla sfera morale, e con il conseguente sviluppo della sociologia del razionalismo “positivo”, i due ordini di grandezza – soggettivo e collettivo – si tradussero nelle diverse sfere del privato e del pubblico, a netta predominanza di questo su quello. La battaglia si è vieppiù spostata dal piano delle rispettive competenze dei due

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poteri, a quello della reciproca neutralizzazione. L’intento di soppiantare il Cristianesimo con la nuova religione dell’Umanità, non è riuscito a Comte, ed è malriuscito a Marx, ma l’esito tra i due poteri è stato nettamente a favore della logica dello Stato, in quanto già surrettiziamente deciso dalla condiscendenza del potere spirituale a misurarsi sullo stesso terreno di quello statuale, che non doveva essere il proprio, quello politico. Solo all’interno di uno stesso emisfero valoriale è possibile articolare un sistema policratico diviso tra più momenti funzionali, ma tra sfere ideali diverse, reciprocamente indipendenti, né il potere spirituale né il potere politico possono ammettere alcuna rispettiva interferenza. In questo senso, la condizione ideale di una società liberale policentrica è la comunanza religiosa degli stessi valori morali e politici. Ma ciò non potrà essere se morale e politica sono distanti quanto fede e ragione. Legati da una stessa fede, i santi sono intercessori del potere divino; fuori della fede comune, sarebbero dèi pagani. Parimenti, all’interno di una stessa ragion di Stato, ogni istituzione distinta è statale. Fede e politica non potranno mai incontrarsi se ubbidienti a princìpi differenti e anzi contrastanti, e nessun concordato potrà mai legalizzare le loro ideali opposizioni. Occorre all’uopo, per superare il contrasto irresolubile, una nuova teologia della carità per una nuova definizione morale di convivenza sociale, che, aprendo nuovi orizzonti civili alla religione, riscatti anche gli errori di cultura della Chiesa. Fuori del suo terreno dottrinale, la religione fu a lungo identificata con la politica della Chiesa, la cui tardiva e incerta sociologia delle encicliche sociali non fece che accreditare indirettamente la giustezza delle posizioni positivistiche e rivoluzionarie, che avevano già da tempo indicato nella società il luogo reale della vita umana, sul quale si era infranto storicamente il personalismo cristiano. 7. I cattolici di ogni paese, prendendo coscienza di un loro possibile ruolo politico, hanno cercato per tempo una trasposizione del senso comunitario dell’ecclesia mistica in una forma di organizzazione laica che renda efficace nelle istituzioni la loro presenza sociale. La forma partitica, anche nel loro caso, ha costituito quella più rispondente alle esigenze degli omologhi movimenti politici moderni, e a partire da Murri essa è stata accolta in Italia dai cattolici come il riferimento spontaneo per quanti avessero voluto aderire all’impegno sociale dismettendo ogni riserva di principio sulla vita politica nazionale.

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Ma proprio la dimensione “nazionale” dell’impegno politico dei cattolici rappresenta per essi una riduzione dei princìpi morali universali della loro ispirazione religiosa in termini di mondani interessi particolari che inevitabilmente determinano l’assunzione di posizioni pratiche contrastanti la costituzione fondamentale dell’unità spirituale del corpo mistico cristiano. Con la riduzione partitica, la dialettica evangelica dei due poteri, spirituale e politico, diventa, da affare di coscienza individuale, situazione politica collettiva, nel cui ambito deontologico la possibilità di una riserva morale sull’attività dello Stato e dei gruppi politici nazionali, ha una portata socio-culturale di rilevanza etica ben diversa dalla riserva di singoli cittadini la cui condotta etica è ispirata da valori assiologici religiosi. Un partito politico “nazionale” non può mediare tra ragione di Stato e ragione di fede, aderendo con riserva morale alla vita politica nazionale e costituendosi eventualmente come il luogo istituzionale di una sintesi tra valori e necessità, assumendo una funzione, magari più avanzata, ma comunque parallela a quella assolta tradizionalmente dalla Chiesa. E per la semplice ragione che tale ruolo parallelo, per principio, può essere svolto solo dallo Stato, quale luogo della sintesi etico-politica del governo societario. Una siffatta idea di partito-stato appartiene a visioni totalitarie della politica, che confondono la politica di parte con l’interesse generale. Per scongiurare tale deriva totalitaria, il partito dei cattolici intese la sua laicità politica come una dissociazione ideale tra le personali ispirazioni dei singoli aderenti e la pratica dell’azione politica organizzata, secondo una logica machiavellica ispirata al più spudorato cinismo autoreferenziale, subendo tutte le contraddizioni ideali e le incongruenze pratiche che affliggono l’attività della Chiesa a un tempo pastorale e statuale. Infatti, il carattere totalitario delle ideologie statalistiche del sec. XX, deriva non dal loro immanentismo storicistico, poiché il modello teologico di tale immanentismo storicistico è quello cristiano, che nella persona del Cristo rinviene sia la essenza finita dell’uomo fisico che la presenza spirituale del divino. Il carattere totalitario di quelle ideologie deriva loro dall’assunzione della logica conflittuale della socialità politica come modalità necessaria e insuperabile della convivenza umana, secondo la concezione antropologica propria della civiltà classico-pagana. Diversamente da questa visione dell’uomo come “animale politico” e della sua esperienza esistenziale come relazione conflittuale derimibile solo giuridicamente dalla forza

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superiore del potere statuale, il quale costringe l’anarchica libertà del volere individuale a riconoscere la legittimità delle altre volizioni individuali, la visione cristiana dell’uomo e della sua esperienza esistenziale viene informata a una antropologia spiritualistica, la cui legge di relazione sociale non è la discriminante politica amico-nemico, ma il principio della carità, fondato sul libero riconoscimento del prossimo come essere consustanziale e fraterno in Cristo, anziché con-cittadino suddito dello Stato. Si è alquanto equivocato, in passato e anche recentemente, sulla essenza del rapporto del divino con l’umano, contrapponendo, a seconda dei casi, la prevalenza dell’uno all’altro termine per giustificare, in nome della “incarnazione”, il carattere divino dell’uomo, ovvero il carattere umano del divino. In realtà, i due elementi della natura umana sono compresenti nell’uomo spirituale ma distinti nell’uomo empirico, al quale soccorre la libera scelta morale per trascendere spiritualmente la sua natura finita. Il carattere totalitario dello statalismo etico, non deriva dunque, come generalmente si crede, dal suo immanentismo, il quale intende anzi affermare la realtà dei valori nella dimensione sociale, contro ogni relativismo etico e ogni prospettiva nichilistica della storicità umana; ma gli deriva dalla falsa concezione che stabilisce l’equivalenza, e dunque l’identità, del piano divino con quello umano, il quale ultimo diventa così il piano reale rispetto a quello astrattamente ideale, e quindi dall’assunzione della realistica ragione politica come strumento operativo della contro-rivoluzione reattiva al nichilismo, sia borghese che marxista. Ma proprio la strumentalità politica delle “religioni secolari” ha dimostrato l’intrascendibilità spirituale della visione naturalistica dell’uomo come animale sociale, e viceversa la validità della visione spiritualistica dell’antropologia cristiana proprio ai fini del superamento morale della logica conflittuale insita nelle forme politiche di socialità. Trasformandosi in “partito” il movimento cattolico (o genericamente cristiano) deve accogliere la logica politica come ideale regolativo del proprio piano d’azione, sconfessando così sul piano effettuale la consapevolezza che la cultura cattolica più avveduta ha circa il fallimento storico della pretesa ideologica avanzata dal razionalismo moderno di far assumere alla politica i compiti tradizionalmente spettanti alla morale, e quindi allo Stato il ruolo della Provvidenza. Proprio la conferma cattolica dell’inevitabilità dell’impegno

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politico organizzato a scopo risolutivo delle contraddizioni della vita sociale, rappresenta la resa forse più significativa alla cultura razionalistica, edulcorata dalla professione ideologica “democratica” in termini anti-totalitarii e individualistici, secondando surrettiziamente così la tendenza propria alla tradizione secolare di origine teologica protestante. L’equivoco democratico, tendente a salvare il regime delle rappresentanze liberamente competitive per il potere, dal crogiuolo olistico delle ideologie totalitarie, viene di fatto smascherato dalla prassi non meno machiavellica delle politiche democratiche, le quali hanno accelerato, anziché frenato, il processo di scristianizzazione delle società occidentali, comprese quelle europee cattoliche, avviato a seguito delle concezioni immanentisticorazionalistiche della Storia. Il passaggio dall’atteggiamento anti-statalistico del movimento cattolico italiano, a quello nazionalistico filo-democratico risale simbolicamente a un discorso di Luigi Sturzo del dicembre 1905 su I problemi della vita nazionale dei cattolici, in cui il prete siciliano avanza esplicitamente la proposta della costituzione di un partito laico al fine della partecipazione dei cattolici alla vita dello Stato risorgimentale dopo la revoca del “non expedit”, parlando del “problema nazionale come una sintesi di tutti i problemi del vivere civile”, e distinguendo dalla “vita spirituale” dei cattolici quali “congregazione religiosa”, la “ragione di vita civile” dei cittadini seguaci dei “principi cristiani nella morale […] nel concreto della vita politica”. Con questo proclama Sturzo chiamava a raccolta i cattolici non come “depositari della religione […] ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale” che si rifaceva alla “civiltà cristiana”. Prima che lo facesse il fascismo e il comunismo, il cattolicesimo politico si proponeva quale mediatore politico e rappresentante della società civile di estrazione nazional-popolare, ossia di quelle ampie fasce sociali che l’organizzazione dello Stato liberale aveva lasciato ai margini della vita politica italiana, e che erano depositarie di una cultura ancora radicatamente pre-moderna e impregnata di valori religiosi tradizionali. La forte novità dell’impostazione popolaristica sturziana, che sarà emulata sia dal fascismo che dal nostrano comunismo gramsciano, rispetto alla tipica concezione liberale della politica, consisteva nell’assunzione della rappresentanza politica di interi blocchi sociali, trasformati in referenti elettorali di un partito, non più di singoli aderenti, ma stabilmente organizzato e di massa,

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depositario di una visione ideologica della società e dello Stato, concorrente e alternativa a quella della élite liberale, politicamente dominante ma socialmente minoritaria. L’aspetto rivoluzionario latente in questa impostazione democratica della politica dei cattolici, si palesò allorquando i loro dirigenti politici declinarono l’invito giolittiano a salvare lo Stato liberale dal fascismo incombente, unendosi di fatto ai socialisti nel favorire la rivoluzione nazional-popolare eversiva dell’ordine liberale, sia pure di segno fascistico e non cristiano. Il cattolicesimo democratico si pose oggettivamente in concorrenza col movimento socialista per il controllo delle masse popolari, nella prospettiva comune di trasformare lo Stato oligarchico liberale in uno Stato popolare di forma democratica. Tra i due rivali democratici la spuntò la rivoluzione fascista, che del nazionalismo incarnò l’ideologia più estrema e coerentemente anti-liberale, perché antiparlamentarista e neutrale verso i valori. Il fascismo fece del partito la sede ideale dell’interesse generale e dello Stato nazionale il luogo istituzionale della potenza. Interesse e potenza “democratici” per principio. Nella realtà istituzionale e culturale del liberalismo storico, abbracciare la prospettiva “nazional-popolare” significava costituirsi oggettivamente come un movimento rivoluzionario, sia pure non concretamente eversivo, come invece lo sarà il fascismo in virtù del suo esplicito decisionismo antiparlamentaristico. Rispetto alla democrazia “liberale”, quella “nazional-popolare” propugnava un’altra forma di Stato e un’altra organizzazione sociale ed economica, improntata ai valori del consenso maggioritario e alla rappresentanza degli interessi delle masse emarginate dallo Stato elitario e dalla società borghese, diretta da una “classe non-classe” sedicente rappresentante degli interessi della nazione ideale. Come ben intese a sua volta Gramsci, il popolarismo cattolico rappresentava sul piano ideale l’affermazione del primato della prassi sulla morale, e cioè della politica sulla religione nella direzione degli affari umani, per cui l’inserimento delle masse cattoliche nell’agone politico nazionale avrebbe determinato anche la loro partecipazione ideale alla logica del conflitto come cultura sociale. Ed è esattamente l’affermazione di tale primato del politico il senso essenziale delle democrazie di massa, che si distinguono dalla concezione liberalistica della società politica per la estensione della teoria della rappresentanza politica in ogni ambito della vita umana, compreso quello dei

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valori, dell’arte e della cultura, facendo così della sfera dello Stato il luogo rappresentativo per eccellenza dell’esistenza umana, e della prassi politica il metodo risolutivo delle sue sociali e personali contraddizioni. La logica delle rappresentanze parlamentari richiamava in qualche modo l’ideologia assembleare del governo della Chiesa da parte delle rappresentanze ecclesiali di base, e perciò fu sempre avversata dal centralismo papista, che trovava nel decisionismo fascista un’assonanza ideale preferenziale rispetto alla stessa prospettiva cattolico-democratica, pericolosamente esposta alla deriva democraticistica di matrice liberalparlamentare, quale sua versione appunto popolarista. Il decisionismo fascista fece la differenza rispetto alla prospettiva popolarista sturziana nel favore del cattolicesimo anti-liberale, diffidente verso l’attività parlamentare laicista dello Stato liberale, e questo favore fu decisivo per le sorti della rivoluzione fascista, che dava il colpo di grazia al regime nato da Porta Pia, e soprattutto per il consolidamento del nuovo regime politico concordatario, che riaffermava, anche attraverso la sanzione religiosa, il primato della gerarchia nell’ordine sociale su quello della rappresentanza politica della cittadinanza. L’idea di un accordo con Cesare ai fini di una regolamentazione morale della sua politica (l’ipotesi delle “mani tese” di p. Fessard), rifletteva la teoria del primato politico della morale sulla stessa politica; teoria che non coglieva l’assolutezza del lato demoniaco del potere, propugnata congiuntamente sia dallo scientismo agnostico che dal nichilismo ateo, che sono forme di sapere amorali per definizione. E proprio sulla politica come scienza del governo sociale era fondata la nuova sociologia del potere totalitario di ogni indirizzo ideologico, coscientemente assunto come fondamento puramente mitico di legittimazione razionale. L’antitesi contro-rivoluzionaria fascista alla rivoluzione nichilista del marxismo segnava comunque, con il primato della politica, anche il rinnegamento di fatto della cultura sociale cristiana, che già Scheler aveva denunciato come peccato comune delle nazioni europee fratricide nella prima Guerra mondiale. Ma la pratica concordataria della Santa Sede, sconfessando il popolarismo sturziano, ne confermava nondimeno lo spirito omologante del suo nazionalismo politico, distinto dalla sua prospettiva democratico-parlamentare, cioè dal suo liberalismo istituzionale. 8. Ciò che nel primo dopo-guerra era riuscito al

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fascismo in chiave anti-parlamentare, nel secondo dopo-guerra riuscì al nuovo popolarismo cattolico in chiave filo-parlamentare. E ciò che allora era stata la “nazionalizzazione delle masse”, divenne poi la loro “parlamentarizzazione”, versione cattolico-liberale della democraticizzazione dello Stato e della società. In entrambi i casi, i rispettivi regimi “nazional-popolari” segnano, in maniera ideologicamente diversa, l’inserimento delle masse italiane nello Stato-nazione. Se non si coglie bene il rapporto storicoideologico tra nazionalismo e democrazia, non si può comprendere il senso essenziale del processo politico post-liberale del Novecento, ovvero la natura filosofica del totalitarismo come affermazione del primato della prassi politica sul coscienzialismo morale. Tale primato della prassi collettiva sul pensiero individuale ideologicamente caratterizza ogni forma di democrazia, ovvero l’ideologia democratica in ogni sua forma storica, differenziandosi dall’ideologia liberale che è caratterizzata dalla distinzione tra volontà politica e valore etico, e dalla opposizione tra libertà di pensiero e obbligatorietà dell’azione, tale che tra i due momenti non possa mai costituirsi una relazione di identità logica ma solo una mediazione razionale. Rispetto al paradigma liberale, sia il soggettivismo idealistico, che riduce ogni realtà molteplice all’Essere del pensiero, che il collettivismo materialistico, che viceversa riduce ogni valore trascendente a forma di ontologia sociale, sono varianti speculari del riduzionismo totalitario, le cui astratte forme teoretiche possono storicamente convertirsi nel loro reciproco opposto pratico, per la tipica dialettica di ogni posizione ontologica astratta. E difatti, il soggettivismo mistico si converte in economicismo individualistico e quindi entrambi in dittatura democratica del consenso politico e del mercato. O altrimenti, il liberalismo del governo del diritto si converte in parlamentarismo delle rappresentanze politiche, e questo a sua volta in leaderismo carismatico e governo demiurgico decisionistico. L’inizio ideale della crisi del liberalismo storico è segnato appunto dal passaggio alla dimensione “nazionale” – e cioè alla politica democratica – dei valori etici universali propugnati dal mondo della cultura e della religione, custodi della tradizione spirituale della civiltà europea. La nazionalizzazione dei valori morali e ideali ha segnato nel contempo la fine dell’universalismo cristiano, fautore e testimone di un’identità culturale decisamente meta-politica e transnazionale, consegnata al foro interiore e

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costitutiva di un ordinamento comunitario (ordo amoris) la cui logica socialitaria era per principio alternativa alla società politica (ordo civilis). Se il collante comunitario della fede è mistico, e fondato sulla carità quale libero riconoscimento dell’altro come sé distinto, il collante della socialità politica è economico, e fondato sul riconoscimento polemico del sé come rivale dell’altro. Aver accettato la logica della società politica, ossia l’interesse del proprio partito contro gli interessi concorrenti delle altre parti sociali politicamente rappresentate, ha significato per l’unità mistica dei cristiani una contraddizione che si è riflessa nella realtà pratica nei termini del loro coinvolgimento attivo al processo di secolarizzazione dei valori sociali già religiosi e di un contributo fattivo, sia pure per eterogenesi dei fini, all’affermazione della cultura relativistica del positivismo e del primato della filosofia della prassi sul pensiero speculativo. Non a caso, nel secondo dopo-guerra, l’affermazione di regimi democratici di ispirazione cristiana ha coinciso con l’accelerazione di quel processo e la progressiva affermazione, con l’ideologia democraticistica, di una cultura edonistica e idolatrica, negatrice di fatto dei valori spirituali cristiani e della morale caritativa dell’ “ordo amoris” a favore di una esclusiva logica economicistica e materialistica, sembrando confermare la predizione positivistica del definitivo tramonto della cultura metafisicoreligiosa. L’accoglimento della logica politica, prima nazionalistica e poi democratico-universalistica da parte della cultura cristiana, ha segnato la fine dello spiritualismo cattolico nella stessa cultura popolare delle masse da millenni evangelizzate, proseguendo nel processo di negazione della civiltà cristiana che già Scheler aveva registrato con l’avvento della prima Guerra mondiale fratricida. Il rapporto teoria-prassi, a seguito del progressivo coinvolgimento delle masse nella vita politica degli Stati, ha dislocato i termini della dialettica intellettuale dallo scontro ideale a quello politico, trasformando quella che era la logica apofantica delle categorie aristoteliche in ragioni ideologiche di sostegno sofistico alla prassi. Lo scadimento teoretico della cultura filosofica ad uso politico si è manifestato nella cultura delle masse ideologizzate come rappresentazione mitologica della realtà, che ha costituito il contenuto delle “religioni secolari” polemicamente contrapposte. In tal senso, la cultura religiosa popolare tradizionale è servita, proprio in virtù della sua impermeabilità alla cultura moderna secolarizzata, all’uso strumentale

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delle nuove forme ideologiche di religiosità, per cui proprio il confidamento sulle risorse morali della cultura popolare in senso conservatore dei valori della tradizione religiosa si è rivelato il più illusorio, dal momento che proprio le masse religiosamente educate si mostrarono fortemente ricettive delle nuove verità di fede ideologica, operando una sbrigativa rimozione di tutte le lunghe sedimentazioni della tradizione. Questo fenomeno di conversione di massa dei popoli cristiani alle nuove ideologie politiche del tempo, non soltanto segnava di fatto il declino dell’influenza delle chiese tradizionali sulle stesse masse, ma indicava anche l’inefficacia del linguaggio simbolico della metafisica cristiana rispetto al nuovo contesto ermeneutico delle rappresentazioni scientifiche della realtà, al cui confronto il geloso monopolio ermeneutico del sapere tradizionale da parte della Chiesa si è rivelato un’inutile custodia reliquiaria di una cosmologia che aveva esaurito il suo valore esplicativo di senso nel mondo della vita. La stessa apertura della teologia cattolica alla cultura moderna prima ufficialmente stigmatizzata, tradiva una debolezza ideale confermativa della debolezza morale dimostrata con la politica concordataria, che di fatto aveva simbolicamente abbandonato le masse alla manipolazione ideologica dei regimi totalitarii. Il mondo dello spirito interessato alla salvezza eterna, dialogando con gli indirizzi di pensiero moderni, prima respinti come insidiose eresie, palesava la sua sostanziale estraneità dal mondo pratico della salvezza quotidiana, regolato dalla politica e dall’economia, scienze mondane per definizione. La “estraneità della religione dal mondo del lavoro”, che tanto preoccupava Paolo VI, non marcava una distanza puramente psicologica delle masse operaie dai centri tradizionali di formazione religiosa, ma stabiliva ormai un percorso formativo alternativo a quello spirituale, di carattere appunto politico e ideologico, più funzionale ai tempi di sviluppo capitalistico. 9. La democratizzazione delle società europee cristiane ha concluso il processo di scristianizzazione dell’Europa iniziato dal razionalismo, originariamente nel solo campo teoretico-scientifico, e quindi esportato in ambito socio-politico, e segnato simbolicamente dalle rispettive “rivoluzioni”: quella copernicana e quella francese. La prima, idealmente liberale, in quanto circoscritta per statuto epistemologico alla sola realtà metafisica della verità di ragione, senza coinvolgere in modo deliberato e sistematico la

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verità di fede del senso comune. (Quanto questa “doppia verità” avrebbe poi inciso in senso relativistico sulle coscienze cristiane dimidiate tra opposte istanze morali, è qui solo possibile ricordare per inciso.) L’altra “rivoluzione”, scientemente invasiva e corrosiva di ogni ambito culturale e istituzionale tradizionale, facendo della lotta alla tradizione valoriale comune alle genti cristiane il suo punto programmatico essenziale, aprendo a sua volta la strada intellettuale al positivismo teorico. Con la democratizzazione delle società europee si conclude storicamente il programma politico rivoluzionario di neutralizzazione della cultura spiritualistica e metafisica del Cristianesimo e del suo umanesimo personalisti stico, soppiantati da una visione naturalistica e socio logistica di segno neo-pagano, il cui razionalismo positivo ha rimosso dall’orizzonte ideale ed esistenziale dell’uomo la realtà del “regno dei cieli”, a favore dell’esclusivo regno mondano, antonomasticamente diabolico e dominato da Mammona e da Cesare. La democrazia ha segnato, con la resa ideale e pratica, dei cattolici ai tempi, il trionfo del regno di Cesare, ossia della logica politica contro la quale si è immolata l’umanità naturale del Cristo per affermare l’umanità spirituale del nuovo Adamo. La distinzione politologica e sociologica dei distinti regimi storici della “rivoluzione”, è tutta interna alla dimensione profana di una storicità senza più fine escatologico trascendente e perciò senza scopo di salvezza. La fine della metafisica della trascendenza non è segnata dall’immanentismo, così come l’ateismo non è in sé identificabile col razionalismo. L’immanentismo e il razionalismo, quali metodologie gnoseologiche, possono essere al servizio della verità di fede ovvero negarla in nome di un’altra fede, a suo modo religiosa, anche se di segno negativo, e cioè scettica e relativistica, interamente legata alla dimensione ontologica del Molteplice e del divenire degli enti mondani. Entro questa esclusiva dimensione naturalistica ed empirica trova il suo ambito di verità la logica politica dei puri rapporti di forza, legati alla necessità della sopravvivenza biologica, in cui ogni ragione è di tipo economico e ha senso teoretico ed esistenziale solo in quanto pragmaticamente funzionale ad essa. Il totalitarismo politico è l’espressione fenomenica strutturata in regime socio-politico statuale dell’esclusiva logica polemica dell’economicismo mondano e dell’etica naturalistica neo-pagana. In tal senso la sua “lotta contro la trascendenza” è la trascrizione ideale della tendenza pratica ad

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affermare la logica del dominio della volontà politica del demiurgo, quale ragione stessa della potenza dello Stato-nazione, sulle masse ideologizzate in senso nichilistico. L’esito nichilistico di questa tensione ideologica è insito nella negazione della validità di ogni statuto ontologico alla realtà spirituale, ridotta a credenza privata di nessuna rilevanza pubblica, riservata invece alla sola dimensione politica, regolativa dei rapporti tra enti umani naturalistici. Ma la possibilità dell’affermazione politica di un’ideologia naturalistica nell’ambito dei rapporti pubblici non si sarebbe mai potuta conseguire effettualmente e non avrebbe mai invaso l’ambito della vita privata senza il previo riconoscimento morale della legittima – ossia razionalmente fondata - autonomia della politica come valore idealmente autonomo solo perché scientificamente definibile sulla base di un proprio statuto epistemologico. L’autonomia della scienza dalla teologia, e quindi della politica dalla morale, avvertita per tempo come conquista dello spirito scientifico della ragione emancipata, riproponeva surrettiziamente quella distanza tra cielo e terra che abbandonava al potere di Cesare il dominio del mondo. Da questo assunto autonomistico razionalistico derivava la legittimazione etica dell’uso sistematicamente razionale della forza come espressione della distinta logica politica. Il trasferimento dell’universalismo disciplinare della scienza politica come criterio metodico di dominio sociale, fa del governo razionale dello Stato un potere scientificamente strutturato, cioè idealmente auto-referenziale e indipendente da ogni finalismo morale. La condizione della legittimazione razionale del governo scientifico della società è che l’uomo sia considerato un ente naturale, e come tale oggetto di conoscenza scientifica al pari di ogni fenomeno della natura. Solo infatti se ridotto antropologicamente a specie zoologica, priva di ogni referente spirituale trascendente e divino, l’uomo può essere considerato strumento di uno scopo sociologico di potenza politica. In questo orizzonte positivistico va compreso sia il nazionalismo, con le sue propaggini imperialistiche di carattere statalistico, che il democraticismo, con la sua logica economicistica di proiezione universalistica. Per un cristiano, fautore di un’antropologia spiritualistica, voler parteggiare a favore di uno o altro regime politicistico ed economicistico, segna comunque una resa a Satana e a Cesare, cioè al materialismo, e non allo storicismo e all’immanentismo in quanto tali. Infatti, col Cristianesimo, la cultura religiosa di origine ebraica diventa

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immanentistica, essendo la nuova realtà di fede incarnata nel tempo, e perciò non solo più spiritualistica ma anche storicistica perché universalistica, e razionalistica in quanto trascendente la mera dimensione etnico-nazionale della salvezza. L’irenismo universale e storico è meta-nazionale, ed è fondato su un’antropologia spiritualistica, il cui senso unitario prefigura una Storia del genere umano. Fuori della prospettiva cristiana della salvezza spirituale come superamento della finitezza della sua condizione naturale, la Storia dell’umanità torna ad essere “nazionale”, cioè etnica e naturalistica, costellata di una fatticità meramente empirica. In questa dimensione dell’assoluta finitezza, il cui senso esistenziale è dato dagli stessi rapporti politicoeconomici tra gli uomini e tra i gruppi, vige la regola del conflitto e della potenza materiale, non certo quella della carità fraterna e della solidarietà umanitaria. Il conflitto che si stabilisce tra lo spiritualismo cristiano e il positivismo, materialistico o idealistico, non è tra organismi storici che si contendono un primato interno a una stessa logica rappresentativa dei valori comuni, ma inerisce due visioni antropologiche fra loro alternative, che non possono convivere stabilendo rapporti giuridici di reciproco riconoscimento, mancando loro un ambito valoriale comune che renda moralmente cogente il principio che pacta sunt servanda, mancando loro un comune fondamento ontologico. La pratica pattizia, complementare o propedeutica a quella della segregazione etnica o religiosa, non è un’esclusiva fascistica, ma viene praticata quale criterio di soluzione politica nei casi di ritenuta incompatibilità sociologica tra visioni antropologiche reciprocamente in sussumibili. Si pensi alla ghettizzazione dei nativi amerindi dal sistema democratico-capitalistico degli USA. Intuizioni della vita alternative, che sono fondate su credenze che si escludono a vicenda, coinvolgono fini contraddittori non derimibili sul piano dei princìpi, la cui compossibilità pratica è legata alla sospensione del giudizio logico in ambito di rilevanza pubblica, dove si fanno valere prioritariamente regole di opportunità, la prima e più importante è quella della conservazione politica della vita sociale politicamente definita. In altri termini, l’apparente pluralismo dei moventi ideali e dei fini pratici ammesso dalle carte fondamentali degli Stati liberal-democratici, incontra il suo limite insuperabile nel principio fondativo della stessa socialità. Se tale principio è politico, la ratio che sostiene il sistema sociale non può non essere anch’esso politico, ossia omogeneo idealmente al fondamento di validità

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sociale. Se, viceversa, il fondamento di socialità è spirituale, la deliberazione di immolarsi per la salvezza dell’anima non è meno razionale dell’intento del soldato di uccidere il nemico sconosciuto per onorare la patria. Sono due logiche diverse la cui razionalità alternativa non può servire due padroni. E nella scelta della sua priorità valoriale consiste la libertà dell’uomo, la necessità cui soggiace la sua natura finita, alla quale lo stesso Verbo si è piegato incarnandosi. La finitezza umana non può essere superata da una scelta definitiva, ma può essere solo tra svalutata, sogguardata cioè nella sua verità ontologica, e mostrata nella sua caduca inseità, dalla prospettiva dell’eterno, che è quella appunto dello spirito, il cui “regno” è altro da quello del mondo. Il comportamento umano, dal punto di vista dell’eterno, è quello informato ai princìpi della morale spirituale, non a quelli dell’utile, propri della logica economicistica della società politica, dell’ordo socialis naturalistico. L’uomo può scegliere a quale dei due regni ispirare la sua condotta, e in questa possibilità risiede il suo dovere morale ovvero politico. La dimensione della necessità è quella della natura, dei rapporti bio-fisici, ma quella del dovere è la dimensione della cultura, cioè della formazione spirituale dell’uomo. Se questa dimensione viene estromessa dalla sfera pubblica, questa diventa l’agone delle relazioni polemiche, la cui libertà dev’essere comunque regolamentata perché sia comune alle parti e non sbilanciata in senso leonino a favore del più forte. La giustizia equitativa è un correttivo alla libertà individuale che, fissando le regole del gioco delle parti, fissa nel contempo anche i limiti della libertà individuale. Segno che questa non può costituire un valore assoluto, e che prima di essa c’è il bene supremo del gruppo sociale. La dimensione della doverosità è stabilita su un rapporto di consapevole dipendenza da un principio autoritativo superiore alla volontà individuale. In questo ambito non c’è limitazione alla libertà previamente asserita come prioritaria, poiché il rapporto di dovere è in sé stesso una deliberata volontà di auto-limitazione della propria libertà, che si arresta spontaneamente di fronte alle ragioni superiori della morale. In questa deliberazione volontaria e non costretta, il soggetto morale concepisce la sua libertà, cioè il suo dovere. In tal senso, la giustizia non è vista come l’intervento esterno di una forza di equilibrio limitativa della libertà, ma come il principio regolatore dei rapporti, senza il quale non ci sarebbe la stessa libertà. In altri termini, nella sfera morale è il dovere che crea la libertà, la

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quale dunque ne dipende per la sua stessa esistenza, mentre nella sfera economico-politica è la libertà a fondare i suoi limiti equitativi, senza i quali essa esisterebbe ugualmente. E poiché la libertà per definirsi deve incontrare la sua opposizione che la neghi, questa in senso politico è una libertà concorrente, che avanza le stesse pretese di riconoscimento del suo opposto, e che perciò si scontra con esso per affermare se stessa. La lotta come principio di relazione sociale presume l’uguaglianza dei contendenti, in contesa per la reciproca affermazione. In senso morale, invece, la libertà è l’esito della auto-limitazione della volontà dell’attore, per cui il rapporto sociale si stabilisce sul previo riconoscimento dell’altro; riconoscimento che invece è l’esito della contesa politica. Nella sfera morale la prospettiva è rovesciata rispetto a quella politica, sicché ciò che è “folle”, ossia irrazionale, dal punto di vista polemico dei rapporti di forza sociali, è viceversa “valore” dalla prospettiva rovesciata della ragione morale, dove è libero chi rinuncia alla propria libertà di affermazione. L’azione morale, così come la salvezza dell’anima, è personale, e non collettiva come invece la salvezza politica del gruppo sociale. Il dovere della scelta, legato alla possibilità della libertà, è consustanziale alla immutabilità della finitezza umana, che dunque è il destino di ogni uomo, personalmente volto alla realtà eterna dello Spirito, e collettivamente costretto alla convivenza sociale. L’ideale “rivoluzionario” non riconosce la duplice essenza ontologica dell’uomo, ma la ritiene una creazione ideologica, un mito funzionale alla volontà di potenza, per cui la coscienza di tale condizione artificiale consente di convertire l’uno dei due termini ideologici nell’altro, teorizzando pertanto la fattibilità della metabasi o “passaggio” dalla dimensione ritenuta “sacra” alla dimensione dei rapporti reali di forza, “profani”. Così, al posto della scelta di libertà personale e responsabilmente volontaria, che destina alla fine della Storia e del tempo la redenzione collettiva e il compimento dell’attesa escatologica, la “rivoluzione” intende realizzare la libertà collettiva entro il regno naturale della società, sconfiggendo la legge che la sostiene, quella della necessità, ritenendola illusoria e umana, attraverso l’azione irenica della politica, il cui ufficio demiurgico, scientificamente stabilito, sostituisce quello imponderabile della Provvidenza. La comunità dei cristiani non può mai costituirsi in “società” senza condividere la logica sociale della ragione politica, la cui logica è basata sul fondamento di una visione antropologica

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puramente naturalistica, che considera l’intuizione spiritualistica dell’uomo come una superfetazione ideologica e mitica. Il tentativo storico di costituire una società “cristiana” doveva fallire per le stesse e opposte ragioni ontologiche del fallimento del tentativo di istituire il regno della libertà socialista: perché il “passaggio” dall’uno all’altro “regno” non è disponibile dall’uomo ma costituisce l’esercizio della speranza di ogni coscienza di fede che liberamente e responsabilmente sceglie operando nel mondo nel senso dell’ossequio ad una o all’altra logica che rispettivamente lo sostiene. L’affermazione storica di uno o altro “regno” equivale alla fine della libertà di scelta personale, cioè di ogni responsabilità morale e alla fine della stessa duplice costituzione ontologica dell’uomo, pensato rivoluzionariamente in termini univoci, o come sola essenza spirituale ovvero come sola realtà materiale. L’essenza rivoluzionaria è legata all’universalismo escatologico cristiano, interpretato però in termini sociali, e non personali. La morale universale cristiana insegna che ogni uomo è persona spirituale, ma non che spirituale sia la condizione umana, legata invece alla sua natura finita. L’uomo è essere spirituale nella misura in cui si emancipa dalla sua natura finita, cioè dalla sua socialità economico-politica. Ma tale emancipazione non può essere collettiva se non superando la sua finitezza esistenziale, sovvertendo quindi l’ordine cosmico universale. Appunto con la “rivoluzione”. L’emancipazione spirituale fa della persona morale il soggetto della Storia, che è regno ideale, ma non il protagonista della società, che è regno politico, in cui vigono leggi economiche. I due piani di realtà non sono sovrapponibili, se non a condizione di una omogeneizzazione del soggetto spirituale all’ oggetto naturalistico del fenomeno economico, che riduce a sua volta la politica a pratica razionale, e cioè a gestione economica della società, che è il fine della visione positivistica della società. Il fallimento dei totalitarismi politici si inscrive nell’ideale positivistico di omogeneizzare il soggetto personale, con le sue istituzioni etiche, all’individuo economico della società razionalizzata, allo scopo politico di renderlo puro strumento della volontà del potere sovrano. Anche le visioni idealistiche opposte a quelle materialistiche sono dello stesso genere totalitario, in quanto concepiscono a loro volta il soggetto ideale astratto dalla sua realtà ontologica composita, e quindi a sua volta come “oggetto” intellettualisticamente “reale” anche in senso

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empirico-esistenziale. Ma il fallimento storico dei totalitarismi positivistici era già stato sperimentato dalla cristianità romano-cattolica, la cui pretesa totalitaria generò dapprima lo scisma spiritualistico del protestantesimo, e quindi lo scientismo materialistico del razionalismo: ideologie astratte che, come ogni pensiero astratto dell’Essere, si convertono nel loro opposto. E così Lutero e Machiavelli, partiti da posizioni ideali opposte, si ritrovano congiunti a condividere la paternità filosofica dell’età moderna. Infatti, dal protestantesimo nacque il capitalismo, come emancipazione economica universale del soggetto originariamente spirituale; e dal razionalismo materialistico nacque il democraticismo, come emancipazione politica universale del soggetto coscienziale. Il loro rispettivo “universalismo” costituisce l’ideale della loro “fede” nella conversione del genere umano alla rispettiva visione ideologica, oggetto della loro “religione civile”. Un pensiero autenticamente spiritualistico, orientato dalla fede nella verità e sostenuto dalla ragione umana che vicendevolmente si giustificano, non può preferire una ad altra logica totalizzante, ossia uno o altro regime sociale che se ne faccia l’interprete empirico, ma deve coscientemente promuovere quelle forme di convivenza umana che garantiscano alle persone, nella loro singolarità spiritualmente irriducibile, di poter vivere al loro identità morale senza coltivare alcuna pretesa totalitaria che infici l’insopprimibile natura della finitezza umana, ossia la sua naturale tendenza socialitaria. In tal senso, e a tal fine, solo un potere politico che garantisca le libere formazioni etiche tra persone può garantire una socialità non ideologicamente esclusiva, e cioè metafisicamente monistica. E solo a questa condizione, ossia che riconosca il dualismo ontologico caratteristico della duplice natura umana, può definirsi “liberale” in senso spiritualistico e antropologico. Un tale sistema di convivenza non può assegnare alla politica alcun primato ideale o sociale, ma solo il compito di un servizio pubblico subordinato ai princìpi regolativi della morale, trascendenti ogni contingente necessità politica perché non disponibili dalla volontà umana, in quanto “veri”, e come tali “sacri”, e non già “ipotetici” e “scientifici”. E perciò quel sistema non può essere “democratico” allo stesso modo in cui non può essere “integralistico”, poiché la sua razionalità sistemica non deve essere per principio razionalisticamente “totalitaria” o spiritualisticamente “ascetica”, ossia

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oppostamente assolutistica. Il sistema liberale, riconoscendo il dualismo ontologico dell’essere umano, non può essere egalitario ma strutturalmente gerarchico, in ossequio alla priorità ideale assegnata alla libertà personale sulla economica necessità sociale. Infatti l’egalitarismo genera il conflitto per il reciproco riconoscimento sociale, ossia quel dominio della politica, negatore della libertà di scelta, che fa della dimensione pubblica l’agone della forza, e del contingente potere politico un’ipotesi razionalmente valida fino all’empirica smentita della sua efficacia. Aver trasformato in consenso elettorale interno agli Stati il momento della verifica che i sistemi assolutistici delegano all’esito delle guerre tra Stati, non elimina il carattere meramente ipotetico, e quindi arbitrario, della forza politica intesa come pura volontà di affermazione sociale. Rispetto alle differenze di credo religioso, le distinzioni politiche fondate sulla pura affermazione di potenza della volontà razionalisticamente auto-referente, hanno la caratteristica di non poter essere emendate da una ragione superiore a quella sistemicamente economica, per cui è nella logica della politica di potenza essere smentita da una potenza superiore, ossia da una volontà più forte. Ed è all’interno della logica polemica tra tesi volitive o “opinioni”, che nasce la visione relativistica della Storia come arbitraria e mistificante posizione e svalutazione di valori, di cui il nichilismo sia il suo principio di “legalità”. Il principio opposto a quello della politica come conflitto per il riconoscimento reciproco dei singoli e della supremazia di un gruppo sociale sugli altri, è quello della carità, che pone la libertà, e non la necessità, a fondamento del riconoscimento personale e sociale tra gli uomini, assunti come esseri distinti ma non opposti. La “distinzione”, che è attività teoretica del pensiero, genera la scelta tra le differenze, e quindi fonda la libertà di giudizio morale. La “opposizione”, di contro, che è attività pratica della volontà, ingenera conflitto e compromesso pattizio, che è tregua diplomatica solo sospensiva della lotta politica, consustanziale alla vita economica stessa degli Stati. La opposizione tra tesi antagoniste ricerca una sintesi risolutiva, che è la tesi più forte. La distinzione, invece, ricerca la mediazione non risolutiva di una tesi (più forte) nell’altra (più debole), perché nel campo teoretico la forza della ragione, che è quella della fede, vale più della ragione della forza che fonda l’opinione politica. La fede è libertà, non necessità, e la libertà,

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diversamente dalla necessità imposta dalla forza, in quanto atto di responsabilità, non è mai risolutiva delle scelte esistenziali. La volontà soggiogata ha la sua costretta libertà nella necessità della forza che l’opprime, e cioè nell’altro che la nega. La volontaria ammissione dell’altro fa del riconoscimento della libertà altrui l’essenza della propria, di cui l’auto-limitazione è la forza della coesistenza delle libere diversità. L’opposizione è attività politica in quanto le singole volontà sono componibili in un interesse comune rappresentabile verso altri interessi concorrenti degli opposti gruppi sociali che aspirano al riconoscimento del valore pubblico dei loro rispettivi interessi. La distinzione è invece opera del pensiero, attività teoretica propria della coscienza critica dei singoli soggetti spirituali, che inerisce la libertà di giudizio e di convincimento morale. In considerazione della libertà di giudizio della coscienza critica, la sua scelta, che è razionale in quanto spirituale e non politica, non può essere rappresentabile come un oggetto di contesa, derimibile per accordo delle parti conflittuali. Il contenuto di credenza non può essere negoziabile. L’attività dialettica non è assimilabile a un negotium, così come un dibattito filosofico o teologico non è assimilabile a un dibattimento giudiziale o parlamentare. Nel primo caso, la forza del deuteragonista è nel potere della persuasione razionale; nell’altro caso, la persuasione dell’avversario è nella forza. E la forza della ragione non è nel numero dei suoi credenti, cioè nel suo potere politico, soggetto a smentite che niente hanno a che fare con la veridicità delle posizioni ideali. Solo un regime liberale può farsi garante del primato della coscienza, anche politicamente minoritaria, e cioè della libertà di fede e di pensiero, sulla ragione politica e sul primato dell’opinione sociale maggioritaria. Il personalismo cristiano non può dunque che essere “liberale”, e giammai “nazionalista” o “democratico”, ossia politicamente “totalitario”. Esso non può identificarsi con le ragioni di una parte sociale contro altre, fosse pure la più numerosa e bisognosa. Infatti, una religione dei “poveri” implica e legittima una politica per il “popolo” come ente sociale privilegiato, che lascia indeterminato e perciò aperto il conflitto politico delle rappresentanze; conflitto negatore della carità, che è distinzione senza conflitto e libero convincimento personale. Il gruppo politico è fondato su interessi concorrenti a quelli di altri gruppi sociali, e che esso sia costituito da classi economiche, o tra nazioni o tra gruppi etnici, il suo principio di relazionalità è comunque ispirato

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dalla logica conflittuale del politico, contro la quale si è levato il magistero caritativo cristiano. La forza morale dirompente della predicazione di Cristo risiede nell’assumere quale valore antropologico, originario rispetto a quello sociale dei conflitti economici, quello della persona spirituale, la cui coscienza razionale e morale è un cosmo, e perciò indipendente spiritualmente da ogni contesto sociale in cui è inserito come soggetto economico- politico in virtù della sua individualità naturale. Trasferire la soggettività personale dal regno della coscienza razionale e morale a quello delle relazioni economicopolitiche, trasforma la cosmicità coscienziale in individualismo economico, in ideologia sociale, fondata su una astratta ipotesi ontologica. L’uomo naturale è sociale, e come tale la sua vita di relazione è economica e politica. Ma lo homo oeconomicus è un’ipostasi razionalistica, la cui realtà sociologica è legata alla sua storica possibilità di affermazione politico-culturale, cioè ideologica. Essa è un “mito”, che il crollo del regime socio-politico che su tale mito è giustificato razionalmente consegnerà alla storia delle credenze mitologiche. La realtà effettuale di ciò che non-è vero, cioè l’esistenza del Negativo come possibilità ontica, è la stessa possibilità del Male quale realtà della condizione finita dell’uomo privo della luce della verità. E l’esistenza del Negativo come realtà ontica è il risvolto fenomenico di un errore di cultura legittimato metafisicamente da una astratta visione ontologica dell’uomo e del mondo. Errore riscattabile teoreticamente solo in virtù di una ontologia della verità, che non sia la mera giustapposizione di un’altra visione mitologica sostitutiva di quella confutata dalla realtà empirica. Questa dinamica delle mitologie gnoseologiche è la “legalità della storia” mitologica, appunto, non certo quella della Storia spirituale della salvezza della coscienza dalla necessità della finitezza dell’esistenza naturale, finita per definizione quanto quella spirituale è eterna. Confondere i due distinti piani ontologici, significa ricadere nelle rappresentazioni mitiche, nelle astrazioni ideologiche dell’uomo e della società. 10. La forza spirituale della fede cristiana e della sua logica caritativa non risiede nella ricerca di una impossibile sintesi risolutiva della contraddittoria condizione umana, che nessun potere umano potrà realizzare sostituendosi alla Provvidenza. Infatti, la duplice condizione umana, sogguardata dal punto di vista di ciascuna delle due prospettive, diventa insostenibilmente

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contraddittoria e ed esistenzialmente impossibile, per cui sviluppa il bisogno di superarla giungendo a una visione superiore a entrambe, che alla fine si rivela solo una rimozione dell’una a favore dell’assolutizzazione dell’altra. Così ha operato l’idealismo platonico di fronte al dramma della decadenza della civiltà greca, e così ha operato il marxismo di fronte al declino della civiltà moderna, rovesciando l’astratto idealismo in opposto astratto materialismo. Il prodotto della “de-mitizzazione” razionalistica dell’idealismo platonico fu la filosofia di Aristotele e la sua metafisica naturalistica. L’equivalente moderno dell’aristotelismo è la filosofia di Marx, che opera in senso de-mitizzante criticando la metafisica di Hegel con gli strumenti teoretici della logica positivistica del razionalismo cartesiano. A partire da Cartesio, il processo di demitizzazione della cultura teologica europea conduce alla critica degli stessi fondamenti ontologici dell’Essere spirituale concepito dal Cristianesimo. In Germania la critica della logica raggiunse i risultati teorici più cospicui, giungendo, con Hegel nel sec. XIX, a una rielaborazione della stessa tradizione aristotelica e alla formulazione del nuovo metodo dialettico, e con Husserl nel secolo di poi alla determinazione fenomenologica dell’oggetto filosofico. Il tentativo comune ai due pensatori tedeschi era quello di “rivelare” la realtà del mondo e l’esserci dell’uomo traendoli dal loro nascondimento, e per tale via manifestare l’ente nel suo nudo fenomeno reale. In ogni caso, la vera realtà era quella rivelata alla luce della ragione metodicamente guidata; realtà vera che stava oltre il mondo-dellavita, delle sovrastrutture ideologiche e delle incrostazioni dell’esperienza volgare. Il motivo “idealistico” di questo pensiero critico riconfermava alla filosofia il compito di costituire il senso autentico della realtà come cognizione superiore rispetto a quella comune e apparente. Filosofare, ovvero pensare filosoficamente con metodo razionale, significava dunque ancora trascendere la realtà finita del mondo per assurgere alla sua dimensione ideale ed eterna, l’unica veramente “reale”. In Hegel, però, la ricerca della realtà, condotta con il metodo della logica dialettica, si svolgeva pur sempre all’interno di un orizzonte teologico, la cui visione della Storia come processo necessario e inevitabile assegnava all’accezione di “oggettività” dei risultati veritativi una connotazione metafisica spiritualistica che i suoi epigoni atei curarono di emendare in senso razionalistico, alla luce di un criterio “scientifico” di verità. Ed è qui che il materialismo scientifico –

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supposto erede del metodo dialettico hegeliano, ma non del suo sistema metafisico spiritualistico, entro la cui ontologia quel metodo era gnoseologicamente giustificato – incontra il positivismo e la sua legge dello sviluppo sociale come traduzione “fisica” del processo storico della salvezza spirituale. Così, la fede nello sviluppo spirituale divenne, nel positivismo scientista, fede nel progresso economico; e l’assunzione di tale progresso come condizione del benessere morale dell’uomo, finì per identificare tale progresso economico con la stessa civiltà, sviluppando una cultura economicistica e produttivistica, il cui polo dialettico al suo sociologismo materialistico fu la reazione dell’ideologia individualistica e anti-storicistica, che dichiarandosi cultura del relativismo di tutti i valori, si presenta come la loro estrema neutralizzazione filosofica, e conseguente rimozione dall’orizzonte di senso della dimensione pubblica. Ossia, l’opposto speculare delle tesi immanentistiche di Hegel. Ma proprio l’esito filosofico e ideologico-politico della revisione di Hegel conferma che il suo pensiero non è superabile in senso razionalistico, la cui logica astratta coincide con quella scientifica della fisica e della matematica, negatrice della stessa possibilità di una fondazione metafisica della verità. La critica di Husserl allo scientismo parte proprio dall’analisi delle problematiche legate alla conoscenza logica della realtà, confutando le pretese fisicalistiche dello psicologismo moderno. In questi termini, il pensiero di Husserl costituisce una ripresa della logica di Hegel contro il riduzionismo positivistico operato dal marxismo. Una logica, però, depurata di ogni spiritualismo storicistico e tendente quindi a una nuova forma di platonismo, il cui risvolto fenomenologico storicistico è il pensiero nichilistico di Heidegger. Il pensiero tedesco che giunge a Husserl, e che, a partire da Fichte, si sviluppa col Romanticismo, è essenzialmente anti-cartesiano, perché antirazionalistico e spiritualistico. L’essenza di questo pensiero anti-razionalistico e spiritualistico è il suo storicismo. Ma la Storia, quale realtà spirituale dell’esperienza umana nel tempo, è intuizione tipicamente cristiana, per cui lo spiritualismo tedesco – al di là degli influssi specifici della tradizione mistica - è incomprensibile senza lo storicismo cristiano. Ed è proprio la essenza “cristiana” dello storicismo hegeliano a caratterizzare il suo pensiero rispetto a ogni forma di storicismo razionalistico e di ateistico, per cui, voler indicare in Hegel la matrice dell’immanentismo ateistico, significa

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non comprendere il fondamento ontologico cristiano della sua metafisica spiritualistica, la quale concepisce il movimento della Storia come l’opera dello Spirito che continuamente trascende il finito, ossia la natura biologica dell’uomo. Per Hegel la libertà è lo sviluppo del processo del pensiero, il movimento delle deduzioni, oltre il quale si svolgeva il moto incomposto degli avvenimenti storici, incoerenti, passionali e accidentali. La dialettica non è che la logica di tale movimento ideale, consentito dalla presenza del negativo, che funge da stimolo al progresso, che quindi ha un movimento drammatico, di lotta tra tendenze opposte. Diversamente dal concetto platonico, immoto ed eterno, il concetto hegeliano è il prodotto di una immanente tensione, generatrice di movimento. Ciò che muove i fenomeni storici sono i “preconcetti”, ossia le concezioni del mondo che fondano il senso della vita, e che l’analisi fenomenologica deve individuare e mettere da parentesi. Ma alla fine di licablica“fenomeno”, appunto, creazione storica della fede ontologica e oggetto del giudizio razionale, dal quale ripartire per ritrovare la realtà della Storia come processo della vita, messo intanto tra parentesi. Una “storia” di “fenomeni” è inconcepibile quanto un processo avvenimenziale senza un’idea unitaria di senso in cui comprenderlo. Tale idea costituisce il senso, appunto unitario, di quegli avvenimenti, altrimenti irrelati. Il senso del loro “essere” ideale, e non solo esistenziale, che precede il giudizio logico di realtà, la sua asserzione categoriale. Questa conformità ideale, in virtù del principio di rispecchiamento univoco di ciò che “è” con ciò che “esiste”, si riflette esistenzialmente in conformità politicamente reale, ossia in pre-tesa (in una tesi che è asserzione di volontà) che la corrispondenza sia giudicata sul modello reale dell’ente, così che la volontà pubblica sia decisiva della sua verità. Il giudizio, da categoriale diventa pertanto politico, e la ragione da “apofantica” diventa “strumentale”, da teoretica, pragmatica. Il monismo ontologico genera la logica identitaria, e questa il principio politico totalitario, che è una derivazione dialettica del “rispecchiamento” del reale e dell’ideale, che infine viene esautorato di ogni funzione gnoseologica. Il limite del pensiero di Hegel è di aver concepito la “sintesi” come attività teoretica, anziché pratica, facendo del pensiero il contenuto delle contraddizioni reali. Stabilita l’assoluta identità di reale e razionale, è bastato “rovesciare” l’alienazione dello “Spirito assoluto” in alienazione dello “Spirito storico”, per trasformare la dinamica dialettica da movimento ideale a

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movimento sociale, facendo degli attributi dell’idea di Dio, le qualità ontologiche della Sua creatura terrena e reale, l’uomo. L’umanesimo ateo nasce sulle premesse di quella che De Lubac chiamava la “schiavitù ontologica” del monismo, pensato come materialismo ovvero come idealismo assoluti, in virtù del quale ogni mediazione metafisica e istituzionale tra cielo e terra diventa inutile impaccio alla libertà dell’identità ontologica. La rivoluzione come “azione” attenderà Marx, ma come “pensiero” era già in Feuerbach. 11. La partecipazione dei cattolici al governo dello Stato all’indomani della seconda Guerra mondiale, non ha mutato la prospettiva etica del Potere, ma ha ingenerato semmai l’illusione di una politica ispirata ai valori cristiani, cioè di una politica diversa da quella ordinaria, e quasi una morale messa in pratica, realizzata. Dopo i primi fervori, presto arrivò la delusione, e con essa la disillusione e la rassegnazione al malgoverno, alle pratiche clientelari e ciniche che avevano caratterizzato i governi liberali della Sinistra storica, segnatamente quelli giolittiani, che del compromesso parlamentare avevano fatto il metodo e la sostanza della loro azione politica e di governo. Il “giolittismo” è appunto quel metodo di governo che confonde il contemperamento delle istanze politiche dei gruppi sociali e parlamentari, con la responsabilità etica di governare per il bene comune, identificato da tale filosofia politica con la sopravvivenza del Potere in quanto tale, ossia con la maggioranza parlamentare di governo. Il criterio parlamentaristico fu accentuato nella Repubblica, facendo della sua logica politi cistica la pedagogia nazionale che invalse in ogni ambito della vita civile e pubblica, sviluppando un’etica del cinismo come salvaguardia del guicciardiniano “particulare” che servì agli ambienti governativi cattolici ad attribuire alla Provvidenza ogni onere di giusta compensazione, e agli avversari all’opposizione a giustificare l’esigenza di un intervento correttivo rivoluzionario, sovvertitore dell’ordine storico. Solitamente un supposto realismo politico non mette nel giusto risalto storico la questione morale che afflisse il regime liberale, e il peso che essa ebbe nell’orientare l’opinione pubblica a favore della rivoluzione quale rimedio possibile e necessario alla temperie “malavitosa” che caratterizzava la prassi parlamentaristica del tempo. La guerra, quale lavacro morale, fu vista come la fase propedeutica a quella della rigenerazione etico-politica nazionale. Una rigenerazione interna alla politica, che rimaneva il

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terreno privilegiato dei processi storici, anzi la fenomenologia più significativa tra gli atti spirituali inscritti entro l’orizzonte dello Statonazione. Il “tradimento dei chierici” liberali e cattolici comincia proprio con la legittimazione intellettuale di tale prospettiva politi cistica, che faceva del “pensiero” il laboratorio programmatico dell’ “azione”, ma non il correttivo teoretico, essendo ogni atto spirituale in sé sintetico e auto-regolato dalla sua logica interna, che lasciava al pensiero una funzione di preparazione tecnica e di postuma giustificazione razionale, ma non di polo dialettico di verifica morale. L’azione politica, abbandonata alla sua autoreferenzialità tecnica e alla sua logica utilitaristica, si trasfigurò in prassi economicistica, vòlta non al bene comune, cioè all’ispirazione teleologica dei valori morali, ma alla funzionalità strumentale dei gruppi sociali particolari. L’autosufficienza razionale della “scienza” politica implicava la sua assolutezza teorica e pratica, che giudicava indebita l’ingerenza di ogni criterio morale, e con esso delle istituzioni storiche che lo interpretavano e ne erano custodi, a cominciare dalla Chiesa e finendo alla cultura metafisica, ritenuto in inutile impaccio ideologico alla esclusiva realtà della “volontà di potenza” dei gruppi organizzati e dei loro demiurghi politici. La partecipazione dei cattolici alla politica nazionale in quanto “partito”, non rafforzò lo Stato liberale, ma lo espose maggiormente alla condizione pre-rivoluzionaria, contribuendo al discredito di una politica transattiva e per definizione irresoluta, ledendo gravemente l’autonomia intellettuale della sfera teoretica e la sua credibilità morale. La cultura “organica” alla politica, capovolgeva il ruolo dei “chierici” in corifei della “rivoluzione”, di segno cristiano, liberale o socialista che fosse. Ma in ogni caso “politica”, e non coscienziale. Dopo il fascismo, che in Italia segnò l’apoteosi del politicismo e del prassismo, il passaggio dei cattolici dal nazionalismo alla democrazia “cristiana”, confermò la cultura machiavellica dell’autonomia del politico dal morale, creando le premesse dell’immoralismo di massa, dell’emarginazione progressiva della Chiesa dal mondo culturale e sociale, e del degrado istituzionale di uno Stato in cui l’influenza politica ed elettorale dei vescovi aveva preso il posto di quella dei prefetti nell’età liberale. Le parrocchie non furono il luogo della rinascita spirituale di una società annichilita dalla guerra di potenza e dalla sconfitta umiliante, ma il surrogato cattolico-democratico delle cellule comuniste e

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delle sezioni degli altri partiti politici in concorrenza elettorale. Sottoscritto il manifesto ideologico della Costituzione repubblicana, i cattolici furono omologati ai comunisti nella comune prospettiva “democratica” della vita politica italiana ed europea, ossia nella comune accettazione ideale dell’orizzonte in trascendibile del politico quale essenza della vita sociale. Entro tale orizzonte ontologico e metodologico, lo scontro ideologico tra comunismo e capitalismo tagliò fuori ogni prospettiva cristiana, in quanto relativo al primato storico di una o altra versione della democrazia quale universalismo della ragione politica. Fosse parlamentare o sovietica, la democrazia era comunque la realtà pratica del primato dell’economico sull’etico, della politica sulla morale, della sfera pratica su quella teoretica. Il machiavellismo, come traduzione politi cistica dello scientismo razionalistico, segnava il suo trionfo storico proprio con l’universalizzazione democraticistica della politica quale logica direttiva della vita sociale, non solo degli Stati e dei gruppi politici, ma della stessa vita civile in generale, fino ai rapporti educativi e scolastici e alla famiglia. Le conseguenze etiche e culturali sono sotto i nostri occhi. Il disastro morale del Paese, occultato per decenni dalla lotta ideologica, dal consumismo privato e dall’assistenzialismo di Stato, oggi emerge inesorabilmente come sfondo del collasso economico nazionale, con i cattolici che si uniscono ancora una volta al coro ideologico degli economisti, i nuovi predicatori mediatici dei nostri tempi bui, che ripetono le loro ricette risolutrici di una crisi che essi immaginano appunto economica, anziché spirituale e morale, e di cui proprio la preminenza della loro opinione su altri punti di vista teoretici costituisce la prova intellettuale decisiva. Accogliendo la prospettiva politicistica della cultura sociologica europea e occidentale, il cattolicesimo diventa ideologia “democratica”, schierandosi in competizione elettorale per il potere. Ma è questo il compito di una cultura autenticamente cristiana? Essere il supporto ideologico di un partito politico? O non, invece, quello di animare di vita spirituale la realtà sociale proponendo la carità come metodo alternativo alla politica nelle relazioni umane? Non hanno forse i cattolici “democratici” commesso l’analogo errore dei cattolici “reazionari” d’antan nel considerare insostituibile un regime politico storico ai fini della loro conservazione sociale? O non scambiano piuttosto la salvaguardia dei loro interessi particolari con l’opera di evangelizzazione? L’interrogativo diventa ancora più crudele se

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riferito alla Chiesa, che ha funzione precipua di salvaguardia dei valori cristiani alternativi a quelli politici, negandone il primato su quelli morali, piuttosto che quella di preservare la sua posizione istituzionale di potere mondano, e a suo modo politico. L’errore di cultura commesso dalla Chiesa nella sua politica compromissoria e transattiva coi regimi totalitarii del Novecento, contraddice non soltanto la posizione tomista antitotalitaria circa l’indisponibilità della coscienza morale da parte del potere politico, ma stabilisce un rapporto di “rappresentanza” della comunità mistica cristiana che la trasforma in un corpo secolare e dunque in referente politico in lotta per il riconoscimento, alla stregua di un partito. L’errore consiste nel voler “rappresentare” un valore trascendente, rendendolo pertanto disponibile alla transazione umana, assimilandolo a un interesse pratico. L’errore è, cioè, di identificare istituzione e valore, identificazione che è alla radice dell’immanentismo razionalistico ateo. Se è problematica l’identità dello Stato storico con l’etica sociale che lo legittima, è ancora di più l’identificazione della Chiesa con la morale trascendente, dalla quale ogni coscienza personale attinge il suo valore. Infatti, solo tale identità consente un rapporto concordatario tra Chiesa e Stato, stipulato dalla prima in rappresentanza della comunità cattolica, che però è “corpo” comunitario ma “mistico”, e non “politico” o “economico”, e perciò non rappresentabile. L’unità mistica è personale e non è assimilabile a un ente collettivo, a un soggetto di diritto, proprio perché i singoli membri personali non sono riducibili ad alcuna equivalenza astratta, essendo ognuno di loro una concreta realtà esistenziale e morale che è ontologica, che solo in Dio può perfezionarsi, e non attraverso il consorzio sociale, come invece sostiene il contrattualismo politicistico e il sociologismo collettivistico; fosse pure il consorzio ecclesiale. Ogni rapporto concordatario tra la Chiesa e lo Stato ha finito dunque per risolversi in un rapporto tra enti giuridici rappresentativi, l’una, rappresentativa dei membri ecclesiastici, ossia del corpo sacerdotale della Chiesa pastorale, e l’altro dei membri sociali, comprensivamente anche dei singoli cittadini fedeli. Da qui la deriva ideologica anche della cultura cattolica e l’inquadramento degli organismi ecclesiali in quelli politici. Ogni soggetto spirituale stabilisce un suo peculiare rapporto col valore trascendente che stabilisce i termini unici della sua scelta morale, responsabilmente libera e non delegabile. Ed è tale natura personalistica del rapporto che la

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coscienza unica ha col valore comune e con Dio a fare la differenza ontologica tra l’essere spirituale e l’essere sociale, i cui interessi sono gli unici rappresentabili, perché empiricamente equivalenti. Diversamente, ogni rapporto personale con Dio non è equivalente, per definizione, e perciò personale. Come potrebbe un ente giuridico rappresentarlo se non previamente trasformarlo in rapporto “politico” e assimilarlo perciò a un interesse pratico? In tal senso, la Chiesa concordataria non poteva né potrebbe in verità rappresentare il corpo mistico di Cristo, che è la Storia stessa del processo di salvezza dell’umanità. Lo potrebbe fare solo riducendo la personalità spirituale di ogni uomo in individualità socio-economica, e cioè in soggetto politico, aderendo così all’ideologia positivistica dell’umanità in senso sociologistico, soggiacendo così all’antropologia totalitaria con cui “concorda” di fatto, e facendo della Chiesa lo Stato dello Spirito, anziché l’anti-Stato della libertà morale di ogni cristiano. Ma come è possibile rappresentare la libertà della coscienza vincolandone le scelte occasionali? Obbligare la libertà è lo stesso che ferrare un legno. Eppure è esattamente questa la pretesa che ha animato la “rivoluzione” totalitaria nell’intento di edificare “l’uomo nuovo” e il suo “regno della libertà”, non già paradisiaco e d’anime, ma terreno e di corpi. Ma è esattamente la possibilità di questo “passaggio” ontologico che la Chiesa avrebbe dovuto recisamente negare, contestando la realtà ontologica di tale trasfigurazione collettiva della necessità in libertà. Anche la tentazione di fare la “rivoluzione spirituale” è diabolica, poiché in quel “fare” si annida la sfida prometeica di sostituirsi alla Provvidenza operando al posto di Dio e meglio di Lui, abolendo la libertà, ossia la condizione stessa dell’errore e del negativo legato alla natura finita dell’uomo, e finalmente della responsabilità della scelta morale. La “rivoluzione”, intesa come miracolo antropologico realizzato dalla politica, costituisce il risvolto idolatrico, tipico dei nostri tempi, dell’ipotesi teologica a suo tempo coltivata dai cristiani di fare di questa terra il regno dello Spirito, lo Stato di Dio. La Chiesa, che è edificio umano, non può impedire il Male, legato alla natura finita degli esseri mortali, e come gli Stati totalitari hanno dimostrato, sul Male si può costruire una realtà sociale dove l’uomo sia padrone o schiavo dell’uomo. La Chiesa, però, ha la sua ragione metafisica nella predicazione del Bene, e cioè del limite insito in ogni opera umana, dal quale inizia la realtà divina. Se l’uomo potesse ciò che

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potrebbe Dio, perché Dio? Ma l’uomo, anche riunito in potente società, non può trascendere la sua finitezza, ma solo cercare di completarla individualmente nel rapporto con Dio, senza il quale la sua condizione diventa diabolica, e la sua esistenza infernale. L’umanesimo senza Dio è l’immagine astratta di una libertà senza scelta, che si converte in un umanesimo inumano, in un terrore buio senza redenzione di luce. Più che mai oggi la Chiesa deve porsi al centro della questione antropologica per ripensare la sua stessa esistenza terrena come percorso di luce e di ombre, senza chiamarsi fuori delle responsabilità storiche degli uomini che la costituiscono. Se essa è sempre giusta, anche ogni errore umano è sempre giustificato. Ma senza errore e penitenza non c’è salvezza. Il mito della “rivoluzione” non è stato ancora del tutto elaborato nei nostri tempi democratici. Trascegliere una delle sue forme storiche, significa porsi all’interno della sua credenza rappresentativa, e soprattutto non cogliere i termini filosofici del moderno totalitarismo come espressione pratica del riduzionismo ontologico di segno naturalistico o idealistico. Stipulare un concordato coi regimi totalitari, in base all’opinione che la loro condizione ideologica di regimi storico-politici dipendesse dal riconoscimento dei diritti della Chiesa all’esercizio del culto e all’attività religiosa dei fedeli, ha significato confondere la “libertà religiosa” come esercizio privato della fede, con il riconoscimento del primato della coscienza morale della persona sull’uomo totalmente socializzato, e come tale soggetto di soli doveri pubblici, stabiliti dal Potere. Il valore vincolante della coscienza morale sulle deliberazioni politiche dell’astratto uomo economico può sorgere anche giuridicamente come dovere sociale istituzionalizzato solo se viene previamente ammesso il primato ontologico dell’essere sull’esistere. E poiché un primato si afferma su competitore, esso non potrebbe stabilirsi su una essenza monisticamente pensata, ma solo ammettendo il dualismo ontologico. Ora, questo primato non può avere natura politica, poiché il rapporto politico si definisce tra forze sociali omogenee, la cui prevalenza fisica non incide in alcun modo sull’essenza della loro realtà ontologica. Ciò vuol dire che, seppure prevalente storicamente, il Male non perciò sia biasimevole e peggiore del bene, la cui affermazione storica non è probante della sua veridicità teoretica. Questa è la fondamentale ragione per la quale non è ammissibile una “sintesi” razionale che sia probante della sua qualità reale, dal momento che

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ciò che è “razionale” appartiene a una dimensione distinta da quella “reale”. Ed è appunto la “distinzione” ontologica tra essere e non-essere, cioè, originariamente, tra “sacro” e “profano”, a costituire la condizione logica del giudizio morale distinto da quello politico, e, sul piano pratico, la possibilità di istituirlo nel suo valore pubblico. Le istituzioni sociali hanno la funzione appunto di distinguere l’ammissibile dal non-ammissibile. Ma la possibilità di operare tale distinzione logica con effetto sociale è legata alla libertà di scelta del soggetto politico, per cui solo una società liberale può contemplarla. Una società “liberale” non può essere egalitaria, ossia “democratica”, poiché il principio d’uguaglianza è l’esatta negazione opposta del primato ontologico e della distinzione logica tra la morale e la politica. La differenza ontologica e la connessa distinzione logica del valore delle azioni umane, deve ammettere l’irrazionalità e l’impossibilità dell’uguaglianza sociale dei cittadini come condizione della governabilità politica. Infatti, il “governo” sociale, in quanto esercitato al fine del bene morale e non degli interessi particolari, non è mai, propriamente, “politico”. Politico è, propriamente, soltanto il Potere, consistente nella possibilità di esercitare con la forza una influenza sulle volontà dei sottomessi. Ma il Potere politico, se può essere efficace, non perciò è moralmente legittimo. E quando è illegittimo, ripugna alla coscienza morale dei sudditi; e quando tale coscienza esiste, esso non dura molto. L’importanza storica della Chiesa, come istituzione morale, è di tenere viva e alimentare tale coscienza, al fine di costituire un deterrente al Potere illegittimo. Lo Stato di diritto che universalizzi in senso democratico i diritti dell’uomo sociale, verso quale autorità li rivendica se per definizione non riconosce alcuna autorità superiore alla sua stessa? Può ridimensionarsi di fronte a un Potere imperiale, ma non fuoriuscire per ciò dalla logica dei diritti per diritto, che reclamano un riconoscimento il quale, non essendoci un’istanza superiore allo stesso Potere, deve avvenire solo di fatto, a opera di se stesso. Ossia legiferando e prendendo decisioni insindacabili fuori del sistema giuridico che li legittima formalmente. Una norma di legge può avvertire la sua incongruità extra-sistemica, ossia non legata al formalismo della sua produzione, se riconosce un dovere morale. Ma tale ammissione può derivare soltanto dal riconoscimento metafisico del dualismo ontologico dell’essere umano e dalla conseguente negazione del totalitarismo politico come orizzonte naturalistico del Potere esercitato

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attraverso la legalità giuridica. Lo Stato di diritto è una creazione culturale della civiltà pagana, che non riconosceva altri doveri che verso lo Stato politico, sacralizzato ma sostanzialmente di Potere. Accanto a questa figura istituzionale, che ha funto da strumento tecnico per ogni sorta di esercizio del Potere, una società liberale deve riconoscere le comunità dove viga la regola del dovere nei rapporti inter-personali, le comunità etiche stabilite per libera adesione dei membri e per spontaneo riconoscimento della gerarchia dei ruoli sociali, legata non al Potere politico ma all’autorevolezza carismatica. Il prototipo di queste comunità etiche è la famiglia, una comunità sociale sulla quale la legislazione dello Stato di diritto ha esteso la sua normativa regolatrice dei rapporti interni prima gestiti dalle tradizioni religiose e dal libero convincimento. Lo spirito aristocratico di chi non crede di dovere tutto il suo essere sociale alla politica e ai ruoli da essa determinati, si può sviluppare soltanto nell’autonomia delle sue funzioni interne alle comunità etiche, ossia attraverso una educazione culturale che assuma liberamente la tradizione sociale di appartenenza come valore di riferimento morale. Le differenze sociali nascono dalle differenze culturali delle distinte tradizioni pedagogiche interne alle diverse comunità etiche. Certamente la funzione sociale delle aristocrazie sviluppa una esigenza di ruolo politico, ma questo non è originario, ma derivato da quella funzione, così come, a suo tempo, la proprietà e i suoi diritti relativi erano conseguenza dello status sociale dei ceti, e non la condizione. Aver distrutto per livellamento politico assolutistico la società feudale, ha comportato alla fine la dissoluzione anche dell’istituzione familiare, privandola, attraverso la lotta contro la proprietà, della maggiore garanzia della sua autonomia gestionale, e quindi della formazione culturale delle aristocrazie sociali, la cui assenza costituisce oggi il problema politico principale delle democrazie. Le riforme sociali che venivano considerate di progresso dalla mentalità razionalistica, si sono rivelate col tempo errori di cultura, alcuni dei quali esiziali per il buon funzionamento della realtà civile e per la vita stessa degli Stati. 12. Il contrasto tra l’antropologia cristiana e quella proposta dalla visione totalitaria non riguardava modi e forme dell’organizzazione socio-politica dello Stato, e non poteva ridursi a una diatriba istituzionalistica tra modelli empirici o teorici di società, ma ineriva opposte intuizioni del mondo, fondate su distinte concezioni

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ontologiche. Quella cristiana è dualistica e spiritualistica, mentre quella totalitaria è monistica e naturalistica (anche quando si dichiara idealistica). Il marxismo fu l’interprete più coerente e sofisticato del monismo naturalistico e della sua metafisica materialistica della Storia, elaborando una ontologia dell’essere sociale fondata su una mitologia dichiaratamente alternativa a quella ebraico-cristiana della civiltà occidentale. La risposta fascistica non fu di segno tradizionalistico e anti-rivoluzionario, ma si realizzò sulla stessa premessa metafisica del monismo ontologico marxiano e della sua antropologia socialitaria. Il totalitarismo di entrambi i segni, politicistico o economicistico, nasce su una tale premessa “religiosa”, che eliminava la prospettiva cristologica dalla cultura occidentale. Anche la cosmologia nichilistica è una credenza fondata sull’ontologia dell’ente inteso come Essere. Il fine teoretico implicito alla sua metafisica della storicità dell’ente assoluto è di rimuovere dalla scena filosofica ogni prospettiva teistica, e con essa ogni fondamento della morale, così da far valere le sole forze della volontà emancipata da ogni principio deontologico. Il metodo fenomenologico diventa in Heidegger tecnica di rimozione di ogni valore dal mondo-della-vita, e di perscrutare i suoi fenomeni “reali” alla sola luce della fruibilità strumentale dell’uomo volitivo. Heidegger riforma Husserl attraverso Nietzsche, come aveva fatto Marx con Hegel attraverso Feuerbach. Il lògos apofantikòs, cioè il pensiero enunciativo espresso nel giudizio di realtà, diventa tékhne, cioè prodotto della volontà poietica, realtà non più teoretica ma pragmatica, prassi. Alla metafisica, come pensiero dell’ente attraverso le categorie di giudizio, ossia conoscenza, corrisponde la tecnica come pratica di produzione degli enti sul modello di ciò-che-appare, il fenomeno quale prodotto della volontà, decisiva del suo essere, cioè dell’essere della volontà come essere dell’ente. Si tratta del rovesciamento della logica dialettica in eristica sofistica. Il nichilismo, inteso come “legalità della storia”, è teoreticamente inscritto nella possibilità determinata dall’ontologia idealistica, per la quale l’Essere è un’Idea, cioè un modello di ente astratto dal divenire. Se alla credenza idealistica sostituiamo quella nichilistica, al posto dell’Idea abbiamo la Volontà quale essere determinativo del valore degli enti, per cui “ciò che vale non vale perché è un valore in sé, ma il valore è valore perché vale. Vale perché è posto come valente” (Heidegger). La dinamica valoriale del porre e del levare è artificio ideologico umano finalizzato al

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Potere, dove la mano di Dio è del tutto assente. Ma, mutatis mutandis, anche se trasformata in tecnica valoriale, la struttura ontologica del pensiero dell’Essere non muta, costituendo la modalità essenziale del pensare. E infatti, la posizione di valore è valente perché originaria, e come tale posta a fondamento del senso della volontà, cioè del suo fine. L’origine e il fine costituiscono il legame di corrispondenza logica tra il valore posto e il comportamento da porre, ossia tra il fondamento ontologico e il suo valore deontologico, e temporalmente tra il passato immanente nel presente, e il futuro proiettivo dello stesso presente. Questa unità di senso è anche unità di tempo, e perciò “valore”. Ciò che vale è valente perché è posto come significato presente del passato e del futuro. La volontà ponente valore diventa potenza ontologica entro i termini di garanzia del valore come unità di senso meta-temporale, tale cioè che lo stesso senso o valore permanga presente, cioè attuale, sia in riferimento al passato che al futuro. Ciò che attribuisce il senso o il valore del divenire degli enti nel tempo è il loro Essere, inteso quale identità ontologica di ciò che diviene e che perciò è molteplice. Tale identità ontologica, Platone la nomina “Idea”, rendendo esplicita la sua permanente identità (ossia eternità) come “valore”. Valore dunque è ciò che rende ontologicamente permanente, e perciò logicamente unitario, il divenire degli enti nel tempo storico, la loro essenza ideale o fondamento d’essere. Ma non è il porre in sé che ha valore e che assegna valore unitario agli enti molteplici; non è la mera volontà ponente che fonda il valore di ciò che vale; a fondare il valore è invece la volontà decisiva dell’Essere, ossia la decisione ontologica fondamentale che stabilisce che l’ente è anziché non. Ed è la decisione ontologica fondamentale a fondare il senso degli enti come unità di valore o determinazione del loro Essere anziché nonEssere. L’unità di valore o Essere fonda il senso dell’appartenenza ontologica, la sua giustificazione razionale, consentendo la stessa co-esistenza degli enti molteplici come unità ideale. Nel caso dell’uomo, ciò che è la “categoria” per gli enti generici, è la “società” per i suoi simili molteplici, uniti nella con-vivenza sociale, caratterizzata dalla stessa unità di senso di vita, ossia dallo stesso “valore” inteso come unità sociale. Lo stesso giudizio di valore socializzato distingue il valore delle azioni dal loro dis-valore sociale. Ogni “giudizio” di valore è volontà d’essere confermativa del valore originariamente

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posto dell’Essere fondativo del valore. Ma tale “volontà”, proprio perché giudizio di valore, non è “potere” della volontà, ma volontà del Potere, il quale dunque non dipende dalla volontà ma questa dal suo “valore”. Infatti esiste anche una volontà che non-è potente, perché non vale. Il giudizio di valore si distacca dal fluire della vita degli enti come il “governo” che decide sulla legittimità d’essere degli enti sociali politicizzati. Entrambi rappresentano il Potere che ri-conosce e conferma il fondamento ontologico originario, cioè la volontà d’Essere, socializzata in valore pubblico. La lettura nichilistica della Storia umana dà ragione del fondamento valoriale in considerazione del senso unitivo della molteplicità degli enti come Potere, e non come risposta rassicurante al thauma ontologico, che costituisce la domanda metafisica originaria di ogni filosofare, cioè come mythos, necessario alla stessa costituzione della relazionalità sociale. Il “valore” è dunque la giustificazione razionale del con-vivenza come co-appartenenza allo stesso Essere unitivo del molteplice divenire, ossia alla società come realtà superatrice della condizione finita dell’uomo storico. Trasferito sul piano della mera credenza, relativa e transeunte come ogni credenza, il fondamento di senso ontologico diventa “ideologia” strumentale del Potere, e la credenza ontologica giustificativa del valore socializzato nient’altro che “oppio dei popoli”. Secondo Nietzsche, il “valore” è un mero “punto di vista”, utile al fine di conservare una certa unità di comportamenti “entro il divenire”. Ma il “punto di vista” da cui si guarda, non corrisponde al “vedere” disinteressato del theorein, ma è la prospettiva di chi, nella sua particolarità, guarda l’altro-da-sé come opposta particolarità. Il p. d. v. è pertanto un guardare particolaristico, che esclude gli altri p. d. v. in quanto non comprensibili entro il suo orizzonte visivo, cioè ideale. L’esclusione del “guardare” particolaristico è il contrario del comprendere del “vedere” teoretico, che include il particolare p. d. v. come distinto dagli altri, ma non opposto. Il “vedere” in sé, come atto astratto dal “vedere distinto”, e il “vedere distinto” astratto dal “vedere” sono oggetti di rispettive considerazioni razionali o “scientifiche”, le quali sono appunto “punti di vista” particolari di uno stesso campo visivo. La caratteristica del “guardare” per punti di vista è di vedere il particolare suo oggetto scientifico come il Tutto, esclusivo del “restante”, oggetto di altre considerazioni in afferenti. Invece, la caratteristica del “vedere” è di osservare la realtà del Tutto, inclusiva del “particolare” quanto del “restante”, i

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quali non sono costitutivi del Tutto come elementi sommabili, ma solo appunto distinguibili come punti di vista particolari, ognuno dei quali è per sé un Tutto astratto, un non-Tutto, astratto dal Tutto vero. E poiché la realtà del Tutto include la visione particolare, ciò che caratterizza lo sguardo filosofico è il trascendimento del particolare, ossia lo sguardo sul “resto” che viene escluso dal punto di vista particolare. Lo sguardo sul “resto” è la considerazione dell’ “altro”, il suo riconoscimento, ossia l’affermazione della libertà contro la negazione dell’opposto escluso. Il rapporto tra particolare punto di vista e sguardo sul “resto”, non è paritetico e biunivoco, perché solo il particolare può essere incluso nel “resto” senza cambiare la sua essenza, mentre il “resto” può essere incluso nel particolare solo riducendosi a sua volta in particolare opposto e dialettico. La riduzione ontologica di tutto-il-resto a “parte” è l’essenza metafisica della violenza, intesa appunto come violazione della integrità dell’Uno. Viceversa, l’assunzione del particolare punto di vista anche come “restante”, ossia come (falso) Tutto, è l’essenza del politico, come attività esclusiva del sé dal “restante” altro-da-sé. E poiché l’esclusione è giudizio di realtà, ossia di valore, il giudizio “politico” non è “teoretico” ma particolaristico, e perciò “scientifico”, razionalmente certo, ma non “veritativo”, e perciò mutabile col mutare del punto di vista, ognuno dei quali non vede il vero, che è oltre il proprio sguardo particolare, ma guarda solo il suo particolare. In questo senso la verità è “trascendente” ogni punto di vista scientifico particolare, prodotto della astrazione razionalistica che lo “oggettiva” in un dato di certezza. Il “vedere” filosofico riguarda invece ciò che non è oggettivabile perché indisponibile a ogni riduzione razionalistica e politica. La ontologica indisponibilità a ridursi a un punto di vista particolare è l’essenza metafisica della “verità” del Tutto, che appare al pensiero sempre come realtà del particolare in rapporto con il restante. Il Tutto si può intuire, ma non logicamente pensare, e per questa ragione Dio non è veramente rappresentabile ma solo esteticamente. Anche la “volontà” è una “idea” nella sua astratta determinazione, ma essa, diversamente dall’idea trascendente, è determinabile in un prodotto reale che ne è la riduzione fenomenica. In quanto idea astratta è opportuno indicarla, per distinguerla dall’idea vera, come “ideale”, che è sempre particolaristico. Ma anche come ideale, la volontà, in quanto pur sempre idea, anche se astratta, essa non è determinabile fenomenicamente in un prodotto corrispondente alla sua astratta

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rappresentazione volitiva. E per questo per la ragione che il “prodotto” storico dell’ideale è sempre “sociale”, e non individuale, come il pensiero. La volontà potente cerca di assimilare il prodotto ideale con il prodotto sociale, riducendo questo a quello, e in questo tentativo di riduzione sviluppa il suo potenziale di violenza, la quale è “politica” perché interessa i rapporti di forza sociali. E’ la violenza “pubblica” del Potere. La volontà di potenza totalitaria ha pianificato la riduzione del “restante” al punto di vista particolare come metodo scientifico, ossia come criterio razionale di relazionalità, escludendo ogni altra possibilità di riconoscimento sociale dell’altro che non fosse stabilito sulla base politica del rapporto di forza polemica. La totalizzazione della società ha coinciso pertanto con la totale politicizzazione dei rapporti umani e tra gruppi, tale che l’essenza della vita sociale stessa coincidesse con le dinamiche del Potere. A parte la verifica empirica dell’esito funesto di tale teoria socialitaria, il nichilismo stesso, come ipotesi ontologica è un Mito, la cui ideologia politicistica è una mitologia, ossia un racconto giustificativo di un ideale non vero, di una ipotesi idealistica di verità, che come ogni analoga ipotesi ontologica è destinata a essere confutata dall’esperienza che ne nega la sua pretesa totalitaria di essere la “legalità della Storia”. Trascegliere una delle forme storiche di tale Mito ontologico, significa porsi all’interno della sua credenza mitica, della sua mitologia, e soprattutto non cogliere i termini filosofi del moderno totalitarismo politico, come forma pratica di riduzionismo ontologico di segno metafisico naturalistico, concepente l’uomo come assoluto essere sociale. Per sortire dalla mitologia tardomoderna bisogna previamente porsi una essenziale domanda, da cui partire per giungere a una possibile risposta: la disfatta storico-politica degli opposti nichilismi rivali, il marxista e il fascista, si è tradotta in una disfatta anche culturale delle loro rispettive prospettive antropologiche? La fine della metafisica positivistica ha riconfermato la validità della metafisica cristiana, del suo spiritualismo storicistico e della sua antropologia cristologica? Con tutta evidenza, no. E per la semplice ma essenziale ragione che a trionfare del fascismo prima e del comunismo poi è stata una visione del mondo, concorrente ma analoga alle due visioni politicamente sconfitte, quella economicistica, nata sul terreno dell’eresia protestante e del suo spiritualismo assoluto, convertitosi nel suo astratto opposto individualismo mondano. La forma politica universale di questa visione antropologica

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è la democrazia egalitaria, che assimila il valore sociale dell’uomo alla sua capacità produttiva di ricchezza economica, testimone simbolico probante del suo stato di grazia teologico-sociale. Anche la visione democratico-economicistica dell’uomo asserisce la possibilità storica della libertà dai bisogni, come emancipazione antropologica superatrice dello stato di necessità legato alla natura finita dell’uomo. Il superamento di tale finitezza, giudicata storica e non ontologica, viene prospettato, allo stesso modo del marxismo, entro la dimensione stessa da cui si sarebbe originata, la Storia, con gli strumenti umani dell’economia, il cui funzionamento razionale naturale prende il posto che era stato della Provvidenza e che già era stato usurpato dal Potere politico, diventando della Provvidenza il risvolto mondano e secolare, corrispondente metafisico della conversione individualistica dello spiritualismo mistico. Un Cristianesimo “democratico” ha lo stesso valore mitologico di un Cristianesimo “fascista” o “comunista”, negatore dell’essenza della visione del mondo storicistico-spiritualistica, non a caso contestata dall’empirismo scientistico, patrocinatore della sociologia contrattualistica, negatrice della originarietà delle comunità spirituali e del primato personalistico sull’astratto individualismo economicistico. La visione cristiana dell’uomo si fonda sul modello spiritualistico, e la sua concezione di comunità mistica è mutuata sulla famiglia, il prototipo di tutti i corpi intermedii costitutivi dell’umana socialità, che sono rimossi dalla visione atomistica della convivenza umana fondata sul rapporto contrattualistico-egalitario degli individui economici. Le comunità etiche sono state soppiantate dall’egalitarismo atomistico della cittadinanza universale, così come ogni mediazione metafisica è stata rimossa dalla concezione del “rispecchiamento” ontologico del verum col factum, che ha fatto del soggetto, trascendentale o empirico, il creatore della realtà, l’autore della Storia. Trasferendo il concetto della soggettività dall’individuo allo Stato, si è fatto dell’assolutezza della sua creazione storica il principio di legittimazione del Potere totalitario. Superare la visione totalitaria del mondo storicosociale e quella economicistica dell’uomo sono tutt’uno, ed è questa la ragione che il pensiero cristiano non può pensarsi come “democratico”, immaginando la democrazia come il regime politico realizzatore della libertà della fede. Non c’è infatti una libertà “politica” che non sia previamente “morale”, trascendente quindi la necessità insita in ogni forma di socialità politica.

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Sul piano dei rapporti politici, ogni libertà, personale o sociale, è un riconoscimento pubblico, che può derivare da un rapporto di forze, ovvero dall’ossequio a un principio superiore, legittimante lo stesso uso della forza. Per ogni contrattualismo, tale principio è procedurale, cioè legato a convenzioni giuridiche vincolanti per le parti. Ma poiché il vincolo giuridico è esso stesso valido in quanto efficace, la sua istanza demanda alla effettività della sua applicazione. Non si esce dalla tautologia della forza giuridica se non facendo appello a una forza diversa da quella politica che la sostiene, cioè all’autorità dei fondamenti morali della legittimazione politica, la cui violazione determinerebbe la sospensione del vincolo politico. Non della sua efficacia giuridica, che ebbe sia il genocidio degli Ebrei che la crocefissione di Gesù, ma bensì della sua legittimazione, senza la quale la legittimità del Potere diventa solo un vincolo politico di fatto, legato alla forza contingente della sua cogenza. Ma ciò che “può” solo al “presente”, come abbiamo visto, non è un “valore” comune, ma semplicemente ha valore solo per chi lo esercita, e quindi non può fare appello al dovere di riconoscerlo come tale, ma solo alla opportunità di ammetterlo momentaneamente. Come ha ricordato Ferrero, questa vigenza sospesa sull’alea della forza contingente, è la condizione politica di ogni sopruso moralmente illegittimo. Se si ha chiaro il rapporto tra Essere e tempo, comprendiamo pure il senso del fondamento ontologico come scelta originaria per l’Essere, anziché per il Nulla. Il nichilismo è la rappresentazione dell’Essere e del Nulla come momenti irrelati e non dialettici, tale che in essa manchi il movimento della Storia come libertà di affermare il valore contro il tentativo di negarlo. Solo se assunti come “fatti”, astratti dal loro movimento storico-culturale, i due momenti diventano la pantomima ludica di una Storia di illusioni, anziché il dramma di un’epica grandiosa, che pure Nietzsche ha intravisto a proposito della civiltà greca, ma non ha ben compreso perché fermo alla sua rappresentazione astratta, “estetica” appunto, ma non “spirituale”. L’ontologia cristiana, col dramma della Croce, ha trasformato il “sinolo” naturalistico aristotelico in sussistenza di due essenze antropologiche fuse in una stessa persona, co-esistenti in uno stesso destino finitoinfinito teandrico. Lo stesso concetto pagano di “sacro” viene tra svalutato dall’incarnazione cristiana, che fa del finito la traccia dell’infinito, quell’oltre che immane come la promessa dell’éskaton sull’attesa irenica della parusìa, ossia del compimento meta-storico della libertà non più

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solo della singola coscienza ma di ognuno insieme. La libertà, nella dimensione morale cristiana, non può essere “istituita”, e cioè imposta, ma solo riconosciuta, ossia garantita nella sua autonomia sociale dal Potere politico dello Stato. Ora, se il Potere ha una funzione di garanzia della libertà, questa salvaguardia non può esercitarsi che tra i gruppi nel loro rapporto reciproco, e non all’interno di essi. Se la garanzia è nei rapporti tra singoli, non può sussistere una autentica autonomia dei gruppi sociali dal Potere, ma al contrario essi verranno considerati come inutile mediazione istituzionale tra il Potere garante e i suoi beneficati. Solo garantendo la libertà dei gruppi si garantirà la loro autonomia etica dal Potere politico, e nel contempo la libertà di adesione dei membri dei gruppi ai rispettivi princìpi etici di convivenza. Una società statalizzata è una società politicizzata, in cui il conflitto è stabilito essere il principio direttivo della convivenza e il Potere il suo organo regolatore. E’ chiaro che, nel caso in cui la libertà viene garantita ai singoli cittadini, e non alle libere comunità, gli statuti etici interni ad esse costituiscono una normativa secondaria e puramente simbolica rispetto a quella di effettivo e prioritario valore legale, quella appunto statuale. Solo sul presupposto di una libertà interna al corpo sociale autonomo, è possibile riconoscere la sua autonomia etica dallo Stato, e cioè dalla politica come principio modale di convivenza sociale. Lo statalismo giuridico è congiunto intimamente all’egalitarismo politico come lo Stato legislatore al monopolio del Potere sociale. Al cospetto di una pretesa totalitaria del Potere politico, quale autonomia può essere garantita alla micro-società della famiglia e alla macro-società della Chiesa? Garantendo i singoli membri in quanto cittadini, lo Stato li pone logicamente in conflitto etico con i valori del gruppo, che vengono tollerati solo in quanto politicamente compatibili con la normativa statale. In questo caso, l’unica società è quella legale, non quella etica. Garantire la libertà morale significa, al contrario, riconoscere il primato della libera determinazione dei gruppi sul corpo politico dei singoli e astratti cittadini, e la priorità dei corpi etici sulla società politica. 13. Le visioni del mondo, le intuizioni della vita, per il loro carattere idealistico, sono sempre mitiche e le loro rappresentazioni mitologiche. Ogni ontologia sviluppa una sua metafisica razionale che la giustifica. Il razionalismo europeo, non riuscendo a proporre credibilmente

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una nuova mitologia post-cristiana, si ridusse a critica delle ideologie e a scetticismo relativistico. Su tale sfondo nichilistico, negatore di ogni valore e di ogni tradizione ideale, si innesta la reazione totalitaria, coi suoi miti, le sue religioni secolari e annesse credenze socializzate. Queste ultime, per il loro contenuto dichiaratamente anti-metafisico, hanno assunto parvenza di miti d’azione, nel senso soreliano, concepiti con lo scopo pratico di rilegare il corpo sociale ad unità mistica. La classe, la nazione, la razza sono mitemi surrogatori del legame religioso tradizionale dei popoli cristiani da rivoluzionare in senso dei nuovi valori ideologici. La lotta tra le credenze concorrenti passava attraverso il giudizio che le nuove religioni secolari esprimevano sullo strumento teoretico fondamentale caratterizzante la cultura metafisica e antropologica della civiltà europea, la ragione, la quale era servita sia al Cristianesimo per giustificare la sua metafisica, sia allo scientismo per criticarne i suoi fondamenti di fede. Se il marxismo adottò la strumentalità teoretica della ragione per costruire il suo racconto mitologico della Storia e della società, scientifico quanto anti-cristiano, la reazione ideologica alla visione marxistica della Storia, della vita e dell’uomo, coinvolse inevitabilmente anche il suo strumento di analisi scientifico, la ragione appunto, che i movimenti nazi-fascisti identificarono con l’intelletto astratto di matrice illuministica, incongruo a giustificare idealmente le loro visioni del mondo. Il discredito sul razionalismo moderno, astratto e naturalistico, era già stato avanzato dalla cultura cristiana e dall’idealismo tedesco, propugnatrici di una diversa declinazione teoretica della ragione, per cui la riprese di queste critiche filosofiche in chiave di polemica ideologica fu occasionata e agevolata dallo scontro bellico “totale” tra Stati nazionali, che coinvolse anche le rispettive tradizioni di pensiero, che furono piegate a strumenti di lotta nazionalistici, cioè politici. In questa riduzione politica particolaristica e nazionalistica del comune patrimonio di pensiero e di fede consisteva il dramma culturale epocale, evocato da Scheler, che lacerava la civiltà cristiana e la sua auto-coscienza. Ciò diede adito a molti fraintendimenti culturali da parte di ambienti anti-razionalisti, generatori di equivoci politici che non poco favorirono l’ascesa e il consolidamento dei nuovi regimi rivoluzionari, ostili alla resistenza intellettuale e ancor più ai suoi metodi razionalisti di conoscenza. La mitologia che invece utilizzò lo strumento della ragione, in chiave sia positivistico-scientifica che anti-irrazionalistica,

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fu, come abbiamo visto, il marxismo, il quale perciò divenne per tutte le tradizioni culturali e politiche del tempo, la cristiana, la liberale e la fascistica, il nemico per antonomasia da fronteggiare, in quanto assommava in sé ogni tendenza rivoluzionaria e anti-tradizionalistica che minacciava la civiltà occidentale, dalla religione all’economia. Contro il nemico più insidioso, portatore di barbarie nell’atto stesso in cui si proclamava “erede” della tradizione filosofica occidentale, tutti i suoi avversari trovarono un punto di contatto tattico, più o meno duraturo e funzionale al proprio intento, ma comunque significativo anche simbolicamente nell’individuare nella coscienza comune la minaccia nichilistica che assediava la cittadella della civiltà europea. Tale minaccia divenne pericolosamente politicomilitare e inutilmente disinnescata dai varii revisionismi e confutazioni teorici, quando il marxismo divenne la ideologia di Stato di un vasto impero come quello russo, che adottò la prospettiva universalistica del razionalismo scientifico, perfezionando i metodi e gli scopi della rivoluzione francese, emendandoli del suo spirito angustamente borghese e sociologicamente miope. Il marxismo aveva tutti gli ingredienti ideali per realizzare la “rivoluzione” postcristiana, portando a radicale critica demolitoria tutta intera la tradizione europea, proiettandosi, come una autentica mitologia, nel futuro, teoricamente delineato come già incluso nel progetto palingenetico e quindi teleologicamente disponibile, per così dire, dal demiurgo politico. Diversamente da ogni altra scienza “borghese”, il marxismo coniugava alla sua immaginazione produttiva la certezza fideistica della sua verità, propria delle religioni, distanziando così epistemologicamente il carattere meramente ipotetico delle altre conoscenze scientifiche della realtà. Proprio perché aveva adottato lo strumento della ragione, il marxismo aveva dalla sua un consolidato strumento teoretico, che, seppure piegato in senso ideologico, forniva alla sua mitologia l’apporto di una poderosa tradizione ermeneutica che la “distruzione della ragione” intendeva abbandonare a favore di ancora incerte o non consolidate strumentazioni teoretiche. In tal modo, la migliore tradizione scientifica e filosofica moderna veniva “inverata” alla luce della nuova e rivoluzionaria interpretazione della Storia, la cui radicalità era pari alla sua pervasività in ogni ambito culturale, che veniva rovesciato dialetticamente come la sovrastruttura dei rapporti economici del tempo. Una tale operazione culturalmente rivoluzionaria

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aveva come significativi precedenti storici due religioni: quella cristiana, per la sua poderosa transvalutazione dei valori della cultura classica, e la musulmana, per la sua forza dirompente di penetrazione e di conversione forzosa di interi popoli. La mitologia escatologica, abbinata alla metodologia scientifica del razionalismo scientifico, costituivano una miscela ideologica che neutralizzava le confutazioni teoriche con la seduzione religiosa di massa, riuscendo a convertire quelle masse che avevano meno avvertito l’incidenza religiosamente corrosiva del razionalismo moderno e della cultura relativistica del positivismo, le quali passarono, senza soluzione di continuità e incisive mediazioni intellettuali, dalle loro tradizioni religiose alla nuova attesa messianica della realizzazione in terra di ogni antica promessa escatologica. L’incidenza universale della mitologia marxista, che interessò masse europee, russe, americane e cinesi, fu dovuta alla natura terrena della sua promessa liberatoria, che poneva al centro dell’esistenza la vita storica dell’uomo, anziché la sua soltanto immaginabile alterità meta-fisica e ultra-terrena. L’idea di un riscatto terreno, collettivo e definitivo liberava le energie profuse dalle masse lavoratrici in un senso indirizzato, per la prima volta nella Storia, verso la emancipazione dal lavoro, anziché verso la fatica del lavoro. Se lo strumento dell’emancipazione era l’abolizione della proprietà, niente era più facile per chi non ne aveva mai goduto. E se la lotta contro la natura dovesse ora volgersi verso le classi abbienti, il suo esito non sarebbe stato solo stagionale e provvisorio, ma definitivo. Non è un caso che la confutazione pratica di una tale religione sia opera di una cultura sociologica incentrata sulla temporalità presente, esclusiva di ogni aleatoria prospettiva ventura e quindi concentrando sull’esperienza diretta di ognuno la credibilità ideologica che il messianismo marxista proiettava nella verità del futuro, che, seppure infra-terreno, restava comunque lontano dai travagli rivoluzionari dell’oggi, dell’intermezzo socialista. Contro la verità futura ha avuto la meglio la certezza presente, così che al forza del benessere capitalistico ha prevalso sul fideismo dell’attesa del regno venturo della libertà dai bisogni e dallo Stato come luogo storico della necessità. L’edonismo capitalistico offriva oggi quel benessere di massa promesso dalla rivoluzione, che fu battuta in breccia dal sistema che aveva emancipato l’economia da ogni messianismo religioso, facendone il legittimo movente della Storia e dei rapporti umani e rendendo così inutile

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la palingenesi antropologica. Anzi, la logica utilitaristica vedeva nell’egoismo naturale dell’uomo il fondamento realistico di ogni sociologia politica, e non lo stigma morale che fosse il presupposto di una qualche redenzione etico-religiosa. La sublimazione ideologica dell’egoismo è l’individualismo, che, riconciliando l’uomo con i propri istinti vitali, assegna a ogni produttore-consumatore la difesa dei propri interessi, e quindi il regime politico che li garantisce, la democrazia capitalistica, che diventa il regno mondano del benessere e delle libertà. Con la democrazia capitalistica lo scopo politico generale finisce per coincidere con quello economico particolare di ogni cittadino, così che esso realizza definitivamente l’appropriazione del destino biologico da parte di ogni uomo in grado di auto-gestire la propria libertà, e del destino spirituale da parte di ogni credente, mettendo così fine alla supposta “alienazione” sia della sua sovranità egalitaria che della sua immagine divinizzata. La democrazia porta a compimento l’assoluto immanentismo umanistico, emancipando gli enti sociali ed esistenziali da ogni dipendenza da valori trascendenti, realizzando il nichilismo, ossia l’ateismo pratico. Ed è tale emancipazione dai valori che l’ideologia democratico-capitalistica chiama “libertà”, e non la scelta coscienziale tra il senso finito dell’azione e il senso eterno del suo significato simbolico. La scelta è ora solo entro le opportunità della realtà finita del “mercato”, in cui vengono contese ai consumatori dei beni le offerte concorrenti dei produttori. L’esistenza priva di fini trascendenti diventa mero esercizio ludico delle contingenti possibilità umane, e la vita stessa della società diventa un “gioco” fine a se stesso, che mima quell”eterno ritorno dell’uguale” di cui parlava Nietzsche, che aveva profetizzato l’avvento dell’uomo postcristiano, mosso dal solo impulso naturalistico della “volontà di potenza”. Ora, la “volontà” si qualifica della sua “potenza” in quanto diversa dalla volizione guidata dalla “ragione”. La potenza volitiva in senso nichilistico è a-razionale, cioè non qualificata teleologicamente da alcun fine razionale. Esattamente come nel gioco, che è attività per definizione a-teleologica. Un “gioco” può non piacere, ma non si può confutare, sicché la società ludica non è aggredibile teoricamente sul piano della sua verità assente, ma solo rappresentabile nella sua verità ontologica. Ma qual è il senso della verità della società nichilista? Che essa appunto non ha una verità, cioè un senso, poggiando la sua credibilità ideologica

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sulla efficienza del suo sistema di benessere, cioè sul suo puro funzionamento tecnico. L’assenza di senso, nondimeno, ha una sua interna logica sistemica, quella di preservarsi a scapito di ogni destinazione razionale che voglia assumere la potenza tecnologica come strumento per un fine che la trascenda. Il sistema capitalistico non può sottomettersi ad alcun fine trascendente, facendo del suo gioco un uso simbolico. Per questa ragione la sopravvivenza del sistema capitalistico è legata alla sua capacità di espandersi universalmente neutralizzando nel suo dinamismo ludico-economico ogni cultura trascendente che incontra dove giunge. Solo se tutte le culture accetteranno il suo “gioco” produttivoconsumistico, il sistema potrà sopravvivere, non facendo rimpiangere altre forme, tradizionali o utopiche, di convivenza sociale. La globalizzazione del mercato sembra riuscire dove fallì la speranza religiosa e la paura rivoluzionaria, esportando con successo il sistema nichilistico in tutto il mondo, avido di benessere e spinto ad emulare il sistema sociale che lo garantisce. Il modo di coinvolgere i popoli e le culture locali al grande “gioco” capitalistico è quello di dichiararlo neutro rispetto ai valori, e perciò scientifico e oggettivo, dando così l’impressione di mostrarsi rispettoso e tollerante verso ogni tradizione all’atto stessa di considerarla inutile ai fini del benessere sociale, di conseguenza emarginandola dalla scena politico-culturale come una superflua sopravvivenza metafisica tradizionale. Il sistema usa, a tal fine neutralizzante, l’ideologia democratico-egalitaria, che in nome dell’uguaglianza dei diritti civili e politici lotta contro ogni sistema sociale gerarchizzato, ossia contro ogni forma di organizzazione tradizionale della convivenza umana religiosamente stabilita secondo la fondamentale distinzione tra “sacro” e “profano”, dalla quale discende la priorità della morale sulla forza, all’origine di ogni divisione gerarchica della società che vi si ispira. Solo rimuovendo la sfera del “sacro” come valore pubblico riconosciuto si può addivenire all’uguaglianza universale dei cittadini consumatori, e perciò col mercato occorre esportare la democrazia, il regime politico-sociale più funzionale alle sue esigenze tecniche. Il limite di tolleranza tra il sistema capitalistico e l’ideologia democraticistica è costituito dall’accordo compromissorio dell’istanza politica egalitaria con l’esigenza produttivistica di non porre ostacoli morali e di principio all’efficienza del sistema e delle sue offerte concorrenziali, che inevitabilmente presumono una disparità di

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riuscita di intenti economici concorrenti, e quindi una sostanziale disuguaglianza degli attori sociali. 14. Il limite del capitalismo è che ogni svantaggio sociale e personale prodotto dal sistema non è compensabile con alcuna speranza escatologica, possibile solo entro una promessa di futuro, che è appunto la temporalità scartata dal sistema. Il tempo del successo capitalistico e della sua credibilità ideologica è il presente, e ogni sua speranza esistenziale riveste i caratteri dell’attualità, dalla cultura alla moda. Solo ciò che è “attuale” è “reale”, perché solo il contingente ha valore significativo entro l’orizzonte assolutamente immanentistico. Il giudizio di valore viene sostituito dall’informazione in tempo “reale”, che appunto è quello “attuale”. Superare quel limite di tolleranza del sistema, e infrangere la barriera temporale attualistica, commisurando l’efficienza alla luce della giustizia e il successo edonistico con la speranza fideistica, significa dare evidenza al gioco capitalistico smascherandone l’incongruità antropologica, attraverso la prova della insostenibilità ontologica dell’unità dell’esperienza umana entro la molteplicità dell’orizzonte della finitezza. Solo un processo spirituale trascendente le particolari esperienze finite può configurare una Storia entro le molteplici scansioni temporali della varia umanità. Ma lo Spirito della Storia è l’altro rispetto alla esclusiva dimensione attualistica della realtà capitalistica, il suo risvolto impalpabile e scientificamente incommensurabile perché costituito da quel “restante” escluso dal punto di vista della conoscenza razionalistica del mondo. Lo Spirito è quel “senso” valoriale dell’esperienza umana che il nichilismo ha sanzionato come inutile e vano, e perciò defunto insieme a ogni tradizione religiosa e metafisica. Quel senso della vita trascendente l’esperienza finita del destino mortale dell’uomo, in virtù del quale egli ha edificato le civiltà storiche, che ne costituiscono le sue forme istituzionali, e le ha giustificate razionalmente. Il sorgimento e il tramonto di queste forme storiche di civiltà, di queste culture umane, considerate nella loro astratta fatticità, non rendono il senso del travaglio umano della loro esperienza spirituale, in nessun modo assimilabile a un “gioco” innocente e svagato. Infatti quel travaglio è costellato di ansie e di passioni, di sconfitte e di resurrezioni di speranza, insomma di quella vita spirituale che non si può riassumere in un rilevamento di dati del mercato, il cui dramma non si può semplificare in una rappresentazione puramente polemica e antagonistica di volontà di

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potenza concorrenti nell’agone sociale. Questa terrificante rappresentazione, dove è apparsa verosimilmente reale, ha mostrato tutta intera la sua crudele assurdità auto-distruttiva per l’uomo, e perciò mostruosamente irrazionale. Recuperare il senso della vita umana fa tutt’uno con la coscienza ontologica della sua storicità, ossia dell’essenza del processo spirituale in cui si svolgono – sorgono e declinano – le culture umane. Solo ciò che trascende la finitezza della esperienza umana può offrire un orizzonte di senso unitario al suo molteplice processo avvenimenziale nel tempo. La finitezza dell’esperienza umana è offerta alla coscienza dalla individualità, che è la condizione dalla quale parte e si avvolge l’individualismo sociologico. Una condizione illusoria di onnipotente indipendenza dagli altri e dalla società che costruisce i suoi referenti normativi fuori da ogni mediazione razionale tra sé e il mondo circostante, negando di conseguenza tanto il patrimonio culturale comune che lo stesso lavoro come attività socializzata. La concezione individualistica elimina infatti dal rapporto “reale” tra gli uomini e con il Potere la mediazione delle istituzioni della libertà, assumendo l’individualità come una condizione di ragione originaria fondata su se stessa, e sulla quale ogni intervento esterno appare lesivo delle sue prerogative di autosufficienza razionale. Ma il carattere illusorio di questa condizione si annida proprio nella supposizione che l’individualità abbia i caratteri della razionalità, anziché della finitezza. Questo pregiudizio porta a negare la parte di verità che si cela dietro le sociologie comunitaristiche, che indicano appunto nella realtà di gruppo la compensazione di ogni limite individuale. L’errore del comunitarismo è di credere che il gruppo politico possa assolvere al suo scopo di superare la finitezza umana, per cui una condizione ontologica possa essere superata da una situazione politica. Ma la giusta critica alla impossibile soluzione politica ai problemi esistenziali non deve indurre all’errore opposto di ritenere inutile la socialità per l’individuo “reale”, poiché proprio questa supposta condizione “reale” è invece illusoria. Infatti la coscienza dell’individualità è sempre abbinata alla coscienza della colpa della finitezza umana, ossia alla consapevole distanza tra desideri volitivi e possibilità pratiche. In questo senso, la “volontà di potenza” dell’uomo è anzitutto volontà di poter essere meno solo nel fronteggiare il mondo. Ed è da questa coscienza che nasce il rapporto mistico con il potere divino; rapporto che l’individualismo edonistico ha piegato in senso acquisitivo di beni

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materiali di consumo, travisandolo in direzione mondana. Il coraggio stoico alla rinuncia cosmica, e quello cristiano al suo superamento irenico, si trasforma modernamente in sfida per il successo, in tensione polemica che ricerca una mediazione politica. La colpa trasfigurata in azione ha in sé tutto il carico polemico del negativo, e i segni altrimenti pietosi del riconoscimento del comune destino terreno, la dirompenza del conatus senza l’argine sublimante del telos. Il limite non accolto diventa pena subita, angoscia e penitenza, calvario mondano senza redenzione. L’unità consumistica del mercato ha surrogato l’unità politica entro i confini del Potere, ed entrambe hanno soppiantato l’unità mistica della comune condizione umana di dipendenza dalla Provvidenza. Il dolore originario si è convertito in potenza, e la preghiera in volontà. A contendersi la soddisfazione di tale volontà intesa come “bisogno” di potenza, è lo Stato e il Mercato, la politica e l’economia. E non a caso lo Stato moderno diventa dispensatore politico delle possibilità economiche e garante della sopravvivenza, sicché la stessa attività politica si trasforma in una economia politica. Senonché lo Stato provvidente ha una funzione di giustizia, cioè di equità sostanziale oltre che formale, tesa a fare più eguali i cittadini diseguali, laddove il Mercato basa il suo funzionamento sul dinamismo di chi più può su chi resta indietro, spronando a massimizzare i profitti e non le spese assistenziali. Questo cortocircuito tra etica ed economia la politica lo sta vivendo ai nostri anni, soprattutto in Europa, dove la credibilità ideologica delle rozze formule politiche democratiche è stata suffragata dall’assistenzialismo di Stato, basato sulla redistribuzione del reddito a scopo socialmente equitativo. Oggi lo Stato assistenziale è in una crisi profonda, non reggendo più la contraddizione tra i due princìpi opposti. Il fondo del barile pubblico è ormai raschiato fino al buco, e l’assalto al risparmio privato non può andare fino al suicidio elettorale. I cittadini o risparmiano per le spese dello Stato, o consumano per quelle private. Lo Stato caritatevole diventa vampiro, e la società è ormai a rischio di anemia. La molteplicità senza la diversità porta all’uguaglianza degli enti. Ed è tale condizione ontica a provocare, nella necessità di una strutturazione organica delle relazioni degli enti, il conflitto per il riconoscimento dei ruoli gerarchici, inseparabili da ogni forma di organizzazione sociale, partito politico “democratico” compreso. In tale conflitto si sostanzia l’essenza dei rapporti politici, dell’attività politica in sé, astratta da ogni

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finalismo etico e pedagogico. E la stessa essenza della democratizzazione come processo universale delle culture post-metafisiche e “positivistiche”. L’egalitarismo è la conseguenza pratica del nichilismo come “caduta dei valori cosmologici” e fine dell’ “ordine morale del mondo” (Nietzsche). Il suo “-ismo” costituisce l’unico surrogato valoriale possibile ai fini di una giustificazione razionale dell’organismo sociale strutturato politicamente come “sistema democratico”, di cui la tendenza egalitaria è il fine della stessa prassi politica e il “senso” residuo attribuito alla sua formula ideologica. La condizione critica del tempo diviene pertanto il “senso”, la “ragione” e il “fine” dell’impegno sociale dello homo positivus, dedito a universalizzare l’egalitarismo in ogni ambito umano come missione ideologica e morale personale. L’imperativo etico diventa: “rendere uguali i diversi”, che è il fine opposto di ogni cultura e dell’impegno pedagogico di ogni tempo. Il contro-senso di tale impegno di astratta omologazione ideologica è la destrutturazione di ogni sistema sociale tradizionale e la politicizzazione della convivenza umana, a seguito delle quali la formazione del cd. “Stato dei diritti” è il contrario storico del garante dell’ordine istituzionale, che l’infinita legittimazione politica di ogni istanza privata in cerca di riconoscimento pubblico rende logicamente impossibile e praticamente inconseguibile, provocando il conseguente bisogno d’ordine autoritario, contro il quale era insorta l’ideologia liberale. La volontà egalitaria, quindi, universalizzando astrattamente il principio di libera auto-determinazione, tende ad annientare se stessa provocando il suo opposto effettuale, secondo la dinamica della corrispondenza degli astratti opposti ideali nei reciproci contrari reali. La democrazia, quale potenza egalitaria, volendo affermare totalmente se stessa, afferma il suo contrario annientamento. Solo a tale scopo auto-distruttivo il suo processo dialettico potrebbe essere assecondato dalla Chiesa, custode dei valori tradizionali cristiani, ma col rischio però di rimanerne travolta dalla eterogenesi dei fini, privandosi per ragioni tattiche del suo ruolo di testimone dei valori eterni. Le tentazioni “democratiche” possono sedurre i professionisti della fede per il facile consenso in tempi di scarsa clientela, ma non un clero responsabile e cosciente del compito di preservare nella memoria comune il fine escatologico cristiano, serbando testimonianza dell’Eterno, fondamento e fine della Storia umana. Il suo fine, pertanto, non può essere quello di secondare i tempi, ma di contrastarne le tendenze

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nichilistiche, ripensandole alla luce dei valori eterni. Mai come oggi la sua missione, dopo la sua prima stagione, consiste in una attività filosofica, ossia nel ripensamento di ciò che è alla luce di ciò che è stato e che sarà, acché la Storia e la Speranza si compongano ancora una volta, dopo la scissione del Moderno, a rappresentare la Storia della speranza cristiana. La speranza inframondana, riducendo a scopo il fine irenico trascendente, ha trovato ricetto nella coscienza individualistica dell’uomo naturalisticamente empirico, astrattamente volitivo, che, concependosi come pura auto-affermazione vitalistica, ha abbandonato la sua forma spirituale e la dimensione di vita comunitaria alla profana politica regolatrice della socialità biologica. L’estinzione della comunità di fede come luogo etico autonomo dal politico, ha relegato la speranza in interiore homine, facendo della coscienza individuale il luogo residuo della carità come altra modalità di relazione rispetto alla socialità politica. La stessa contesa delle anime del Protestantesimo alla Chiesa cattolica iniziava il processo di individualizzazione della fede, che da religiosa in senso etimologico di legame comunitario, diventava soggettiva e non mediata da alcuna istituzione religiosa. La politicizzazione della vita “positiva” è anche il portato della simmetrica interiorizzazione della speranza caritativa, che non avendo più luoghi “pubblici” di socialità, diventava tensione mistica privata. La Chiesa, intesa come la realtà cattolica di riconoscimento della fede comune e luogo mistico della testimonianza dei valori cristiani, a seguito della rottura della simmetria tra popolo dei fedeli e comunità politica imperiale, che portò, anche per miope calcolo di potere ecclesiastico, allo sviluppo dei moderni Stati nazionali, divenne un ente politicamente loro rivale, intromesso negli affari di potere europei aventi ad oggetto il conteso primato sui fedeli anziché sui sudditi. Chi erano i “fedeli”? Chi i “sudditi”? I primi erano i convinti nella fede, i conquistati dallo Spirito, i convertiti, i membri della società che, uti singuli, venivano cooptati nella comunità dei credenti, la Chiesa appunto, che non aveva il potere politico, in mano allo Stato, che controllava tutti quali sudditi, cioè sottomessi dal Potere. Il corpo collettivo era dunque politico, mentre i singoli membri erano gli interlocutori della fede. Il governo politico cristiano era stata storicamente una emanazione della società cristianizzata, ossia era stato il risultato della fede, e non già il suo punto d’inizio e d’irradiazione. Il potere imperiale della tarda romanità non si sarebbe mai piegato ad accettare e riconoscere la fede cristiana se questa

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non fosse stata già una realtà sociale. Diverso il caso degli Stati nazionali moderni nati dalla dissoluzione imperiale medievale, i quali stabilivano il loro diritto all’esistenza rivendicando una autonomia dal controllo della Chiesa sul corpo sociale, affermandola attraverso lo strumento razionalisticamente autonomo della politica. Il tentativo moderno del Potere di affrancarsi dalla Chiesa e dalla religione, coincideva con il controllo politico dall’alto della società religiosa, cioè di quei fedeli che costituivano il corpo mistico cristiano. E’ da questa volontà superiore, che cala dall’alto verso la società, che nasce il concetto del governo, politico perché laico e non religioso, che decide sulla legittimità pubblica – politica e non religiosa – delle istanze provenienti dal corpo sociale dei privati cittadini. La dicotomia pubblico-privato ricalca quella tra politica e religione e tra governo e società. Ma solo una essenza trascendente può costituirsi come presenza storica senza snaturarsi come illusione mitica e nichilistica. Senonché, la “parola della croce” divenne verbo politico, realizzando per la prima volta quel “passaggio” ontologico del sacro al profano che la rivoluzione razionalistica riprese in chiave positivistica. La presenza del trascendente nella Storia, che induce ancora alcuni a ritenerla erroneamente l’esordio dell’ateismo, non consiste in un miracolo fisico, in una magia che sconvolge le leggi cosmiche, ma nel miracolo morale dell’evento contrario al principio naturalistico di esistenza e di conservazione della vita. “Miracoloso” dal punto di vista morale è l’avvento anti-utilitario e antiegoistico, realizzato a fine testimoniale del valore trascendente i rapporti naturalistici di conservazione e di potenza. L’alterità verso lo Stato non è istituita sul comune fondamento dei rapporti politici, ma su un cambiamento radicale di linguaggio e di semantica dell’azione. Il Potere imperiale divenne per il credente nell’onnipotenza di Dio la contraddizione vivente della kénosis del Cristo, che rinuncia alla logica del mondo reale per testimoniare la verità dell’altro, della sola fides. E’ il miracolo della santità che supera l’antica sacertà pagana, inaugurando la simbologia tra svalutata della croce come segno d’amore, anziché di feroce sofferenza. Il deicidio cruento diventa, per la fede, la “credenza”, rispetto alla “verità” d’amore della resurrezione. Il “senso” dell’esperienza umana cambia radicalmente, non apprendo più, alla luce della fede, risolversi nel rapporto Servo-Padrone, ma nella fraternità del rapporto caritatevole. La carità diventa la cifra

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ermeneutica dell’anti-cosmismo cristiano, che negava l’essenza del Potere all’atto di rassegnarvisi senza opporre resistenza fisica. Non più dal mondo proveniva il senso del mondo, che appariva mitologico al credente, ma dalla realtà invisibile del regno della fede. Il teoreta greco contemplatore dell’eidos divenne un visionario per il profeta cristiano. La fede fa del mito una verità ontologica, la quale, senza la fede, diventa mitologia. E la fede non è altro che l’orizzonte escluso dal punto di vista della ragione, il cono d’ombra non illuminato dalla luce esclusiva del giudizio, quel “restante” che “non si vede” ma “c’è”. Il rapporto tra fede e verità è stato a lungo e variamente dibattuto, ma non sempre pertinentemente. Abbinare alla sola fede la volontà ontologicamente decisiva circa l’esistenza degli invisibili, e alla sola verità l’immagine dell’essere eterno delle cose, è fuorviante. Infatti, la “decisione” ontologica è sempre un atto di fede, quello originario che stabilisce che “l’Essere è”, e non già “il Nulla”. Senza tale decisione ontologica, non sarebbe possibile giustificare il senso della realtà delle cose del mondo. In tal senso la fede ha in sé il dubbio, che è all’origine del “thauma” filosofico, ossia della domanda che attende una risposta persuasiva. Ricordava Paolo che la fede “è l’argomento di cose che non si vedono”, quelle cose cioè che, come asseriva Tommaso, sono invisibili sia agli occhi del corpo che agli occhi della mente, poiché non sono riconducibili né alla fisicità degli enti molteplici e neppure alla “visione” delle idee. La fede cristiana è l’intelletto assistito dalla grazia, la recta ratio di un pensiero non auto-fondato e perciò meramente creduto, ma partecipe di ciò che sta oltre la realtà razionale e sensibile del mondo dominabile con la volontà, nel “cielo” che è nel “cuore” dell’uomo divinamente ispirato. Rispetto alla mera credenza, nata dall’errore o dall’utile, la fede è un atto di libero convincimento, ossia un giudizio morale che assume nella sua decisione la responsabilità di sciogliere il dubbio ontologico nel senso dell’Essere. E in tal senso partecipa della sua “gloria” accogliendo la sua “verità”. Tale “giudizio”, senza il conforto della fede ontologica, diventa con Nietzsche un “pregiudizio morale”: quello di il ritenere che “la verità valga più dell’apparenza”, ossia che quanto sia escluso dal punto di vista dell’osservatore abbia un suo diritto di considerazione, insomma che “l’altro” sia. La possibilità d’essere dell’ “altro” da ciò che appare, dalla realtà “presente” nel punto di vista della volontà e all’attualità dei sensi, costituisce la condizione del dia-logo, e quindi della dialettica.

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E’ la fede che libera il punto di vista dall’angustia della sua ristretta visuale sul mondo, dandogli la luce del Tutto, ossia della verità. Il superamento della ristrettezza della visuale dominabile dalla volontà, che è il campo della realtà pratica, il limite segnato dalla natura finita dell’uomo; questa vittoria morale, guadagnata dalla fede sulla realtà apparente, che costringe l’uomo naturale a subire l’angustia della sua finitezza, è la santità, che costituisce il modo cristiano di giungere al dominio spirituale e non fisico del mondo altro dall’egoistico sé. Un mondo in cui l’altro si incontra non polemicamente, nell’agone politico, come nemico, a misurarne la forza volitiva, per piegarlo alla propria volontà di potenza, ma si incontra come prossimo nella carità, che è quella remissiva debolezza della volontà che sublima la forza fisica in fortezza d’animo, il Potere politico in carisma spirituale. E’ la potenza del dialogo persuasivo della maieutica socratica che sovverte durevolmente l’animo, sulla imposizione dionisiaca della forza fisica che piega provvisoriamente il corpo. E’ la potenza della fede che sconfigge la necessità nel martirio della croce. Solo nella fede la co-esistenza diventa comunione, perché lo spazio politico della sovranità umana, regolata regolativamente dal diritto, diventa luogo mistico dell’escatologia irenica, dove mancando l’incertezza propria dei rapporti interessati del mondo finito, non c’è neppure diritto ma solo relazione caritatevole e fraterna. L’esercizio spirituale per giungere alla santità è l’alternativa morale alla pratica politica per giungere al dominio economico del mondo; l’unica che può sostituire alla tecnica della rivoluzione dei corpi il miracolo della conversione dei cuori, alla pretesa della volontà, legata al diritto, la attesa di esaudizione, legata al dovere. Com’è noto, Kant riteneva che il “progresso morale” dell’uomo non dipendesse da un “cambiamento di costumi”, legato all’esercizio della legalità, che è virtù empirica (virtus phaenomenon), ma solo da una “rivoluzione dell’intenzione”, cioè da un cambiamento radicale della mentalità e del modo di pensare i rapporti umani, che potesse far nascere effettivamente un “uomo nuovo”. Il nuovo fondamento intenzionale era costituito appunto dal principio di “santità” quale “virtù intelligibile” (virtus noumenon), che intaccava alla radice il lato oscuro e peccaminoso dei comportamenti umani, evitando di fare affidamento sul mero miglioramento delle forme di socialità, insufficienti a promuovere una rivoluzione spirituale e a colmare l’abisso che separa il bene interiore dal male delle nostre

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azioni. Proprio per questo jato incolmabile, la condotta legale non basta a realizzare l’atto morale, che pure rimane la meta cui tendere. La santità resta in ogni caso irraggiungibile all’uomo, data la sua natura lapsa e l’insopprimibile limitazione maligna di ogni sua realizzazione finita, ma proprio perciò bisogna dare rilievo morale alla volontà del “soggetto intelligibile”, che salvi almeno le sue buone intenzioni, distinguendole dagli esiti reali delle sue azioni, guidate dalla Provvidenza, e lasciando al giudizio divino il resoconto dei suoi peccati. L’azione morale viene da Kant, come già in Lutero, paragonata allo “stato di grazia”, che è quella sorta di sospensione metafisica dalla condizione di peccaminosità terrena che si realizza allorquando l’uomo sconfigge la sua connaturata tendenza al male. E poiché il comportamento umano riguarda tanto i singoli quanto la società nel suo complesso, è necessario distinguere i “doveri etici” che riguardano complessivamente il “genere umano”, dai “doveri politici”, inerenti i rapporti particolari tra i gruppi sociali, che sono regolati dalle norme giuridiche. Sicché, mentre il comportamento politico riguarda la “legalità delle azioni”, ossia il giudizio umano sulla loro adeguatezza, il comportamento etico riguarda l’aspetto morale delle azioni, e quindi il giudizio di Dio sugli uomini. L’adeguatezza dei comportamenti umani alle norme legali coincide con la loro efficacia, ossia con il loro carattere strumentale rispetto allo scopo politico dello Stato, che è la sua potenza. Il percorso per la santità, essendo opposto a quello per la potenza, non può servirsi degli stessi strumenti della politica, né contare sulla stessa sua logica. Gli strumenti della politica sono quelli della forza, la cui logica è quella economica dell’interesse di sé. L’azione interessata è quella è dettata dalla volontà di ottenere un vantaggio, ovvero di conseguire un intento per sé. La volontà economica è tesa a misurarsi con l’altro attraverso la forza, per arrivare a un accordo politico. Il legame di riconoscimento politico è il diritto. La scelta per sé è una scelta politica, la cui legge economica è di agire contro l’altro. Opposto è il caso della scelta morale, guidata dalla legge della carità di agire per l’altro. Morale e politica sono due campi di azione diversi e non dialettizzabili, soggetti a una scelta esclusiva, in cui consiste la libertà di coscienza. La dimensione caritativa della volontà è quella morale, mentre la dimensione economica è quella politica. La logica economica della politica è tesa a massimizzare la potenza del sé con i mezzi economici disponibili. Entro la ragione politica, che appunto si muove

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secondo una logica economica, non c’è spazio per la morale, che è la sfera dell’altro, e non del sé. La politica non può servire la morale, ma solo la sua logica interna, che è economica e non altruistica. La volontà caritativa, che agisce in base a una logica altruistica, è l’atto d’amore che vede nell’altro il proprio sé, e non il nemico, e cerca l’altro per raggiungere insieme il reciproco riconoscimento spontaneo. Il rapporto caritativo è incentrato sulla considerazione dell’altro, all’opposto del rapporto politico incentrato sul sé. Se il fondamento della realtà è l’Io, allora il Tu è una sua creazione. Ma se invece quel fondamento è il Tu, allora è l’Io ad essere una sua creatura. Sostituire Dio con la società o col Potere, ha effetti devastanti per l’uomo, che diventa pertanto un mero prodotto socio-politico. Ma altresì porre il Soggetto di coscienza in interiore homine non è privo di pericolose ambiguità per la libertà dell’uomo, ingenerando la credenza che la sede della verità coincida con la verità stessa, che sussisterebbe etsi Deus non daretur. Solo nella differenza ontologica è possibile conservare il senso dell’unione contingente, e perciò libera, del divino con l’umano. Da qui la necessità di ripensare l’esperienza dell’uomo alla luce del fondamento sacro della Storia. L’emancipazione della politica dalla morale è conseguenza di una concezione antropologica, che fa dell’uomo un “animale sociale”. Se la socialità è la dimensione unica della stessa umanità, quella che definisce ontologicamente l’essere umano, la logica sociale prevale su ogni considerazione individuale dei singoli membri della società. Ed è questa logica olistica che viene contestata dal liberalismo. Il quale, però, si muove pur sempre entro l’antropologia aristotelica, in quanto ne condivide il monismo ontologico che è alla base della sua metafisica naturalistica. Come essere di natura l’uomo è sociale. Ma soltanto se sociale la sua ragione è politica e tesa alla preservazione del gruppo, a partire dalla sua sussistenza economica. Il rapporto tra società politica e ragione economica è strettamente dipendente dalla definizione antropologica dell’uomo come essere naturalmente “sociale”. In questo caso, “l’uomo”, propriamente detto, è un’astrazione, essendo il gruppo sociale la realtà storica naturale. Diverso il caso se consideriamo l’uomo non come specie naturale e zoologica, ma come essere spirituale. In questo caso, è il gruppo sociale che diventa un’astrazione sociologica e naturalistica. Il liberalismo ha mutuato dalla coscienza cristiana il concetto di persona spirituale, ma l’ha naturalizzato in termini di individualità economica, cercando di tradurre l’istanza

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soggettivistica in ambito sociale, dialettizzando la logica individualistico-economica con quella socio-politica. Ma questa concezione sincretistica della convivenza umana è a sua volta contraddittoria, perché cerca di spiegare economicamente le ragioni per cui l’individuo dovrebbe preferire se stesso alla società, facendo di questa il suo orizzonte politico-esistenziale intrascendibile. L’essere spirituale, rispetto a quello politico, non è l’individuo rispetto al gruppo sociale, ma è l’essere eterno rispetto all’essere temporale. L’eternità viene contrapposta alla storicità dell’uomo solo assumendo la temporalità come la dimensione storica, secondo la visione appunto naturalistica dell’uomo. Mentre è esattamente il contrario nella prospettiva spiritualistica, dove la storicità è la dimensione propria dell’eterno. La storia spirituale è fenomenologia dell’eterno, rispetto al quale la storicità temporale è sociologia politica. Lo storicismo spiritualistico non può essere racconto di avvenimenti socio-politici, oggetto della sociologia storica o dell’economia politica, ma solo di eventi spiegabili all’interno di un orizzonte di senso. Non c’è “storia” senza un “orizzonte di senso”. Il senso della Storia umana è spirituale, mentre il senso delle molteplici storie dei gruppi particolari è sempre sociale, cioè inscritta nella temporalità degli avvenimenti finiti, e ha sempre lo stesso movente economicopolitico. E’ certo che una Storia depurata del suo senso trascendente, diventa semplice narrazione di illusioni e delusioni umane, quale apparve a Nietzsche e che divenne oggetto della riflessione di Heidegger. La rimozione dell’ontologia cristiana aveva lo scopo di proporre una nuova antropologia, che affermasse una visione totalmente circoscritta nell’orizzonte della finitezza esistenziale dell’uomo, laddove la trascendenza dell’esperienza finita era il punto di partenza dello storicismo spiritualistico cristiano. Un orizzonte spiritualistico non poteva includere la politica come tecnica delle relazioni umane, esorcizzando a scopo correttivo le sue ragioni economiche come immorali. Questa contraddizione è alla radice del “fallimento” storico del Cristianesimo e del suo incapace intento di edificare in terra la Città celeste sulle rovine politiche di quella degli uomini pagani. Tornerebbe a fallire se esso si proponesse ancora un disegno del genere, e con gli stessi mezzi eterogenei al suo fine escatologico. Infatti, il tentativo rinnovato dalle ideologie secolaristiche di portare il cielo in terra non ha avuto esito che catastrofico, segno ulteriore della vanità del

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progetto. Cambiare rotta significa anzitutto ripensare l’improponibilità storica di una città totalmente umanistica che sia anche “umana”. In tal senso, occorre un ripensamento della logica economica della politica che non si basi sulla giustificazione del mero dato di fatto, e che quindi la veda solo come una possibilità tra altre possibili di convivenza umana. La crisi morale del nostro tempo è quella della civiltà del diritto, con la sua società dei diritti regolati, la civiltà della contesa, che concepisce i rapporti umani come esercizio del polemos, della lotta per il riconoscimento del sé, della propria ragione. La quale, anche quando democraticamente stemperata in polemica verbale, non contemplando la consegna del valore delle ragioni altrui, non prevede la regola del silenzio, dell’attesa che il senso raggiunga l’espressività della parola e stabilisca la sin-patia della comprensione, indispensabile a ogni tirocinio ermeneutico. E non tenendo conto del valore di verità del restante altro, non riesce a eludere il rischio del sopruso, insito nel conato eristico ad avere la ragione, anziché servirla. E allora il monologo, proprio dell’arte sofistica, non consegue il dialogo di verità, lasciando che la ragione, non servita dalla volontà, non possa a sua volta servire la verità. Il servizio alla verità è l’esercizio filosofico del pensiero non deviato dalla volontà di potenza, non obnubilato dalla vis polemica della ideologia, che è la ratio della politica, la ragione moderna per eccellenza. Uscire dal moderno si può con profitto spirituale solo riandando all’eterno, non certo rielaborando le mitologie secolaristiche per renderle più seducenti alle masse elettorali dei consumatori. A questo buon fine è chiamato il compito di un pensiero che, dopo lo smarrimento del servizio al Potere, abbia ritrovato la strada della verità, lastricata di una fede servizievole ma non servile, perché libera. La libertà è valore eminentemente cristiano, perché fondata sulla fede nell’altro, il cui modello antropologico è Cristo. E fede vuol dire l’opposto della costrizione. La costrizione che rende liberi è quella dell’ordine leviatanico. La società che si organizza grazie all’intervento del potere leviatanico, denuncia l’impraticabilità dell’autonomia dell’uomo dal Potere. E, come per la torre di Babele narrata da Dostoevskij, se l’uomo non vuole servirsi dell’aiuto divino per edificarla, deve far ricorso a quello diabolico. Scartare Dio per finire nelle grinfie del Diavolo, questo è il paradosso dell’umanesimo ateo, che intende costruire la città dell’uomo fondandola sulla sola volontà di umana potenza. Il

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totalitarismo, socialista, fascista o democraticocapitalistico che sia, essenzialmente ha questa pretesa demiurgica di creare una società retta da sole norme umane, fondata dal principio socialitario della sola sopravvivenza biologica fine a se stessa, un sogno realizzato che avrebbe annunciato al mondo che “è giunta l’ora del finito”, per dirla con Guardini. Che la società dei liberi (da Dio) si sia rivelata per l’uomo un inferno diabolico, che, come il programma di Sigaljov, “partiva da una assoluta libertà per concludere con un assoluto dispotismo”, è storia recente, le cui vicende antiumane dovrebbero farci riflettere che solo un pensiero essenzialmente cristiano può essere fondatamente liberale. Fuori della verità cristiana, la libertà non può che essere quella “volontà di potenza” che, politica o economica, ha sconvolto e travolge ancora la nostra epoca nichilistica. Gli uomini, dalla natura fragile, sono stati sedotti dalla diabolica lusinga, confidando nella promessa fatta dalle utopie politiche di dispensarli dal “lusso dannoso” della scelta morale, come lo chiamava Bernanos, ossia dai travagli delle loro responsabilità di attenersi al bene anziché al male. Ma la promessa della felicità, ossia della eudemonistica tranquillità di godere del poter fare a meno di quella scelta, è il contrario della promessa cristiana della libertà, che è indisgiungibile dalla verità come la felicità dalla menzogna, come il dramma della Storia sacra dalla tragedia dell’utopia atea. Quello verso la verità è l’unico “passaggio” di libertà consentito all’uomo per superare la sua finitezza e riscattarne la colpa di essersi allontanato da Dio. Una libertà intieramente terrena, nata con l’uomo e solo per l’uomo, ha gli stessi caratteri della sua natura finita, destinata perciò a svanire nell’attimo stesso della sua apparente esaudizione. Anche questa è mortalità, ma senza resurrezione. Se il movimento dalla carne allo spirito, cioè dalla necessità alla libertà, è superamento del contingente nell’eterno della verità, il percorso inverso è costrizione e violenza. L’uomo spirituale non può tornare alla socialità naturale senza perdere la sua umanità, senza violentare il sacro che è in lui, e con esso la stessa verità, ossia la capacità di elevarsi con lo spirito oltre “il muro” dei rapporti finiti. Per comprendere l’uomo occorre partire dalla verità, e non dall’uomo stesso. Infatti, a partire dall’uomo ci si arresta la di qua dei montaliani “cocci aguzzi di bottiglia

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