Coscienza storica

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: San Girolamo, Michelangelo Merisi da Caravaggio,1605-1606,olio su tela 112Ă—157 cm Galleria Borghese, Roma

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Coscienza Storica Nuova Serie

L’apocalisse del moderno

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Il valore cristiano della libertĂ come essenza della decisione morale

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Scienza e Fede

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L’Apocalisse del Moderno La

comunicazione

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distanza oggi rischia di smarrire il suo contenuto a favore della mera pervasività, con una ricaduta di fruizione pari alla sua facilità di accesso. Molti, anzi la gran parte, dei messaggi toccano il vasto pubblico ma non lasciano il segno. Per una ragione molto semplice: sono privi di pensiero e più vicini alla immagine della realtà. Se c'è oggi un bisogno tanto impellente quanto rimosso è il bisogno di pensiero. Se dunque oggi si coltiva tale bisogno non è per stabilire una differenza elitaria rispetto alla comunicazione orale di massa, bensì per segnare il limite di ciò che la comunicazione semplificata non può conseguire. Ossia l'orizzonte stesso del pensiero, la sua frontiera, coincidente con il limes del senso razionale. Se oggi, pertanto, si vuole tradurre il bisogno di pensiero in contenuto di senso razionale, occorre conseguire quel limite per valicarlo, superando la linea critica per una nuova prospettiva di contenuti positivi. Chi, invece, volesse mantenersi entro l'orizzonte di senso della tradizione razionalistica, ovvero al di sotto delle sue più mature determinazioni, non farebbe altro che divulgare, riepilogare o volgarizzare l'esperienza acquisita senza investire a partire da essa una intelligenza del mondo ultronea rispetto a quei pur maturi risultati critici, assegnandosi un ruolo gregario ed epigonale destinato alla divulgazione erudita o più modestamente accademica, rinunciando così allo sforzo di costituirsi come avanguardia profetica La profezia nel nostro tempo è lo sguardo oltre l'orizzonte filosofico, nella regione del Mistero, dove ab antiquo regna la Verità inclusiva anziché esclusiva del Logos, che è il regno del légein originario, della parola di senso simbolico designante la sacertà della condizione divina.

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Infatti, la risalita alle origini del pensiero non può fermarsi al terminus a quo del filosofare, ma occorre andare oltre quella soglia per rientrare all'Origine, ove risiede la scaturigine del Logos, che è il Mito. Il Mito è il luogo della indeterminazione da cui sorge ogni pensiero determinato, la cui elaborazione di senso univoco conserva in ogni sua determinazione la matrice mitica originaria, indicata dal filosofare come Niente rispetto all'Essere del Logos. Ebbene, esaurito nel moderno il moto di fuga del Logos, orfano per parricidio doloso del Mito, non è più consentito al pensiero più consapevole limitarsi a vegliare alle frontiere dell'Essere i cimenti impavidi dell'azzardo scientifico, ma gli è dovuto valicare quel limbo prodigioso, per conseguire un nuovo abbrivio, più ricco di avvenire. La "terza navigazione" della coscienza post-moderna perché post-filosofica deve ritrovare la paternità perduta andando oltre l'Essere, nel regno ignorato ed escluso dal Logos, in cui la parola oggettivata ritrovi le sue neglette spoglie soggettive, per addivenire a una nuova rappresentazione del mondo all'insegna non dell'astratta universalità del dilatato prese ma della presente ma della eterna concretezza del Tutto. Ebbene, pensare il Tutto anziché l'Essere significa per la coscienza postfilosofica ristabilire quel rapporto col sacro reciso programmaticamente dal razionalismo per statuto epistemologico. E dunque riconsiderare all'occorrenza il valore d'esperienza conoscitiva del linguaggio simbolico, poetico e religioso, custode di una fede ontologica costitutiva del fondamento di ogni ragione, introvabile entro il suo orizzonte. La crisi del pensiero razionalista moderno è conseguente all'oblio del fondamento mitico di ogni pensiero; fondamento che per la nostra tradizione europea è quello cristiano. Il modo di pensare europeo è fondamentalmente cristologico. L'antico Logos della sapienza pagana si fa carne come Verbo cristiano, divenendo fonte archetipa di ogni elaborazione di senso razionale: teo-logia.

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La scissione moderna della sua radice cristiana ha fatto dell'umanesimo del Logos l'antesignano razionalistico dello scientismo attuale, potenza tecnica negatrice del sacro Mistero che circonda l'Essere, e pertanto priva di ogni affabulazione e negatrice della stessa tradizione letteraria che contrassegna la nostra civiltà. La realtà della dissoluzione del mondo, profetata da Daniele, con la congiunta persecuzione degli uomini santi, riguarda, come è noto ai credenti, l’avvento dell’Anticristo, portatore di avversità, qui adversatur, e di discordie, l’antikeimenos, di cui parla Paolo nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Il primo portatore di discordie, nel mondo antico, fu Socrate, il quale inaugurò quel metodo dialettico che Platone, suo discepolo, lo teorizzerà in senso universale e non solo più relativo alla sfera etica. Nel mondo cristiano, portatore di discordie e di divisioni fu lo stesso Cristo, che, contestando la tradizione legalistica custodita dai Farisei, inaugura quella libertà ermeneutica della verità custodita dal Vecchio Testamento che verrà canonizzata nei Vangeli e quindi nella tradizione esegetica patristica. Mutato il paradigma interpretativo della Verità, muta anche il senso della sua annunciazione. La verità mitica, attraverso la mediazione della lettura filosofica, sposta il baricentro della credenza razionale dalla dimensione puramente politica dell’ossequio al Potere costituito, alla dimensione antropologica dello homo rationalis, interprete di valori etici superiori alla stessa legge positiva perché ideali. Parimenti, la verità biblica, attraverso la mediazione della lettura evangelica, sposta il baricentro della fede dalla dimensione puramente legale dell’ossequio al Padre, alla dimensione antropologica della divinoumanità del Figlio. Una stessa fede dunque si dispiega col Cristianesimo in termini di apostolato e di messianismo storico, non solo più come destinazione etnico-nazionale a un popolo privilegiato e depositario unico di essa. In questa esigenza cattolica del Cristianesimo storico e universalistica della ragione dialettica, si trova il punto di raccordo della sapienza antica e di quella nuova, che ricuce in una novella sintesi teo-logica la frattura culturale apertasi dalla follia della predicazione del Cristo entro il cosmo naturalistico greco.

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Dall’incontro della fede escatologica evangelica con il Logos filosofico nasce la tradizione intellettuale e teologico-politica romano-alessandrina, ereditata storicamente dalla universale civiltà europea. Orbene, questa millenaria sintesi etico-teoretica della civiltà cristiana, erede di quella antica, è sopravvissuta ai due grandi scismi cristiani, d’Oriente e d’Occidente, e si è infranta con la nascita della cultura moderna e dell’umanesimo razionalistico neo-fisicalistico. Con lo scientismo moderno, la fede cristiana è diventata una questione puramente religiosa, distinta e separata dal sapere e dalle teorie razionalistiche della conoscenza della realtà naturale e storica. Dal punto di vista della fede, la svolta umanistica l’ha ridotta a religione, surrettiziamente riconsiderata all’interno della sua funzionalità politica, dalla quale la predicazione di Cristo come fede nella Verità l’aveva in origine voluta emancipare. Dal punto di vista culturale, lo scientismo umanistico, riabilitando il sapere antico, distinto dalla sintesi teologica cristiana, riportava in auge le categorie di pensiero pagane, liberandole da ogni mediazione morale ed escatologica, riconsiderando la storia spirituale dell’umanità in termini puramente biologico-politici, rispetto ai quali ogni rappresentazione spiritualistica acquistava il valore di una superfetazione mitica e fantasiosa. La verità cristianamente pensata diventava per la ragione moderna un Mito, verso cui il sapere scientifico operava come già la filosofia greca aveva operato sulla mitologia pagana. Il germe della dissoluzione era già interno al Cristianesimo, ed era appunto costituito da quell’universalismo ideale che era stato il portato del pensiero dialettico greco, la cui tecnica, liberata da ogni finalismo teoretico, diventava il metodo scientifico di considerare ogni ordine della realtà in senso razionalistico. Ciò che tratteneva () la deriva ateistica e l’apostasia (descessio) dello scientismo razionalistico dalla Verità trascendente ogni naturalistica certezza empirica, è stata nella Cristianità considerata la Chiesa (), e non già quella fides senza la quale la pagana ratio diventava una mera tecnica (), confondendosi la creatura divina di Dio, il Suo strumento storico, con il suo Creatore, nel quale il credente era chiamato appunto a credere.

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Rispetto alla antica fede giudaica in Dio, la fede in Cristo assumeva un valore di rinnovamento spirituale in senso non più etnico-culturale particolare, ma transnazionale e antropologico universale, e quindi inclusivo dell’antico nel nuovo credo. Tuttavia, questa rinnovata fede in Dio attraverso la fede nel Cristo, non poteva né può confondersi con la fede nella Chiesa come istituzione storica e struttura mondana di organizzazione religiosa internazionale. Infatti, proprio questa indebita confusione della creatura col Creatore ha storicizzato lo stesso oggetto della fede, riferendola a una realtà umanamente imperfetta, al pari della struttura sociale e dello Stato. L’idolatria ecclesiale, non soltanto è stata fomite di divisioni interne al Cristianesimo, ma ha contribuito non poco alla determinazione della Verità di fede come un oggetto di pensiero, suscettibile di una definizione teoretica di carattere logico-filosofico, e quindi dialettico, al pari di ogni ente ideale. E infatti lo stesso processo culturale che ha condotto la Chiesa, comunità di fede e strumento divino, a trasformarsi storicamente in una umana istituzione di Potere religioso, in grado di competere sul piano politico con le altre potenze secolari, ha condotto al culto fideistico dello strumento razionale (Lògos) privato di ogni télos trascendente il suo stesso metodo, e dunque alla rimozione sistemica della Verità dall’orizzonte di coscienza dell’epistemologia moderna, che l’ha confinata alla dimensione privata del foro interiore come una rappresentazione non razionalmente sostenibile della realtà. Il motivo protestanico della sola fides, astratto dal suo fine escatologico divino, è anch’essa superstiziosa credenza nella realtà dell’ente come speculum Dei, e va considerato opposto ma omologo al motivo istituzionalistico cattolico, che fa dell’ente ecclesiale l’idolum tribus ecclesiastico, rappresentando i due volti storici della rispettiva apostasia dalla fede comune in Cristo, l’unica Verità. Rimossa la fede nella Verità cristiana, e considerato il suo credo alla stregua di una qualunque credenza mitica dell’attempato e metafisico homo religiosus, oggetto culturale transeunte, destinato a essere superato come ogni altra similare credenza religiosa nel processo del nichilismo storico, i termini esistenziali della realtà umana sono stati razionalisticamente omologati e a quelli naturalistici di

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ogni altro essere vivente, ritenendo un errore la separatezza metafisica tra res cogitans e res extensa, ma non la considerazione dell’uomo come una res astrattamente oggettivabile alla pari di ogni contenuto di pensiero razionale, facendo così della umanità un’Idea, e della salvezza dell’uomo un ideale storico, e come tali affrontabili con gli strumenti offerti dalla ragione umana e dalla sua tecnologia. Sul piano della realtà sociale, l’ideologia umanitaria assume le forme istituzionali della democrazia, mentre lo strumento della salvezza biologica dell’umanità viene fatto consistere nel sistema capitalistico. L’Anticristo non è, come potrebbe pensarsi, un qualcuno in senso singolare, come potrebbe essere un dittatore, ma è l’ente mondano venerato come il rispecchiamento dell’Essere, ovvero, nei rapporti politici, il Popolo idolatrato come il Sovrano, e nei rapporti economici la Ricchezza idolatrata come lo stesso benessere dell’umanità, fuori di ogni tensione finalistica verso l’affermazione spiritualistica dell’uomo, in cui consiste la salvezza cristiana. La salvezza celeste secondo Agostino è appunto la affermazione spirituale dell’uomo cristiano sull’animale sociale pagano. Allorquando Tertulliano afferma che “l’imperatore è grande proprio perché è subordinato al cielo: infatti, anche egli appartiene a Colui al quale appartiene il cielo e qualsiasi altra creatura”, e che “egli è imperatore grazie a colui in ragione del quale è anche uomo, prima che imperatore; provenendo il suo potere dalla stessa origine del suo spirito” (Apologeticus Adversus Gentes pro Christianis, XXX, 1-4), esprime in linguaggio arcaico la natura stessa della questione politica moderna, che fonda sulla superstiziosa fede nella sovranità popolare la legittimazione del Potere, ponendo al posto della volontà di Dio la volontà dell’elettorato, così come al posto della Verità trascendente, la credenza nell’ipotesi epistemologica della comunità scientifica. La crisi di valori attuale, in un mondo dominato dalla superstizione idolatrica nel benessere materiale, a garanzia del quale si confida nelle risorse infinite della scienza, non può essere affrontata con espedienti dottrinali o con politiche di piccoli passi diplomatici, ma ogni soluzione deve partire dalla consapevolezza che le categorie di pensiero che hanno fondato il

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cosmo culturale cristiano erano tarate da sincretismi razionalistici di retaggio naturalistico pagano, che si sono rivelati funzionali alla conservazione del mondo antico sotto mentite spoglie cristiane, ma che non sono serviti a cambiarlo in senso spiritualistico.

americano, che può esportare efficienza tecnologica e rappresentazioni mitizzate del suo modello di vita capitalistico e democratico, ma non può confutare le verità che sostengono l’esistenza concreta dei popoli che lo subiscono.

L’intento di cambiare il mondo in senso spiritualistico non può conseguirsi come un obiettivo politico, facendo della fede cristiana una ideologia da zeloti o da feddain o da talebani. Al contrario, la fede cristiana consiste esattamente nel superare la dimensione politica della vita sociale a favore della dimensione singolare in senso esistenziale di Kierkegaard, trascendendo la figura personale dell’uomo che a tanti equivoci concettuali si è prestata per la polisemicità del suo uso, promiscuamente giuridico e teologico. La salvezza dell’Uomo non equivale alla salvezza di un popolo, di una razza, di una nazione, di uno Stato o di una classe sociale. Ma neppure alla salvezza di un Impero o di una astratta Umanità, sia pure religiosamente connotata come Chiesa universale. Così come la salvezza dell’Uomo non può essere fatta coincidere con un sistema economico, sia pure globalizzato. Questi sono ideali mondani e storici in senso empirico, e costituiscono oggetto di credenza alla stregua di una teoria scientifica, che è valida fino a prova contraria, per cui basterebbe far tacere ogni prova confutatrice per salvaguardare la presuntiva fondatezza dell’ipotesi. Questo oggi sta avvenendo per le ideologie politiche, viepiù uniformate al modello storicamente vincente dell’american style of life. Come ogni astratto modello ideale, anche quello storicamente vincente che vi si ispira può essere universalizzato senza perdere la sua natura empirica e transeunte di ente finito, e perciò imperfetto e diveniente. Ciò comporta che la sua espansione geopolitica è ostacolata dalla concretezza dei fenomeni locali, significativi secondo la propria natura ideale e il proprio fondamento ontologico, ossia la loro fede metafisica. In tal senso, la globalizzazione capitalistica trova nelle tradizioni religiose locali una resistenza simile a quella che fu il cristianesimo alla espansione dell’ideologia romana. La forza del cristianesimo non fu certamente politica, come quella della Chiesa, ma fideistica. Infatti la forza politico-militare romana si fermò davanti alla dichiarazione di Gesù circa la esistenza della verità, di cui Pilato ignorava il significato. Lo stesso accade oggi all’imperialismo

Ed è questa sostanziale ragione che obbliga il Potere imperialistico occidentale a cercare di neutralizzare le fonti locali della verità, facendo direttamente appello ai bisogni vitali dei popoli e alla loro legittimazione politica attraverso il consenso elettorale, senza passare attraverso la mediazione culturale delle tradizionali élites intellettuali e religiose. In questo senso esso opera come una potenza anti-spirituale e anti-storica, che ribalta l’origine della sovranità dal cielo dei princìpi alla potenza delle forze terrene, secondando la previsione profetica di Paolo di 2 Ts, che prevedeva l’apostasia o discessio della potestà politica, che riceve autorevolezza dalla rappresentanza popolare, cioè del Potere mondano, legato alla mediazione della forza sociale, dalla autorità morale del Cristo generato da Dio,cioè dal Governo assoluto, divinamente ispirato dalla fede. E proprio questa separazione, conseguente a quella intervenuta nel corso razionalistico del pensiero moderno, dove il Logos antikeimenos si è scisso dal suo fondamento ontologico di verità di fede, ad essere foriera della anomia dilagante nella attuale società liquida.

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La fede cristiana, rivedendo i fondamenti della propria teologia politica, deve proporsi di riconsiderare le ragioni teologiche di tale scissione metafisica, che ha riconsegnato la civiltà alla teoresi naturalistica neopagana, per riproporsi come fonte spirituale di una concezione impolitica della storia umana, e pertanto, rispetto al corso politico moderno, non già come ispirazione di una politica contro-rivoluzionaria ma bensì di una cultura contraria alla mera rivoluzione politica, per riprendere la celebre espressione di de Maistre,. Posizione che fu quella assunta da Gesù, che si oppose all’ideologizzazione religiosa della fede da parte degli zeloti, negando col martirio che la politica potesse avere il posto di Governo che spetta solo a Dio. Oggi lo zelotismo, che ha interessato anche alcune correnti teologiche libertarie, si diffonde nell’Islam, e perciò il cristianesimo può vantare verso quella tradizione monoteistica una superiorità morale e

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teologica non sottacibile dietro contingenti prospettive ecumeniche o alleanze tattiche contro l’ateismo tecnocratico. A questo scopo, le stesse Chiese cristiane devono dismettere ogni politica conciliatoria con il Potere secolare, per concentrare la loro azione pastorale nella predicazione contro il falso idolo tecnocratico e a favore di una storicità dell’Uomo spirituale, promuovendo la ricerca di una rinnovata rappresentazione dei nostri tempi, avente per oggetto la loro dimensione apocalittica. Solo infatti abbandonando le false illusioni del catechon democratico, si potrà pervenire al completo disvelamento della natura anticristica del Potere tecnocratico dilagante col capitalismo, confutando il suo carisma edonistico presso le masse, e attraverso un rinnovamento spirituale della tradizione culturale cristiana uscire dalle paludi ormai mefitiche dell’ultimo scorcio dell’età del Logos politikos per inaugurare un nuovo eone storico, quello dello Spirito di carità. Il senso dell'impegno attuale, a un tempo letterario e di pensiero, deve auspicabilmente percorrere vie traverse che aprano altrettanti varchi noetici che conducano al Principio, alla terra del Padre, da dove tutto ha avuto inizio. In questo peregrinare incontreremo molti auctores, antichi e moderni, che, a partire dal più grande e più illustre, da cui tutti appresero tutto, Platone, ci intratterranno con generosa dovizia di senno e di dottrina. Speriamo di non rimanere soli lungo il viaggio ma che altri vorranno tenere compagnia ai nostri passi, magari per farne tesoro. E con questo auspicio inauguriamo la nuova serie on line di Coscienza storica, aperta alla collaborazione di quanti ne condividano lo spirito di ricerca e i fini non ideologici della testata. C.M.

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Il valore cristiano della libertà come essenza della decisione morale di Costantino Marco

“Il cristianesimo non avrà mai una reale efficacia né una reale esistenza e non farà mai reali conquiste se non con la forza dello spirito che gli è proprio: con la forza della carità.” (E. de Lubac)

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on si possono negare i benefici della specializzazione del sapere. La sua necessità è legata, in tutti i campi, al procedere delle scienze. S'affaccia, però, l'altra esigenza complementare: la proposta di un'unità che possa rendere conto delle loro multiple direzioni. Se ne rese conto persino il pensatore più “positivo”, A. Comte, che inveì contro “il deplorevole spirito di specialità dispersiva” che affliggeva il mondo accademico già del suo tempo, ostacolandone lo “sviluppo morale”. La specializzazione è formulabile sulle indicazioni di tecniche determinate, di volta in volta richieste dalle circostanze. Ma com'è possibile proporre un'unità del sapere? I tentativi, che hanno preteso di definirla univocamente, sono apparsi storicamente sospetti. La via maestra s'è affidata alle risorse del Sistema. Con questa soluzione, si sono aperte difficoltà, che, da tempo ed in modo esauriente, sono state messe in luce e su cui è superfluo ritornare. Allora, di fronte allo scacco storico del sapere sistematico, che si predica come un a priori generalizzato, bisogna rinunciare a proporre una qualsivoglia forma d'unità? Se la sua formulazione, indipendentemente dalla pretesa sistematica e totalizzante, è ancora possibile, deve necessariamente affidarsi ad una tesi indiretta, che ne mostra l'implicazione in ogni evento, qualunque ne sia la natura. Ogni rappresentazione di realtà, per essere oggettivabile e descrivibile, richiama, nei diversi modi del suo darsi, il profilo unitario della sua interna organizzazione. Quest'aspetto discriminante è la qualificazione originaria del senso. Sennonché, la sua semplice nominazione suscita sospetto negli alunni del nichilismo e nei devoti del postmodernismo. Queste anime, apparentemente scaltrite, che

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hanno scambiato, con supponente sicurezza, l'impotenza verso ogni slancio dell'inventio con lo squisito esercizio della negazione, storcono il naso: ogni affermazione del senso inevitabilmente sembra ricondurre al fantasma dell'aborrita totalità sistematica, idealistica o d'altra provenienza. La questione è decisiva. La soluzione complementare è, del pari, insoddisfacente. Infatti, anche ammesso che l'intero sapere sia solo un gioco linguistico, più o meno sofisticato, i suoi esiti possono dirsi riusciti, se appaiono dotati di un qualche senso. Per chiarire il problema, bisogna distinguere, sul piano metodologico, la presenza dal significato. Ogni fatto è tale in quanto, fissato da definiti parametri spazio-temporali, si rende kantianamente presente in un'esperienza possibile. Ma il suo orizzonte di significato non si risolve integralmente a questo livello, perché qualcosa deborda oltre la pura presenza sensibile. La tradizione occidentale, sin dalle origini, ha individuato tale irriducibile residuo nell'universale. I tempi della sua storia sono noti. S'è cominciato con l'applicarlo alla physis, per poi allargarlo alla sfera della conoscenza, dell'arte, della morale, della politica. Lo s'è visto interagire, infine, con la storia stessa. In tutte queste forme, in un modo o nell'altro, la sua posizione è in- separabile da quella simmetrica che afferma i diritti dell'individuale. Ogni proposta d'universalità risulta vana, se non trova un punto d'appoggio sulla sua correlativa offerenza. Si può allora affermare che l'orizzonte del senso emerge dalla relazione costitutiva tra queste polarità. Solo che, rispetto alla tradizione, occorre rilevare un'ulteriore caratteristica: nell'individuale è contenuto un fattore di sorpresa che non è di pertinenza dell'universale. Col suo semplice affacciarsi al mondo, ogni evento singolarizzato contiene in sé qualcosa di proprio e d'irriducibile. Anche ammesso che la possibilità di pensarlo implichi una prospettiva che deborda oltre i suoi limiti ristretti (quale la platonica idea o l'universale idealistico), è altrettanto vero che l'individualità d'ogni evento annuncia una confi- gurazione inedita del mondo. Questo fattore

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incrementale innesca una vicenda e mette in gioco un complesso d'aggiustamenti di mira che confluiscono nella struttura del senso. Ciò che però differenzia il suo assetto tradizionale, da quello qui abbozzato, è la diversa configurazione della compiutezza e dell'incompiutezza. Nella prospettiva sistematica, pur dandosi di volta in volta, secondo la caratteristica della sua storicità, il senso è, nella sua essenza, sempre compiuto. Nell'altra direzione, viene accreditato un margine d'incompiutezza che si dispone nella forma dell'implicito. Non tutto s'offre sotto l'aspetto dell'esplicito. In ogni avvenimento, permane un risvolto sottinteso, che, annunciandosi nella forma del non indagato, si propone temporalmente come un non-ancora. Tale residuo, che decide l'inesauribilità del senso, rientra anch'esso, secondo una particolare modalità, nell'orizzonte generale della storia. Occorre però ancora ulteriormente distinguere i due livelli della storicità e della storicizzazione. La prima sanziona l'essere di fatto della singolarità degli eventi; la seconda definisce, all'interno dell'orizzonte della universalità di tempo, ciò che è stato prodotto (detto o agito) in vista di una ulteriore decifrabilità di senso. Entrambe le prospettive condividono l'attenzione alla realtà. Ma la seconda include una attività ermeneutica che prefigura il cammino dell'ul- teriorità, lasciando aperto il campo del dialogo. Questa condizione è all'origine dell'attenzione che la presente riflessione intende dedicare alla storia.

2. Nell'ambito della storicizzazione, l'attenzione ai fenomeni etico-politici soddisfa il punto di vista dell'indirizzo umanistico del sapere in quanto comprende in sé l'intima connessione tra teoria e prassi che, attraverso le scienze umane, riflette la dimensione ideale della nostra civiltà, quale modello di autocoscienza universale. L'indicazione programmatica che il Manifesto intende rispettare, in nome dell'unità del sapere, non impone confini epistemologicamente prefissati, ma neppure indulge verso la moda corrente del privilegiamento settoriale dell'erudizione. Nel migliore dei casi, il suo esercizio assolve una funzione preparatoria all'esito destinale del sapere, che è la definizione razionale dei valori, mentre la stanchezza filologica ha tentato di surrogarne l'autonoma legittimità, così che subdolamente l'accidentale s'è paludato dell'essenziale. Proprio sotto il punto di vista dei valori, alcune scelte del pensiero contemporaneo si possono con sicurezza dichiarare insolventi. Il nichilista, lo scettico attore di una sovrana

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negazione che non risparmia la stessa dignità della componente tragica dell'esistenza, ed il dogmatico, il cerimonioso devoto dei fatti, presentano un tratto comune: sotto la apparente stanchezza del sapere, di chi ha perso la capacità di sorprendersi e di aprirsi alle promesse del nuovo, si cela la pigrizia spirituale di chi rimane ai margini del suo travaglio millenario, refrattario a ripercorrerne i momenti salienti della sua storica definizione, accontentandosi della seduzione polemica verso i i suoi frutti meno riusciti, scorgendo così nella decadenza l'esito di un percorso, anziché l'impervio ostacolo al suo proseguimento. Questo atteggiamento soggiace all'illusione che Whithehead definiva della “concretezza mal posta”. Nel caso del nichilista, l'invasione del nulla ha divorato le sue stesse premesse; nell'altro caso, il dogmatico ha finito con lo scambiare i pregiudizi per la realtà, rinunciando anch'egli, in nome del comodo arbitrio, a pensare con la fatica del distinguere. L'indifferente criterio livellante delle equivalenze ontologiche, che fanno dell'essere il gratuito dono del nulla, allinea entrambi sulle posizioni del negatore d'ogni autentica realtà, dimentichi che i supposti "fatti" sono solo un anonimo involucro che può essere riempito, a piacimento, da qualsiasi contenuto. Nei confronti di questi cedimenti, la funzione della riflessione storico-filosofica appare essenziale ai fini stessi della congruenza ai valori dell'impegno negli affari pubblici, odiernamente pervaso da pregiudiziali riduzionismi etici spacciati per oculato realismo politico. Un realismo che non sia guidato dalla luce dei valori, che non ne rechi le tracce, è destinato a misurarsi con la nuda fatalità del successo, che, anche quando viene, il più delle volte non è premio alla virtù ma effimero e sterile conforto dell'oggi. Dal punto di vista della ricerca, dove si decide, in ultima istanza, la rilevanza della filosofia, della storia e della letteratura, essa assolve ai suoi compiti teoretici se si dimostra capace di legare assieme ambiti tematici diversi, e se, da quello soggettivo dell'interpretazione, rilancia agli interlocutori l'istanza del dialogo, che non riconosce altra autorità che non sia quella della validità e del rigore argomentativo. Solo grazie a questo presupposto, può legittimamente aprirsi un fruttuoso ventaglio di possibilità interpretative. Infatti il testo non può sussistere senza l'apporto decisivo del lettore. Per quanto faccia, l'autore, nel migliore dei casi, può assumere su di sé un'istanza d'alterità, ma, malgrado si sforzi d'oltrepassarsi, non può, in ogni caso, uscire fuori da sé medesimo senza farsi interprete della propria

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opera, e quindi a sua volta lettore. L'appello al dialogo è un'offerta ed un ricorso. Per parte sua, il lettore è, ad ogni passo, chiamato in causa come l'essenziale coadiutore del senso che si va svolgendo sotto i suoi occhi. Un senso che, per essere in fieri, necessita dell'apporto critico del dialogante, acché le tesi offerte in dialogo siano pretesto al conseguimento di verità comuni, non criptate dal vaniloquio dell'autoreferenzialità, i cui esiti, fuori del magistero poetico, non sono condivisibili. Questo criterio discriminante non va confuso (come spesso è avvenuto nella scolastica del neoilluminismo) con l'esibizione compiaciuta della banalità. Al contrario, ciò che è chiaro coesiste col difficile. Per farsi rilevante, la parola è costretta ad esporsi al rischio della ratio difficilis. Si può dire, anzi, che il criterio di misura della verità degli enunciati filosofici è correlativo al coefficiente di rischio che il soggetto del discorso è chiamato ad affrontare e la cui affidabilità, non di meno, è affidata alla trasparenza logica dell'espressione.

3. Ogni epoca è, nel senso di Dilthey, dotata di una costitutiva autocentralità. E' però arduo coglierne l'aspetto unitario. Per farlo emergere, si può ricorrere esplicitamente al potere rivelativo di determinati eventi, che, pur nella loro singolarità, riflettono significativamente il polso dei tempi. E' la grande intuizione che sostiene l'impianto della hegeliana Fenomenologia dello Spirito. Accanto a questa proposta, sussiste un'indicazione indiretta, che, sorreggendosi sul metodo delle analogie, consente di cogliere un parallelismo tra alcuni elementi specifici dell'età in questione (in questo caso, la nostra) in relazione a caratteri propri d'altre epoche, su cui è caduto un consolidato giudizio storiografico. Seguendo quest'indicazione, si può rilevare una corrispondenza tra il periodo attuale e quello ellenistico. Molti sono le corrispondenze che giustificano tale simmetria. L'ellenismo ha inaugurato la specializzazione, quella stessa che è diventata dominante nel nostro tempo. Questa configurazione - che non investe solo il sapere, ma l'organizzazione stessa della vita - trova le sue radici in un generale assetto eticopolitico. Alla figura del cittadino, dominante nell'età classica, è subentrata, per l'azione livellante delle monarchie ellenistiche, quella del suddito. Questa condizione spiega come il ripiegamento sull'interiorità sia apparso al sapiente, nel sembiante morale del saggio, una via obbligata. L'individuo, respinto ai margini della vita pubblica, ha potuto trovare nel rifugio

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dell'esistenza privata, dove la coscienza non è sottomessa ad alcun imperativo esterno, le proprie risorse. Perduta l'equivalenza dell'interiore e dell'esteriore, la filosofia ha potuto così rilanciare la sua vocazione morale. Diversamente, per l'uomo socratico-platonico, il concentrare l'attenzione su se stessi, per scoprirvi le leggi che governano la vita interiore, s'allinea all'invenzione dei princìpi che regolano il cosmo. All'origine di questa correlazione, si ritrova una motivazione eticopolitica: ogni cittadino libero ha la possibilità di fare sentire la propria voce nell'agorà. Di questo officium rimane oggi solo lo scranno in Hyde Park, dove tutti possono parlare, purché non pronuncino offesa alla regina. Ma è solo un vestigio. Nelle democrazie moderne, convivono paradossalmente, nel medesimo individuo, il cittadino ed il suddito. La figura del primo è formalmente garantita. Tuttavia, vi s'affianca una sudditanza diffusa, dove vige un'imposizione anonima, che, a differenza della condizione imposta dal Signore ellenistico, non ha né nome, né volto. Il suo inquietante apparire è imputabile all'ultimo atto, subdolamente insidioso, dei totalitarismi del secolo XX: la tecnocrazia. In questo regime, è andata perduta l'istanza superiore della formazione della personalità morale dell'uomo, a favore di una sua funzione pratica di legittimazione del sistema istituzionale fondato sul consenso democratico, surrogato secolaristico dell'antica legittimazione teologica della sovranità. In questa sua funzione, la libertà personale, in quanto elemento cellulare della struttura del consenso, è soggetta a un condizionamento latente ma pervasivo, riduttivo della sua potenzialità trascendente la sua destinazione finita. Questo pericolo, legato alla massificazione tecnocratica, è dei tempi, e non è eludibile attraverso meri correttivi istituzionali, i quali intendono confermare surrettiziamente l'assunto antropologico moderno della riducibilità dell'esperienza umana ai soli postulati di una socialità economica, al cui ordine pacificatore è demandato il crescente controllo bio-politico da parte del potere provvidente, la cui invadenza rischia di negare, con un'universale indifferenza assiologica, la stessa essenza ideale del cittadino. Diversa è la nostra temperie da quella dell'età classica, dove campeggia la figura, in senso auerbachiano, di Socrate, verso il cui carisma apollineo è notoria l’astiosità nietzscheiana. Nell'Atene del V secolo la si ritrova diffusa ovunque, a incarnare proiettivamente il sophòs, che non ha il suo habitat naturale nel chiuso delle biblioteche, ma vive ed opera all'aperto, artefice

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degli incontri pubblici quanto informali, sostenitore delle implicanze etico-politiche della ragione quanto negatore implacabile del mercimonio utilitaristico della dialettica sofistica. Quest'ubiquità ermeneutica non sarebbe stata possibile se non fosse stata favorita da una città aperta a tutte le voci che arrivavano sia dalle terre segnate dall'appartenenza greca che dai mari solcati dalla sua signoria. Il mercante, che veicola con le merci anche l'incidenza delle idee, è il simbolo di queste multiple interazioni, dove lo scambio, trascendendo a suo modo l'autoreferenzialità della pòlis tradizionale, acquista il valore di correttivo alla totalizzazione della dimensione politica. Dallo scambio delle merci allo scambio delle idee sussiste la stessa differenza che intercorre tra il dibattito delle opinioni e il dialogo filosofico. Ovunque corre la promessa espressiva della parola ed il segno elettivo del suo contenuto sapienziale, l'orizzonte esistenziale si allarga alla comprensione del senso fondativo dell'essere, in un movimento che valica sempre la esperienza fenomenica in direzione di ciò che è e permane oltre ogni apparenza. Attraverso i percorsi dia- logici, la coscienza greca consegue quella superiore unità ideale che la frammentarietà politica delle poleis tradizionali non riuscì mai ad attingere, delegando i segni della sua universalità a una dimensione fondamentalmente extra- politica, che nell'atto stesso di estinguere la sua parabola istituzionale, la sublima nei modelli della sua teoresi. Significativamente, l'ateniese civiltà della parola ha fatto da sfondo all'immaginario concettuale di una modernità liberal-democratica, qual è stata delineata da Alexis de Tocqueville e da John Stuart Mill. Dallo spessore dei secoli, risorge intatto il diritto di tutti gli uomini liberi di farsi avanti nelle assemblee. Quest'isegoria, imponendosi da criterio di misura della marcia storica della democrazia, è il sembiante visibile dell'eleutheria, radice insieme dell'individuo e del cittadino. Lo sfondo è ancora la cultura dell'agorà, che, nella passione dell'argomentare, ha sancito, una volta per sempre, la promettente identificazione del procedimento del discorso con il momento decisivo della deliberazione. Ma lo specchio critico della modernità riflette di rimando un'immagine alterata in senso illiberale della fisionomia originaria dello spoudaios coltivato nelle premesse morali della sua paideia, per cui il modello dialogico viene a perdere il suo carattere inevitabilmente aristocratico di fronte alle istanze di una aprioristica partecipazione deliberativa, che da espressione della responsabilità dei liberi

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diventa vieppiù tecnica di consenso di massa, nel cui clamore è difficile distinguere le voci sempre più flebili del ragionato dissenso personale. Per una sorta di rovesciamento dialettico, la libertà partecipata orizzontalmente, perdendo le sue referenze logiche nell'esigenza puramente asseverativa del consenso maggioritario, finisce progressivamente per soffocare il senso della sua distinzione dall'opinione comune, inevitabilmente maggioritaria, trascinando in questa sua perdizione il valore stesso della libertà come affermazione di valori distinti dalla forza dell'ipotesi condivisa. In tal senso, si è stabilito nella tarda modernità un rapporto perverso tra libertà e possibilità, in cui la gratuità delle opinioni soggettive, ridotte ad asserzioni non vincolate ad alcun appello di ragione, si tramuta in diritto al loro riconoscimento pubblico, così che l'equivalenza dei giudizi affrancati da ogni delibazione razionale producono un infinito e non derimibile dibattimento, che ripropone, sotto mutate spoglie, la conflittualità babelica della natura pre-sociale hobbesiana, e con esso un criterio pacificatore implicitamente demandato alla forza del numero sociale, a tutto scapito del dissenso ragionato ma politicamente minoritario. Bisogna allora riconoscere, con l'Alexis della Yourcenar, la vanità della lotta, dai crepuscolari sublimata nella poetica del sentirsi morire? No: il coraggio delle idee è pari all'umiltà che si deve all'eterno. Il kantiano "sapere aude" non è una lotta vana. Del resto, ogni deprecatio temporum mostra presto il suo limite. Si tratta piuttosto di dare ancora forma ad un pensiero che si ponga al di là d'ogni ordinata barbarie. La stessa intensità dell'esistenza, le estreme prove del gesto e della parola, nel loro disporsi come delicati pretesti delle avventure del senso, ci appartengono ancora. L'invito socratico all'ulteriorità dell'indagine non è spento. Ma lo si può accogliere, solo se non si soggiace al demone della fretta, che, da ogni parte, sembra sedurre l'uomo contemporaneo con vane promesse di efficacia. L'avvenire si profila all'orizzonte della pazienza del tempo. Non a caso, Nietzsche ha paragonato Schopenhauer al cavaliere di Duerer, quale simbolo della ricerca mai conclusa e mai appagata della verità. D'altro canto, tutta la tradizione, per quanto grande, se non è attraversata da una vitale intenzione che la risveglia dallo stato di riposo dei secoli, è solo una macchina da intrattenimento erudito. Dunque, per quanto concesso, nonostante la malinconia dello spaesamento, bisogna osare. La bussola delle coordinate del mondo continua, anche nelle burrasche, a puntare la direzione. Analogamente

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alla vigilanza dei sensi del contadino, che conosce la terra e gli animali, su un altro piano, l'uomo di cultura (il filosofo, lo scrittore, lo storico) può ancora individuare il "verso" che è costitutivo del senso. Tra i possibili orientamenti, sono preferibili quelli che non si limitano a riflettere la nuda contingenza, ma che, esplicitamente o implicitamente, s'impegnano a mobilitare l'insorgere d'aspirazioni volte ad interpellare l'av- venire. Noi, i contemporanei, ci troviamo però, ri- spetto ai grandi esempi del passato, in una situazione difettiva. Quest'insolvenza non è imputabile ad un capriccio del caso, ma ubbidisce ad una precisa situazione culturale. Alla sorprendente accelerazione della storia recente, non è corrisposto un pensiero che possa comprenderla nella complessità delle sue relazioni. Per soddisfare questo disegno, occorrerebbe uno schema esplicativo unitario, che tutt'ora difetta. E' il disagio del filosofo contemporaneo e la coscienza infelice della postmodernità. Pensare la nostra epoca, riproponendo semplicemente le grandi filosofie del passato, con la sola pretesa di vergare note in margine ai suoi autori, vuol dire abbassarla ad un'inerte spoglia. Similmente, continuare ad esercitare il sospetto e rivestire i risentimenti privati col salvacondotto di una deviata pubblicità, non conduce, nella torsione della negazione, a nulla. Si rimane smarriti nel bel mezzo di un mondo incomprensibile. Od ancora, quando si distende sopra la sterilità della coscienza morale e l'impotenza del pensiero inventivo il manto ingannevole di un depistante sapere, si finisce col chiudersi nel cerchio sofistico di uno sterile solipsismo. Si ripropone allora la necessità dell'approfondimento critico della correlazione fra tradizione e rinnovamento. La prima si giustifica per il fatto stesso che non esiste pensiero senza presupposti; ugualmente, urge la spinta d'andare al di là del loro potere sanzionatorio. E' la Stimmung della ricerca filosofica. Ma, per noi, nell'attuale fase del sapere, s'addensa lo spettro di una particolare e declinante incompiutezza: quella d'aggirarci tra i cimiteri della storia, senza vedere il sorgere dei "filosofi del mattino" che Nietzsche auspicava. 4. Le Roy chiamava "dilettanti" i filosofi che accettavano i termini usuali di un problema, anziché "creare", con la soluzione del problema, anche la sua posizione. Infatti, come affermava York, "è sempre una nuova posizione e concezione della vita quella che introduce e determina una nuova epoca". In un mondo dove la

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sicurezza morale è affidata alla convenzionale, ma spesso non chiarita, corrispondenza tra pensiero (della vita) e (pensiero della) storicità, quale statuto di ricomposizione della scissione moderna tra uomo e mondo introdotta dall'irruzione della razionalità scientifica, il compito del filosofo non sprovveduto, una volta evitati gli scogli del nichilismo, consiste nel riproporre l'interrogazione ontologica (sull'essere) come il senso della vita umana (dell'ente storico), evitando, col trascendere la temporalità del finito, di arenarsi nelle secche dello sperimentalismo empiristico delle epistemologie verificazionistiche, che, come l'asino della parabola che si rende conto di non dover attraversare il guado solo all'atto del suo annegamento, declina il sapere come esperienza, cioè affermando la sua esigenza fondamentalmente unificante nell'atto di negarlo sotto la forma della razionalità scientifica. Il viaggio del pensiero interrogante è tra la Scilla della logica nichilistica del Candido di Voltaire, il quale, sapendo di non sapere, finisce per credere ogni sapere, equiparando la sapienza alla superstizione, e la Cariddi della massificazione delle conoscenze scientifiche, che non rintraccia dietro i fenomeni oggettivati i percorsi della coscienza storicizzante di cui sono simbolica rappresentazione, ma li assume come fatti esterni, indipendenti, al suo modo di porsi, e perciò esposti all'estetizzazione e alla manipolazione tecnica proprie della contemporanea società dello spettacolo. Ed è questa intersezione a creare le condizioni per cui di una civiltà umana si possono distruggere le vestigia senza sentire alcuna colpa morale, non appartenendovi, restando realisticamente indifferenti per quanto possa implicare il diniego/adesione alla deliberazione politica, definendo tale sospensione di senso come indipendenza da ogni convinzione, come libertà. Ma non è forse la libera adesione al Kratos a costituire la sua forza legittimante? Senza tale adesione, il Potere si riduce a contingente risposta hobbesiana al caos sociale, nella quale la dimensione meramente ontica dell'esserci configura uno spazio di oggettivazione reificante dell'esperienza umana, e come tale assimilabile alle ragioni della (soggettiva o impersonale) volontà di potenza, non derimibile se non attraverso la speculare e a-dialettica volontà ostativa dello hostis. Non ubbidivano forse alle ragioni contingenti del Potere i soldati americani che bombardavano Dresda?, o quelli tedeschi che nel 1943 davano fuoco con la benzina all'Archivio storico di Napoli?, o gli aguzzini stalinisti che tenevano a bada gli assiderandi del Gulag? Sarebbe ingenuo,

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oltreché pericoloso, ritenere che i rischi connessi all'accoglimento - quiescente o convinto, poco rileva - della logica machiavellica possano essere neutralizzati preventivamente dalla legittimazione del consenso pubblico, riscontrato attraverso i riti periodici elettorali o quelli più informali e ravvicinati della demoscopea. Il compito della filosofia che non si riduca a prezzolato sofisma mass-mediale di una agorà parodiata a talk-show, deve ribadire le ragioni dell'Ethos, le quali fuggono (in avanti, ma comunque fuggono) il senso comune quando è manzonianamente spaiato dal buon senso, e perciò si rivelano irrimediabilmente impolitiche in un contesto in cui l'appartenenza ai gruppi dominanti è richiesta come fedina politica agli intelletuali di professione. Proprio in tale contesto, il distacco dell'uomo libero dalle pastoie del consenso organizzato è prodromico al dissenso del pensatore dall'irretimento dell'opinione. Chi confida nelle risorse della libertà non può indulgere alla rimozione della sua antitesi dialettica, che è la necessità della sua limitazione, attraverso la mediazione politica, a opera dell'attività delle istituzioni sociali, che è sempre attività costrittiva rispetto agli aneliti individuali. Il senso della libertà è dunque nella relazione della volontà col potere costituito. Una relazione storicamente definibile a seconda delle condizioni della sua effettualità, per cui essa si presenta di volta in volta come tensione eversiva delle ristrettezze di un potere sbilanciato in senso oligarchico od organicistico, dal quale difendersi nei modi proprii di una libertà da la pervasività dello Stato; oppure si presenta come petizione di legittimi diritti già conquistati o in via di affermazione morale, dispiegandosi quindi come libertà di partecipare alla vita pubblica nelle forme giuridicamente sostenibili. La libertà dei nostri tempi si definisce e concepisce all'interno di una dichiarata universalità orizzontale, che trova i suoi criteri di affermazione nel principio dell'uguaglianza fra gli uomini, intesa non più e non solo nell'accezione morale stoicoclassica e cristiana, che consentiva il dispiegamento responsabile e non meramente convenzionale delle individuali personalità, ma nel senso del pratico conseguimento, verso il quale sono indirizzati gli sforzi economici e legislativi delle classi dirigenti. La politica concepita come strumento di un'omologazione giuridicamente controllata, facilmente si declina in termini di morbosa burocratizzazione amministrativa, priva di ogni respiro avveniristico perché pre-occupata a derimere questioni di equilibrio consensuale e di compensazione delle

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insopprimibili diversità della compagine sociale. All'interno di queste coordinate ideologiche, la libertà democratica si dispiega nei termini di un'ansia partecipativa, tesa piuttosto a consolidare le scelte politiche non più ispirate da un movente teleologico dichiarato, che a coinvolgere le coscienze individuali alle responsabilità comuni, per cui si tende incoerentemente a dissociare gli eventuali esiti nefasti di quelle scelte dal consenso preventivo delle maggioranze, stabilendo uno hiatus tra responsabilità politica dei mandatari e responsabilità morale dei mandanti, che, assolvendo sempre questi dai proprii errori di valutazione, ne decreta l'espiazione sotto forma di mobilità dei ceti politici, la cui conseguente precarietà li autorizza a compensare la labilità di un mandato non imperativo con la legittimazione pubblica di interessi privati, primo fra tutti la conservazione del consenso. La politica intesa come trascrizione in chiave di riconoscimento pubblico nelle sedi canoniche di istanze propriamente privatistiche di gruppi politici particolari, non riesce a contemplare alcun movente ideale inafferente alla logica e alla pratica degli equilibri democraticamente sanzionati, esautorando pertanto i profeti del disincanto, cioè i filosofi, da ogni ruolo di rilevanza pubblica, trasferendo quindi, dopo la religione, anche ogni altro pensiero teoretico nell'alveo innocente e innocuo della coscienza privata, la cui libertà viene garantita dalla stessa condizione di inagibilità politicamente rilevante. La libertà, nella sua declinazione democratica di libertà con, perde il suo originario connotato di libera determinazione dei rapporti consensuali, trasformando la sua insopprimibile istanza di trascendimento della condizione umana finita, in tecnica di controllo sociologico delle pulsioni individuali extrapolitiche, accusate di colpevole agnosticismo verso le ragioni pubbliche, comunque individualmente non dominabili. 5. La posizione che oggi può assumere la coscienza filosofica del nostro tempo non può che partire dalla denuncia della totalizzazione acriticamente asserita dell'orizzonte della finitezza come orizzonte ultimativo e intrascendibile della soggettività, intesa come ente poieticamente produttivo di realtà. Proprio la consapevolezza della relazionalità della libertà umana deve prevedere una polarità dialettica di senso universale, che renda ragione della finitezza superandola in direzione della integralità della condizione umana, odiernamente sottoesposta all'unidimensionalità della sua esperienza intrascendente.

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Questa sottoesposizione dell'uomo nell'orizzonte della finitezza, non soltanto esautora il pensiero critico dall'agone pubblico, ma stabilisce le condizioni ontologiche della manipolabilità degli enti indeboliti dalla loro stessa assolutezza ontica. Infatti, solo la coscienza della totalità può stabilire il bisogno di trascendere la finita determinatezza degli enti, e solo la rimozione di tale coscienza può esporre gli enti all'illusione della loro auto- nomia, conducendoli dal luogo della loro con- prensione allo status della loro con-pressione, regolativo della loro esistenza ma non liberatorio della loro essenza rimossa. L'asserto dell'identità della liberazione dell'ente dal suo referente universale, con l'emancipazione della condizione umana da ogni immanenza del divino, conferisce una preminenza ai dati puramente fenomenici, irrelati da ogni riconoscibile semantica metafisica, destinata dal suo stesso ostracismo ad alienare il senso ontologico dell'avvenimenzialità interna alla temporalità storica nel totalmente altro rispetto alla sua esperibile visibilità. Il tentativo di dare una dimensione precipuamente filosofica alla libertà, contrapponendola sia al determinismo materialistico e al fatalismo naturalistico, che a ogni prospettiva teologica, ha condotto il pensiero a riguardo più maturo, quello di Croce, a una "scissione" - come è stata definita - tra una metafisica della libertà, soggetta alle necessità delle sue articolazioni ontologicoconcettuali, e una pratica della libertà, esposta alle più indeterminate risoluzioni empiriche, le quali poi, assumendo il soggetto creatore di libertà come l'unica reale istituzione storica, finiscono per coincidere con la produzione stessa dello spirito ideale, vanificando ogni sforzo di stabilirne una fisionomia politico-istituzionale. Si è creduto di superare questa indeterminatezza tornando a una visione giusnaturalistica ed empiristica delle libertà, che, salvaguardando l'inviolabilità dei diritti della persona, traccia nel contempo anche i limiti del potere politico, rinunciando così di assegnare alla libertà un carattere filosofico e ripiegando sul più modesto traguardo epistemologico di circoscriverla nei termini della sua efficace strumentalità praticoistituzionale. In realtà, la scissione tra pensiero e azione non è un limite della filosofia crociana della libertà, ma è propria di ogni pensiero che neghi la dimensione di totalità propria della teoresi filosofica, volendola privare del suo carattere religioso per assegnarle quello moderno di scienza dello spirito. Ma che la riduzione della filosofia a metodologia storiografica non fosse un esito

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necessario del pensiero della libertà, lo conferma lo stesso carattere religioso del liberalismo crociano, il quale afferma, di fronte ai totalitarismi trionfanti, le ragioni della verità contro quelle della storia effettuale, confutando indirettamente l'asserita riducibilità e convertibilità assoluta del pensiero all'azione propria dello storicismo immanentistico. Il liberalismo filosofico di Croce segna lo stesso limite del pensiero moderno, sospeso tra l'assolutezza della ragione trascendentale, che riporta tutta la realtà al pensiero, e l'accidiosa indifferenza verso ogni ideale etico e ogni istanza morale, che assegna alla forza sociale il fine stesso della prassi. Ma la coscienza viva della differenza tra la sfera teoretica e la sfera pratica, al di là di ogni sforzo di ridurne i nessi a presuntive necessità logiche, conferma la problematicità di un pensiero della libertà che, nato nell'alveo della metafisica cristiana e pur inteso a liberarsi delle sue originarie radici teologiche, perpetua una insopprimibile tendenza assolutistica, sia pure nella moderna chiave secolaristica, che riserva esclusivamente all'uomo le ragioni del bene e del male della vita, contentandosi delle precarie certezze della sua fallibile intelligenza, costretta dai suoi stessi assunti storicistici ed empiristici a sperimentare il male prima di riconoscerlo, rendendo labile ogni resistenza razionale. La filosofia crociana ci ha mostrato che se è impossibile assegnare alla storia una dinamica indipendente dalla coscienza storica dell'uomo, simile alla dinamica della natura, pare altresì improbabile ricorrere alle istanze teoretiche della ragione, e quindi a criterii di necessità vincolanti la prassi storica, partendo dal presupposto della assenza di ogni fede a fondamento legittimante di quella stessa conforme necessità. Infatti, la "religione della libertà" presuppone una istanza trascendente le storiche determinazioni della realtà socio-politica, anche se non necessariamente trascendente la dimensione storica. L'identità di storia e di filosofia rischia di sopprimere proprio quell'istanza trascendente in cui consiste la libertà dell'uomo, che ne impedisce la risoluzione alla prassi, cioè alla mera volontà, e si apre al destino come ricerca responsabile di autodeterminazione morale. Di fronte alla necessità della storia, l'istanza liberale che vi si oppone in nome di ragioni trascendenti gli assetti fenomenici, si dispiega come risposta religiosa alla impotenza della volontà, come fede, cioè, in ciò che trascende la realtà attuale in nome di una storia inattuale e condenda. Ma questa risposta religiosa, che si fa cosciente nel liberalismo etico di Croce, è la

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stessa risposta filosofica alle domande di senso della storia. E' la interrogazione filosofica, infatti, che (inter) rompe il tradizionale nesso necessario tra potere e coscienza introducendo la domanda di senso, la quale astraendo dai dati fenomenici della realtà tràdita ne mette in discussione la sua necessità, opponendo al suo essere storico le ragioni del dover-essere ideale. Ed è questa risposta religiosa a legare in un rapporto di essenziale filiazione il liberalismo filosofico alla matrice fideistica cristiana. Fu infatti il cristianesimo a costituire la più poderosa risposta religiosa della coscienza filosofica alla necessità della storia tradizionale. Proprio in virtù di questa sua natura filosofica, il cristianesimo provoca a ogni formazione istituzionale consolidata una interna tensione ideale oggettivamente destabilizzante gli assetti storici, la quale va a sua volta compresa e inserita nell'alveo di una corrente dinamica che vi si alimenta senza tralignare. Ma questa comprensione e questo inserimento non sono sempre possibili, o per deficienza dell'interprete istituzionale o per prorompente inattualità della domanda religiosa, per cui l'atteggiamento filosofico si traduce in dinamica rivoluzionaria, con effetti eversivi dell'ordine costituito. Caso paradigmatico fu quello della Riforma, che ripropose entro la cristianità la dialettica fedepotere già sperimentata dal cristianesimo entro l'Impero di Roma. E fu, d’altro canto, la risposta insufficiente della cristianità contro-riformista a provocare la nuova domanda rivoluzionaria in Europa, tanto filosofica quanto religiosa, mirante questa volta a fondare una nuova religiosità storica, anziché a riformarla come nel sec. XVI. La tendenza moderna ad esautorare la fede religiosa da ogni ambito di rilevanza pubblica è collegata alla similare tendenza tardo-moderna a svalutare il pensiero filosofico in ambito teoretico inducendolo a trasformarsi in una estenuante metodica disciplinare al pari di ogni scienza empirica a cui si aspira omologarlo. Ma la tensione repressa in ambito teoretico riemerge come istanza ideologica e politica, provocando i disastri totalitarii che conosciamo. Dopo anche queste terribili esperienze, si è proceduto a una sistematica sinecura filosofica dell'ufficio politico, ridotto ad amministrazione economica della società, procedendo a quell'opera di rimozione del problema religioso nato nella cristianità in età moderna, che di fatto ha delegato a religioni secolari quella funzione filosofica propria del pensiero cristiano, ma che esse non riescono a svolgere con la dovuta profondità, volendosi porre programmaticamente fuori dell'orizzonte

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ermeneutico della civiltà cristiana, traducendo l’anelito trascendente della libertà personale in termini olistici arcaicizzanti con ricadute ideologiche cruenti, in ogni caso inefficaci rispetto ai bisogni, non solo della più avvertita coscienza del nostro tempo, ma delle stesse masse, che si rifugiano in superstizioni surrogatorie di tipo soprattutto neo-edonistico o, come oggi si dice, consumistico. In assenza di un adeguato ripensamento della crisi religiosa inaugurata dalla modernità, anche le forme istituzionali dei regimi democratici contemporanei restano sospese all'alea della sola forza della loro possibilità economico-politica, senza alcun sostegno etico-morale che funga da riserva religiosa del sistema in caso di crisi istituzionale. Né la mitologia del mercato, coi suoi idoli blasfemi e neo-pagani, potrà reggere l'urto di una dissoluzione civile conseguente al venir meno delle premesse edonistiche sulle quali si regge l'equilibrio politico-sociale post-totalitario. La religione del mercato secerne fede solo quando sono visibili i miracoli del benessere, ma in tempo di vacche magre scema col benessere anche la fede nel libero mercato, che si tramuta in sinonimo di paurose miserie e insopportabili ingiustizie, tanto più devastanti quanto maggiore è il ricordo delle vacche grasse. Il paradosso delle filosofie empiristiche che stanno alla base delle idolatrie mercantilistiche e democraticistiche è quello di confermare modelli di società e paradigmi di socialità del tutto avulsi da ogni dimensione compiutamente storicistica della esperienza umana, traducendosi in ipostasi metafisiche, astrattamente polemiche verso la totalità filosofica, ritenuta privativa di libertà, e contro la quale viene opposta una presuntiva centralità morale degli individui del tutto destoricizzata e perciò mitologica, che assegna al consenso quel fondamento che la ragione astratta non riesce a legittimare. Slegata da ogni fondamento di fede, l'ipotesi di potere democratico, il cui pluralismo unitario è costruito sulla falsariga dell'unità fittizia dell'Io propria dell'associazionismo empiristico e meccanicistico delle sensazioni, non è suscettibile di altra confutazione che non sia quella della verifica sul campo. A quello di battaglia dei tempi eroici si è sostituita la competizione elettorale, ma anche la forma pacificata odierna costituisce pur sempre una sorta di ordalia, che affida all'alea del responso occasionale delle maggioranze la veridicità delle proposte politiche. Questa attesa del successo o della disfatta, ugualmente comprese come legittimi esiti dell'azione e del pensiero umani, trasforma ogni impegno politico

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in esercizio cinico e retorico del potere, valido finché dura e poi rinnegabile per un ulteriore cimento probatorio dagli stessi interpreti che già ne peroravano la causa rivelatasi sbagliata, e ogni impegno intellettuale in sodalizio sofistico coi potenti, all'ombra dei quali si rifugia la debolezza di un pensiero ridotto a mutabile opinione, relativa e temporanea come il potere. 6. Di fronte al successo del cinismo, di quell'atteggiamento mentale che modernamente viene ripreso dal Machiavelli del Principe, si può ripetere la stessa obiezione che Maritain oppose al realismo politico di Aron, e cioè che il machiavellismo trionfa ma non dura. E questo vuol dire che il senso del potere non è riposto nel potere stesso, ma in qualcosa che lo trascende e che lo rende strumentale, e senza il quale il suo esercizio rimane come sospeso all'imponderabile gioco del caso, della fortuna. Ma ci si può affidare al caso, alla fortuna, nel governare gli uomini? E, inoltre, se veramente l'autentica esistenza umana fosse l'affermazione dei singoli individui, perché lo sforzo dell'intelligenza dovrebbe applicarsi alla questione della socialità, anziché alla ricerca dei più semplici e immediati rapporti interindividuali? La risposta più ovvia è che la vita individuale non può essere garantita che dalla socialità; ma se questo è vero, la pretesa di voler costruire una convivenza basata solo sugli appetiti individuali, diventa falsa e pericolosa alla stessa sopravvivenza di ogni civiltà della specie umana. In virtù del principio di socialità, solo negli uomini la salvaguardia della specie coincide infatti con la salvaguardia della civiltà. Ciò ulteriormente vuol dire che noi occidentali, che pure vogliamo esportare i nostri sistemi di valore, la nostra civiltà, quale più avanzato modello sociale della specie umana, siamo assisi su una grande illusione, quella dell'individualismo, il quale, prendendo il posto di una vera religione, si può definire come la più radicale superstizione della cultura occidentale contemporanea. In questa situazione di decadenza ideale della nostra civiltà, l'affermazione di modelli istituzionali liberaldemocratici può trovare un senso etico-politico solo in riferimento polemico alle esperienze totalitarie, senza però offrire alcuna risposta risolutiva alla questione morale del nostro tempo, che è religiosa perché metafisica. Il supposto fondamento nichilistico della metafisica occidentale non rende ragione di una possibilità di convivenza umana che non sia ridotta allo scontro delle singole volontà di potenza, ossia alla permanente condizione conflittuale che l’ordine politico dovrebbe

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regolamentare, se non scongiurare. La con- vivenza come con-flitto è il risvolto barbarico della negazione della civiltà umana come costituzione di forme culturali di senso trascendente la mera esistenza biologica, senza le quali non sarebbe possibile alcuna rappresentazione dell’esperienza antropologica nel tempo come Storia. Priva di coscienza storica, la odierna ricerca della libertà si propone in termini di mera regolamentazione istituzionale dei flussi emozionali originati dalla rimossa ma latente tensione religiosa delle masse consumistiche, cercando di neutralizzare in sede di rappresentanza di interessi sociali le potenziali spinte politicamente eversive, riducendo pertanto la attività politica a tecnica del consenso, in omologata sintonia col puro principio economicistico della massimizzazione dei profitti commerciali. Questo svuotamento di contenuti delle forme istituzionali della socialità non produce solamente anomia ma fa scaturire dall'assenza di fondamenti filosofici un bisogno di sicurezza epistemica delegata interamente alla politica, cioè alla regolamentazione imperativa delle forze sociali. A seguito di tale delega, la politica, sia pure svuotata di ogni contenuto filosofico, acquista perciò dimensione totalizzante anche in un contesto istituzionale democratico, comportando a correttivo di questa sua fondamentale tendenza l'applicazione di rimedii giuridico-istituzionali di tipo formale, a loro volta abbisognevoli di garanzia politica per la loro effettualità. Diversamente si orienterebbe un approccio religioso al problema della sovranità e della legittimità del potere politico, fondato non su astratti valori normativi stabiliti ne varietur ma sulla coscienza della storicità di tutti i dati normativi, funzionali non all'ossequio a una astratta eticità metafisica ma bensì ai percorsi stessi della coscienza filosofica e alle sue istanze di libertà trascendenti i dati della empirica formalizzazione istituzionale del potere. Senza l'assunzione cosciente della trascendenza della libertà rispetto a ogni determinazione empirica del potere - e cioè della regolamentazione della stessa libertà -, l'opposta ipotesi immanentistica dello storicismo ha come correttivo ultimo della struttura istituzionale di potere solo la rivoluzione, cioè l'eversione dell'ordine politico, costituito come sintesi totale di una volontà unitaria, in nome della totalità della vita, cioè di valori religiosi surrogatori. La riforma religiosa costituisce il movimento stesso della storia della coscienza, ed esplode

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come rivoluzione, cioè volontà politicamente eversiva, quando le sue istanze reattive a forme di pensiero inadeguate non trovano accoglienza in seno alle istituzioni formative della coscienza comune. E' la rivolta della coscienza critica contro le forme consolidate della coscienza comune; rivolta che si dipana come filosofia, ovvero come razionalizzazione delle esigenze religiose della coscienza umana, e come ideologia, ovvero come traduzione in formule pratiche di istanze teoretiche. Nel nostro tempo, l'apparente aumento della libertà soggettiva dal potere politico, viene compensata in senso conservatore dalla sostanziale privatizzazione di ogni istanza morale, trasformata in anelito sentimentale, con conseguente neutralizzazione delle spinte eticamente eversive attraverso una loro pubblicizzazione in senso ludico-spettacolare. Infatti, ogni manifestazione non conforme, cioè non formalizzata dalle istituzioni dominanti, viene socialmente tollerata come espressione eslege di una coscienza infelice, non integrata nel sistema di valori dominante. E poiché tale sistema seleziona le integrazioni sociali sulla base di criteri relativi alla propria conservazione, la dis- integrazione acquista valore di demerito soggettivo degli esclusi, ritenuti incapaci di strumentalità funzionale. Ora, la filosofia, a partire da Socrate, ha esattamente svolto questa funzione di riserva anti-sistemica confutativa delle pretese metafisiche del potere temporale, intese come rappresentazione assolutizzata di una realtà ideale (e della sua proiezione socio-istituzionale) tendente a negare la storicità della realtà della vita, e quindi il suo transeunte divenire. Contro una tale pretesa socioepistemica, ovvero bio-politica, la filosofia si pone come critica radicale della struttura metafisica del Potere e contro il suo riduzionismo anti-storico, ovvero come apertura religiosa all'unità della vita, e quindi come trascendenza. In questo senso, ancora oggi, al di là delle pretese definitive degli assetti dominanti nella società contemporanea, quello che la filosofia può offrire è segnare una traccia di ricerca finalizzata a indicare, se non proprio a conseguire, un orizzonte di senso totale, e quindi religioso, alla vita, e a tal fine deve poter superare la scissione del pensiero e della volontà propria della posizione astrattamente razionalistica dello scientismo odierno, rintracciando il legame trascendente che unisce l'esperienza dell'uomo come essere spirituale e come attore nella realtà empirica. Come ogni periodo di trapasso della coscienza da una ad altra forma storica della realtà cosmica,

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anche quello presente ha un carattere religiosamente tragico, che accompagna e segna la svolta del paradigma moderno della libertà come soggettività. La attuale libertà con-sensuale esige una sovrapposizione del noi all'io che restituisce almeno in parte - sia pure in chiave massificata - il sentimento della fluidità della vita sociale, preludio a ogni cambiamento di fede. La forza inerziale delle istituzioni storiche, per quanto corroborata da impulsi normativi sempre più complessi e pervasivi, sempre più svincolati dalle tradizionali fonti di sovranità nazionale, cerca vanamente di arginare un decorso vieppiù nichilistico, corrosivo dell'antica fede e dei mitologemi secolaristici più recenti e tendenzialmente anarchico. Da questa condizione tardo-moderna di transizione emerge il bisogno, sia pure sottaciuto, di nuove forme di religiosità, che sappiano affondare nelle radici della tradizione per germogliare frutti ricchi di avvenire. Il dramma, anzitutto della cristianità e quindi dell'umanesimo ateo, si è consumato nella lacerazione moderna della libertà dalle sue radici religiose, provocando quella scissione tra fede e ragione che sostanzia la crisi del mondo moderno e caratterizza la decadenza della nostra civiltà. I tentativi di risposta tentati separatamente dalla religione e dalla filosofia, dalla Chiesa e dalla cultura, hanno solo acuito la frattura moderna, senza poter rimarginare la ferita della lacerazione teoretica. Ora è tempo che l'approccio vada tentato nel segno dell'armonizzazione, del dialogo e della comune consapevolezza dello stesso percorso. In questa prospettiva di comunione, sia le posizioni integralistiche che le posizioni ateistiche sono un attempato non-senso, che non aiuta la ricerca delle nuove frontiere della verità. Ne consegue che anche l'ecumenismo religioso, da un lato, e lo scientismo universalistico, dall'altro, rimangono espressioni superate di una coscienza dimidiata, fissa alla sua superstizione metafisica, negatrice della conoscenza in nome della vita e viceversa, entro la quale la scissione tra coscienza e mondo resta una datità di elementi irrelati e non unificati da una superiore autocoscienza spirituale. L'esperienza del nostro tempo suggerisce proprio il superamento delle posizioni astrattamente scientifiche, rassicurazioni temporanee prive di verità, ma non può fare ricorso a un'esperienza religiosa forgiata e delimitata da assunti dogmatici discriminanti l'intelligenza della ri-cerca di quella verità che, prima che nei cieli, abita in interiore homine, e che perciò ha una ineliminabile componente personale, non soltanto nella sfera morale, ma anche nel percorso dell’esperienza teoretica e nell’uso stesso del linguaggio

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filosofico. E' stata la rappresentazione dogmatistica della fede, cioè di una metafisica non storicistica, a provocare la scissione, prima, tra religione e fede, e poi tra religione e filosofia, che ha perseguito un percorso ateistico a sua volta metafisico, e quindi la reazione relativistica prodromica al “nichilismo classico”. Lo stesso magistero ecclesiale anti-modernistico e anti-razionalistico si è definito in termini relativistici allorquando ha accettato di rappresentare dogmaticamente il pensiero cristiano come ermeneutica della fede anziché della verità, la quale ultima, non essendo un traguardo “oggettivo” della ragione, non è positivamente rappresentabile. Ma solo la posizione scientista equipara tale impossibilità razionalista con l’agnostica desistenza filosofica, relegando la fede nel territorio dell’irrazionale e dell’emozionale, ossia appunto del dogmatismo teologico, offrendo ai suoi detrattori l’idea pretestuosa che, volendo trattare dell’absconditus, ne parla in libertà perché tanto lo considera comunque inconoscibile. Se ci si trincera dietro la tradizione dogmatica come in un fortilizio assediato dalla critica, non solo si perde la fede nella verità, - la quale, non potendo essere parziale, minoritaria o maggioritaria, ma di tutti e per tutti, non può escludere nessuno dal dialogo della sua ricerca - ma non si giustifica la pretesa di guidarla. Solo ristabilendo uno stretto rapporto tra la fides e la ratio si potrà sortire da quella che Comte chiamava la “malattia occidentale” della critica dissolvente ogni ipostasi ontologica, che Nietzsche attribuì all’essenza stessa della nostra tradizione di pensiero, che monta e smonta i suoi feticci metafisici, in un gioco infinito e vano di illusioni a termine. Ma solo se si fa coincidere il mistero della croce con la verità, si può offrire alla ragione quella rettitudine graziosa che la salvi dalle deviazioni della volontà del pensiero finito dell’uomo, e che è il conforto della fede. Tale coincidentia oppositorum è lo stesso spirito del Cristianesimo, la carità, che de Lubac indicava come la sua “forza”. La ragione della sua forza. La “ragione del cuore” di cui diceva Pascal. Sia l'universalismo religioso senza il supporto dell'universalità della ragione, sia l'universalismo razionalistico senza il fondamento legittimante della fede ontologica, trovano reciproco ostacolo alla loro distinta affermazione universale nella contraddizione della loro intestina divisione, che ne delimita la pretesa universalità veritativa, facendone due emisferi vuoti a metà. L’emisfero della fede, spaiato da quello della ragione, non può essere abitato a uomini

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dimezzati come il barone di Calvino, e finiscono per appartenere a due diverse umanità, che hanno in comune ciò che reciprocamente manca loro, l’ombra del vuoto, appunto. Le ripercussioni esistenziali e politiche di questa crisi sono intuibili, e sono ben chiare soprattutto fuori dell’Occidente, dove l’impressione di un gigante forzuto ma senza direzione è ben più di una malevola diceria. La “questione occidentale”, impostata come problema geo-politico, è affrontata ignorando le sue zone d’ombra, che sono essenzialmente religiose, ossia ineriscono i rapporti interni alla cristianità e alle sue distinte confessioni, che si articolano storicamente nel confronto tra la tradizione cristiana e la cultura cristiana moderna. Tradizione e modernità sono due versioni di una stessa cultura, che, se sogguardate dal rispettivo versante interno, sembrano apparentemente diverse, oltre che configgenti, ma dalla prospettiva del loro comune orizzonte universale sono in realtà due sorelle in dialogo contenzioso per la stessa eredità. La tradizione la dichiara indivisibile, mentre la modernità la vorrebbe divisa, per cui la prima ammette solo la comunione dei beni in famiglia, mentre l’altra vorrebbe emanciparsi per farsene un’altra. Se la Chiesa cattolica si comportasse come il padre verso il figliuol prodigo, dovrebbe, dopo l’amarezza e le rampogne, slargare le braccia e aprire le porte della casa comune, ammettendo che anche i figli, bene o male, crescono e si svezzano. Se il “bene” dei figli si deve alla Madre, questa non può trarsi indietro di fronte al loro “male”, ma imputarselo anch’esso. Entrambi vanno riconosciuti, e soltanto così accolti o emendati. Fuori di metafora, solo il dialogo sulla fede consente che si svolga nella fede, e divenga così, per tutti e per ognuno dei dialoganti, il dialogo della fede. Il principale problema della fede è il rapporto con il Potere, che oggi è politico-economico. La divisione medievale dei poteri spirituale e secolare, agendo il primo sull’universo morale dei soggetti e l’altro sul collettivo della società, poterono concepirsi distinti e opposti nella presunzione che avessero in comune lo stesso orizzonte di fede e di valori cristiani. Modernamente, sulla scia dell’emancipazione del politico dalla sfera morale, e con il conseguente sviluppo della sociologia del razionalismo “positivo”, i due ordini di grandezza – soggettivo e collettivo – si tradussero nelle diverse sfere del privato e del pubblico, a netta predominanza di questo su quello. La battaglia si è vieppiù spostata dal piano delle rispettive competenze dei due

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poteri, a quello della reciproca neutralizzazione. L’intento di soppiantare il Cristianesimo con la nuova religione dell’Umanità, non è riuscito a Comte, ed è malriuscito a Marx, ma l’esito tra i due poteri è stato nettamente a favore della logica dello Stato, in quanto già surrettiziamente deciso dalla condiscendenza del potere spirituale a misurarsi sullo stesso terreno di quello statuale, che non doveva essere il proprio, quello politico. Solo all’interno di uno stesso emisfero valoriale è possibile articolare un sistema policratico diviso tra più momenti funzionali, ma tra sfere ideali diverse, reciprocamente indipendenti, né il potere spirituale né il potere politico possono ammettere alcuna rispettiva interferenza. In questo senso, la condizione ideale di una società liberale policentrica è la comunanza religiosa degli stessi valori morali e politici. Ma ciò non potrà essere se morale e politica sono distanti quanto fede e ragione. Legati da una stessa fede, i santi sono intercessori del potere divino; fuori della fede comune, sarebbero dèi pagani. Parimenti, all’interno di una stessa ragion di Stato, ogni istituzione distinta è statale. Fede e politica non potranno mai incontrarsi se ubbidienti a princìpi differenti e anzi contrastanti, e nessun concordato potrà mai legalizzare le loro ideali opposizioni. Occorre all’uopo, per superare il contrasto irresolubile, una nuova teologia della carità per una nuova definizione morale di convivenza sociale, che, aprendo nuovi orizzonti civili alla religione, riscatti anche gli errori di cultura della Chiesa. Fuori del suo terreno dottrinale, la religione fu a lungo identificata con la politica della Chiesa, la cui tardiva e incerta sociologia delle encicliche sociali non fece che accreditare indirettamente la giustezza delle posizioni positivistiche e rivoluzionarie, che avevano già da tempo indicato nella società il luogo reale della vita umana, sul quale si era infranto storicamente il personalismo cristiano. 7. I cattolici di ogni paese, prendendo coscienza di un loro possibile ruolo politico, hanno cercato per tempo una trasposizione del senso comunitario dell’ecclesia mistica in una forma di organizzazione laica che renda efficace nelle istituzioni la loro presenza sociale. La forma partitica, anche nel loro caso, ha costituito quella più rispondente alle esigenze degli omologhi movimenti politici moderni, e a partire da Murri essa è stata accolta in Italia dai cattolici come il riferimento spontaneo per quanti avessero voluto aderire all’impegno sociale dismettendo ogni riserva di principio sulla vita politica nazionale.

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Ma proprio la dimensione “nazionale” dell’impegno politico dei cattolici rappresenta per essi una riduzione dei princìpi morali universali della loro ispirazione religiosa in termini di mondani interessi particolari che inevitabilmente determinano l’assunzione di posizioni pratiche contrastanti la costituzione fondamentale dell’unità spirituale del corpo mistico cristiano. Con la riduzione partitica, la dialettica evangelica dei due poteri, spirituale e politico, diventa, da affare di coscienza individuale, situazione politica collettiva, nel cui ambito deontologico la possibilità di una riserva morale sull’attività dello Stato e dei gruppi politici nazionali, ha una portata socio-culturale di rilevanza etica ben diversa dalla riserva di singoli cittadini la cui condotta etica è ispirata da valori assiologici religiosi. Un partito politico “nazionale” non può mediare tra ragione di Stato e ragione di fede, aderendo con riserva morale alla vita politica nazionale e costituendosi eventualmente come il luogo istituzionale di una sintesi tra valori e necessità, assumendo una funzione, magari più avanzata, ma comunque parallela a quella assolta tradizionalmente dalla Chiesa. E per la semplice ragione che tale ruolo parallelo, per principio, può essere svolto solo dallo Stato, quale luogo della sintesi etico-politica del governo societario. Una siffatta idea di partito-stato appartiene a visioni totalitarie della politica, che confondono la politica di parte con l’interesse generale. Per scongiurare tale deriva totalitaria, il partito dei cattolici intese la sua laicità politica come una dissociazione ideale tra le personali ispirazioni dei singoli aderenti e la pratica dell’azione politica organizzata, secondo una logica machiavellica ispirata al più spudorato cinismo auto- referenziale, subendo tutte le contraddizioni ideali e le incongruenze pratiche che affliggono l’attività della Chiesa a un tempo pastorale e statuale. Infatti, il carattere totalitario delle ideologie statalistiche del sec. XX, deriva non dal loro immanentismo storicistico, poiché il modello teologico di tale immanentismo storicistico è quello cristiano, che nella persona del Cristo rinviene sia la essenza finita dell’uomo fisico che la presenza spirituale del divino. Il carattere totalitario di quelle ideologie deriva loro dall’assunzione della logica conflittuale della socialità politica come modalità necessaria e insuperabile della convivenza umana, secondo la concezione antropologica propria della civiltà classico-pagana. Diversamente da questa visione dell’uomo come “animale politico” e della sua esperienza esistenziale come relazione conflittuale derimibile solo giuridicamente dalla forza

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superiore del potere statuale, il quale costringe l’anarchica libertà del volere individuale a riconoscere la legittimità delle altre volizioni individuali, la visione cristiana dell’uomo e della sua esperienza esistenziale viene informata a una antropologia spiritualistica, la cui legge di relazione sociale non è la discriminante politica amico-nemico, ma il principio della carità, fondato sul libero riconoscimento del prossimo come essere consustanziale e fraterno in Cristo, anziché concittadino suddito dello Stato. Si è alquanto equivocato, in passato e anche recentemente, sulla essenza del rapporto del divino con l’umano, contrapponendo, a seconda dei casi, la prevalenza dell’uno all’altro termine per giustificare, in nome della “incarnazione”, il carattere divino dell’uomo, ovvero il carattere umano del divino. In realtà, i due elementi della natura umana sono compresenti nell’uomo spirituale ma distinti nell’uomo empirico, al quale soccorre la libera scelta morale per trascendere spiritualmente la sua natura finita. Il carattere totalitario dello statalismo etico, non deriva dunque, come generalmente si crede, dal suo immanentismo, il quale intende anzi affermare la realtà dei valori nella dimensione sociale, contro ogni relativismo etico e ogni prospettiva nichilistica della storicità umana; ma gli deriva dalla falsa concezione che stabilisce l’equivalenza, e dunque l’identità, del piano divino con quello umano, il quale ultimo diventa così il piano reale rispetto a quello astrattamente ideale, e quindi dall’assunzione della realistica ragione politica come strumento operativo della contro-rivoluzione reattiva al nichilismo, sia borghese che marxista. Ma proprio la strumentalità politica delle “religioni secolari” ha dimostrato l’intrascendibilità spirituale della visione naturalistica dell’uomo come animale sociale, e viceversa la validità della visione spiritualistica dell’antropologia cristiana proprio ai fini del superamento morale della logica conflittuale insita nelle forme politiche di socialità. Trasformandosi in “partito” il movimento cattolico (o genericamente cristiano) deve accogliere la logica politica come ideale regolativo del proprio piano d’azione, sconfessando così sul piano effettuale la consapevolezza che la cultura cattolica più avveduta ha circa il fallimento storico della pretesa ideologica avanzata dal razionalismo moderno di far assumere alla politica i compiti tradizionalmente spettanti alla morale, e quindi allo Stato il ruolo della Provvidenza. Proprio la conferma cattolica dell’inevitabilità dell’impegno

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politico organizzato a scopo risolutivo delle contraddizioni della vita sociale, rappresenta la resa forse più significativa alla cultura razionalistica, edulcorata dalla professione ideologica “democratica” in termini anti-totalitarii e individualistici, secondando surrettiziamente così la tendenza propria alla tradizione secolare di origine teologica protestante. L’equivoco democratico, tendente a salvare il regime delle rappresentanze liberamente competitive per il potere, dal crogiuolo olistico delle ideologie totalitarie, viene di fatto smascherato dalla prassi non meno machiavellica delle politiche democratiche, le quali hanno accelerato, anziché frenato, il processo di scristianizzazione delle società occidentali, comprese quelle europee cattoliche, avviato a seguito delle concezioni immanentisticorazionalistiche della Storia. Il passaggio dall’atteggiamento anti-statalistico del movimento cattolico italiano, a quello nazionalistico filo-democratico risale simbolicamente a un discorso di Luigi Sturzo del dicembre 1905 su I problemi della vita nazionale dei cattolici, in cui il prete siciliano avanza esplicitamente la proposta della costituzione di un partito laico al fine della partecipazione dei cattolici alla vita dello Stato risorgimentale dopo la revoca del “non expedit”, parlando del “problema nazionale come una sintesi di tutti i problemi del vivere civile”, e distinguendo dalla “vita spirituale” dei cattolici quali “congregazione religiosa”, la “ragione di vita civile” dei cittadini seguaci dei “principi cristiani nella morale […] nel concreto della vita politica”. Con questo proclama Sturzo chiamava a raccolta i cattolici non come “depositari della religione […] ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale” che si rifaceva alla “civiltà cristiana”. Prima che lo facesse il fascismo e il comunismo, il cattolicesimo politico si proponeva quale mediatore politico e rappresentante della società civile di estrazione nazional-popolare, ossia di quelle ampie fasce sociali che l’organizzazione dello Stato liberale aveva lasciato ai margini della vita politica italiana, e che erano depositarie di una cultura ancora radicatamente pre-moderna e impregnata di valori religiosi tradizionali. La forte novità dell’impostazione popolaristica sturziana, che sarà emulata sia dal fascismo che dal nostrano comunismo gramsciano, rispetto alla tipica concezione liberale della politica, consisteva nell’assunzione della rappresentanza politica di interi blocchi sociali, trasformati in referenti elettorali di un partito, non più di singoli aderenti, ma stabilmente organizzato e di massa,

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depositario di una visione ideologica della società e dello Stato, concorrente e alternativa a quella della élite liberale, politicamente dominante ma socialmente minoritaria. L’aspetto rivoluzionario latente in questa impostazione democratica della politica dei cattolici, si palesò allorquando i loro dirigenti politici declinarono l’invito giolittiano a salvare lo Stato liberale dal fascismo incombente, unendosi di fatto ai socialisti nel favorire la rivoluzione nazional-popolare eversiva dell’ordine liberale, sia pure di segno fascistico e non cristiano. Il cattolicesimo democratico si pose oggettivamente in concorrenza col movimento socialista per il controllo delle masse popolari, nella prospettiva comune di trasformare lo Stato oligarchico liberale in uno Stato popolare di forma democratica. Tra i due rivali democratici la spuntò la rivoluzione fascista, che del nazionalismo incarnò l’ideologia più estrema e coerentemente anti-liberale, perché anti- parlamentarista e neutrale verso i valori. Il fascismo fece del partito la sede ideale dell’interesse generale e dello Stato nazionale il luogo istituzionale della potenza. Interesse e potenza “democratici” per principio. Nella realtà istituzionale e culturale del liberalismo storico, abbracciare la prospettiva “nazionalpopolare” significava costituirsi oggettivamente come un movimento rivoluzionario, sia pure non concretamente eversivo, come invece lo sarà il fascismo in virtù del suo esplicito decisionismo anti- parlamentaristico. Rispetto alla democrazia “liberale”, quella “nazional-popolare” propugnava un’altra forma di Stato e un’altra organizzazione sociale ed economica, improntata ai valori del consenso maggioritario e alla rappresentanza degli interessi delle masse emarginate dallo Stato elitario e dalla società borghese, diretta da una “classe non-classe” sedicente rappresentante degli interessi della nazione ideale. Come ben intese a sua volta Gramsci, il popolarismo cattolico rappresentava sul piano ideale l’affermazione del primato della prassi sulla morale, e cioè della politica sulla religione nella direzione degli affari umani, per cui l’inserimento delle masse cattoliche nell’agone politico nazionale avrebbe determinato anche la loro partecipazione ideale alla logica del conflitto come cultura sociale. Ed è esattamente l’affermazione di tale primato del politico il senso essenziale delle democrazie di massa, che si distinguono dalla concezione liberalistica della società politica per la estensione della teoria della rappresentanza politica in ogni ambito della vita umana, compreso quello dei

valori, dell’arte e della cultura, facendo così della sfera dello Stato il luogo rappresentativo per eccellenza dell’esistenza umana, e della prassi politica il metodo risolutivo delle sue sociali e personali contraddizioni. La logica delle rappresentanze parlamentari richiamava in qualche modo l’ideologia assembleare del governo della Chiesa da parte delle rappresentanze ecclesiali di base, e perciò fu sempre avversata dal centralismo papista, che trovava nel decisionismo fascista un’assonanza ideale preferenziale rispetto alla stessa prospettiva cattolico-democratica, pericolosamente esposta alla deriva democraticistica di matrice liberalparlamentare, quale sua versione appunto popolarista. Il decisionismo fascista fece la differenza rispetto alla prospettiva popolarista sturziana nel favore del cattolicesimo anti-liberale, diffidente verso l’attività parlamentare laicista dello Stato liberale, e questo favore fu decisivo per le sorti della rivoluzione fascista, che dava il colpo di grazia al regime nato da Porta Pia, e soprattutto per il consolidamento del nuovo regime politico concordatario, che riaffermava, anche attraverso la sanzione religiosa, il primato della gerarchia nell’ordine sociale su quello della rappresentanza politica della cittadinanza. L’idea di un accordo con Cesare ai fini di una regolamentazione morale della sua politica (l’ipotesi delle “mani tese” di p. Fessard), rifletteva la teoria del primato politico della morale sulla stessa politica; teoria che non coglieva l’assolutezza del lato demoniaco del potere, propugnata congiuntamente sia dallo scientismo agnostico che dal nichilismo ateo, che sono forme di sapere amorali per definizione. E proprio sulla politica come scienza del governo sociale era fondata la nuova sociologia del potere totalitario di ogni indirizzo ideologico, coscientemente assunto come fondamento puramente mitico di legittimazione razionale. L’antitesi contro-rivoluzionaria fascista alla rivoluzione nichilista del marxismo segnava comunque, con il primato della politica, anche il rinnegamento di fatto della cultura sociale cristiana, che già Scheler aveva denunciato come peccato comune delle nazioni europee fratricide nella prima Guerra mondiale. Ma la pratica concordataria della Santa Sede, sconfessando il popolarismo sturziano, ne confermava nondimeno lo spirito omologante del suo nazionalismo politico, distinto dalla sua prospettiva democraticoparlamentare, cioè dal suo liberalismo istituzionale. 8. Ciò che nel primo dopo-guerra era riuscito al

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fascismo in chiave anti-parlamentare, nel secondo dopo-guerra riuscì al nuovo popolarismo cattolico in chiave filo-parlamentare. E ciò che allora era stata la “nazionalizzazione delle masse”, divenne poi la loro “parlamentarizzazione”, versione cattolico-liberale della democraticizzazione dello Stato e della società. In entrambi i casi, i rispettivi regimi “nazional-popolari” segnano, in maniera ideologicamente diversa, l’inserimento delle masse italiane nello Stato-nazione. Se non si coglie bene il rapporto storico- ideologico tra nazionalismo e democrazia, non si può comprendere il senso essenziale del processo politico post-liberale del Novecento, ovvero la natura filosofica del totalitarismo come affermazione del primato della prassi politica sul coscienzialismo morale. Tale primato della prassi collettiva sul pensiero individuale ideologicamente caratterizza ogni forma di democrazia, ovvero l’ideologia democratica in ogni sua forma storica, differenziandosi dall’ideologia liberale che è caratterizzata dalla distinzione tra volontà politica e valore etico, e dalla opposizione tra libertà di pensiero e obbligatorietà dell’azione, tale che tra i due momenti non possa mai costituirsi una relazione di identità logica ma solo una mediazione razionale. Rispetto al paradigma liberale, sia il soggettivismo idealistico, che riduce ogni realtà molteplice all’Essere del pensiero, che il collettivismo materialistico, che viceversa riduce ogni valore trascendente a forma di ontologia sociale, sono varianti speculari del riduzionismo totalitario, le cui astratte forme teoretiche possono storicamente convertirsi nel loro reciproco opposto pratico, per la tipica dialettica di ogni posizione ontologica astratta. E difatti, il soggettivismo mistico si converte in economicismo individualistico e quindi entrambi in dittatura democratica del consenso politico e del mercato. O altrimenti, il liberalismo del governo del diritto si converte in parlamentarismo delle rappresentanze politiche, e questo a sua volta in leaderismo carismatico e governo demiurgico decisionistico. L’inizio ideale della crisi del liberalismo storico è segnato appunto dal passaggio alla dimensione “nazionale” – e cioè alla politica democratica – dei valori etici universali propugnati dal mondo della cultura e della religione, custodi della tradizione spirituale della civiltà europea. La nazionalizzazione dei valori morali e ideali ha segnato nel contempo la fine dell’universalismo cristiano, fautore e testimone di un’identità culturale decisamente meta-politica e transnazionale, consegnata al foro interiore e

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costitutiva di un ordinamento comunitario (ordo amoris) la cui logica socialitaria era per principio alternativa alla società politica (ordo civilis). Se il collante comunitario della fede è mistico, e fondato sulla carità quale libero riconoscimento dell’altro come sé distinto, il collante della socialità politica è economico, e fondato sul riconoscimento polemico del sé come rivale dell’altro. Aver accettato la logica della società politica, ossia l’interesse del proprio partito contro gli interessi concorrenti delle altre parti sociali politicamente rappresentate, ha significato per l’unità mistica dei cristiani una contraddizione che si è riflessa nella realtà pratica nei termini del loro coinvolgimento attivo al processo di secolarizzazione dei valori sociali già religiosi e di un contributo fattivo, sia pure per eterogenesi dei fini, all’affermazione della cultura relativistica del positivismo e del primato della filosofia della prassi sul pensiero speculativo. Non a caso, nel secondo dopo-guerra, l’affermazione di regimi democratici di ispirazione cristiana ha coinciso con l’accelerazione di quel processo e la progressiva affermazione, con l’ideologia democraticistica, di una cultura edonistica e idolatrica, negatrice di fatto dei valori spirituali cristiani e della morale caritativa dell’ “ordo amoris” a favore di una esclusiva logica economicistica e materialistica, sembrando confermare la predizione positivistica del definitivo tramonto della cultura metafisicoreligiosa. L’accoglimento della logica politica, prima nazionalistica e poi democratico-universalistica da parte della cultura cristiana, ha segnato la fine dello spiritualismo cattolico nella stessa cultura popolare delle masse da millenni evangelizzate, proseguendo nel processo di negazione della civiltà cristiana che già Scheler aveva registrato con l’avvento della prima Guerra mondiale fratricida. Il rapporto teoria-prassi, a seguito del progressivo coinvolgimento delle masse nella vita politica degli Stati, ha dislocato i termini della dialettica intellettuale dallo scontro ideale a quello politico, trasformando quella che era la logica apofantica delle categorie aristoteliche in ragioni ideologiche di sostegno sofistico alla prassi. Lo scadimento teoretico della cultura filosofica ad uso politico si è manifestato nella cultura delle masse ideologizzate come rappresentazione mitologica della realtà, che ha costituito il contenuto delle “religioni secolari” polemicamente contrapposte. In tal senso, la cultura religiosa popolare tradizionale è servita, proprio in virtù della sua impermeabilità alla cultura moderna secolarizzata, all’uso strumentale

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delle nuove forme ideologiche di religiosità, per cui proprio il confidamento sulle risorse morali della cultura popolare in senso conservatore dei valori della tradizione religiosa si è rivelato il più illusorio, dal momento che proprio le masse religiosamente educate si mostrarono fortemente ricettive delle nuove verità di fede ideologica, operando una sbrigativa rimozione di tutte le lunghe sedimentazioni della tradizione. Questo fenomeno di conversione di massa dei popoli cristiani alle nuove ideologie politiche del tempo, non soltanto segnava di fatto il declino dell’influenza delle chiese tradizionali sulle stesse masse, ma indicava anche l’inefficacia del linguaggio simbolico della metafisica cristiana rispetto al nuovo contesto ermeneutico delle rappresentazioni scientifiche della realtà, al cui confronto il geloso monopolio ermeneutico del sapere tradizionale da parte della Chiesa si è rivelato un’inutile custodia reliquiaria di una cosmologia che aveva esaurito il suo valore esplicativo di senso nel mondo della vita. La stessa apertura della teologia cattolica alla cultura moderna prima ufficialmente stigmatizzata, tradiva una debolezza ideale confermativa della debolezza morale dimostrata con la politica concordataria, che di fatto aveva simbolicamente abbandonato le masse alla manipolazione ideologica dei regimi totalitarii. Il mondo dello spirito interessato alla salvezza eterna, dialogando con gli indirizzi di pensiero moderni, prima respinti come insidiose eresie, palesava la sua sostanziale estraneità dal mondo pratico della salvezza quotidiana, regolato dalla politica e dall’economia, scienze mondane per definizione. La “estraneità della religione dal mondo del lavoro”, che tanto preoccupava Paolo VI, non marcava una distanza puramente psicologica delle masse operaie dai centri tradizionali di formazione religiosa, ma stabiliva ormai un percorso formativo alternativo a quello spirituale, di carattere appunto politico e ideologico, più funzionale ai tempi di sviluppo capitalistico. 9. La democratizzazione delle società europee cristiane ha concluso il processo di scristianizzazione dell’Europa iniziato dal razionalismo, originariamente nel solo campo teoretico-scientifico, e quindi esportato in ambito socio-politico, e segnato simbolicamente dalle rispettive “rivoluzioni”: quella copernicana e quella francese. La prima, idealmente liberale, in quanto circoscritta per statuto epistemologico alla sola realtà metafisica della verità di ragione, senza coinvolgere in modo deliberato e sistematico la

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verità di fede del senso comune. (Quanto questa “doppia verità” avrebbe poi inciso in senso relativistico sulle coscienze cristiane dimidiate tra opposte istanze morali, è qui solo possibile ricordare per inciso.) L’altra “rivoluzione”, scientemente invasiva e corrosiva di ogni ambito culturale e istituzionale tradizionale, facendo della lotta alla tradizione valoriale comune alle genti cristiane il suo punto programmatico essenziale, aprendo a sua volta la strada intellettuale al positivismo teorico. Con la democratizzazione delle società europee si conclude storicamente il programma politico rivoluzionario di neutralizzazione della cultura spiritualistica e metafisica del Cristianesimo e del suo umanesimo personalisti stico, soppiantati da una visione naturalistica e socio logistica di segno neo-pagano, il cui razionalismo positivo ha rimosso dall’orizzonte ideale ed esistenziale dell’uomo la realtà del “regno dei cieli”, a favore dell’esclusivo regno mondano, antonomasticamente diabolico e dominato da Mammona e da Cesare. La democrazia ha segnato, con la resa ideale e pratica, dei cattolici ai tempi, il trionfo del regno di Cesare, ossia della logica politica contro la quale si è immolata l’umanità naturale del Cristo per affermare l’umanità spirituale del nuovo Adamo. La distinzione politologica e sociologica dei distinti regimi storici della “rivoluzione”, è tutta interna alla dimensione profana di una storicità senza più fine escatologico trascendente e perciò senza scopo di salvezza. La fine della metafisica della trascendenza non è segnata dall’immanentismo, così come l’ateismo non è in sé identificabile col razionalismo. L’immanentismo e il razionalismo, quali metodologie gnoseologiche, possono essere al servizio della verità di fede ovvero negarla in nome di un’altra fede, a suo modo religiosa, anche se di segno negativo, e cioè scettica e relativistica, interamente legata alla dimensione ontologica del Molteplice e del divenire degli enti mondani. Entro questa esclusiva dimensione naturalistica ed empirica trova il suo ambito di verità la logica politica dei puri rapporti di forza, legati alla necessità della sopravvivenza biologica, in cui ogni ragione è di tipo economico e ha senso teoretico ed esistenziale solo in quanto pragmaticamente funzionale ad essa. Il totalitarismo politico è l’espressione fenomenica strutturata in regime socio-politico statuale dell’esclusiva logica polemica dell’economicismo mondano e dell’etica naturalistica neo-pagana. In tal senso la sua “lotta contro la trascendenza” è la trascrizione ideale della tendenza pratica ad

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affermare la logica del dominio della volontà politica del demiurgo, quale ragione stessa della potenza dello Stato-nazione, sulle masse ideologizzate in senso nichilistico. L’esito nichilistico di questa tensione ideologica è insito nella negazione della validità di ogni statuto ontologico alla realtà spirituale, ridotta a credenza privata di nessuna rilevanza pubblica, riservata invece alla sola dimensione politica, regolativa dei rapporti tra enti umani naturalistici. Ma la possibilità dell’affermazione politica di un’ideologia naturalistica nell’ambito dei rapporti pubblici non si sarebbe mai potuta conseguire effettualmente e non avrebbe mai invaso l’ambito della vita privata senza il previo riconoscimento morale della legittima – ossia razionalmente fondata - autonomia della politica come valore idealmente autonomo solo perché scientificamente definibile sulla base di un proprio statuto epistemologico. L’autonomia della scienza dalla teologia, e quindi della politica dalla morale, avvertita per tempo come conquista dello spirito scientifico della ragione emancipata, riproponeva surrettiziamente quella distanza tra cielo e terra che abbandonava al potere di Cesare il dominio del mondo. Da questo assunto autonomistico razionalistico derivava la legittimazione etica dell’uso sistematicamente razionale della forza come espressione della distinta logica politica. Il trasferimento dell’universalismo disciplinare della scienza politica come criterio metodico di dominio sociale, fa del governo razionale dello Stato un potere scientificamente strutturato, cioè idealmente auto-referenziale e indipendente da ogni finalismo morale. La condizione della legittimazione razionale del governo scientifico della società è che l’uomo sia considerato un ente naturale, e come tale oggetto di conoscenza scientifica al pari di ogni fenomeno della natura. Solo infatti se ridotto antropologicamente a specie zoologica, priva di ogni referente spirituale trascendente e divino, l’uomo può essere considerato strumento di uno scopo sociologico di potenza politica. In questo orizzonte positivistico va compreso sia il nazionalismo, con le sue propaggini imperialistiche di carattere statalistico, che il democraticismo, con la sua logica economicistica di proiezione universalistica. Per un cristiano, fautore di un’antropologia spiritualistica, voler parteggiare a favore di uno o altro regime politicistico ed economicistico, segna comunque una resa a Satana e a Cesare, cioè al materialismo, e non allo storicismo e all’immanentismo in quanto tali. Infatti, col Cristianesimo, la cultura religiosa di origine ebraica diventa

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immanentistica, essendo la nuova realtà di fede incarnata nel tempo, e perciò non solo più spiritualistica ma anche storicistica perché universalistica, e razionalistica in quanto trascendente la mera dimensione etnico-nazionale della salvezza. L’irenismo universale e storico è meta-nazionale, ed è fondato su un’antropologia spiritualistica, il cui senso unitario prefigura una Storia del genere umano. Fuori della prospettiva cristiana della salvezza spirituale come superamento della finitezza della sua condizione naturale, la Storia dell’umanità torna ad essere “nazionale”, cioè etnica e naturalistica, costellata di una fatticità meramente empirica. In questa dimensione dell’assoluta finitezza, il cui senso esistenziale è dato dagli stessi rapporti politicoeconomici tra gli uomini e tra i gruppi, vige la regola del conflitto e della potenza materiale, non certo quella della carità fraterna e della solidarietà umanitaria. Il conflitto che si stabilisce tra lo spiritualismo cristiano e il positivismo, materialistico o idealistico, non è tra organismi storici che si contendono un primato interno a una stessa logica rappresentativa dei valori comuni, ma inerisce due visioni antropologiche fra loro alternative, che non possono convivere stabilendo rapporti giuridici di reciproco riconoscimento, mancando loro un ambito valoriale comune che renda moralmente cogente il principio che pacta sunt servanda, mancando loro un comune fondamento ontologico. La pratica pattizia, complementare o propedeutica a quella della segregazione etnica o religiosa, non è un’esclusiva fascistica, ma viene praticata quale criterio di soluzione politica nei casi di ritenuta incompatibilità sociologica tra visioni antropologiche reciprocamente in sussumibili. Si pensi alla ghettizzazione dei nativi amerindi dal sistema democratico-capitalistico degli USA. Intuizioni della vita alternative, che sono fondate su credenze che si escludono a vicenda, coinvolgono fini contraddittori non derimibili sul piano dei princìpi, la cui compossibilità pratica è legata alla sospensione del giudizio logico in ambito di rilevanza pubblica, dove si fanno valere prioritariamente regole di opportunità, la prima e più importante è quella della conservazione politica della vita sociale politicamente definita. In altri termini, l’apparente pluralismo dei moventi ideali e dei fini pratici ammesso dalle carte fondamentali degli Stati liberal-democratici, incontra il suo limite insuperabile nel principio fondativo della stessa socialità. Se tale principio è politico, la ratio che sostiene il sistema sociale non può non essere anch’esso politico, ossia omogeneo idealmente al fondamento di validità

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sociale. Se, viceversa, il fondamento di socialità è spirituale, la deliberazione di immolarsi per la salvezza dell’anima non è meno razionale dell’intento del soldato di uccidere il nemico sconosciuto per onorare la patria. Sono due logiche diverse la cui razionalità alternativa non può servire due padroni. E nella scelta della sua priorità valoriale consiste la libertà dell’uomo, la necessità cui soggiace la sua natura finita, alla quale lo stesso Verbo si è piegato incarnandosi. La finitezza umana non può essere superata da una scelta definitiva, ma può essere solo tra svalutata, sogguardata cioè nella sua verità ontologica, e mostrata nella sua caduca inseità, dalla prospettiva dell’eterno, che è quella appunto dello spirito, il cui “regno” è altro da quello del mondo. Il comportamento umano, dal punto di vista dell’eterno, è quello informato ai princìpi della morale spirituale, non a quelli dell’utile, propri della logica economicistica della società politica, dell’ordo socialis naturalistico. L’uomo può scegliere a quale dei due regni ispirare la sua condotta, e in questa possibilità risiede il suo dovere morale ovvero politico. La dimensione della necessità è quella della natura, dei rapporti bio-fisici, ma quella del dovere è la dimensione della cultura, cioè della formazione spirituale dell’uomo. Se questa dimensione viene estromessa dalla sfera pubblica, questa diventa l’agone delle relazioni polemiche, la cui libertà dev’essere comunque regolamentata perché sia comune alle parti e non sbilanciata in senso leonino a favore del più forte. La giustizia equitativa è un correttivo alla libertà individuale che, fissando le regole del gioco delle parti, fissa nel contempo anche i limiti della libertà individuale. Segno che questa non può costituire un valore assoluto, e che prima di essa c’è il bene supremo del gruppo sociale. La dimensione della doverosità è stabilita su un rapporto di consapevole dipendenza da un principio autoritativo superiore alla volontà individuale. In questo ambito non c’è limitazione alla libertà previamente asserita come prioritaria, poiché il rapporto di dovere è in sé stesso una deliberata volontà di auto-limitazione della propria libertà, che si arresta spontaneamente di fronte alle ragioni superiori della morale. In questa deliberazione volontaria e non costretta, il soggetto morale concepisce la sua libertà, cioè il suo dovere. In tal senso, la giustizia non è vista come l’intervento esterno di una forza di equilibrio limitativa della libertà, ma come il principio regolatore dei rapporti, senza il quale non ci sarebbe la stessa libertà. In altri termini, nella sfera morale è il dovere che crea la libertà, la

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quale dunque ne dipende per la sua stessa esistenza, mentre nella sfera economico-politica è la libertà a fondare i suoi limiti equitativi, senza i quali essa esisterebbe ugualmente. E poiché la libertà per definirsi deve incontrare la sua opposizione che la neghi, questa in senso politico è una libertà concorrente, che avanza le stesse pretese di riconoscimento del suo opposto, e che perciò si scontra con esso per affermare se stessa. La lotta come principio di relazione sociale presume l’uguaglianza dei contendenti, in contesa per la reciproca affermazione. In senso morale, invece, la libertà è l’esito della auto-limitazione della volontà dell’attore, per cui il rapporto sociale si stabilisce sul previo riconoscimento dell’altro; riconoscimento che invece è l’esito della contesa politica. Nella sfera morale la prospettiva è rovesciata rispetto a quella politica, sicché ciò che è “folle”, ossia irrazionale, dal punto di vista polemico dei rapporti di forza sociali, è viceversa “valore” dalla prospettiva rovesciata della ragione morale, dove è libero chi rinuncia alla propria libertà di affermazione. L’azione morale, così come la salvezza dell’anima, è personale, e non collettiva come invece la salvezza politica del gruppo sociale. Il dovere della scelta, legato alla possibilità della libertà, è consustanziale alla immutabilità della finitezza umana, che dunque è il destino di ogni uomo, personalmente volto alla realtà eterna dello Spirito, e collettivamente costretto alla convivenza sociale. L’ideale “rivoluzionario” non riconosce la duplice essenza ontologica dell’uomo, ma la ritiene una creazione ideologica, un mito funzionale alla volontà di potenza, per cui la coscienza di tale condizione artificiale consente di convertire l’uno dei due termini ideologici nell’altro, teorizzando pertanto la fattibilità della metabasi o “passaggio” dalla dimensione ritenuta “sacra” alla dimensione dei rapporti reali di forza, “profani”. Così, al posto della scelta di libertà personale e responsabilmente volontaria, che destina alla fine della Storia e del tempo la redenzione collettiva e il compimento dell’attesa escatologica, la “rivoluzione” intende realizzare la libertà collettiva entro il regno naturale della società, sconfiggendo la legge che la sostiene, quella della necessità, ritenendola illusoria e umana, attraverso l’azione irenica della politica, il cui ufficio demiurgico, scientificamente stabilito, sostituisce quello imponderabile della Provvidenza. La comunità dei cristiani non può mai costituirsi in “società” senza condividere la logica sociale della ragione politica, la cui logica è basata sul fondamento di una visione antropologica

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puramente naturalistica, che considera l’intuizione spiritualistica dell’uomo come una superfetazione ideologica e mitica. Il tentativo storico di costituire una società “cristiana” doveva fallire per le stesse e opposte ragioni ontologiche del fallimento del tentativo di istituire il regno della libertà socialista: perché il “passaggio” dall’uno all’altro “regno” non è disponibile dall’uomo ma costituisce l’esercizio della speranza di ogni coscienza di fede che liberamente e responsabilmente sceglie operando nel mondo nel senso dell’ossequio ad una o all’altra logica che rispettivamente lo sostiene. L’affermazione storica di uno o altro “regno” equivale alla fine della libertà di scelta personale, cioè di ogni responsabilità morale e alla fine della stessa duplice costituzione ontologica dell’uomo, pensato rivoluzionariamente in termini univoci, o come sola essenza spirituale ovvero come sola realtà materiale. L’essenza rivoluzionaria è legata all’universalismo escatologico cristiano, interpretato però in termini sociali, e non personali. La morale universale cristiana insegna che ogni uomo è persona spirituale, ma non che spirituale sia la condizione umana, legata invece alla sua natura finita. L’uomo è essere spirituale nella misura in cui si emancipa dalla sua natura finita, cioè dalla sua socialità economico-politica. Ma tale emancipazione non può essere collettiva se non superando la sua finitezza esistenziale, sovvertendo quindi l’ordine cosmico universale. Appunto con la “rivoluzione”. L’emancipazione spirituale fa della persona morale il soggetto della Storia, che è regno ideale, ma non il protagonista della società, che è regno politico, in cui vigono leggi economiche. I due piani di realtà non sono sovrapponibili, se non a condizione di una omogeneizzazione del soggetto spirituale all’ oggetto naturalistico del fenomeno economico, che riduce a sua volta la politica a pratica razionale, e cioè a gestione economica della società, che è il fine della visione positivistica della società. Il fallimento dei totalitarismi politici si inscrive nell’ideale positivistico di omogeneizzare il soggetto personale, con le sue istituzioni etiche, all’individuo economico della società razionalizzata, allo scopo politico di renderlo puro strumento della volontà del potere sovrano. Anche le visioni idealistiche opposte a quelle materialistiche sono dello stesso genere totalitario, in quanto concepiscono a loro volta il soggetto ideale astratto dalla sua realtà ontologica composita, e quindi a sua volta come “oggetto” intellettualisticamente “reale” anche in senso

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empirico-esistenziale. Ma il fallimento storico dei totalitarismi positivistici era già stato sperimentato dalla cristianità romano-cattolica, la cui pretesa totalitaria generò dapprima lo scisma spiritualistico del protestantesimo, e quindi lo scientismo materialistico del razionalismo: ideologie astratte che, come ogni pensiero astratto dell’Essere, si convertono nel loro opposto. E così Lutero e Machiavelli, partiti da posizioni ideali opposte, si ritrovano congiunti a condividere la paternità filosofica dell’età moderna. Infatti, dal protestantesimo nacque il capitalismo, come emancipazione economica universale del soggetto originariamente spirituale; e dal razionalismo materialistico nacque il democraticismo, come emancipazione politica universale del soggetto coscienziale. Il loro rispettivo “universalismo” costituisce l’ideale della loro “fede” nella conversione del genere umano alla rispettiva visione ideologica, oggetto della loro “religione civile”. Un pensiero autenticamente spiritualistico, orientato dalla fede nella verità e sostenuto dalla ragione umana che vicendevolmente si giustificano, non può preferire una ad altra logica totalizzante, ossia uno o altro regime sociale che se ne faccia l’interprete empirico, ma deve coscientemente promuovere quelle forme di convivenza umana che garantiscano alle persone, nella loro singolarità spiritualmente irriducibile, di poter vivere al loro identità morale senza coltivare alcuna pretesa totalitaria che infici l’insopprimibile natura della finitezza umana, ossia la sua naturale tendenza socialitaria. In tal senso, e a tal fine, solo un potere politico che garantisca le libere formazioni etiche tra persone può garantire una socialità non ideologicamente esclusiva, e cioè metafisicamente monistica. E solo a questa condizione, ossia che riconosca il dualismo ontologico caratteristico della duplice natura umana, può definirsi “liberale” in senso spiritualistico e antropologico. Un tale sistema di convivenza non può assegnare alla politica alcun primato ideale o sociale, ma solo il compito di un servizio pubblico subordinato ai princìpi regolativi della morale, trascendenti ogni contingente necessità politica perché non disponibili dalla volontà umana, in quanto “veri”, e come tali “sacri”, e non già “ipotetici” e “scientifici”. E perciò quel sistema non può essere “democratico” allo stesso modo in cui non può essere “integralistico”, poiché la sua razionalità sistemica non deve essere per principio razionalisticamente “totalitaria” o spiritualisticamente “ascetica”, ossia

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oppostamente assolutistica. Il sistema liberale, riconoscendo il dualismo ontologico dell’essere umano, non può essere egalitario ma strutturalmente gerarchico, in ossequio alla priorità ideale assegnata alla libertà personale sulla economica necessità sociale. Infatti l’egalitarismo genera il conflitto per il reciproco riconoscimento sociale, ossia quel dominio della politica, negatore della libertà di scelta, che fa della dimensione pubblica l’agone della forza, e del contingente potere politico un’ipotesi razionalmente valida fino all’empirica smentita della sua efficacia. Aver trasformato in consenso elettorale interno agli Stati il momento della verifica che i sistemi assolutistici delegano all’esito delle guerre tra Stati, non elimina il carattere meramente ipotetico, e quindi arbitrario, della forza politica intesa come pura volontà di affermazione sociale. Rispetto alle differenze di credo religioso, le distinzioni politiche fondate sulla pura affermazione di potenza della volontà razionalisticamente auto-referente, hanno la caratteristica di non poter essere emendate da una ragione superiore a quella sistemicamente economica, per cui è nella logica della politica di potenza essere smentita da una potenza superiore, ossia da una volontà più forte. Ed è all’interno della logica polemica tra tesi volitive o “opinioni”, che nasce la visione relativistica della Storia come arbitraria e mistificante posizione e svalutazione di valori, di cui il nichilismo sia il suo principio di “legalità”. Il principio opposto a quello della politica come conflitto per il riconoscimento reciproco dei singoli e della supremazia di un gruppo sociale sugli altri, è quello della carità, che pone la libertà, e non la necessità, a fondamento del riconoscimento personale e sociale tra gli uomini, assunti come esseri distinti ma non opposti. La “distinzione”, che è attività teoretica del pensiero, genera la scelta tra le differenze, e quindi fonda la libertà di giudizio morale. La “opposizione”, di contro, che è attività pratica della volontà, ingenera conflitto e compromesso pattizio, che è tregua diplomatica solo sospensiva della lotta politica, consustanziale alla vita economica stessa degli Stati. La opposizione tra tesi antagoniste ricerca una sintesi risolutiva, che è la tesi più forte. La distinzione, invece, ricerca la mediazione non risolutiva di una tesi (più forte) nell’altra (più debole), perché nel campo teoretico la forza della ragione, che è quella della fede, vale più della ragione della forza che fonda l’opinione politica. La fede è libertà, non necessità, e la libertà,

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diversamente dalla necessità imposta dalla forza, in quanto atto di responsabilità, non è mai risolutiva delle scelte esistenziali. La volontà soggiogata ha la sua costretta libertà nella necessità della forza che l’opprime, e cioè nell’altro che la nega. La volontaria ammissione dell’altro fa del riconoscimento della libertà altrui l’essenza della propria, di cui l’auto-limitazione è la forza della coesistenza delle libere diversità. L’opposizione è attività politica in quanto le singole volontà sono componibili in un interesse comune rappresentabile verso altri interessi concorrenti degli opposti gruppi sociali che aspirano al riconoscimento del valore pubblico dei loro rispettivi interessi. La distinzione è invece opera del pensiero, attività teoretica propria della coscienza critica dei singoli soggetti spirituali, che inerisce la libertà di giudizio e di convincimento morale. In considerazione della libertà di giudizio della coscienza critica, la sua scelta, che è razionale in quanto spirituale e non politica, non può essere rappresentabile come un oggetto di contesa, derimibile per accordo delle parti conflittuali. Il contenuto di credenza non può essere negoziabile. L’attività dialettica non è assimilabile a un negotium, così come un dibattito filosofico o teologico non è assimilabile a un dibattimento giudiziale o parlamentare. Nel primo caso, la forza del deuteragonista è nel potere della persuasione razionale; nell’altro caso, la persuasione dell’avversario è nella forza. E la forza della ragione non è nel numero dei suoi credenti, cioè nel suo potere politico, soggetto a smentite che niente hanno a che fare con la veridicità delle posizioni ideali. Solo un regime liberale può farsi garante del primato della coscienza, anche politicamente minoritaria, e cioè della libertà di fede e di pensiero, sulla ragione politica e sul primato dell’opinione sociale maggioritaria. Il personalismo cristiano non può dunque che essere “liberale”, e giammai “nazionalista” o “democratico”, ossia politicamente “totalitario”. Esso non può identificarsi con le ragioni di una parte sociale contro altre, fosse pure la più numerosa e bisognosa. Infatti, una religione dei “poveri” implica e legittima una politica per il “popolo” come ente sociale privilegiato, che lascia indeterminato e perciò aperto il conflitto politico delle rappresentanze; conflitto negatore della carità, che è distinzione senza conflitto e libero convincimento personale. Il gruppo politico è fondato su interessi concorrenti a quelli di altri gruppi sociali, e che esso sia costituito da classi economiche, o tra nazioni o tra gruppi etnici, il suo principio di relazionalità è comunque ispirato

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dalla logica conflittuale del politico, contro la quale si è levato il magistero caritativo cristiano. La forza morale dirompente della predicazione di Cristo risiede nell’assumere quale valore antropologico, originario rispetto a quello sociale dei conflitti economici, quello della persona spirituale, la cui coscienza razionale e morale è un cosmo, e perciò indipendente spiritualmente da ogni contesto sociale in cui è inserito come soggetto economicopolitico in virtù della sua individualità naturale. Trasferire la soggettività personale dal regno della coscienza razionale e morale a quello delle relazioni economico- politiche, trasforma la cosmicità coscienziale in individualismo economico, in ideologia sociale, fondata su una astratta ipotesi ontologica. L’uomo naturale è sociale, e come tale la sua vita di relazione è economica e politica. Ma lo homo oeconomicus è un’ipostasi razionalistica, la cui realtà sociologica è legata alla sua storica possibilità di affermazione politico-culturale, cioè ideologica. Essa è un “mito”, che il crollo del regime socio-politico che su tale mito è giustificato razionalmente consegnerà alla storia delle credenze mitologiche. La realtà effettuale di ciò che non-è vero, cioè l’esistenza del Negativo come possibilità ontica, è la stessa possibilità del Male quale realtà della condizione finita dell’uomo privo della luce della verità. E l’esistenza del Negativo come realtà ontica è il risvolto fenomenico di un errore di cultura legittimato metafisicamente da una astratta visione ontologica dell’uomo e del mondo. Errore riscattabile teoreticamente solo in virtù di una ontologia della verità, che non sia la mera giustapposizione di un’altra visione mitologica sostitutiva di quella confutata dalla realtà empirica. Questa dinamica delle mitologie gnoseologiche è la “legalità della storia” mitologica, appunto, non certo quella della Storia spirituale della salvezza della coscienza dalla necessità della finitezza dell’esistenza naturale, finita per definizione quanto quella spirituale è eterna. Confondere i due distinti piani ontologici, significa ricadere nelle rappresentazioni mitiche, nelle astrazioni ideologiche dell’uomo e della società. 10. La forza spirituale della fede cristiana e della sua logica caritativa non risiede nella ricerca di una impossibile sintesi risolutiva della contraddittoria condizione umana, che nessun potere umano potrà realizzare sostituendosi alla Provvidenza. Infatti, la duplice condizione umana, sogguardata dal punto di vista di ciascuna delle due prospettive, diventa insostenibilmente

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contraddittoria e ed esistenzialmente impossibile, per cui sviluppa il bisogno di superarla giungendo a una visione superiore a entrambe, che alla fine si rivela solo una rimozione dell’una a favore dell’assolutizzazione dell’altra. Così ha operato l’idealismo platonico di fronte al dramma della decadenza della civiltà greca, e così ha operato il marxismo di fronte al declino della civiltà moderna, rovesciando l’astratto idealismo in opposto astratto materialismo. Il prodotto della “de-mitizzazione” razionalistica dell’idealismo platonico fu la filosofia di Aristotele e la sua metafisica naturalistica. L’equivalente moderno dell’aristotelismo è la filosofia di Marx, che opera in senso de-mitizzante criticando la metafisica di Hegel con gli strumenti teoretici della logica positivistica del razionalismo cartesiano. A partire da Cartesio, il processo di demitizzazione della cultura teologica europea conduce alla critica degli stessi fondamenti ontologici dell’Essere spirituale concepito dal Cristianesimo. In Germania la critica della logica raggiunse i risultati teorici più cospicui, giungendo, con Hegel nel sec. XIX, a una rielaborazione della stessa tradizione aristotelica e alla formulazione del nuovo metodo dialettico, e con Husserl nel secolo di poi alla determinazione fenomenologica dell’oggetto filosofico. Il tentativo comune ai due pensatori tedeschi era quello di “rivelare” la realtà del mondo e l’esserci dell’uomo traendoli dal loro nascondimento, e per tale via manifestare l’ente nel suo nudo fenomeno reale. In ogni caso, la vera realtà era quella rivelata alla luce della ragione metodicamente guidata; realtà vera che stava oltre il mondo-della- vita, delle sovrastrutture ideologiche e delle incrostazioni dell’esperienza volgare. Il motivo “idealistico” di questo pensiero critico riconfermava alla filosofia il compito di costituire il senso autentico della realtà come cognizione superiore rispetto a quella comune e apparente. Filosofare, ovvero pensare filosoficamente con metodo razionale, significava dunque ancora trascendere la realtà finita del mondo per assurgere alla sua dimensione ideale ed eterna, l’unica veramente “reale”. In Hegel, però, la ricerca della realtà, condotta con il metodo della logica dialettica, si svolgeva pur sempre all’interno di un orizzonte teologico, la cui visione della Storia come processo necessario e inevitabile assegnava all’accezione di “oggettività” dei risultati veritativi una connotazione metafisica spiritualistica che i suoi epigoni atei curarono di emendare in senso razionalistico, alla luce di un criterio “scientifico” di verità. Ed è qui che il materialismo scientifico –

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supposto erede del metodo dialettico hegeliano, ma non del suo sistema metafisico spiritualistico, entro la cui ontologia quel metodo era gnoseologicamente giustificato – incontra il positivismo e la sua legge dello sviluppo sociale come traduzione “fisica” del processo storico della salvezza spirituale. Così, la fede nello sviluppo spirituale divenne, nel positivismo scientista, fede nel progresso economico; e l’assunzione di tale progresso come condizione del benessere morale dell’uomo, finì per identificare tale progresso economico con la stessa civiltà, sviluppando una cultura economicistica e produttivistica, il cui polo dialettico al suo sociologismo materialistico fu la reazione dell’ideologia individualistica e antistoricistica, che dichiarandosi cultura del relativismo di tutti i valori, si presenta come la loro estrema neutralizzazione filosofica, e conseguente rimozione dall’orizzonte di senso della dimensione pubblica. Ossia, l’opposto speculare delle tesi immanentistiche di Hegel. Ma proprio l’esito filosofico e ideologico-politico della revisione di Hegel conferma che il suo pensiero non è superabile in senso razionalistico, la cui logica astratta coincide con quella scientifica della fisica e della matematica, negatrice della stessa possibilità di una fondazione metafisica della verità. La critica di Husserl allo scientismo parte proprio dall’analisi delle problematiche legate alla conoscenza logica della realtà, confutando le pretese fisicalistiche dello psicologismo moderno. In questi termini, il pensiero di Husserl costituisce una ripresa della logica di Hegel contro il riduzionismo positivistico operato dal marxismo. Una logica, però, depurata di ogni spiritualismo storicistico e tendente quindi a una nuova forma di platonismo, il cui risvolto fenomenologico storicistico è il pensiero nichilistico di Heidegger. Il pensiero tedesco che giunge a Husserl, e che, a partire da Fichte, si sviluppa col Romanticismo, è essenzialmente anti-cartesiano, perché antirazionalistico e spiritualistico. L’essenza di questo pensiero anti-razionalistico e spiritualistico è il suo storicismo. Ma la Storia, quale realtà spirituale dell’esperienza umana nel tempo, è intuizione tipicamente cristiana, per cui lo spiritualismo tedesco – al di là degli influssi specifici della tradizione mistica - è incomprensibile senza lo storicismo cristiano. Ed è proprio la essenza “cristiana” dello storicismo hegeliano a caratterizzare il suo pensiero rispetto a ogni forma di storicismo razionalistico e di ateistico, per cui, voler indicare in Hegel la matrice dell’immanentismo ateistico, significa

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non comprendere il fondamento ontologico cristiano della sua metafisica spiritualistica, la quale concepisce il movimento della Storia come l’opera dello Spirito che continuamente trascende il finito, ossia la natura biologica dell’uomo. Per Hegel la libertà è lo sviluppo del processo del pensiero, il movimento delle deduzioni, oltre il quale si svolgeva il moto incomposto degli avvenimenti storici, incoerenti, passionali e accidentali. La dialettica non è che la logica di tale movimento ideale, consentito dalla presenza del negativo, che funge da stimolo al progresso, che quindi ha un movimento drammatico, di lotta tra tendenze opposte. Diversamente dal concetto platonico, immoto ed eterno, il concetto hegeliano è il prodotto di una immanente tensione, generatrice di movimento. Ciò che muove i fenomeni storici sono i “preconcetti”, ossia le concezioni del mondo che fondano il senso della vita, e che l’analisi fenomenologica deve individuare e mettere da parentesi. Ma alla fine di licablica“fenomeno”, appunto, creazione storica della fede ontologica e oggetto del giudizio razionale, dal quale ripartire per ritrovare la realtà della Storia come processo della vita, messo intanto tra parentesi. Una “storia” di “fenomeni” è inconcepibile quanto un processo avvenimenziale senza un’idea unitaria di senso in cui comprenderlo. Tale idea costituisce il senso, appunto unitario, di quegli avvenimenti, altrimenti irrelati. Il senso del loro “essere” ideale, e non solo esistenziale, che precede il giudizio logico di realtà, la sua asserzione categoriale. Questa conformità ideale, in virtù del principio di rispecchiamento univoco di ciò che “è” con ciò che “esiste”, si riflette esistenzialmente in conformità politicamente reale, ossia in pre-tesa (in una tesi che è asserzione di volontà) che la corrispondenza sia giudicata sul modello reale dell’ente, così che la volontà pubblica sia decisiva della sua verità. Il giudizio, da categoriale diventa pertanto politico, e la ragione da “apofantica” diventa “strumentale”, da teoretica, pragmatica. Il monismo ontologico genera la logica identitaria, e questa il principio politico totalitario, che è una derivazione dialettica del “rispecchiamento” del reale e dell’ideale, che infine viene esautorato di ogni funzione gnoseologica. Il limite del pensiero di Hegel è di aver concepito la “sintesi” come attività teoretica, anziché pratica, facendo del pensiero il contenuto delle contraddizioni reali. Stabilita l’assoluta identità di reale e razionale, è bastato “rovesciare” l’alienazione dello “Spirito assoluto” in alienazione dello “Spirito storico”, per trasformare la dinamica dialettica da movimento ideale a

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movimento sociale, facendo degli attributi dell’idea di Dio, le qualità ontologiche della Sua creatura terrena e reale, l’uomo. L’umanesimo ateo nasce sulle premesse di quella che De Lubac chiamava la “schiavitù ontologica” del monismo, pensato come materialismo ovvero come idealismo assoluti, in virtù del quale ogni mediazione metafisica e istituzionale tra cielo e terra diventa inutile impaccio alla libertà dell’identità ontologica. La rivoluzione come “azione” attenderà Marx, ma come “pensiero” era già in Feuerbach. 11. La partecipazione dei cattolici al governo dello Stato all’indomani della seconda Guerra mondiale, non ha mutato la prospettiva etica del Potere, ma ha ingenerato semmai l’illusione di una politica ispirata ai valori cristiani, cioè di una politica diversa da quella ordinaria, e quasi una morale messa in pratica, realizzata. Dopo i primi fervori, presto arrivò la delusione, e con essa la disillusione e la rassegnazione al malgoverno, alle pratiche clientelari e ciniche che avevano caratterizzato i governi liberali della Sinistra storica, segnatamente quelli giolittiani, che del compromesso parlamentare avevano fatto il metodo e la sostanza della loro azione politica e di governo. Il “giolittismo” è appunto quel metodo di governo che confonde il contemperamento delle istanze politiche dei gruppi sociali e parlamentari, con la responsabilità etica di governare per il bene comune, identificato da tale filosofia politica con la sopravvivenza del Potere in quanto tale, ossia con la maggioranza parlamentare di governo. Il criterio parlamentaristico fu accentuato nella Repubblica, facendo della sua logica politi cistica la pedagogia nazionale che invalse in ogni ambito della vita civile e pubblica, sviluppando un’etica del cinismo come salvaguardia del guicciardiniano “particulare” che servì agli ambienti governativi cattolici ad attribuire alla Provvidenza ogni onere di giusta compensazione, e agli avversari all’opposizione a giustificare l’esigenza di un intervento correttivo rivoluzionario, sovvertitore dell’ordine storico. Solitamente un supposto realismo politico non mette nel giusto risalto storico la questione morale che afflisse il regime liberale, e il peso che essa ebbe nell’orientare l’opinione pubblica a favore della rivoluzione quale rimedio possibile e necessario alla temperie “malavitosa” che caratterizzava la prassi parlamentaristica del tempo. La guerra, quale lavacro morale, fu vista come la fase propedeutica a quella della rigenerazione etico-politica nazionale. Una rigenerazione interna alla politica, che rimaneva il

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terreno privilegiato dei processi storici, anzi la fenomenologia più significativa tra gli atti spirituali inscritti entro l’orizzonte dello Stato- nazione. Il “tradimento dei chierici” liberali e cattolici comincia proprio con la legittimazione intellettuale di tale prospettiva politi cistica, che faceva del “pensiero” il laboratorio programmatico dell’ “azione”, ma non il correttivo teoretico, essendo ogni atto spirituale in sé sintetico e auto-regolato dalla sua logica interna, che lasciava al pensiero una funzione di preparazione tecnica e di postuma giustificazione razionale, ma non di polo dialettico di verifica morale. L’azione politica, abbandonata alla sua autoreferenzialità tecnica e alla sua logica utilitaristica, si trasfigurò in prassi economicistica, vòlta non al bene comune, cioè all’ispirazione teleologica dei valori morali, ma alla funzionalità strumentale dei gruppi sociali particolari. L’autosufficienza razionale della “scienza” politica implicava la sua assolutezza teorica e pratica, che giudicava indebita l’ingerenza di ogni criterio morale, e con esso delle istituzioni storiche che lo interpretavano e ne erano custodi, a cominciare dalla Chiesa e finendo alla cultura metafisica, ritenuto in inutile impaccio ideologico alla esclusiva realtà della “volontà di potenza” dei gruppi organizzati e dei loro demiurghi politici. La partecipazione dei cattolici alla politica nazionale in quanto “partito”, non rafforzò lo Stato liberale, ma lo espose maggiormente alla condizione pre-rivoluzionaria, contribuendo al discredito di una politica transattiva e per definizione irresoluta, ledendo gravemente l’autonomia intellettuale della sfera teoretica e la sua credibilità morale. La cultura “organica” alla politica, capovolgeva il ruolo dei “chierici” in corifei della “rivoluzione”, di segno cristiano, liberale o socialista che fosse. Ma in ogni caso “politica”, e non coscienziale. Dopo il fascismo, che in Italia segnò l’apoteosi del politicismo e del prassismo, il passaggio dei cattolici dal nazionalismo alla democrazia “cristiana”, confermò la cultura machiavellica dell’autonomia del politico dal morale, creando le premesse dell’immoralismo di massa, dell’emarginazione progressiva della Chiesa dal mondo culturale e sociale, e del degrado istituzionale di uno Stato in cui l’influenza politica ed elettorale dei vescovi aveva preso il posto di quella dei prefetti nell’età liberale. Le parrocchie non furono il luogo della rinascita spirituale di una società annichilita dalla guerra di potenza e dalla sconfitta umiliante, ma il surrogato cattolicodemocratico delle cellule comuniste e

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delle sezioni degli altri partiti politici in concorrenza elettorale. Sottoscritto il manifesto ideologico della Costituzione repubblicana, i cattolici furono omologati ai comunisti nella comune prospettiva “democratica” della vita politica italiana ed europea, ossia nella comune accettazione ideale dell’orizzonte in trascendibile del politico quale essenza della vita sociale. Entro tale orizzonte ontologico e metodologico, lo scontro ideologico tra comunismo e capitalismo tagliò fuori ogni prospettiva cristiana, in quanto relativo al primato storico di una o altra versione della democrazia quale universalismo della ragione politica. Fosse parlamentare o sovietica, la democrazia era comunque la realtà pratica del primato dell’economico sull’etico, della politica sulla morale, della sfera pratica su quella teoretica. Il machiavellismo, come traduzione politi cistica dello scientismo razionalistico, segnava il suo trionfo storico proprio con l’universalizzazione democraticistica della politica quale logica direttiva della vita sociale, non solo degli Stati e dei gruppi politici, ma della stessa vita civile in generale, fino ai rapporti educativi e scolastici e alla famiglia. Le conseguenze etiche e culturali sono sotto i nostri occhi. Il disastro morale del Paese, occultato per decenni dalla lotta ideologica, dal consumismo privato e dall’assistenzialismo di Stato, oggi emerge inesorabilmente come sfondo del collasso economico nazionale, con i cattolici che si uniscono ancora una volta al coro ideologico degli economisti, i nuovi predicatori mediatici dei nostri tempi bui, che ripetono le loro ricette risolutrici di una crisi che essi immaginano appunto economica, anziché spirituale e morale, e di cui proprio la preminenza della loro opinione su altri punti di vista teoretici costituisce la prova intellettuale decisiva. Accogliendo la prospettiva politicistica della cultura sociologica europea e occidentale, il cattolicesimo diventa ideologia “democratica”, schierandosi in competizione elettorale per il potere. Ma è questo il compito di una cultura autenticamente cristiana? Essere il supporto ideologico di un partito politico? O non, invece, quello di animare di vita spirituale la realtà sociale proponendo la carità come metodo alternativo alla politica nelle relazioni umane? Non hanno forse i cattolici “democratici” commesso l’analogo errore dei cattolici “reazionari” d’antan nel considerare insostituibile un regime politico storico ai fini della loro conservazione sociale? O non scambiano piuttosto la salvaguardia dei loro interessi particolari con l’opera di evangelizzazione? L’interrogativo diventa ancora più crudele se

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riferito alla Chiesa, che ha funzione precipua di salvaguardia dei valori cristiani alternativi a quelli politici, negandone il primato su quelli morali, piuttosto che quella di preservare la sua posizione istituzionale di potere mondano, e a suo modo politico. L’errore di cultura commesso dalla Chiesa nella sua politica compromissoria e transattiva coi regimi totalitarii del Novecento, contraddice non soltanto la posizione tomista anti- totalitaria circa l’indisponibilità della coscienza morale da parte del potere politico, ma stabilisce un rapporto di “rappresentanza” della comunità mistica cristiana che la trasforma in un corpo secolare e dunque in referente politico in lotta per il riconoscimento, alla stregua di un partito. L’errore consiste nel voler “rappresentare” un valore trascendente, rendendolo pertanto disponibile alla transazione umana, assimilandolo a un interesse pratico. L’errore è, cioè, di identificare istituzione e valore, identificazione che è alla radice dell’immanentismo razionalistico ateo. Se è problematica l’identità dello Stato storico con l’etica sociale che lo legittima, è ancora di più l’identificazione della Chiesa con la morale trascendente, dalla quale ogni coscienza personale attinge il suo valore. Infatti, solo tale identità consente un rapporto concordatario tra Chiesa e Stato, stipulato dalla prima in rappresentanza della comunità cattolica, che però è “corpo” comunitario ma “mistico”, e non “politico” o “economico”, e perciò non rappresentabile. L’unità mistica è personale e non è assimilabile a un ente collettivo, a un soggetto di diritto, proprio perché i singoli membri personali non sono riducibili ad alcuna equivalenza astratta, essendo ognuno di loro una concreta realtà esistenziale e morale che è ontologica, che solo in Dio può perfezionarsi, e non attraverso il consorzio sociale, come invece sostiene il contrattualismo politicistico e il sociologismo collettivistico; fosse pure il consorzio ecclesiale. Ogni rapporto concordatario tra la Chiesa e lo Stato ha finito dunque per risolversi in un rapporto tra enti giuridici rappresentativi, l’una, rappresentativa dei membri ecclesiastici, ossia del corpo sacerdotale della Chiesa pastorale, e l’altro dei membri sociali, comprensivamente anche dei singoli cittadini fedeli. Da qui la deriva ideologica anche della cultura cattolica e l’inquadramento degli organismi ecclesiali in quelli politici. Ogni soggetto spirituale stabilisce un suo peculiare rapporto col valore trascendente che stabilisce i termini unici della sua scelta morale, responsabilmente libera e non delegabile. Ed è tale natura personalistica del rapporto che la

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coscienza unica ha col valore comune e con Dio a fare la differenza ontologica tra l’essere spirituale e l’essere sociale, i cui interessi sono gli unici rappresentabili, perché empiricamente equivalenti. Diversamente, ogni rapporto personale con Dio non è equivalente, per definizione, e perciò personale. Come potrebbe un ente giuridico rappresentarlo se non previamente trasformarlo in rapporto “politico” e assimilarlo perciò a un interesse pratico? In tal senso, la Chiesa concordataria non poteva né potrebbe in verità rappresentare il corpo mistico di Cristo, che è la Storia stessa del processo di salvezza dell’umanità. Lo potrebbe fare solo riducendo la personalità spirituale di ogni uomo in individualità socioeconomica, e cioè in soggetto politico, aderendo così all’ideologia positivistica dell’umanità in senso sociologistico, soggiacendo così all’antropologia totalitaria con cui “concorda” di fatto, e facendo della Chiesa lo Stato dello Spirito, anziché l’anti-Stato della libertà morale di ogni cristiano. Ma come è possibile rappresentare la libertà della coscienza vincolandone le scelte occasionali? Obbligare la libertà è lo stesso che ferrare un legno. Eppure è esattamente questa la pretesa che ha animato la “rivoluzione” totalitaria nell’intento di edificare “l’uomo nuovo” e il suo “regno della libertà”, non già paradisiaco e d’anime, ma terreno e di corpi. Ma è esattamente la possibilità di questo “passaggio” ontologico che la Chiesa avrebbe dovuto recisamente negare, contestando la realtà ontologica di tale trasfigurazione collettiva della necessità in libertà. Anche la tentazione di fare la “rivoluzione spirituale” è diabolica, poiché in quel “fare” si annida la sfida prometeica di sostituirsi alla Provvidenza operando al posto di Dio e meglio di Lui, abolendo la libertà, ossia la condizione stessa dell’errore e del negativo legato alla natura finita dell’uomo, e finalmente della responsabilità della scelta morale. La “rivoluzione”, intesa come miracolo antropologico realizzato dalla politica, costituisce il risvolto idolatrico, tipico dei nostri tempi, dell’ipotesi teologica a suo tempo coltivata dai cristiani di fare di questa terra il regno dello Spirito, lo Stato di Dio. La Chiesa, che è edificio umano, non può impedire il Male, legato alla natura finita degli esseri mortali, e come gli Stati totalitari hanno dimostrato, sul Male si può costruire una realtà sociale dove l’uomo sia padrone o schiavo dell’uomo. La Chiesa, però, ha la sua ragione metafisica nella predicazione del Bene, e cioè del limite insito in ogni opera umana, dal quale inizia la realtà divina. Se l’uomo potesse ciò che

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potrebbe Dio, perché Dio? Ma l’uomo, anche riunito in potente società, non può trascendere la sua finitezza, ma solo cercare di completarla individualmente nel rapporto con Dio, senza il quale la sua condizione diventa diabolica, e la sua esistenza infernale. L’umanesimo senza Dio è l’immagine astratta di una libertà senza scelta, che si converte in un umanesimo inumano, in un terrore buio senza redenzione di luce. Più che mai oggi la Chiesa deve porsi al centro della questione antropologica per ripensare la sua stessa esistenza terrena come percorso di luce e di ombre, senza chiamarsi fuori delle responsabilità storiche degli uomini che la costituiscono. Se essa è sempre giusta, anche ogni errore umano è sempre giustificato. Ma senza errore e penitenza non c’è salvezza. Il mito della “rivoluzione” non è stato ancora del tutto elaborato nei nostri tempi democratici. Trascegliere una delle sue forme storiche, significa porsi all’interno della sua credenza rappresentativa, e soprattutto non cogliere i termini filosofici del moderno totalitarismo come espressione pratica del riduzionismo ontologico di segno naturalistico o idealistico. Stipulare un concordato coi regimi totalitari, in base all’opinione che la loro condizione ideologica di regimi storico-politici dipendesse dal riconoscimento dei diritti della Chiesa all’esercizio del culto e all’attività religiosa dei fedeli, ha significato confondere la “libertà religiosa” come esercizio privato della fede, con il riconoscimento del primato della coscienza morale della persona sull’uomo totalmente socializzato, e come tale soggetto di soli doveri pubblici, stabiliti dal Potere. Il valore vincolante della coscienza morale sulle deliberazioni politiche dell’astratto uomo economico può sorgere anche giuridicamente come dovere sociale istituzionalizzato solo se viene previamente ammesso il primato ontologico dell’essere sull’esistere. E poiché un primato si afferma su competitore, esso non potrebbe stabilirsi su una essenza monisticamente pensata, ma solo ammettendo il dualismo ontologico. Ora, questo primato non può avere natura politica, poiché il rapporto politico si definisce tra forze sociali omogenee, la cui prevalenza fisica non incide in alcun modo sull’essenza della loro realtà ontologica. Ciò vuol dire che, seppure prevalente storicamente, il Male non perciò sia biasimevole e peggiore del bene, la cui affermazione storica non è probante della sua veridicità teoretica. Questa è la fondamentale ragione per la quale non è ammissibile una “sintesi” razionale che sia probante della sua qualità reale, dal momento che

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ciò che è “razionale” appartiene a una dimensione distinta da quella “reale”. Ed è appunto la “distinzione” ontologica tra essere e non-essere, cioè, originariamente, tra “sacro” e “profano”, a costituire la condizione logica del giudizio morale distinto da quello politico, e, sul piano pratico, la possibilità di istituirlo nel suo valore pubblico. Le istituzioni sociali hanno la funzione appunto di distinguere l’ammissibile dal non-ammissibile. Ma la possibilità di operare tale distinzione logica con effetto sociale è legata alla libertà di scelta del soggetto politico, per cui solo una società liberale può contemplarla. Una società “liberale” non può essere egalitaria, ossia “democratica”, poiché il principio d’uguaglianza è l’esatta negazione opposta del primato ontologico e della distinzione logica tra la morale e la politica. La differenza ontologica e la connessa distinzione logica del valore delle azioni umane, deve ammettere l’irrazionalità e l’impossibilità dell’uguaglianza sociale dei cittadini come condizione della governabilità politica. Infatti, il “governo” sociale, in quanto esercitato al fine del bene morale e non degli interessi particolari, non è mai, propriamente, “politico”. Politico è, propriamente, soltanto il Potere, consistente nella possibilità di esercitare con la forza una influenza sulle volontà dei sottomessi. Ma il Potere politico, se può essere efficace, non perciò è moralmente legittimo. E quando è illegittimo, ripugna alla coscienza morale dei sudditi; e quando tale coscienza esiste, esso non dura molto. L’importanza storica della Chiesa, come istituzione morale, è di tenere viva e alimentare tale coscienza, al fine di costituire un deterrente al Potere illegittimo. Lo Stato di diritto che universalizzi in senso democratico i diritti dell’uomo sociale, verso quale autorità li rivendica se per definizione non riconosce alcuna autorità superiore alla sua stessa? Può ridimensionarsi di fronte a un Potere imperiale, ma non fuoriuscire per ciò dalla logica dei diritti per diritto, che reclamano un riconoscimento il quale, non essendoci un’istanza superiore allo stesso Potere, deve avvenire solo di fatto, a opera di se stesso. Ossia legiferando e prendendo decisioni insindacabili fuori del sistema giuridico che li legittima formalmente. Una norma di legge può avvertire la sua incongruità extra-sistemica, ossia non legata al formalismo della sua produzione, se riconosce un dovere morale. Ma tale ammissione può derivare soltanto dal riconoscimento metafisico del dualismo ontologico dell’essere umano e dalla conseguente negazione del totalitarismo politico come orizzonte naturalistico del Potere esercitato

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attraverso la legalità giuridica. Lo Stato di diritto è una creazione culturale della civiltà pagana, che non riconosceva altri doveri che verso lo Stato politico, sacralizzato ma sostanzialmente di Potere. Accanto a questa figura istituzionale, che ha funto da strumento tecnico per ogni sorta di esercizio del Potere, una società liberale deve riconoscere le comunità dove viga la regola del dovere nei rapporti inter-personali, le comunità etiche stabilite per libera adesione dei membri e per spontaneo riconoscimento della gerarchia dei ruoli sociali, legata non al Potere politico ma all’autorevolezza carismatica. Il prototipo di queste comunità etiche è la famiglia, una comunità sociale sulla quale la legislazione dello Stato di diritto ha esteso la sua normativa regolatrice dei rapporti interni prima gestiti dalle tradizioni religiose e dal libero convincimento. Lo spirito aristocratico di chi non crede di dovere tutto il suo essere sociale alla politica e ai ruoli da essa determinati, si può sviluppare soltanto nell’autonomia delle sue funzioni interne alle comunità etiche, ossia attraverso una educazione culturale che assuma liberamente la tradizione sociale di appartenenza come valore di riferimento morale. Le differenze sociali nascono dalle differenze culturali delle distinte tradizioni pedagogiche interne alle diverse comunità etiche. Certamente la funzione sociale delle aristocrazie sviluppa una esigenza di ruolo politico, ma questo non è originario, ma derivato da quella funzione, così come, a suo tempo, la proprietà e i suoi diritti relativi erano conseguenza dello status sociale dei ceti, e non la condizione. Aver distrutto per livellamento politico assolutistico la società feudale, ha comportato alla fine la dissoluzione anche dell’istituzione familiare, privandola, attraverso la lotta contro la proprietà, della maggiore garanzia della sua autonomia gestionale, e quindi della formazione culturale delle aristocrazie sociali, la cui assenza costituisce oggi il problema politico principale delle democrazie. Le riforme sociali che venivano considerate di progresso dalla mentalità razionalistica, si sono rivelate col tempo errori di cultura, alcuni dei quali esiziali per il buon funzionamento della realtà civile e per la vita stessa degli Stati. 12. Il contrasto tra l’antropologia cristiana e quella proposta dalla visione totalitaria non riguardava modi e forme dell’organizzazione socio-politica dello Stato, e non poteva ridursi a una diatriba istituzionalistica tra modelli empirici o teorici di società, ma ineriva opposte intuizioni del mondo, fondate su distinte concezioni

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ontologiche. Quella cristiana è dualistica e spiritualistica, mentre quella totalitaria è monistica e naturalistica (anche quando si dichiara idealistica). Il marxismo fu l’interprete più coerente e sofisticato del monismo naturalistico e della sua metafisica materialistica della Storia, elaborando una ontologia dell’essere sociale fondata su una mitologia dichiaratamente alternativa a quella ebraico-cristiana della civiltà occidentale. La risposta fascistica non fu di segno tradizionalistico e anti-rivoluzionario, ma si realizzò sulla stessa premessa metafisica del monismo ontologico marxiano e della sua antropologia socialitaria. Il totalitarismo di entrambi i segni, politicistico o economicistico, nasce su una tale premessa “religiosa”, che eliminava la prospettiva cristologica dalla cultura occidentale. Anche la cosmologia nichilistica è una credenza fondata sull’ontologia dell’ente inteso come Essere. Il fine teoretico implicito alla sua metafisica della storicità dell’ente assoluto è di rimuovere dalla scena filosofica ogni prospettiva teistica, e con essa ogni fondamento della morale, così da far valere le sole forze della volontà emancipata da ogni principio deontologico. Il metodo fenomenologico diventa in Heidegger tecnica di rimozione di ogni valore dal mondo-della-vita, e di perscrutare i suoi fenomeni “reali” alla sola luce della fruibilità strumentale dell’uomo volitivo. Heidegger riforma Husserl attraverso Nietzsche, come aveva fatto Marx con Hegel attraverso Feuerbach. Il lògos apofantikòs, cioè il pensiero enunciativo espresso nel giudizio di realtà, diventa tékhne, cioè prodotto della volontà poietica, realtà non più teoretica ma pragmatica, prassi. Alla metafisica, come pensiero dell’ente attraverso le categorie di giudizio, ossia conoscenza, corrisponde la tecnica come pratica di produzione degli enti sul modello di ciò-cheappare, il fenomeno quale prodotto della volontà, decisiva del suo essere, cioè dell’essere della volontà come essere dell’ente. Si tratta del rovesciamento della logica dialettica in eristica sofistica. Il nichilismo, inteso come “legalità della storia”, è teoreticamente inscritto nella possibilità determinata dall’ontologia idealistica, per la quale l’Essere è un’Idea, cioè un modello di ente astratto dal divenire. Se alla credenza idealistica sostituiamo quella nichilistica, al posto dell’Idea abbiamo la Volontà quale essere determinativo del valore degli enti, per cui “ciò che vale non vale perché è un valore in sé, ma il valore è valore perché vale. Vale perché è posto come valente” (Heidegger). La dinamica valoriale del porre e del levare è artificio ideologico umano finalizzato al

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Potere, dove la mano di Dio è del tutto assente. Ma, mutatis mutandis, anche se trasformata in tecnica valoriale, la struttura ontologica del pensiero dell’Essere non muta, costituendo la modalità essenziale del pensare. E infatti, la posizione di valore è valente perché originaria, e come tale posta a fondamento del senso della volontà, cioè del suo fine. L’origine e il fine costituiscono il legame di corrispondenza logica tra il valore posto e il comportamento da porre, ossia tra il fondamento ontologico e il suo valore deontologico, e temporalmente tra il passato immanente nel presente, e il futuro proiettivo dello stesso presente. Questa unità di senso è anche unità di tempo, e perciò “valore”. Ciò che vale è valente perché è posto come significato presente del passato e del futuro. La volontà ponente valore diventa potenza ontologica entro i termini di garanzia del valore come unità di senso metatemporale, tale cioè che lo stesso senso o valore permanga presente, cioè attuale, sia in riferimento al passato che al futuro. Ciò che attribuisce il senso o il valore del divenire degli enti nel tempo è il loro Essere, inteso quale identità ontologica di ciò che diviene e che perciò è molteplice. Tale identità ontologica, Platone la nomina “Idea”, rendendo esplicita la sua permanente identità (ossia eternità) come “valore”. Valore dunque è ciò che rende ontologicamente permanente, e perciò logicamente unitario, il divenire degli enti nel tempo storico, la loro essenza ideale o fondamento d’essere. Ma non è il porre in sé che ha valore e che assegna valore unitario agli enti molteplici; non è la mera volontà ponente che fonda il valore di ciò che vale; a fondare il valore è invece la volontà decisiva dell’Essere, ossia la decisione ontologica fondamentale che stabilisce che l’ente è anziché non. Ed è la decisione ontologica fondamentale a fondare il senso degli enti come unità di valore o determinazione del loro Essere anziché nonEssere. L’unità di valore o Essere fonda il senso dell’appartenenza ontologica, la sua giustificazione razionale, consentendo la stessa co-esistenza degli enti molteplici come unità ideale. Nel caso dell’uomo, ciò che è la “categoria” per gli enti generici, è la “società” per i suoi simili molteplici, uniti nella con-vivenza sociale, caratterizzata dalla stessa unità di senso di vita, ossia dallo stesso “valore” inteso come unità sociale. Lo stesso giudizio di valore socializzato distingue il valore delle azioni dal loro dis-valore sociale. Ogni “giudizio” di valore è volontà d’essere confermativa del valore originariamente

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posto dell’Essere fondativo del valore. Ma tale “volontà”, proprio perché giudizio di valore, non è “potere” della volontà, ma volontà del Potere, il quale dunque non dipende dalla volontà ma questa dal suo “valore”. Infatti esiste anche una volontà che non-è potente, perché non vale. Il giudizio di valore si distacca dal fluire della vita degli enti come il “governo” che decide sulla legittimità d’essere degli enti sociali politicizzati. Entrambi rappresentano il Potere che ri-conosce e con- ferma il fondamento ontologico originario, cioè la volontà d’Essere, socializzata in valore pubblico. La lettura nichilistica della Storia umana dà ragione del fondamento valoriale in considerazione del senso unitivo della molteplicità degli enti come Potere, e non come risposta rassicurante al thauma ontologico, che costituisce la domanda metafisica originaria di ogni filosofare, cioè come mythos, necessario alla stessa costituzione della relazionalità sociale. Il “valore” è dunque la giustificazione razionale del convivenza come co-appartenenza allo stesso Essere unitivo del molteplice divenire, ossia alla società come realtà superatrice della condizione finita dell’uomo storico. Trasferito sul piano della mera credenza, relativa e transeunte come ogni credenza, il fondamento di senso ontologico diventa “ideologia” strumentale del Potere, e la credenza ontologica giustificativa del valore socializzato nient’altro che “oppio dei popoli”. Secondo Nietzsche, il “valore” è un mero “punto di vista”, utile al fine di conservare una certa unità di comportamenti “entro il divenire”. Ma il “punto di vista” da cui si guarda, non corrisponde al “vedere” disinteressato del theorein, ma è la prospettiva di chi, nella sua particolarità, guarda l’altro-da-sé come opposta particolarità. Il p. d. v. è pertanto un guardare particolaristico, che esclude gli altri p. d. v. in quanto non comprensibili entro il suo orizzonte visivo, cioè ideale. L’esclusione del “guardare” particolaristico è il contrario del comprendere del “vedere” teoretico, che include il particolare p. d. v. come distinto dagli altri, ma non opposto. Il “vedere” in sé, come atto astratto dal “vedere distinto”, e il “vedere distinto” astratto dal “vedere” sono oggetti di rispettive considerazioni razionali o “scientifiche”, le quali sono appunto “punti di vista” particolari di uno stesso campo visivo. La caratteristica del “guardare” per punti di vista è di vedere il particolare suo oggetto scientifico come il Tutto, esclusivo del “restante”, oggetto di altre considerazioni in afferenti. Invece, la caratteristica del “vedere” è di osservare la realtà del Tutto, inclusiva del “particolare” quanto del “restante”, i

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quali non sono costitutivi del Tutto come elementi sommabili, ma solo appunto distinguibili come punti di vista particolari, ognuno dei quali è per sé un Tutto astratto, un non-Tutto, astratto dal Tutto vero. E poiché la realtà del Tutto include la visione particolare, ciò che caratterizza lo sguardo filosofico è il trascendimento del particolare, ossia lo sguardo sul “resto” che viene escluso dal punto di vista particolare. Lo sguardo sul “resto” è la considerazione dell’ “altro”, il suo riconoscimento, ossia l’affermazione della libertà contro la negazione dell’opposto escluso. Il rapporto tra particolare punto di vista e sguardo sul “resto”, non è paritetico e biunivoco, perché solo il particolare può essere incluso nel “resto” senza cambiare la sua essenza, mentre il “resto” può essere incluso nel particolare solo riducendosi a sua volta in particolare opposto e dialettico. La riduzione ontologica di tutto-il-resto a “parte” è l’essenza metafisica della violenza, intesa appunto come violazione della integrità dell’Uno. Viceversa, l’assunzione del particolare punto di vista anche come “restante”, ossia come (falso) Tutto, è l’essenza del politico, come attività esclusiva del sé dal “restante” altro-da-sé. E poiché l’esclusione è giudizio di realtà, ossia di valore, il giudizio “politico” non è “teoretico” ma particolaristico, e perciò “scientifico”, razionalmente certo, ma non “veritativo”, e perciò mutabile col mutare del punto di vista, ognuno dei quali non vede il vero, che è oltre il proprio sguardo particolare, ma guarda solo il suo particolare. In questo senso la verità è “trascendente” ogni punto di vista scientifico particolare, prodotto della astrazione razionalistica che lo “oggettiva” in un dato di certezza. Il “vedere” filosofico riguarda invece ciò che non è oggettivabile perché indisponibile a ogni riduzione razionalistica e politica. La ontologica indisponibilità a ridursi a un punto di vista particolare è l’essenza metafisica della “verità” del Tutto, che appare al pensiero sempre come realtà del particolare in rapporto con il restante. Il Tutto si può intuire, ma non logicamente pensare, e per questa ragione Dio non è veramente rappresentabile ma solo esteticamente. Anche la “volontà” è una “idea” nella sua astratta determinazione, ma essa, diversamente dall’idea trascendente, è determinabile in un prodotto reale che ne è la riduzione fenomenica. In quanto idea astratta è opportuno indicarla, per distinguerla dall’idea vera, come “ideale”, che è sempre particolaristico. Ma anche come ideale, la volontà, in quanto pur sempre idea, anche se astratta, essa non è determinabile fenomenicamente in un prodotto corrispondente alla sua astratta

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rappresentazione volitiva. E per questo per la ragione che il “prodotto” storico dell’ideale è sempre “sociale”, e non individuale, come il pensiero. La volontà potente cerca di assimilare il prodotto ideale con il prodotto sociale, riducendo questo a quello, e in questo tentativo di riduzione sviluppa il suo potenziale di violenza, la quale è “politica” perché interessa i rapporti di forza sociali. E’ la violenza “pubblica” del Potere. La volontà di potenza totalitaria ha pianificato la riduzione del “restante” al punto di vista particolare come metodo scientifico, ossia come criterio razionale di relazionalità, escludendo ogni altra possibilità di riconoscimento sociale dell’altro che non fosse stabilito sulla base politica del rapporto di forza polemica. La totalizzazione della società ha coinciso pertanto con la totale politicizzazione dei rapporti umani e tra gruppi, tale che l’essenza della vita sociale stessa coincidesse con le dinamiche del Potere. A parte la verifica empirica dell’esito funesto di tale teoria socialitaria, il nichilismo stesso, come ipotesi ontologica è un Mito, la cui ideologia politicistica è una mitologia, ossia un racconto giustificativo di un ideale non vero, di una ipotesi idealistica di verità, che come ogni analoga ipotesi ontologica è destinata a essere confutata dall’esperienza che ne nega la sua pretesa totalitaria di essere la “legalità della Storia”. Trascegliere una delle forme storiche di tale Mito ontologico, significa porsi all’interno della sua credenza mitica, della sua mitologia, e soprattutto non cogliere i termini filosofi del moderno totalitarismo politico, come forma pratica di riduzionismo ontologico di segno metafisico naturalistico, concepente l’uomo come assoluto essere sociale. Per sortire dalla mitologia tardomoderna bisogna previamente porsi una essenziale domanda, da cui partire per giungere a una possibile risposta: la disfatta storico-politica degli opposti nichilismi rivali, il marxista e il fascista, si è tradotta in una disfatta anche culturale delle loro rispettive prospettive antropologiche? La fine della metafisica positivistica ha riconfermato la validità della metafisica cristiana, del suo spiritualismo storicistico e della sua antropologia cristologica? Con tutta evidenza, no. E per la semplice ma essenziale ragione che a trionfare del fascismo prima e del comunismo poi è stata una visione del mondo, concorrente ma analoga alle due visioni politicamente sconfitte, quella economicistica, nata sul terreno dell’eresia protestante e del suo spiritualismo assoluto, convertitosi nel suo astratto opposto individualismo mondano. La forma politica universale di questa visione antropologica

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è la democrazia egalitaria, che assimila il valore sociale dell’uomo alla sua capacità produttiva di ricchezza economica, testimone simbolico probante del suo stato di grazia teologico-sociale. Anche la visione democratico-economicistica dell’uomo asserisce la possibilità storica della libertà dai bisogni, come emancipazione antropologica superatrice dello stato di necessità legato alla natura finita dell’uomo. Il superamento di tale finitezza, giudicata storica e non ontologica, viene prospettato, allo stesso modo del marxismo, entro la dimensione stessa da cui si sarebbe originata, la Storia, con gli strumenti umani dell’economia, il cui funzionamento razionale naturale prende il posto che era stato della Provvidenza e che già era stato usurpato dal Potere politico, diventando della Provvidenza il risvolto mondano e secolare, corrispondente metafisico della conversione individualistica dello spiritualismo mistico. Un Cristianesimo “democratico” ha lo stesso valore mitologico di un Cristianesimo “fascista” o “comunista”, negatore dell’essenza della visione del mondo storicistico-spiritualistica, non a caso contestata dall’empirismo scientistico, patrocinatore della sociologia contrattualistica, negatrice della originarietà delle comunità spirituali e del primato personalistico sull’astratto individualismo economicistico. La visione cristiana dell’uomo si fonda sul modello spiritualistico, e la sua concezione di comunità mistica è mutuata sulla famiglia, il prototipo di tutti i corpi intermedii costitutivi dell’umana socialità, che sono rimossi dalla visione atomistica della convivenza umana fondata sul rapporto contrattualistico-egalitario degli individui economici. Le comunità etiche sono state soppiantate dall’egalitarismo atomistico della cittadinanza universale, così come ogni mediazione metafisica è stata rimossa dalla concezione del “rispecchiamento” ontologico del verum col factum, che ha fatto del soggetto, trascendentale o empirico, il creatore della realtà, l’autore della Storia. Trasferendo il concetto della soggettività dall’individuo allo Stato, si è fatto dell’assolutezza della sua creazione storica il principio di legittimazione del Potere totalitario. Superare la visione totalitaria del mondo storicosociale e quella economicistica dell’uomo sono tutt’uno, ed è questa la ragione che il pensiero cristiano non può pensarsi come “democratico”, immaginando la democrazia come il regime politico realizzatore della libertà della fede. Non c’è infatti una libertà “politica” che non sia previamente “morale”, trascendente quindi la necessità insita in ogni forma di socialità politica.

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Sul piano dei rapporti politici, ogni libertà, personale o sociale, è un riconoscimento pubblico, che può derivare da un rapporto di forze, ovvero dall’ossequio a un principio superiore, legittimante lo stesso uso della forza. Per ogni contrattualismo, tale principio è procedurale, cioè legato a convenzioni giuridiche vincolanti per le parti. Ma poiché il vincolo giuridico è esso stesso valido in quanto efficace, la sua istanza demanda alla effettività della sua applicazione. Non si esce dalla tautologia della forza giuridica se non facendo appello a una forza diversa da quella politica che la sostiene, cioè all’autorità dei fondamenti morali della legittimazione politica, la cui violazione determinerebbe la sospensione del vincolo politico. Non della sua efficacia giuridica, che ebbe sia il genocidio degli Ebrei che la crocefissione di Gesù, ma bensì della sua legittimazione, senza la quale la legittimità del Potere diventa solo un vincolo politico di fatto, legato alla forza contingente della sua cogenza. Ma ciò che “può” solo al “presente”, come abbiamo visto, non è un “valore” comune, ma semplicemente ha valore solo per chi lo esercita, e quindi non può fare appello al dovere di riconoscerlo come tale, ma solo alla opportunità di ammetterlo momentaneamente. Come ha ricordato Ferrero, questa vigenza sospesa sull’alea della forza contingente, è la condizione politica di ogni sopruso moralmente illegittimo. Se si ha chiaro il rapporto tra Essere e tempo, comprendiamo pure il senso del fondamento ontologico come scelta originaria per l’Essere, anziché per il Nulla. Il nichilismo è la rappresentazione dell’Essere e del Nulla come momenti irrelati e non dialettici, tale che in essa manchi il movimento della Storia come libertà di affermare il valore contro il tentativo di negarlo. Solo se assunti come “fatti”, astratti dal loro movimento storico-culturale, i due momenti diventano la pantomima ludica di una Storia di illusioni, anziché il dramma di un’epica grandiosa, che pure Nietzsche ha intravisto a proposito della civiltà greca, ma non ha ben compreso perché fermo alla sua rappresentazione astratta, “estetica” appunto, ma non “spirituale”. L’ontologia cristiana, col dramma della Croce, ha trasformato il “sinolo” naturalistico aristotelico in sussistenza di due essenze antropologiche fuse in una stessa persona, co-esistenti in uno stesso destino finitoinfinito teandrico. Lo stesso concetto pagano di “sacro” viene tra svalutato dall’incarnazione cristiana, che fa del finito la traccia dell’infinito, quell’oltre che immane come la promessa dell’éskaton sull’attesa irenica della parusìa, ossia del compimento meta-storico della libertà non più

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solo della singola coscienza ma di ognuno insieme. La libertà, nella dimensione morale cristiana, non può essere “istituita”, e cioè imposta, ma solo riconosciuta, ossia garantita nella sua autonomia sociale dal Potere politico dello Stato. Ora, se il Potere ha una funzione di garanzia della libertà, questa salvaguardia non può esercitarsi che tra i gruppi nel loro rapporto reciproco, e non all’interno di essi. Se la garanzia è nei rapporti tra singoli, non può sussistere una autentica autonomia dei gruppi sociali dal Potere, ma al contrario essi verranno considerati come inutile mediazione istituzionale tra il Potere garante e i suoi beneficati. Solo garantendo la libertà dei gruppi si garantirà la loro autonomia etica dal Potere politico, e nel contempo la libertà di adesione dei membri dei gruppi ai rispettivi princìpi etici di convivenza. Una società statalizzata è una società politicizzata, in cui il conflitto è stabilito essere il principio direttivo della convivenza e il Potere il suo organo regolatore. E’ chiaro che, nel caso in cui la libertà viene garantita ai singoli cittadini, e non alle libere comunità, gli statuti etici interni ad esse costituiscono una normativa secondaria e puramente simbolica rispetto a quella di effettivo e prioritario valore legale, quella appunto statuale. Solo sul presupposto di una libertà interna al corpo sociale autonomo, è possibile riconoscere la sua autonomia etica dallo Stato, e cioè dalla politica come principio modale di convivenza sociale. Lo statalismo giuridico è congiunto intimamente all’egalitarismo politico come lo Stato legislatore al monopolio del Potere sociale. Al cospetto di una pretesa totalitaria del Potere politico, quale autonomia può essere garantita alla micro-società della famiglia e alla macro-società della Chiesa? Garantendo i singoli membri in quanto cittadini, lo Stato li pone logicamente in conflitto etico con i valori del gruppo, che vengono tollerati solo in quanto politicamente compatibili con la normativa statale. In questo caso, l’unica società è quella legale, non quella etica. Garantire la libertà morale significa, al contrario, riconoscere il primato della libera determinazione dei gruppi sul corpo politico dei singoli e astratti cittadini, e la priorità dei corpi etici sulla società politica. 13. Le visioni del mondo, le intuizioni della vita, per il loro carattere idealistico, sono sempre mitiche e le loro rappresentazioni mitologiche. Ogni ontologia sviluppa una sua metafisica razionale che la giustifica. Il razionalismo europeo, non riuscendo a proporre credibilmente

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una nuova mitologia post-cristiana, si ridusse a critica delle ideologie e a scetticismo relativistico. Su tale sfondo nichilistico, negatore di ogni valore e di ogni tradizione ideale, si innesta la reazione totalitaria, coi suoi miti, le sue religioni secolari e annesse credenze socializzate. Queste ultime, per il loro contenuto dichiaratamente anti-metafisico, hanno assunto parvenza di miti d’azione, nel senso soreliano, concepiti con lo scopo pratico di rilegare il corpo sociale ad unità mistica. La classe, la nazione, la razza sono mitemi surrogatori del legame religioso tradizionale dei popoli cristiani da rivoluzionare in senso dei nuovi valori ideologici. La lotta tra le credenze concorrenti passava attraverso il giudizio che le nuove religioni secolari esprimevano sullo strumento teoretico fondamentale caratterizzante la cultura metafisica e antropologica della civiltà europea, la ragione, la quale era servita sia al Cristianesimo per giustificare la sua metafisica, sia allo scientismo per criticarne i suoi fondamenti di fede. Se il marxismo adottò la strumentalità teoretica della ragione per costruire il suo racconto mitologico della Storia e della società, scientifico quanto anticristiano, la reazione ideologica alla visione marxistica della Storia, della vita e dell’uomo, coinvolse inevitabilmente anche il suo strumento di analisi scientifico, la ragione appunto, che i movimenti nazi-fascisti identificarono con l’intelletto astratto di matrice illuministica, incongruo a giustificare idealmente le loro visioni del mondo. Il discredito sul razionalismo moderno, astratto e naturalistico, era già stato avanzato dalla cultura cristiana e dall’idealismo tedesco, propugnatrici di una diversa declinazione teoretica della ragione, per cui la riprese di queste critiche filosofiche in chiave di polemica ideologica fu occasionata e agevolata dallo scontro bellico “totale” tra Stati nazionali, che coinvolse anche le rispettive tradizioni di pensiero, che furono piegate a strumenti di lotta nazionalistici, cioè politici. In questa riduzione politica particolaristica e nazionalistica del comune patrimonio di pensiero e di fede consisteva il dramma culturale epocale, evocato da Scheler, che lacerava la civiltà cristiana e la sua auto-coscienza. Ciò diede adito a molti fraintendimenti culturali da parte di ambienti anti-razionalisti, generatori di equivoci politici che non poco favorirono l’ascesa e il consolidamento dei nuovi regimi rivoluzionari, ostili alla resistenza intellettuale e ancor più ai suoi metodi razionalisti di conoscenza. La mitologia che invece utilizzò lo strumento della ragione, in chiave sia positivistico-scientifica che antiirrazionalistica,

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fu, come abbiamo visto, il marxismo, il quale perciò divenne per tutte le tradizioni culturali e politiche del tempo, la cristiana, la liberale e la fascistica, il nemico per antonomasia da fronteggiare, in quanto assommava in sé ogni tendenza rivoluzionaria e anti-tradizionalistica che minacciava la civiltà occidentale, dalla religione all’economia. Contro il nemico più insidioso, portatore di barbarie nell’atto stesso in cui si proclamava “erede” della tradizione filosofica occidentale, tutti i suoi avversari trovarono un punto di contatto tattico, più o meno duraturo e funzionale al proprio intento, ma comunque significativo anche simbolicamente nell’individuare nella coscienza comune la minaccia nichilistica che assediava la cittadella della civiltà europea. Tale minaccia divenne pericolosamente politicomilitare e inutilmente disinnescata dai varii revisionismi e confutazioni teorici, quando il marxismo divenne la ideologia di Stato di un vasto impero come quello russo, che adottò la prospettiva universalistica del razionalismo scientifico, perfezionando i metodi e gli scopi della rivoluzione francese, emendandoli del suo spirito angustamente borghese e sociologicamente miope. Il marxismo aveva tutti gli ingredienti ideali per realizzare la “rivoluzione” post- cristiana, portando a radicale critica demolitoria tutta intera la tradizione europea, proiettandosi, come una autentica mitologia, nel futuro, teoricamente delineato come già incluso nel progetto palingenetico e quindi teleologicamente disponibile, per così dire, dal demiurgo politico. Diversamente da ogni altra scienza “borghese”, il marxismo coniugava alla sua immaginazione produttiva la certezza fideistica della sua verità, propria delle religioni, distanziando così epistemologicamente il carattere meramente ipotetico delle altre conoscenze scientifiche della realtà. Proprio perché aveva adottato lo strumento della ragione, il marxismo aveva dalla sua un consolidato strumento teoretico, che, seppure piegato in senso ideologico, forniva alla sua mitologia l’apporto di una poderosa tradizione ermeneutica che la “distruzione della ragione” intendeva abbandonare a favore di ancora incerte o non consolidate strumentazioni teoretiche. In tal modo, la migliore tradizione scientifica e filosofica moderna veniva “inverata” alla luce della nuova e rivoluzionaria interpretazione della Storia, la cui radicalità era pari alla sua pervasività in ogni ambito culturale, che veniva rovesciato dialetticamente come la sovrastruttura dei rapporti economici del tempo. Una tale operazione culturalmente rivoluzionaria

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aveva come significativi precedenti storici due religioni: quella cristiana, per la sua poderosa transvalutazione dei valori della cultura classica, e la musulmana, per la sua forza dirompente di penetrazione e di conversione forzosa di interi popoli. La mitologia escatologica, abbinata alla metodologia scientifica del razionalismo scientifico, costituivano una miscela ideologica che neutralizzava le confutazioni teoriche con la seduzione religiosa di massa, riuscendo a convertire quelle masse che avevano meno avvertito l’incidenza religiosamente corrosiva del razionalismo moderno e della cultura relativistica del positivismo, le quali passarono, senza soluzione di continuità e incisive mediazioni intellettuali, dalle loro tradizioni religiose alla nuova attesa messianica della realizzazione in terra di ogni antica promessa escatologica. L’incidenza universale della mitologia marxista, che interessò masse europee, russe, americane e cinesi, fu dovuta alla natura terrena della sua promessa liberatoria, che poneva al centro dell’esistenza la vita storica dell’uomo, anziché la sua soltanto immaginabile alterità meta-fisica e ultra-terrena. L’idea di un riscatto terreno, collettivo e definitivo liberava le energie profuse dalle masse lavoratrici in un senso indirizzato, per la prima volta nella Storia, verso la emancipazione dal lavoro, anziché verso la fatica del lavoro. Se lo strumento dell’emancipazione era l’abolizione della proprietà, niente era più facile per chi non ne aveva mai goduto. E se la lotta contro la natura dovesse ora volgersi verso le classi abbienti, il suo esito non sarebbe stato solo stagionale e provvisorio, ma definitivo. Non è un caso che la confutazione pratica di una tale religione sia opera di una cultura sociologica incentrata sulla temporalità presente, esclusiva di ogni aleatoria prospettiva ventura e quindi concentrando sull’esperienza diretta di ognuno la credibilità ideologica che il messianismo marxista proiettava nella verità del futuro, che, seppure infra-terreno, restava comunque lontano dai travagli rivoluzionari dell’oggi, dell’intermezzo socialista. Contro la verità futura ha avuto la meglio la certezza presente, così che al forza del benessere capitalistico ha prevalso sul fideismo dell’attesa del regno venturo della libertà dai bisogni e dallo Stato come luogo storico della necessità. L’edonismo capitalistico offriva oggi quel benessere di massa promesso dalla rivoluzione, che fu battuta in breccia dal sistema che aveva emancipato l’economia da ogni messianismo religioso, facendone il legittimo movente della Storia e dei rapporti umani e rendendo così inutile

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la palingenesi antropologica. Anzi, la logica utilitaristica vedeva nell’egoismo naturale dell’uomo il fondamento realistico di ogni sociologia politica, e non lo stigma morale che fosse il presupposto di una qualche redenzione etico-religiosa. La sublimazione ideologica dell’egoismo è l’individualismo, che, riconciliando l’uomo con i propri istinti vitali, assegna a ogni produttore-consumatore la difesa dei propri interessi, e quindi il regime politico che li garantisce, la democrazia capitalistica, che diventa il regno mondano del benessere e delle libertà. Con la democrazia capitalistica lo scopo politico generale finisce per coincidere con quello economico particolare di ogni cittadino, così che esso realizza definitivamente l’appropriazione del destino biologico da parte di ogni uomo in grado di auto-gestire la propria libertà, e del destino spirituale da parte di ogni credente, mettendo così fine alla supposta “alienazione” sia della sua sovranità egalitaria che della sua immagine divinizzata. La democrazia porta a compimento l’assoluto immanentismo umanistico, emancipando gli enti sociali ed esistenziali da ogni dipendenza da valori trascendenti, realizzando il nichilismo, ossia l’ateismo pratico. Ed è tale emancipazione dai valori che l’ideologia democratico-capitalistica chiama “libertà”, e non la scelta coscienziale tra il senso finito dell’azione e il senso eterno del suo significato simbolico. La scelta è ora solo entro le opportunità della realtà finita del “mercato”, in cui vengono contese ai consumatori dei beni le offerte concorrenti dei produttori. L’esistenza priva di fini trascendenti diventa mero esercizio ludico delle contingenti possibilità umane, e la vita stessa della società diventa un “gioco” fine a se stesso, che mima quell”eterno ritorno dell’uguale” di cui parlava Nietzsche, che aveva profetizzato l’avvento dell’uomo postcristiano, mosso dal solo impulso naturalistico della “volontà di potenza”. Ora, la “volontà” si qualifica della sua “potenza” in quanto diversa dalla volizione guidata dalla “ragione”. La potenza volitiva in senso nichilistico è a-razionale, cioè non qualificata teleologicamente da alcun fine razionale. Esattamente come nel gioco, che è attività per definizione a-teleologica. Un “gioco” può non piacere, ma non si può confutare, sicché la società ludica non è aggredibile teoricamente sul piano della sua verità assente, ma solo rappresentabile nella sua verità ontologica. Ma qual è il senso della verità della società nichilista? Che essa appunto non ha una verità, cioè un senso, poggiando la sua credibilità ideologica

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sulla efficienza del suo sistema di benessere, cioè sul suo puro funzionamento tecnico. L’assenza di senso, nondimeno, ha una sua interna logica sistemica, quella di preservarsi a scapito di ogni destinazione razionale che voglia assumere la potenza tecnologica come strumento per un fine che la trascenda. Il sistema capitalistico non può sottomettersi ad alcun fine trascendente, facendo del suo gioco un uso simbolico. Per questa ragione la sopravvivenza del sistema capitalistico è legata alla sua capacità di espandersi universalmente neutralizzando nel suo dinamismo ludicoeconomico ogni cultura trascendente che incontra dove giunge. Solo se tutte le culture accetteranno il suo “gioco” produttivo- consumistico, il sistema potrà sopravvivere, non facendo rimpiangere altre forme, tradizionali o utopiche, di convivenza sociale. La globalizzazione del mercato sembra riuscire dove fallì la speranza religiosa e la paura rivoluzionaria, esportando con successo il sistema nichilistico in tutto il mondo, avido di benessere e spinto ad emulare il sistema sociale che lo garantisce. Il modo di coinvolgere i popoli e le culture locali al grande “gioco” capitalistico è quello di dichiararlo neutro rispetto ai valori, e perciò scientifico e oggettivo, dando così l’impressione di mostrarsi rispettoso e tollerante verso ogni tradizione all’atto stessa di considerarla inutile ai fini del benessere sociale, di conseguenza emarginandola dalla scena politico-culturale come una superflua sopravvivenza metafisica tradizionale. Il sistema usa, a tal fine neutralizzante, l’ideologia democratico-egalitaria, che in nome dell’uguaglianza dei diritti civili e politici lotta contro ogni sistema sociale gerarchizzato, ossia contro ogni forma di organizzazione tradizionale della convivenza umana religiosamente stabilita secondo la fondamentale distinzione tra “sacro” e “profano”, dalla quale discende la priorità della morale sulla forza, all’origine di ogni divisione gerarchica della società che vi si ispira. Solo rimuovendo la sfera del “sacro” come valore pubblico riconosciuto si può addivenire all’uguaglianza universale dei cittadini consumatori, e perciò col mercato occorre esportare la democrazia, il regime politico-sociale più funzionale alle sue esigenze tecniche. Il limite di tolleranza tra il sistema capitalistico e l’ideologia democraticistica è costituito dall’accordo compromissorio dell’istanza politica egalitaria con l’esigenza produttivistica di non porre ostacoli morali e di principio all’efficienza del sistema e delle sue offerte concorrenziali, che inevitabilmente presumono una disparità di

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riuscita di intenti economici concorrenti, e quindi una sostanziale disuguaglianza degli attori sociali. 14. Il limite del capitalismo è che ogni svantaggio sociale e personale prodotto dal sistema non è compensabile con alcuna speranza escatologica, possibile solo entro una promessa di futuro, che è appunto la temporalità scartata dal sistema. Il tempo del successo capitalistico e della sua credibilità ideologica è il presente, e ogni sua speranza esistenziale riveste i caratteri dell’attualità, dalla cultura alla moda. Solo ciò che è “attuale” è “reale”, perché solo il contingente ha valore significativo entro l’orizzonte assolutamente immanentistico. Il giudizio di valore viene sostituito dall’informazione in tempo “reale”, che appunto è quello “attuale”. Superare quel limite di tolleranza del sistema, e infrangere la barriera temporale attualistica, commisurando l’efficienza alla luce della giustizia e il successo edonistico con la speranza fideistica, significa dare evidenza al gioco capitalistico smascherandone l’incongruità antropologica, attraverso la prova della insostenibilità ontologica dell’unità dell’esperienza umana entro la molteplicità dell’orizzonte della finitezza. Solo un processo spirituale trascendente le particolari esperienze finite può configurare una Storia entro le molteplici scansioni temporali della varia umanità. Ma lo Spirito della Storia è l’altro rispetto alla esclusiva dimensione attualistica della realtà capitalistica, il suo risvolto impalpabile e scientificamente incommensurabile perché costituito da quel “restante” escluso dal punto di vista della conoscenza razionalistica del mondo. Lo Spirito è quel “senso” valoriale dell’esperienza umana che il nichilismo ha sanzionato come inutile e vano, e perciò defunto insieme a ogni tradizione religiosa e metafisica. Quel senso della vita trascendente l’esperienza finita del destino mortale dell’uomo, in virtù del quale egli ha edificato le civiltà storiche, che ne costituiscono le sue forme istituzionali, e le ha giustificate razionalmente. Il sorgimento e il tramonto di queste forme storiche di civiltà, di queste culture umane, considerate nella loro astratta fatticità, non rendono il senso del travaglio umano della loro esperienza spirituale, in nessun modo assimilabile a un “gioco” innocente e svagato. Infatti quel travaglio è costellato di ansie e di passioni, di sconfitte e di resurrezioni di speranza, insomma di quella vita spirituale che non si può riassumere in un rilevamento di dati del mercato, il cui dramma non si può semplificare in una rappresentazione puramente polemica e antagonistica di volontà di

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potenza concorrenti nell’agone sociale. Questa terrificante rappresentazione, dove è apparsa verosimilmente reale, ha mostrato tutta intera la sua crudele assurdità auto-distruttiva per l’uomo, e perciò mostruosamente irrazionale. Recuperare il senso della vita umana fa tutt’uno con la coscienza ontologica della sua storicità, ossia dell’essenza del processo spirituale in cui si svolgono – sorgono e declinano – le culture umane. Solo ciò che trascende la finitezza della esperienza umana può offrire un orizzonte di senso unitario al suo molteplice processo avvenimenziale nel tempo. La finitezza dell’esperienza umana è offerta alla coscienza dalla individualità, che è la condizione dalla quale parte e si avvolge l’individualismo sociologico. Una condizione illusoria di onnipotente indipendenza dagli altri e dalla società che costruisce i suoi referenti normativi fuori da ogni mediazione razionale tra sé e il mondo circostante, negando di conseguenza tanto il patrimonio culturale comune che lo stesso lavoro come attività socializzata. La concezione individualistica elimina infatti dal rapporto “reale” tra gli uomini e con il Potere la mediazione delle istituzioni della libertà, assumendo l’individualità come una condizione di ragione originaria fondata su se stessa, e sulla quale ogni intervento esterno appare lesivo delle sue prerogative di autosufficienza razionale. Ma il carattere illusorio di questa condizione si annida proprio nella supposizione che l’individualità abbia i caratteri della razionalità, anziché della finitezza. Questo pregiudizio porta a negare la parte di verità che si cela dietro le sociologie comunitaristiche, che indicano appunto nella realtà di gruppo la compensazione di ogni limite individuale. L’errore del comunitarismo è di credere che il gruppo politico possa assolvere al suo scopo di superare la finitezza umana, per cui una condizione ontologica possa essere superata da una situazione politica. Ma la giusta critica alla impossibile soluzione politica ai problemi esistenziali non deve indurre all’errore opposto di ritenere inutile la socialità per l’individuo “reale”, poiché proprio questa supposta condizione “reale” è invece illusoria. Infatti la coscienza dell’individualità è sempre abbinata alla coscienza della colpa della finitezza umana, ossia alla consapevole distanza tra desideri volitivi e possibilità pratiche. In questo senso, la “volontà di potenza” dell’uomo è anzitutto volontà di poter essere meno solo nel fronteggiare il mondo. Ed è da questa coscienza che nasce il rapporto mistico con il potere divino; rapporto che l’individualismo edonistico ha piegato in senso acquisitivo di beni

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materiali di consumo, travisandolo in direzione mondana. Il coraggio stoico alla rinuncia cosmica, e quello cristiano al suo superamento irenico, si trasforma modernamente in sfida per il successo, in tensione polemica che ricerca una mediazione politica. La colpa trasfigurata in azione ha in sé tutto il carico polemico del negativo, e i segni altrimenti pietosi del riconoscimento del comune destino terreno, la dirompenza del conatus senza l’argine sublimante del telos. Il limite non accolto diventa pena subita, angoscia e penitenza, calvario mondano senza redenzione. L’unità consumistica del mercato ha surrogato l’unità politica entro i confini del Potere, ed entrambe hanno soppiantato l’unità mistica della comune condizione umana di dipendenza dalla Provvidenza. Il dolore originario si è convertito in potenza, e la preghiera in volontà. A contendersi la soddisfazione di tale volontà intesa come “bisogno” di potenza, è lo Stato e il Mercato, la politica e l’economia. E non a caso lo Stato moderno diventa dispensatore politico delle possibilità economiche e garante della sopravvivenza, sicché la stessa attività politica si trasforma in una economia politica. Senonché lo Stato provvidente ha una funzione di giustizia, cioè di equità sostanziale oltre che formale, tesa a fare più eguali i cittadini diseguali, laddove il Mercato basa il suo funzionamento sul dinamismo di chi più può su chi resta indietro, spronando a massimizzare i profitti e non le spese assistenziali. Questo cortocircuito tra etica ed economia la politica lo sta vivendo ai nostri anni, soprattutto in Europa, dove la credibilità ideologica delle rozze formule politiche democratiche è stata suffragata dall’assistenzialismo di Stato, basato sulla redistribuzione del reddito a scopo socialmente equitativo. Oggi lo Stato assistenziale è in una crisi profonda, non reggendo più la contraddizione tra i due princìpi opposti. Il fondo del barile pubblico è ormai raschiato fino al buco, e l’assalto al risparmio privato non può andare fino al suicidio elettorale. I cittadini o risparmiano per le spese dello Stato, o consumano per quelle private. Lo Stato caritatevole diventa vampiro, e la società è ormai a rischio di anemia. La molteplicità senza la diversità porta all’uguaglianza degli enti. Ed è tale condizione ontica a provocare, nella necessità di una strutturazione organica delle relazioni degli enti, il conflitto per il riconoscimento dei ruoli gerarchici, inseparabili da ogni forma di organizzazione sociale, partito politico “democratico” compreso. In tale conflitto si sostanzia l’essenza dei rapporti politici, dell’attività politica in sé, astratta da ogni

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finalismo etico e pedagogico. E la stessa essenza della democratizzazione come processo universale delle culture post-metafisiche e “positivistiche”. L’egalitarismo è la conseguenza pratica del nichilismo come “caduta dei valori cosmologici” e fine dell’ “ordine morale del mondo” (Nietzsche). Il suo “-ismo” costituisce l’unico surrogato valoriale possibile ai fini di una giustificazione razionale dell’organismo sociale strutturato politicamente come “sistema democratico”, di cui la tendenza egalitaria è il fine della stessa prassi politica e il “senso” residuo attribuito alla sua formula ideologica. La condizione critica del tempo diviene pertanto il “senso”, la “ragione” e il “fine” dell’impegno sociale dello homo positivus, dedito a universalizzare l’egalitarismo in ogni ambito umano come missione ideologica e morale personale. L’imperativo etico diventa: “rendere uguali i diversi”, che è il fine opposto di ogni cultura e dell’impegno pedagogico di ogni tempo. Il contro-senso di tale impegno di astratta omologazione ideologica è la destrutturazione di ogni sistema sociale tradizionale e la politicizzazione della convivenza umana, a seguito delle quali la formazione del cd. “Stato dei diritti” è il contrario storico del garante dell’ordine istituzionale, che l’infinita legittimazione politica di ogni istanza privata in cerca di riconoscimento pubblico rende logicamente impossibile e praticamente inconseguibile, provocando il conseguente bisogno d’ordine autoritario, contro il quale era insorta l’ideologia liberale. La volontà egalitaria, quindi, universalizzando astrattamente il principio di libera auto-determinazione, tende ad annientare se stessa provocando il suo opposto effettuale, secondo la dinamica della corrispondenza degli astratti opposti ideali nei reciproci contrari reali. La democrazia, quale potenza egalitaria, volendo affermare totalmente se stessa, afferma il suo contrario annientamento. Solo a tale scopo auto-distruttivo il suo processo dialettico potrebbe essere assecondato dalla Chiesa, custode dei valori tradizionali cristiani, ma col rischio però di rimanerne travolta dalla eterogenesi dei fini, privandosi per ragioni tattiche del suo ruolo di testimone dei valori eterni. Le tentazioni “democratiche” possono sedurre i professionisti della fede per il facile consenso in tempi di scarsa clientela, ma non un clero responsabile e cosciente del compito di preservare nella memoria comune il fine escatologico cristiano, serbando testimonianza dell’Eterno, fondamento e fine della Storia umana. Il suo fine, pertanto, non può essere quello di secondare i tempi, ma di contrastarne le tendenze

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nichilistiche, ripensandole alla luce dei valori eterni. Mai come oggi la sua missione, dopo la sua prima stagione, consiste in una attività filosofica, ossia nel ripensamento di ciò che è alla luce di ciò che è stato e che sarà, acché la Storia e la Speranza si compongano ancora una volta, dopo la scissione del Moderno, a rappresentare la Storia della speranza cristiana. La speranza infra- mondana, riducendo a scopo il fine irenico trascendente, ha trovato ricetto nella coscienza individualistica dell’uomo naturalisticamente empirico, astrattamente volitivo, che, concependosi come pura auto-affermazione vitalistica, ha abbandonato la sua forma spirituale e la dimensione di vita comunitaria alla profana politica regolatrice della socialità biologica. L’estinzione della comunità di fede come luogo etico autonomo dal politico, ha relegato la speranza in interiore homine, facendo della coscienza individuale il luogo residuo della carità come altra modalità di relazione rispetto alla socialità politica. La stessa contesa delle anime del Protestantesimo alla Chiesa cattolica iniziava il processo di individualizzazione della fede, che da religiosa in senso etimologico di legame comunitario, diventava soggettiva e non mediata da alcuna istituzione religiosa. La politicizzazione della vita “positiva” è anche il portato della simmetrica interiorizzazione della speranza caritativa, che non avendo più luoghi “pubblici” di socialità, diventava tensione mistica privata. La Chiesa, intesa come la realtà cattolica di riconoscimento della fede comune e luogo mistico della testimonianza dei valori cristiani, a seguito della rottura della simmetria tra popolo dei fedeli e comunità politica imperiale, che portò, anche per miope calcolo di potere ecclesiastico, allo sviluppo dei moderni Stati nazionali, divenne un ente politicamente loro rivale, intromesso negli affari di potere europei aventi ad oggetto il conteso primato sui fedeli anziché sui sudditi. Chi erano i “fedeli”? Chi i “sudditi”? I primi erano i convinti nella fede, i conquistati dallo Spirito, i convertiti, i membri della società che, uti singuli, venivano cooptati nella comunità dei credenti, la Chiesa appunto, che non aveva il potere politico, in mano allo Stato, che controllava tutti quali sudditi, cioè sottomessi dal Potere. Il corpo collettivo era dunque politico, mentre i singoli membri erano gli interlocutori della fede. Il governo politico cristiano era stata storicamente una emanazione della società cristianizzata, ossia era stato il risultato della fede, e non già il suo punto d’inizio e d’irradiazione. Il potere imperiale della tarda romanità non si sarebbe mai piegato ad accettare e riconoscere la fede cristiana se questa

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non fosse stata già una realtà sociale. Diverso il caso degli Stati nazionali moderni nati dalla dissoluzione imperiale medievale, i quali stabilivano il loro diritto all’esistenza rivendicando una autonomia dal controllo della Chiesa sul corpo sociale, affermandola attraverso lo strumento razionalisticamente autonomo della politica. Il tentativo moderno del Potere di affrancarsi dalla Chiesa e dalla religione, coincideva con il controllo politico dall’alto della società religiosa, cioè di quei fedeli che costituivano il corpo mistico cristiano. E’ da questa volontà superiore, che cala dall’alto verso la società, che nasce il concetto del governo, politico perché laico e non religioso, che decide sulla legittimità pubblica – politica e non religiosa – delle istanze provenienti dal corpo sociale dei privati cittadini. La dicotomia pubblico-privato ricalca quella tra politica e religione e tra governo e società. Ma solo una essenza trascendente può costituirsi come presenza storica senza snaturarsi come illusione mitica e nichilistica. Senonché, la “parola della croce” divenne verbo politico, realizzando per la prima volta quel “passaggio” ontologico del sacro al profano che la rivoluzione razionalistica riprese in chiave positivistica. La presenza del trascendente nella Storia, che induce ancora alcuni a ritenerla erroneamente l’esordio dell’ateismo, non consiste in un miracolo fisico, in una magia che sconvolge le leggi cosmiche, ma nel miracolo morale dell’evento contrario al principio naturalistico di esistenza e di conservazione della vita. “Miracoloso” dal punto di vista morale è l’avvento anti-utilitario e anti- egoistico, realizzato a fine testimoniale del valore trascendente i rapporti naturalistici di conservazione e di potenza. L’alterità verso lo Stato non è istituita sul comune fondamento dei rapporti politici, ma su un cambiamento radicale di linguaggio e di semantica dell’azione. Il Potere imperiale divenne per il credente nell’onnipotenza di Dio la contraddizione vivente della kénosis del Cristo, che rinuncia alla logica del mondo reale per testimoniare la verità dell’altro, della sola fides. E’ il miracolo della santità che supera l’antica sacertà pagana, inaugurando la simbologia tra svalutata della croce come segno d’amore, anziché di feroce sofferenza. Il deicidio cruento diventa, per la fede, la “credenza”, rispetto alla “verità” d’amore della resurrezione. Il “senso” dell’esperienza umana cambia radicalmente, non apprendo più, alla luce della fede, risolversi nel rapporto Servo-Padrone, ma nella fraternità del rapporto caritatevole. La carità diventa la cifra

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ermeneutica dell’anti-cosmismo cristiano, che negava l’essenza del Potere all’atto di rassegnarvisi senza opporre resistenza fisica. Non più dal mondo proveniva il senso del mondo, che appariva mitologico al credente, ma dalla realtà invisibile del regno della fede. Il teoreta greco contemplatore dell’eidos divenne un visionario per il profeta cristiano. La fede fa del mito una verità ontologica, la quale, senza la fede, diventa mitologia. E la fede non è altro che l’orizzonte escluso dal punto di vista della ragione, il cono d’ombra non illuminato dalla luce esclusiva del giudizio, quel “restante” che “non si vede” ma “c’è”. Il rapporto tra fede e verità è stato a lungo e variamente dibattuto, ma non sempre pertinentemente. Abbinare alla sola fede la volontà ontologicamente decisiva circa l’esistenza degli invisibili, e alla sola verità l’immagine dell’essere eterno delle cose, è fuorviante. Infatti, la “decisione” ontologica è sempre un atto di fede, quello originario che stabilisce che “l’Essere è”, e non già “il Nulla”. Senza tale decisione ontologica, non sarebbe possibile giustificare il senso della realtà delle cose del mondo. In tal senso la fede ha in sé il dubbio, che è all’origine del “thauma” filosofico, ossia della domanda che attende una risposta persuasiva. Ricordava Paolo che la fede “è l’argomento di cose che non si vedono”, quelle cose cioè che, come asseriva Tommaso, sono invisibili sia agli occhi del corpo che agli occhi della mente, poiché non sono riconducibili né alla fisicità degli enti molteplici e neppure alla “visione” delle idee. La fede cristiana è l’intelletto assistito dalla grazia, la recta ratio di un pensiero non auto-fondato e perciò meramente creduto, ma partecipe di ciò che sta oltre la realtà razionale e sensibile del mondo dominabile con la volontà, nel “cielo” che è nel “cuore” dell’uomo divinamente ispirato. Rispetto alla mera credenza, nata dall’errore o dall’utile, la fede è un atto di libero convincimento, ossia un giudizio morale che assume nella sua decisione la responsabilità di sciogliere il dubbio ontologico nel senso dell’Essere. E in tal senso partecipa della sua “gloria” accogliendo la sua “verità”. Tale “giudizio”, senza il conforto della fede ontologica, diventa con Nietzsche un “pregiudizio morale”: quello di il ritenere che “la verità valga più dell’apparenza”, ossia che quanto sia escluso dal punto di vista dell’osservatore abbia un suo diritto di considerazione, insomma che “l’altro” sia. La possibilità d’essere dell’ “altro” da ciò che appare, dalla realtà “presente” nel punto di vista della volontà e all’attualità dei sensi, costituisce la condizione del dia-logo, e quindi della dialettica.

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E’ la fede che libera il punto di vista dall’angustia della sua ristretta visuale sul mondo, dandogli la luce del Tutto, ossia della verità. Il superamento della ristrettezza della visuale dominabile dalla volontà, che è il campo della realtà pratica, il limite segnato dalla natura finita dell’uomo; questa vittoria morale, guadagnata dalla fede sulla realtà apparente, che costringe l’uomo naturale a subire l’angustia della sua finitezza, è la santità, che costituisce il modo cristiano di giungere al dominio spirituale e non fisico del mondo altro dall’egoistico sé. Un mondo in cui l’altro si incontra non polemicamente, nell’agone politico, come nemico, a misurarne la forza volitiva, per piegarlo alla propria volontà di potenza, ma si incontra come prossimo nella carità, che è quella remissiva debolezza della volontà che sublima la forza fisica in fortezza d’animo, il Potere politico in carisma spirituale. E’ la potenza del dialogo persuasivo della maieutica socratica che sovverte durevolmente l’animo, sulla imposizione dionisiaca della forza fisica che piega provvisoriamente il corpo. E’ la potenza della fede che sconfigge la necessità nel martirio della croce. Solo nella fede la co-esistenza diventa comunione, perché lo spazio politico della sovranità umana, regolata regolativamente dal diritto, diventa luogo mistico dell’escatologia irenica, dove mancando l’incertezza propria dei rapporti interessati del mondo finito, non c’è neppure diritto ma solo relazione caritatevole e fraterna. L’esercizio spirituale per giungere alla santità è l’alternativa morale alla pratica politica per giungere al dominio economico del mondo; l’unica che può sostituire alla tecnica della rivoluzione dei corpi il miracolo della conversione dei cuori, alla pretesa della volontà, legata al diritto, la attesa di esaudizione, legata al dovere. Com’è noto, Kant riteneva che il “progresso morale” dell’uomo non dipendesse da un “cambiamento di costumi”, legato all’esercizio della legalità, che è virtù empirica (virtus phaenomenon), ma solo da una “rivoluzione dell’intenzione”, cioè da un cambiamento radicale della mentalità e del modo di pensare i rapporti umani, che potesse far nascere effettivamente un “uomo nuovo”. Il nuovo fondamento intenzionale era costituito appunto dal principio di “santità” quale “virtù intelligibile” (virtus noumenon), che intaccava alla radice il lato oscuro e peccaminoso dei comportamenti umani, evitando di fare affidamento sul mero miglioramento delle forme di socialità, insufficienti a promuovere una rivoluzione spirituale e a colmare l’abisso che separa il bene interiore dal male delle nostre

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azioni. Proprio per questo jato incolmabile, la condotta legale non basta a realizzare l’atto morale, che pure rimane la meta cui tendere. La santità resta in ogni caso irraggiungibile all’uomo, data la sua natura lapsa e l’insopprimibile limitazione maligna di ogni sua realizzazione finita, ma proprio perciò bisogna dare rilievo morale alla volontà del “soggetto intelligibile”, che salvi almeno le sue buone intenzioni, distinguendole dagli esiti reali delle sue azioni, guidate dalla Provvidenza, e lasciando al giudizio divino il resoconto dei suoi peccati. L’azione morale viene da Kant, come già in Lutero, paragonata allo “stato di grazia”, che è quella sorta di sospensione metafisica dalla condizione di peccaminosità terrena che si realizza allorquando l’uomo sconfigge la sua connaturata tendenza al male. E poiché il comportamento umano riguarda tanto i singoli quanto la società nel suo complesso, è necessario distinguere i “doveri etici” che riguardano complessivamente il “genere umano”, dai “doveri politici”, inerenti i rapporti particolari tra i gruppi sociali, che sono regolati dalle norme giuridiche. Sicché, mentre il comportamento politico riguarda la “legalità delle azioni”, ossia il giudizio umano sulla loro adeguatezza, il comportamento etico riguarda l’aspetto morale delle azioni, e quindi il giudizio di Dio sugli uomini. L’adeguatezza dei comportamenti umani alle norme legali coincide con la loro efficacia, ossia con il loro carattere strumentale rispetto allo scopo politico dello Stato, che è la sua potenza. Il percorso per la santità, essendo opposto a quello per la potenza, non può servirsi degli stessi strumenti della politica, né contare sulla stessa sua logica. Gli strumenti della politica sono quelli della forza, la cui logica è quella economica dell’interesse di sé. L’azione interessata è quella è dettata dalla volontà di ottenere un vantaggio, ovvero di conseguire un intento per sé. La volontà economica è tesa a misurarsi con l’altro attraverso la forza, per arrivare a un accordo politico. Il legame di riconoscimento politico è il diritto. La scelta per sé è una scelta politica, la cui legge economica è di agire contro l’altro. Opposto è il caso della scelta morale, guidata dalla legge della carità di agire per l’altro. Morale e politica sono due campi di azione diversi e non dialettizzabili, soggetti a una scelta esclusiva, in cui consiste la libertà di coscienza. La dimensione caritativa della volontà è quella morale, mentre la dimensione economica è quella politica. La logica economica della politica è tesa a massimizzare la potenza del sé con i mezzi economici disponibili. Entro la ragione politica, che appunto si muove

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secondo una logica economica, non c’è spazio per la morale, che è la sfera dell’altro, e non del sé. La politica non può servire la morale, ma solo la sua logica interna, che è economica e non altruistica. La volontà caritativa, che agisce in base a una logica altruistica, è l’atto d’amore che vede nell’altro il proprio sé, e non il nemico, e cerca l’altro per raggiungere insieme il reciproco riconoscimento spontaneo. Il rapporto caritativo è incentrato sulla considerazione dell’altro, all’opposto del rapporto politico incentrato sul sé. Se il fondamento della realtà è l’Io, allora il Tu è una sua creazione. Ma se invece quel fondamento è il Tu, allora è l’Io ad essere una sua creatura. Sostituire Dio con la società o col Potere, ha effetti devastanti per l’uomo, che diventa pertanto un mero prodotto socio-politico. Ma altresì porre il Soggetto di coscienza in interiore homine non è privo di pericolose ambiguità per la libertà dell’uomo, ingenerando la credenza che la sede della verità coincida con la verità stessa, che sussisterebbe etsi Deus non daretur. Solo nella differenza ontologica è possibile conservare il senso dell’unione contingente, e perciò libera, del divino con l’umano. Da qui la necessità di ripensare l’esperienza dell’uomo alla luce del fondamento sacro della Storia. L’emancipazione della politica dalla morale è conseguenza di una concezione antropologica, che fa dell’uomo un “animale sociale”. Se la socialità è la dimensione unica della stessa umanità, quella che definisce ontologicamente l’essere umano, la logica sociale prevale su ogni considerazione individuale dei singoli membri della società. Ed è questa logica olistica che viene contestata dal liberalismo. Il quale, però, si muove pur sempre entro l’antropologia aristotelica, in quanto ne condivide il monismo ontologico che è alla base della sua metafisica naturalistica. Come essere di natura l’uomo è sociale. Ma soltanto se sociale la sua ragione è politica e tesa alla preservazione del gruppo, a partire dalla sua sussistenza economica. Il rapporto tra società politica e ragione economica è strettamente dipendente dalla definizione antropologica dell’uomo come essere naturalmente “sociale”. In questo caso, “l’uomo”, propriamente detto, è un’astrazione, essendo il gruppo sociale la realtà storica naturale. Diverso il caso se consideriamo l’uomo non come specie naturale e zoologica, ma come essere spirituale. In questo caso, è il gruppo sociale che diventa un’astrazione sociologica e naturalistica. Il liberalismo ha mutuato dalla coscienza cristiana il concetto di persona spirituale, ma l’ha naturalizzato in termini di individualità economica, cercando di tradurre l’istanza

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soggettivistica in ambito sociale, dialettizzando la logica individualistico-economica con quella socio-politica. Ma questa concezione sincretistica della convivenza umana è a sua volta contraddittoria, perché cerca di spiegare economicamente le ragioni per cui l’individuo dovrebbe preferire se stesso alla società, facendo di questa il suo orizzonte politico-esistenziale intrascendibile. L’essere spirituale, rispetto a quello politico, non è l’individuo rispetto al gruppo sociale, ma è l’essere eterno rispetto all’essere temporale. L’eternità viene contrapposta alla storicità dell’uomo solo assumendo la temporalità come la dimensione storica, secondo la visione appunto naturalistica dell’uomo. Mentre è esattamente il contrario nella prospettiva spiritualistica, dove la storicità è la dimensione propria dell’eterno. La storia spirituale è fenomenologia dell’eterno, rispetto al quale la storicità temporale è sociologia politica. Lo storicismo spiritualistico non può essere racconto di avvenimenti socio-politici, oggetto della sociologia storica o dell’economia politica, ma solo di eventi spiegabili all’interno di un orizzonte di senso. Non c’è “storia” senza un “orizzonte di senso”. Il senso della Storia umana è spirituale, mentre il senso delle molteplici storie dei gruppi particolari è sempre sociale, cioè inscritta nella temporalità degli avvenimenti finiti, e ha sempre lo stesso movente economico- politico. E’ certo che una Storia depurata del suo senso trascendente, diventa semplice narrazione di illusioni e delusioni umane, quale apparve a Nietzsche e che divenne oggetto della riflessione di Heidegger. La rimozione dell’ontologia cristiana aveva lo scopo di proporre una nuova antropologia, che affermasse una visione totalmente circoscritta nell’orizzonte della finitezza esistenziale dell’uomo, laddove la trascendenza dell’esperienza finita era il punto di partenza dello storicismo spiritualistico cristiano. Un orizzonte spiritualistico non poteva includere la politica come tecnica delle relazioni umane, esorcizzando a scopo correttivo le sue ragioni economiche come immorali. Questa contraddizione è alla radice del “fallimento” storico del Cristianesimo e del suo incapace intento di edificare in terra la Città celeste sulle rovine politiche di quella degli uomini pagani. Tornerebbe a fallire se esso si proponesse ancora un disegno del genere, e con gli stessi mezzi eterogenei al suo fine escatologico. Infatti, il tentativo rinnovato dalle ideologie secolaristiche di portare il cielo in terra non ha avuto esito che catastrofico, segno ulteriore della vanità del

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progetto. Cambiare rotta significa anzitutto ripensare l’improponibilità storica di una città totalmente umanistica che sia anche “umana”. In tal senso, occorre un ripensamento della logica economica della politica che non si basi sulla giustificazione del mero dato di fatto, e che quindi la veda solo come una possibilità tra altre possibili di convivenza umana. La crisi morale del nostro tempo è quella della civiltà del diritto, con la sua società dei diritti regolati, la civiltà della contesa, che concepisce i rapporti umani come esercizio del polemos, della lotta per il riconoscimento del sé, della propria ragione. La quale, anche quando democraticamente stemperata in polemica verbale, non contemplando la consegna del valore delle ragioni altrui, non prevede la regola del silenzio, dell’attesa che il senso raggiunga l’espressività della parola e stabilisca la sin-patia della comprensione, indispensabile a ogni tirocinio ermeneutico. E non tenendo conto del valore di verità del restante altro, non riesce a eludere il rischio del sopruso, insito nel conato eristico ad avere la ragione, anziché servirla. E allora il monologo, proprio dell’arte sofistica, non consegue il dialogo di verità, lasciando che la ragione, non servita dalla volontà, non possa a sua volta servire la verità. Il servizio alla verità è l’esercizio filosofico del pensiero non deviato dalla volontà di potenza, non obnubilato dalla vis polemica della ideologia, che è la ratio della politica, la ragione moderna per eccellenza. Uscire dal moderno si può con profitto spirituale solo riandando all’eterno, non certo rielaborando le mitologie secolaristiche per renderle più seducenti alle masse elettorali dei consumatori. A questo buon fine è chiamato il compito di un pensiero che, dopo lo smarrimento del servizio al Potere, abbia ritrovato la strada della verità, lastricata di una fede servizievole ma non servile, perché libera. La libertà è valore eminentemente cristiano, perché fondata sulla fede nell’altro, il cui modello antropologico è Cristo. E fede vuol dire l’opposto della costrizione. La costrizione che rende liberi è quella dell’ordine leviatanico. La società che si organizza grazie all’intervento del potere leviatanico, denuncia l’impraticabilità dell’autonomia dell’uomo dal Potere. E, come per la torre di Babele narrata da Dostoevskij, se l’uomo non vuole servirsi dell’aiuto divino per edificarla, deve far ricorso a quello diabolico. Scartare Dio per finire nelle grinfie del Diavolo, questo è il paradosso dell’umanesimo ateo, che intende costruire la città dell’uomo fondandola sulla sola volontà di umana potenza. Il

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totalitarismo, socialista, fascista o democraticocapitalistico che sia, essenzialmente ha questa pretesa demiurgica di creare una società retta da sole norme umane, fondata dal principio socialitario della sola sopravvivenza biologica fine a se stessa, un sogno realizzato che avrebbe annunciato al mondo che “è giunta l’ora del finito”, per dirla con Guardini. Che la società dei liberi (da Dio) si sia rivelata per l’uomo un inferno diabolico, che, come il programma di Sigaljov, “partiva da una assoluta libertà per concludere con un assoluto dispotismo”, è storia recente, le cui vicende anti- umane dovrebbero farci riflettere che solo un pensiero essenzialmente cristiano può essere fondatamente liberale. Fuori della verità cristiana, la libertà non può che essere quella “volontà di potenza” che, politica o economica, ha sconvolto e travolge ancora la nostra epoca nichilistica. Gli uomini, dalla natura fragile, sono stati sedotti dalla diabolica lusinga, confidando nella promessa fatta dalle utopie politiche di dispensarli dal “lusso dannoso” della scelta morale, come lo chiamava Bernanos, ossia dai travagli delle loro responsabilità di attenersi al bene anziché al male. Ma la promessa della felicità, ossia della eudemonistica tranquillità di godere del poter fare a meno di quella scelta, è il contrario della promessa cristiana della libertà, che è indisgiungibile dalla verità come la felicità dalla menzogna, come il dramma della Storia sacra dalla tragedia dell’utopia atea. Quello verso la verità è l’unico “passaggio” di libertà consentito all’uomo per superare la sua finitezza e riscattarne la colpa di essersi allontanato da Dio. Una libertà intieramente terrena, nata con l’uomo e solo per l’uomo, ha gli stessi caratteri della sua natura finita, destinata perciò a svanire nell’attimo stesso della sua apparente esaudizione. Anche questa è mortalità, ma senza resurrezione. Se il movimento dalla carne allo spirito, cioè dalla necessità alla libertà, è superamento del contingente nell’eterno della verità, il percorso inverso è costrizione e violenza. L’uomo spirituale non può tornare alla socialità naturale senza perdere la sua umanità, senza violentare il sacro che è in lui, e con esso la stessa verità, ossia la capacità di elevarsi con lo spirito oltre “il muro” dei rapporti finiti. Per comprendere l’uomo occorre partire dalla verità, e non dall’uomo stesso. Infatti, a partire dall’uomo ci si arresta la di qua dei montaliani “cocci aguzzi di bottiglia

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Scienza e fede di Costantino Marco Infatti, la cultura critica moderna si era scientemente posta in alternativa al tradizionale pensiero dogmatico, ma l’idea di un superamento della sintesi classicocristiana rappresentata dalla teologia cristiana medievale, si scontrava con la realtà di una persistente vocazione religiosa della cultura moderna europea che i massivi movimenti ideologici contemporanei portavano in allarmante evidenza. Tanto che l’accezione “moderna” della nuova cultura postteologica tendeva a identificare il pensiero “critico” esattamente con la sua frattura dal pensiero popolare, che la tradizione cristiana aveva portato a sintesi con quello colto. Tale frattura, se da un lato liberava la ricerca scientifica da ogni vincolo dogmatico, dall’altro rilasciava al pensiero ritenuto tradizionalmente a-critico l’orizzonte vastissimo dell’esperienza religiosa, che della cultura antropologica dei popoli costituiva l’essenza spirituale per definizione. Ed è su questo terreno religioso tralasciato dalla scienza razionalistica moderna che germogliano le piante possenti e radicate delle ideologie politiche, le quali rappresentarono per le vaste masse politicizzate d’Europa il loro precipuo viatico neo-religioso verso la (loro) modernità. La ricostruzione razionalistica della cultura europea come doppio movimento ideale, caratterizza ogni forma di pensiero moderno, che, da Cartesio a Husserl, intende rappresentare il processo di auto-anamnesi della ragione in termini di distinzione tra un mondo di realtà ontologiche e uno di apparenze sensibili. Questa dicotomia, che filosoficamente risale a Platone, è però l’essenza stessa di ogni rappresentazione religiosa del mondo, che proprio nella distinzione tra realtà sacra e realtà profana stabilisce le gerarchie cosmiche e deontologiche. Ciò vuol dire che il processo di emancipazione della ragione moderna dalla pregressa dipendenza dalla struttura teologico-metafisica cristiana conserva di quella struttura il fondamento della sua costituzione ontologica, ossia la fede che qualcosa sia (sacro, o vero) anziché non. La verità dell’essere come fede, non aggiunge alla sua moderna qualifica di “razionale” alcuna determinazione che non sia originariamente religiosa, ossia fondata sulla credenza in quella essenziale distinzione, la quale, proprio sulla base di quella stessa fede, si stabilisce come “razionale”, cioè vera secondo ragione. Ciò vuol dire che il razionalismo, che attribuisce valore di verità ai fondamenti di ragione, è essenzialmente una fede religiosa, una religione che crede nella verità della ragione. Rispetto alla religione tradizionale, di natura

“Chi non ha interessi per la vita e la storia religiosa […], non può rendersi realmente conto della struttura della storia europea, nella quale questo elemento ha tanta importanza (in senso negativo come in senso positivo)”. D. Cantimori

1. Dai tempi del Rinascimento la presenza culturale italiana in Europa aveva dovuto cedere il passo a movimenti quali l’Illuminismo e il Romanticismo, che erano fioriti e si erano sviluppati con successo, quali movimenti universalistici, fuori dell’Italia. Dopo l’unificazione nazionale, con la nuova posizione politica che l’Italia aveva acquistato, poteva tornare a pensarsi la possibilità di un “primato” ideale della cultura italiana proprio a opera del neo-idealismo, che in Croce e in Gentile si proponeva di portare alla sintesi del loro più maturo compimento le maggiori correnti di pensiero moderne. Nondimeno, per quanto l’inveramento idealistico del razionalismo moderno ne correggesse il carattere astrattamente anti-religioso, era inevitabile che la sua essenza critica privilegiasse la natura anti-dogmatica del pensiero della metafisica tradizionale, anche se rimaneva difficile per un’impostazione teoretica dichiaratamente storicistica rimuovere dalla tradizione italiana il peso e la persistente presenza, non solo istituzionale ma latamente culturale, della Chiesa e della sua tradizione teologica. Al fine di delineare un processo ideale che coniugasse l’origine comune moderna, che appunto nel Rinascimento trovava i suoi più significativi referenti intellettuali, con l’originalità nazionale di un pensiero che si definiva anch’esso moderno ma non era assimilabile alla pretta tradizione razionalistica di marca illuministico-positivistica, la ricostruzione neoidealistica della cultura moderna europea doveva far leva sul doppio registro di una versione critica che si contrapponeva più o meno consapevolmente alla versione comune, ella quale si faceva rientrare la tradizione teologico-dogmatica patrocinata dalla Chiesa cattolica. Ma questa impostazione dualistica della cultura presentava delle difficoltà, o palesi contraddizioni, che con il corso sempre più politicizzato della storia intellettuale europea, finirono per rivelarsi inestricabili. 48


personale, la nuova fede razionalistica crede in una entità oggettiva, la Ragione appunto, che, diversamente dal Dio biblico, presiede la struttura del mondo non in termini volitivi e arbitrarii, ma oggettivi e, per così dire, legislativi, immanenti a ogni realtà, umana quanto naturale. L’esigenza di costituirsi come valore oggettivo, dà alla scienza moderna un carattere fondamentalmente monistico che induce anche le teorie più sensibili alla valorizzazione dell’aspetto spirituale su quello naturalistico dell’esperienza umana, come lo storicismo di Dilthey, a superare ogni distinzione tra spirito e natura a favore di una visione scientificamente unitaria dell’essere. Il motivo scientifico del sapere moderno, rispetto alla pregressa visione religiosa del mondo, non differisce sul piano della fede nel valore della verità, ma sul postulato che tale verità sia nient’altro che ragione, cioè scienza. Questo comporta che l’originaria dicotomia religiosa tra realtà sacra e realtà profana non costituisca la struttura ontologica dell’essere cosmico, ma solo la sua versione storicamente distorta, legata alla insufficiente coscienza umana, cioè alla scarsa incidenza della ragione sulle cose umane, le quali perciò devono correggersi in senso razionalistico per allinearsi al corretto processo universale del mondo. In questa prospettiva razionalistica, la credenza religiosa nella struttura tradizionalmente dicotomica dell’essere diventa una superstizione pre- o in-razionale, dalla quale la visione scientifica del mondo deve emendarsi a favore dell’umanità. L’idea di una progressiva ascensione della coscienza umana verso la piena consapevolezza del valore, viene sostituita dal’idea di una complessiva “rivoluzione” che determini un nuovo e definitivo corso mondiale dell’umanità, allineato alla verità della nuova fede razionalistica. E’ questo “desiderio di costruire un mondo che non sia soltanto un po’ migliore e più razionale del nostro, ma che sia assolutamente esente da ogni imperfezione”, che Popper chiama “estetismo”, consistente nell’ipotesi che sia realizzabile un nuovo corso umano informato a principii di assoluta razionalità, facendo dunque dell’uomo un creatore molto più sagace e lungimirante dello stesso Dio, che aveva lasciato nell’uomo disdicevoli tracce di imperfezione. Ma in cosa consiste idealmente questa “rivoluzione” scientifica del mondo umano? Essa consiste, come ormai è chiaro per chi ha seguito il nostro discorso, sulla definitiva e totale trasformazione del mondo profano in mondo sacro, superando l’antica distinzione, creduta superstiziosamente dalle menti religiose e pre-scientifiche di un tempo, tra il regno di Cesare e quello di Dio. Infatti, realizzando universalmente quel “passaggio” finora circoscritto ai momenti canonizzati del rito religioso, si può definitivamente eliminare l’errore dal mondo, il male che ha rinchiuso l’uomo nella caverna dei suoi pregiudizi religiosi, e inaugurare un nuovo corso di

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libertà e di felicità per il genere umano. Naturalmente, questa totale transvalutazione del sacro deve comportare l’abbandono di ogni ambito circoscritto di religiosità, tale che il nuovo senso religioso del mondo debba pervadere l’intera esperienza umana, ogni suo ambito di vita, individuale come collettiva, esistenziale come sociale. E’ questa fede nel “rispecchiamento” dell’ideale nel reale e nella sua assoluta e definitiva convertibilità a costituire la religione moderna dell’uomo nuovo, liberatosi finalmente del fardello oppiaceo delle tradizionali superstizioni dicotomiche. La nuova fede scientifica è dichiaratamente monistica, e perciò moralistica e politicamente assolutistica, non ammettendo la realtà di nessun residuo irrazionale del mondo. Questa nuova fede scientista si rendeva in qualche modo moralmente auspicabile e logicamente sostenibile sul presupposto della fondamentale stabilità degli equilibri politici tradizionali, il cui rivoluzionamento verticale a opera dei sommovimenti intellettuali che interessavano le sparute élites colte europee, non avrebbe presumibilmente compromesso l’assetto fondamentale della struttura sociale, basato sulla distinzione tra classi dirigenti e classi governate. Ma la logica monistica non poteva essere arrestata nemmeno sul terreno sociale, per cui anche sulle forme istituzionali l’unità universale produsse le sue teorie politiche egalitarie. Proprio in quanto fede religiosa nella ragione, il razionalismo aveva potenzialmente una portata universalistica ben più incisiva delle fedi tradizionali, perché, diversamente da queste, aveva scientemente rinunciato a salvare l’uomo per mezzo di una sua soggettiva conversione spirituale, intendendo invece salvare l’umanità, intervenendo non già sulle sempre labili e incerte disposizioni personali delle singole anime, ma sulle strutture collettive e sulle forme istituzionali della convivenza umana, ossia sugli stessi rapporti sociali, alla base dei quali si trovava il valore fondamentale della vita, intesa come sopravvivenza biologica. La sacralizzazione del mondo si rivelò sotto forma di apoteosi della profanità, al fondo della quale non c’era più, come essenza vitale dello spirito umano, l’anima, ma la forza nei rapporti sociali e la possibilità della sopravvivenza, ossia la politica ridotta ad economia. Non ci si avvide, in altri termini, che la frattura tra cultura critica e tradizione religiosa non passava sul solo crinale alle masse inattingibile della metafisica e della teologia, ma poteva raggiungeva, come in effetto raggiunse con la Rivoluzione francese, le stesse fondamenta morali che stavano alla base della legittimità delle strutture istituzionali della società, provocandone la dissoluzione. In questo senso, la questione filosofica assunse col razionalismo un risvolto morale legato non solo ai temi teorici della stabilità istituzionale ma ai processi reali della crisi delle forme giuridico-politiche della società tradizionale, per cui la frattura culturale del moderno


dal tradizionale si tradusse in una crisi che coinvolse entrambe le sue polarità, traducendo nei termini programmatici di una necessaria ricomposizione quanto sembrava originariamente una conquista di libertà d’azione e di pensiero. L’Illuminismo, rimasto nell’Italia meridionale, più tradizionalista e meno esposta alle vicende napoleoniche, soprattutto anelito di giustizia sociale e aspirazione puramente intellettualistico a un cambiamento della realtà storica, senza diventare supporto morale della prassi politica e concreta istanza di razionalizzazione della struttura istituzionale della società, si volse, a clima culturale mutato, in positivismo e in culto della scienza, ossia, come abbiamo visto, in una nuova forma di religiosità e di moralismo, che esasperò le contrapposizioni intellettuali e la reattività ideologica degli ambienti più colti e sensibili alla modernizzazione culturale, senza però quasi mai tradursi in concreta risoluzione politica, sicché la differenza tra aspirazioni razionalistiche e realtà culturale tradizionale si misurava a partire dalla distanza tra istanze morali di razionalizzazione sociale e concreta prassi di governo, ossia dalla incomunicabilità tra cultura e politica. La stessa reazione intellettuale alla cultura razionalistica da parte delle correnti neo-idealistiche, non opponendosi a realtà istituzionali ma solo a indirizzi di pensiero, risultava alquanto astratta e libresca, avendo per oggetto non il piano reale della concreta società nazionale ma il piano ideale della storia universale. La concretezza, o meglio il realismo, delle concezioni positivistiche e scientistiche della realtà sociale veniva dal neo-idealismo meridionale acquisito sotto la formula complessiva di uno storicismo spiritualistico che in Hegel trovava il suo esplicito referente teoretico, e nella sua metodologia dialettica l’alternativa polemica alla metafisica naturalistica e materialistica. L’esito di questo innesto filosofico fu duplice. Infatti, da un lato il pensiero di Croce cercò perennemente nel dialogo con Hegel il punto di equilibrio più avanzato di un pensiero che potesse conciliare nella sintesi storicistica sia il motivo universalistico del razionalismo moderno che l’insopprimibile istanza realistica dello scientismo positivistico, al fine di confutare a posteriori le ragioni teoretiche che avevano originato la scissione tra una sinistra materialista e una destra spiritualista entrambe hegeliane. Dall’altro lato, la lettura gentiliana di Hegel tese invece a depurare il metodo dialettico da ogni persistenza di realismo metafisico, portando alle estreme conseguenze idealistiche il soggettivismo moderno, che nella coscienza riflessiva concepiva l’unica vera realtà dell’essere come atto di pensiero. Le conseguenze pratiche di queste rispettive posizioni teoretiche furono anch’esse diversificate. In Croce il radicalismo delle posizioni culturali non trovava riscontro nelle concrete scelte politiche, dettate da più

immediati interessi sociali e da posizioni ideologiche di retroguardia, legate a un progetto di contenimento delle forme spirituali della storia moderna entro la cornice istituzionale dello Stato liberale, per cui le sue posizioni ideali, nell’orizzonte storico dello scenario etico-politico italiano, risultarono del tutto dissociate nella prassi dalle premesse asserite in sede teorica, e al caparbio rigorismo critico, sostenuto soprattutto in campo estetico, faceva riscontro un bonario lassismo politico, tutto volto a giustificare in sede storiografica posizioni ideologiche di parte difficilmente asseribili come sintesi del processo storico universale. Tale dissociazione tra teoria e prassi, sia pure trasformata nei termini di un complesso sistema razionalistico dello spirito, rappresentava una riedizione aggiornata della “doppia verità” della tradizionale morale cattolica, che nella limpida pagina crociana assumeva toni di ponderato realismo storico, fortemente critico di ogni anelito astrattamente rivoluzionario e palingenetico. Se appena consideriamo la ristrettezza ideologica della visuale crociana, che riusciva a trovare il suo focus politico nazionale nella mediocre figura di Giovanni Giolitti, la cui insensibilità istituzionale riuscì a dilapidare, con una prassi di governo che Salvemini definì “malavitosa”, il residuo patrimonio morale del Risorgimento, ispirando la reazione congiunta socialista, cattolica, democratica e nazionalistica, che infine spianò la strada al fascismo; se pensiamo dunque all’angolatura ristretta del perimetro ideologico crociano, ci rendiamo conto della sperequazione tra la pretesa teoretica del suo storicismo assoluto, e l’effettiva portata appena nazionale della sua incidenza intellettuale, la cui risonanza internazionale fu ben inferiore non solo ai maggiori scrittori italiani moderni, quali Machiavelli, Galileo e Vico, e ai filosofi europei suoi contemporanei, ma agli stessi più noti scrittori italiani del suo tempo, che hanno lasciato una traccia culturale ben più durevole di quella crociana sia all’interno del nostrano scenario intellettuale che a livello internazionale, europeo o mondiale. Una persistente traccia culturale, nondimeno, ha lasciato in Italia la filosofia crociana nel campo più strettamente storiografico, dove la teoria soggettivistica della “contemporaneità” ha stabilito un paradigma di storia etico-politica che, a partire dalla Storia d’Italia, ha sostituito alle forme istituzionali degli impersonali processi sociali e collettivi, canoni soggettivi di interpretazione ideologica della realtà, ripensata alla luce della personale posizione della coscienza nella società. Diversamente dalle ricostruzioni realistiche dei processi storici della politica, quale attività umana avente ad oggetto il potere sociale, che, secondo la lezione del Machiavelli, è una funzione oggettiva indipendente dalle concrete determinazioni morali dei soggetti coinvolti, la storia politica crociana rapporta

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romanticamente la realtà esterna al soggetto pensante alla soggettività della sua posizione nel mondo, secondando una vocazione squisitamente estetizzante cara a scrittori moderni come Rousseau e Chateaubriand e risalente al modello agostiniano. Croce corresse la sua originaria collocazione di codesta storiografia “sotto il concetto generale dell’arte”, ritenendo che la sua caratteristica distintiva dai rècit fantastici fosse la loro fedeltà al “principio di realtà”, ossia a quei “fatti” tanto esaltati dalla sociologia positivistica quanto esecrati dalla gnoseologia idealistica. In realtà, anche i “fatti” fenomenicamente accertati e veritieri, filologicamente documentabili nella loro fedele sequenza cronologica, una volta assunti nel loro valore significativo in quanto oggetto del pensiero attuale dello storico, rimettono la loro oggettività storica, temporalmente condizionata dal loro contesto istituzionale, a favore del referente categoriale che soggettivamente le pensa come atti del pensiero attuale, che trasforma la loro fattualità temporale in oggetto pensato in una eterna attualità. La soggettivazione romantica della storia, decentrando la realtà dalle forme sociali a quelle ideali, opera nello stesso senso estetizzante del razionalismo moderno, concependo però la metabasi del genere sacro a quello profano come operazione puramente ideale, in interiore homine, sulla falsariga del coscienzialismo cristiano. Questa eredità teologica del razionalismo critico e idealistico moderno costituisce il principale fattore di continuità culturale con la tradizionale antropologia religiosa, che verrà a perdersi a seguito della concezione del “passaggio” dal sacro al profano in termini di definitiva de-sacralizzazione del mondo. In termini assoluti, ogni monismo si equivale, determinandosi praticamente come violenza rivoluzionaria e teoreticamente come errore logico, ma, nondimeno, sul piano storico-effettuale, la differenza dell’impostazione soggettivisticoidealistica su quella oggettivistico-realistica consiste nella rispettiva direzione opposta del “passaggio” ontologico: la prima, vòlta a riportare la molteplice realtà profana del mondo all’unità soggettiva del pensiero sacro, indicato come il luogo dell’unica verità; la seconda, a riportare la unità dell’universo sacro nella molteplicità della realtà profana, le cui manifestazioni, essendo tutte desacralizzate, sono tutte rivestite di pari sacralità, facendo del mondo fenomenico, e non più del pensiero soggettivo ed esclusivo, il luogo della uniformità. L’uni-versalismo è appunto la condizione caratteristica del mondo disincantato del razionalismo moderno, così come il mono-teismo è la caratteristica della fede religiosa pensata come verità di ragione. Se in Croce l’istanza teoretica monistica del razionalismo moderno si coniugava – sia pure sincretisticamente – con la coscienza della irriducibile differenza ontologica tra la sfera del pensiero (sacro o

vero) e quella della prassi (molteplice e profana), alimentando la ricerca di una (im) possibile sintesi nell’ambito della poiesi spirituale del soggetto trascendentale, dando rilievo alla storicità dei prodotti fattuali del pensiero, anziché alla intemporalità degli atti della coscienza, in Gentile, la medesima istanza monistica si tradusse per ‘appunto in una teoresi coscienzialistica, la cui attività spirituale consisteva nella trasformazione di ogni dato “naturale”, cioè esterno alla coscienza attuale, in oggetto di quel pensiero attuale, secondo un moto ideale eternamente attualizzante del soggetto teoretico. Gentile porta alle estreme conseguenze logiche il razionalismo coscienzialistico di origine cartesiana, designando come unica realtà dell’essere l’atto del pensiero che lo pensa come suo oggetto attuale. Tenendo presente il movimento fondamentale del razionalismo moderno, consistente come sappiamo nel “passaggio” universale del mondo sacro in quello profano, è Gentile a pensare in termini idealisticamente più radicali tale metabasi, costituendo sul piano coscienzialistico del sacro ciò che Marx pensò sul piano prassi stico profano. In questo senso, Gentile fu un teorico della rivoluzione non inferiore a Marx, essendo la rivoluzione la realtà storica di quella teorica possibilità del “passaggio” ontologico universale. Vi è da aggiungere che la tensione religiosa alla “conversione” (metanoia) è una aspirazione tradizionalmente propiziata dalla grazia divina alle singole anime bendisposte. Il razionalismo, assumendola mondanamente come processo metodico universale della ragione che spiritualizza la natura, la emancipa da ogni finalismo teologico, storicizzandola, per così dire, nei termini di una emancipazione della coscienza dai limiti del determinismo cosmico e naturale. Il regno della ragione come “altro mondo”, quello umanizzato e artificiale dello spirito, diventa il programma universalistico di una religione secolare fondativa di una socialità de-sacralizzata, ovvero mondanamente profana. Il luogo della mediazione in cui si attua il “passaggio” ontologico era tradizionalmente la Chiesa coi suoi riti di passaggio canonizzati, aboliti dalla Riforma e consegnati individualmente alla coscienza e collettivamente alla libera comunità confessionale. La secolarizzazione del motivo religioso, mondanizzando il fine escatologico in redenzione storico-sociale, ha fatto del potere politico il luogo reale della metabasi spirituale e del demiurgo legislatore sociale il surrogato mondano della volontà divina. Il rapporto emancipato della ragione dalla teologia, farebbe della filosofia, cioè del pensiero razionale, la guida metodologica della prassi politica secolaristicamente razionalizzata. Ma, avendo già la stessa filosofia mostrato la possibilità dello svincolamento della ragione dal suo fondamento epistemico, la pretesa di prenderne il posto in rapporto alla strumentalità della

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quale presupposto celava a sua volta l’ancestrale paura antropologica dell’insopprimibile lato oscuro dell’animo umano, che la ragione emancipata dalle formule semplificatrici e consolatorie della rivelazione era chiamata ad illuminare. Ragione e rivoluzione erano endiadi che esprimevano la stessa esigenza umanistica di conoscere e di dominare il mondo dopo il sacrilego parricidio teologico, che a suo modo, profano e secolaristico, realizzava il regno dell’età del Figlio. A seconda della prospettiva, coscienzialisticosoggettivistica ovvero sociologico-politica, in cui si poneva il razionalismo, la rivoluzione veniva concepita rispettivamente come trasformazione della natura in ente di pensiero o del pensiero in legge di natura. L’ipotesi idealistica che, in ogni caso, anche quello di natura fosse il concetto camuffato di materia, non considerava che la differenza tra la realtà nel senso del pensiero e la realtà naturale non consisteva nella formula del concetto, che era la stessa in entrambi i casi, ma bensì nei rispettivi contenuti concettuali, i quali, nel caso del pensiero, erano tutti interni al pensiero stesso come sue creazioni ideali che, al di là di ogni riscontro empirico conservavano un loro valore spirituale assoluto, teoretico; nel caso, invece, della realtà naturale, i presunti contenuti erano in realtà il contenente, poiché in questo caso era la coscienza soggettiva a doversi uniformare alle leggi universali ed oggettive del cosmo. Nella prospettiva idealistica, in cui si poneva la filosofia soggettivistica moderna, il pensiero è il creatore del suo essere, del suo oggetto ideale. Viceversa, nella prospettiva del realismo oggettivistico, in cui si poneva la scienza moderna come la teologia tradizionale, è il pensiero adattivo e partecipativo dell’essere cosmico, perciò la tensione tra scienza e filosofia verteva sostanzialmente nella questione se la libertà dell’uomo fosse la premessa di ogni considerazione razionale del mondo, ovvero fosse una deviazione irrazionalistica delle leggi cosmiche dovute alla umana natura lapsa. Il valore universale, insomma, di una virtù morale del genere umano, ovvero il segno della sua imperfezione antropologica rispetto alla compiutezza ideale della natura. Senza più l’autorità divina, quale forza morale poteva sostenere, a seconda della prospettiva, le ragioni dello spirito individuale ovvero quelle collettive della società, se non lo Stato? Lo Stato razionale moderno doveva dunque essere la realtà spirituale della rinnovata socialità umana, l’autentica comunità dello spirito razionale che prendeva il posto dell’antica Chiesa della fede teologica. Ma di quale razionalità si trattava?

politica divenne una profana illusione coltivata dai filosofi, ma non avallata dai politici. Nel moderno contesto secolarizzato, le ragioni del mondo rimanevano mondane e non ideali, per cui alla filosofia, per sopravvivere come scienza mondana, non restava che socializzarsi, cioè diventare ragione politica, ideologia. Il trapasso della filosofia da ragione del mondo a scienza delle ragioni mondane è breve, almeno quanto quello della conversione della filosofia della storia a metodologia della storiografia, ossia, in altri termini, a scienza della politica e a sociologia. Il carattere scientifico della ragione emancipata dai suoi fondamenti teologici è legato alla autofondazione della conoscenza razionale, ovvero dalla assolutezza dei suoi presupposti epistemologici, sicché la tradizionale differenza rispetto alla mera opinione (doxa) viene a cadere insieme alla pretesa della scienza di sostituirsi alla verità. La scienza moderna è solo una opinione metodicamente corretta, destinata anch’essa a essere smentita da altre opinioni provvisoriamente confutative. L’ideale platonico dello Stato filosofico si reggeva su quella pretesa, caduta la quale anche la filosofia diventava un orpello superfluo e un intralcio metodico alla piena libertà d’azione del demiurgo. Il suo esito come tecnica ella politica era dunque segnato, sicché la differenza tra il servire Dio e il servire Cesare si rivelò fatalmente iniqua per chi coltivasse ambizioni sacerdotali. Le vicende del neo-idealismo italiano restano in tal senso paradigmatiche, poiché se Croce volle essere la coscienza storica dello Stato liberale, Gentile coltivò il ruolo di coscienza ideale dello Stato fascista, inteso come compimento etico-politico della rivoluzione risorgimentale, ossia come lo stesso regno della ragione. L’attività critica di Croce fu quella di un “papa laico”, che presiede alla custodia dei sacri testi, rassegnato dalla consapevolezza dei limiti umani all’infinita correzione magistrale. L’opera di Gentile fu invece quella di un “profeta”, vocazionalmente dedito alla formazione pedagogica delle coscienze, per cui se quella di Croce era una “religione”, quella gentiliana era una “fede”, svincolata creativamente da quel metodo che costituiva la forza morale della chiesa crociana. Il suo insistente richiamo non solo terminologico a una “riforma” filosofica, assumeva consapevolmente il programma di una rinascita spirituale della vita nazionale alla quale lo Stato era chiamato ai suoi compiti etici. Come Durkheim per la Francia dell’altro secolo, anche il filosofo italiano concepì una forma di socialità che rispondesse ai bisogni spirituali del suo tempo. Le due vicende intellettuali, pur culturalmente ben distinte, tuttavia hanno in comune il presupposto religioso di un destino metafisico dell’uomo, sia pure declinato nei termini opposti della socialità e della coscienzialità, il

2. Secondo Schumpeter anche in Platone e Aristotile il quadro generale dell’economia politica appare oltremodo povero e soprattutto “prescientifico”, vale a dire non si distingue nettamente dal punto di vista del

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“Razionale” dunque, sia nel senso della “spiegazione” dell’agire sociale che in quello della “relazione” causale che nel senso del “fine sociale”.

profano di tutti i tempi [in quanto] le correlazioni tra fenomeni economici non sono affatto considerate [in se stesse ma] il giudizio che viene espresso intorno a singole funzioni economiche riflette il puto di vista di una aristocrazia manifestamente orientata in senso agrario, in contrapposizione a un ceto commerciale che si sforza di farsi avanti1.

Di per sé questi tre significati del termine “razionalistico” non hanno tra loro un menomo rapporto [e] sino al secolo XVIII ca., e cioè sino al risorgere della storiografia, queste diverse [accezioni] confluissero genericamente negli spiriti6.

Ciò vuol dire, in altri termini, che l’essenza economica non venne considerata distinta astrattamente dai reali processi storici della sua manifestazione sociale, la cui “scientificità” è relativa appunto al grado di astrazione da essi. Viceversa, il grado di immedesimazione dei processi economici coi generali processi sociali, facevano dell’economia, se non una “scienza”, almeno una realtà concretamente riferibile alle dinamiche socio-politiche da cui essa storicamente difendeva. Ed esattamente questa sua dimensione “pre-scientifica” rendeva l’economia una branca della filosofia, e segnatamente della filosofia sociale o politica o morale. Aristotile per primo distinse un “valori di uso” da uno “di scambio”, facendo di quest’ultimo l’oggetto di “una teoria dell’economia di mercato”, ossia della “crematistica”, fondata sul “bisogno” soggettivamente inteso, facendo così del denaro il “mezzo di scambio e [la] misura dei valori” espresso in moneta, al quale collegò il valore del bene2. Lo stesso Aristotile distinse “il denaro dalla ricchezza”, formulando un concetto di “capitale” valido ancora oggi. Egli inoltre “ha messo le basi di una sociologia” intraprendendo una “lotta contro l’individualismo” a favore di una “teoria della socievolezza della collettività, che ritroviamo pienamente sviluppata in Grozio” 3, ma la cui influenza resterà sino oltre la scolastica e ancora in Marx e in Ricardo4. Circa la scolastica, la sua tendenza “speculativa”, contrapposta “ai modi di vedere di popoli e di uomini della prassi”, proprio in materia economica non si rivela molto attinente alla correlazione che di solito si stabiliva tra i “casi”, la casistica, e le “ricerche positive”, delle quali essi, spesso sotto forma di “precetti religiosi”, non erano che “la forma esteriore”5. Col Rinascimento e la Riforma, “Stato e società apparvero sotto punti di vista nuovi”, anche se, in generale, “questa epoca non rinnega la continuità storica con la scolastica”, soprattutto sul terreno del pensiero formale. Ciò che “possiamo dire” è che

La spiegazione razionale distingueva due livelli di approccio, uno di carattere individualistico e relativo alla “razionalità degli operatori”, attraverso la quale spiegare la razionalità dell’agire sciale; l’altro, di ordine universale e relativo alla struttura sociale, ritenuta immutabile, il cui valore conforme a ragione riflette la mentalità umana, per cui La legge dell’agire, in quanto defluisce dalla natura di quella mentalità, e quindi anche la sua creatura, cioè il mondo sociale, sono in certo senso immutabili. Qui sta l’origine dell’individualismo nella scienza e anche della concezione di uno stato normale, generale della società, e non importa che questo stato non esista di già, sia anzi, appunto perciò, da realizzare7.

La corrispondenza tra la logica dell’azione individuale e l’ordine universale della coscienza umana non è un dato naturale, empiricamente rilevabile, ma un postulato di fede, una credenza, che ha consentito al razionalismo moderno di surrogare l’ordine teologicoreligioso, fondato sulla verità della creazione di un cosmo avente in sé un fine trascendente le singole azioni naturali e umane, con un ordine naturalistico oggettivo, modello dei comportamenti umani, individuali e sociali. Rispetto al modello classico, l’ordinamento cristiano contemplava la libertà dell’agire non-conforme alla verità di fede, ma non perciò meno razionale secondo fini allotrii. Viceversa, l’ordine cosmologico scientifico misura nel grado di conformità al modello razionalistico il valore razionale dell’agire umano e sociale, sicché sono le ragioni obiettive e immutabili a costituire il senso del valore, e non i fini individuali e sociali. Su questa premessa si può dedurre un ordine necessario indipendente dalla volontà e dai fini dei singoli operatori e dalla stessa necessità della convivenza sociale. Il creazionismo, liberando l’agire dall’oggettività del giudizio naturalistico, lo destina a una validità conforme al fine soggettivo, e quindi alla libertà. Il naturalismo, di contro, fondando sulla conformità al modello universale e oggettivo il suo giudizio di razionalità circa l’agire umano, costruisce la vita sociale come il riflesso dell’ordine naturale immutabile e fatale. Lo scientismo appartiene al razionalismo scientistico, moderno fatalismo. Schumpeter sottovaluta la questione teologica ritenendo che il discrimine razionalistico sia nella soppressione del motivo soprannaturale. Non si avvede che la questione essenziale sta nella soggettività od oggettività del

Il mondo sociale, considerato dagli antichi nella sua essenza come un segreto o accettato come una realtà evidente di per se stesso, appariva [modernamente] come un problema afferrabile con mezzi conoscitivi naturali (in contrapposizione a quelli soprannaturali), che potevano ottenersi mediante l’osservazione e l’analisi di dati sperimentali. Si cercò pertanto di attuare metodicamente questa razionalizzazione del mondo sociale – nel senso cioè di una comprensione razionale mercé la relazione di causa ed effetto – sottoponendo ad analisi i motivi “razionali” dell’agire umano, da cui manifestamente derivano i fatti sociali, e cioè dichiarando razionali determinate finalità sociali.

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giudizio di valore, ossia nella disponibilità o meno della coscienza umana a valutare la misura del bene e del male in riferimento al senso della propria concezione del mondo, ovvero alla indisponibilità in riferimento a un ordine immutabile ed eterno,rispetto al quale il comportamento umano è razionale nella misura della sua relativa conformità. L’individualismo scientistico non è la misura del valore razionale, ma il riscontro effettuale ed empirico della sua corrispondenza, per cui la scientificità di un modello razionale è indipendente da ogni giudizio soggettivo e sociale di valore, e quindi astratto da ogni rapporto “pre-scientifico”. L’individualismo, nell’accezione scientistica, è l’opposto del soggettivismo, per cui “normale” in senso della ragione scientifica equivale a “conforme” al modello di razionalità stabilito dalla cognizione scientifica della realtà, ossia dalla ipotesi congetturale ritenuta generalmente valida. Il moderno naturalismo è una fede nella validità, sia pure momentanea, della ragione, e quindi nel metodo della sua invalidazione. La fede in un metodo è quanto di più arbitrario possa concepirsi, in quanto ne conferma i criteri anche a seguito della scelta pascaliana delle sue ipotesi. Poiché la fede nel metodo coincide con la fede nei suoi risultati, la mutabilità di questi dovrebbe rendere opinabile quello, il metodo, che invece viene confermato nei suoi criteri di perfettibilità. Ed è questo fondamento fideistico, che dissocia la relatività dei risultati dalla validità dei fondamenti della ricerca, a fare della scienza una religiosa superstizione e nei suoi metodi invalidanti una metodica sofistica. Come ha ricordato R. Lenoble L’uomo del Medioevo e del Rinascimento vive in una natura fatta di “forme” e di “sostanze” che accolgono in sé delle “qualità” (il rosso, il blu, il caldo, il freddo, l’umido, etc.) le cui combinazioni formano e spiegano la diversità delle cose. Questa natura, inoltre, è gerarchizzata secondo una connessione di forme disposte per gradi, dalle più contingenti fino al bene supremo. Si tratta, insomma, d’una natura che realizza un ordine pressoché adeguato ai nostri bisogni. L’uomo del Seicento, invece, si abitua a vivere in un mondo di “fenomeni” scientificamente definiti – se non compresi nella sostanza – da misurare quantitativamente; un mondo che non è più esattamente su misura per noi e che segue leggi indipendenti dai nostri desideri. Sia in un sistema che nell’altro la scienza è adeguata alla natura che intende conoscere: da un lato la “fisica qualitativa”, che per spiegare deve risalire dai dati empirici agli eterni princìpi, dall’altro la “fisica quantitativa” che, proprio in quanto tale, pensa d’aver dato sufficienti spiegazioni una volta trovate le leggi. Quindi, ed è facile capirlo, il passaggio da un tipo di natura, o di scienza, all’altro, presuppone un mutamento “in profondità” della mentalità scientifica e della mentalità tout court. In realtà il rinnovamento scientifico del secolo XVII non è che uno degli aspetti d’una avventura ben più vasta quale può essere un’avventura umana. Anzitutto, va considerato come una vera e propria crisi d’estroversione; l’uomo, cioè, evade dal mondo finito e adeguato ai suoi bisogni, per affrontare un universo infinito, o quanto meno “indefinito”, in cui le cose seguono dei meccanismi senz’anima, andando non si sa bene dove. D’altra parte la fine della natura gerarchizzata o, in altre

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parole, l’effettiva “democratizzazione dei fenomeni” assume – e lo prenderà nettamente nel Settecento – un aspetto politico che non è possibile trascurare8.

Il passaggio successivo da un cosmo qualitativamente gerarchizzato e contemplato, a un caos controllato e progressivamente regolato, è relativo non tanto a questioni epistemologiche, quali ad es. l’abbandono del metodo pascaliano e l’acquisizione di quello empirico-razionale, o l’abbandono della conoscenza a priori a favore della conoscenza per causas riferita a Bacone; quel passaggio segna infatti due distinte visioni della vita e relative concezioni antropologiche. Infatti, “il Medioevo conservò la distinzione tra attività servili e liberali” ereditata dalla cultura classica, per la quale “l’arte – cioè la tecnica – sta al di sotto della scienza, tanto quanto l’artigiano rispetto all’uomo libero” 9. La ricerca di laboratorio fino al sec. XVII era frustrata dal “tabù del naturale”, che credeva impossibile imitare per arte, cioè artificialmente, per “combinazione meccanica, i veri modi di costituirsi della natura” 10. La stessa “scienza empirica”, basata sull’osservazione, “dove non è rispettato alcun principio certo […] è subordinata a una scienza più alta, a una astronomia fisica (cosmologia) che si richiama, questa sì, a princìpi razionali certi e fondati sull’esperienza [la quale] scienza dei princìpi [è] la sola che meriti il nome di fisica, [ed è] superiore ai laboriosi tentativi dei matematici”, ossia al “lavoro dell’artigiano”. Infatti, all’epoca di Cartesio “la matematica è ancora relegata entro i confini della fisica, come passatempo”, ed egli pertanto “si meravigliava che su un fondamento solido come la matematica non sia stato costruito nulla di serio” 11. La logica matematica non ha sensibilizzato solo soggettivamente la vita moderna, ma, a prescindere dalla singola capacità di dominarla per cognizione diretta, ha informato la vita sociale in cui i singoli si trovano a vivere, sottomettendo al rigore dei modi di ragionare matematici le categorie e le abitudini mentali. L’esperienza del dotto privo di strumenti ottici ulteriori alla nuda vista, delega ai sensi l’osservazione che sta alla base della sua interpretazione dei fenomeni naturali. “Soltanto il microscopio e il calcolo hanno rivelato questo aldilà empirico della percezione”, per cui lo stesso dotto, evitando di andare oltre quanto sia “ragionevole e conforme all’esperienza”, giudica su quella base empirica dei sensi la natura delle cose “ut sunt in se”, e “non ha alcun motivo ragionevole per mettere in dubbio questa identità tra percezione e cosa”, soddisfacendo il suo naturale bisogno di sicurezza che gli impedirebbe di “vivere in un universo troppo misterioso” 12. Anche in questo caso, la “visione” del mondo, legata all’esperienza e quindi alla sua conferma tradizionale, lega la sua sicurezza metafisica all’identità rassicurante dell’Essere all’ente, che la nuova fede


mitica della scienza conferma al posto o accanto dell’antica religione. Fare della scienza significa “comprendere il dato organizzandolo”, sicché l’uomo di scienza concepisce la composizione dei corpi in elementi semplici, secondo una costante rappresentativa di riduzione del molteplice al semplice che “denota uno di quei desideri a priori dello spirito, senza i quali la scienza non sarebbe neppure in grado di cominciare” 13. Ciò che cambia nella fisica moderna è la maniera di sistematizzare gli enti elementari. Nella fisica tradizionale, infatti, l’ordine veniva ottenuto “mediante la descrizione e la classificazione”, anzitutto delle “essenze”, le quali definiscono “un ordine reale delle cose che non deve essere per forza quello che appare al senso comune o alla percezione immediata” 14. La “quiddità” dei classici (Aristotile e seguaci medievali) è il nome che trasforma la rappresentazione singolare in generale, in una sostanza, una essenza, diversa dalla semplice occasionale esistenza, dal puro dato sensibile. La cosa, l’ente, diventa così l’incarnazione di una idea nella realtà, “quindi una natura”, che consente la sua conoscenza scientifica, cioè del “generale”, a cominciare dallo “stabilire delle nomenclature e dei lessici”, senza i quali non è possibile alcuna concettualizzazione. Ma la classificazione dell’entità pascaliana attraverso

come un “ordinamento di forme sensibili”, estendendo “a tutta intera la scienza un tipo di spiegazione ispirato a una biologia ancora piena di finalismo e di estetica”, dove la teoria delle “quattro cause” trovava la sua genesi, ossia il “ciò per cui” una specie realizza la propria forma e la natura un certo tipo, alla stregua di un artista. E così come uno scultore dà forma alla materia con la causa efficiente del martello, “la natura produce un essere vivente mediante le quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale” 17. Torna in Aristotile la dicotomia tra azione naturale autonoma e azione umana eteronoma già rilevata da Platone come caratteristica della produzione divina rispetto a quella umana, nei termini qui aggiornati dell’analogia della connessione organica tra la causalità naturale e la generazione biologica, assimilate in qualche modo alla creazione estetica. Per l’anti-atomista Aristotile, “ogni corpo, considerato in un dato momento, è composto di materia e forma; questi due princìpi bastano a spiegare il suo stato presente” 18. Il movimento è il fondamento della fisica aristotelica, per cui la relativa teoria distingue i movimenti in naturali e violenti. Poiché fino al sec. XVI la natura era pensata come un “immenso essere vivente”, la sua è una teoria biologica del movimento, distinto in “moto qualitativo” e “quantitativo” o “locale”, il quale ultimo

l’identificazione per lo meno metodologica della nozione (d’ordine sociale) di quiddità con il concetto (metafisico, oltre che fisico) di essenza, comportava un rischio evidente. Aristotele fa appello al criterio sociale: [la cosa] “è” in se stessa quello che abitualmente si dice essere una [cosa determinata con quel nome]. Orbene, chi ci assicura che questo taglio netto introdotto in natura per soddisfare le nostre impressioni sensibili e le necessità sociali, corrisponde alla realtà? 15

È il mezzo per realizzare un superiore ordine della natura. Perciò, nel caso d’una ghianda che diventa quercia, la sua crescita si spiega con la sostituzione della forma della ghianda con quella della quercia: è l’individuo completamente formato che è ragione del seme, non viceversa [per cui] per Aristotele la ghianda diventa quercia allo stesso modo in cui il grave cade e il leggero sale: essi cercano di ritrovare il loro luogo naturale, centro della terra o sfera della luna. Ogni moto violento è come una ferita che la natura si affretta a rimarginare. Ed è ancora per questa ragione che la natura – nel suo ideale di coesione – tende a riempire il vuoto il più rapidamente possibile 19.

Fuori della credibilità dell’osservatore dei “tipi di struttura”, la ricerca delle “essenze” nel linguaggio rischia di trasformare “la scienza a logomachia”, arrestando l’osservazione dei fatti a favore della speculazione delle essenze, per cui “conferendo il primato al concetto sociale fu garantito il primato dell’homo loquax sull’homo sapiens.16 Dal punto di vista della metafisica platonica, che pure costituiva il terreno di coltura filosofico dell’aristotelismo, il naturalismo di questo si rivela un regresso teoretico, fondando la conoscenza scientifica del mondo sull’esperienza comune, ossia su quel sapere socializzato confermato dalla tradizione che la logica dialettica si era premurata di confutare a favore di una cosmologia fondata su verità a priori. Ma l’esito empiristico della metafisica aristotelica era inscritto nella stessa identità ontologica di Essere ed ente che caratterizzava l’astratto monismo idealistico di Platone, che il suo erede filosofico aveva conservato, riflettendolo nel suo opposto astratto materialismo immanentistico. Aristotile infatti concepiva la strutturazione scientifica del mondo

Ma se questa teoria ha una sua plausibile giustificazione in biologia, dove “ha ancora un senso”, la sua “estensione alla fisica è da molto tempo un anacronismo”, anche se spiegabile con la ricerca “d’un intimo ordine della natura”, che è andato perduto a seguito della de-mitizzazione razionalistica. Lo stesso fenomeno antico lo possiamo riscontrare nell’età moderna, quando la crisi della cosmologia teologica cristiana provoca il criticismo razionalistico e il suo bisogno d’ordine, trasferito questa volta nell’orizzonte della Storia, in cui l’originario “movimento” naturalistico diventa la “dialettica” spirituale, le “quattro cause” diventano le universali categorie dello Spirito e la dinamica forma-contenuto l’espressione sintetica del modello creativo della poiesi artistica. Alla base di questa analogia, che attraversa sia le forme idealistiche che quelle realistiche di rappresentazione filosofica del mondo, c’è il medesimo assunto ontologico monistico, il cui principio di identità di Essere e di pensiero (come Idea

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spiegazione, si verrà affermando lentamente, nel corso dei secoli, la tesi fondamentale della dinamica moderna22.

o come Natura) si riflette come idealizzazione della realtà finita e quindi divinizzazione del mondo umano. La necessità di un ordine universale guida ogni ricerca scientifica, le cui congetture teoriche sono immagini cosmiche a priori che vanno empiricamente verificate. Ipotesi funzionali ai bisogni dell’agire umano in un mondo altro da sé, dalla sua coscienza, e che va dunque riportato in termini che la coscienza possa comprendere, e così riconciliarsi con la realtà suscitatrice di thàuma. “Finché le condizioni tecniche e mentali rimasero le stesse, [la fisica qualitativa] rimase la fisica comune”, legata alle condizioni dell’uso dei cinque sensi e della percezione non strumentale della natura.

Per Platone lo scienziato doveva diffidare dei dati sensibili, mentre per Aristotile bisognava partire da essi quando il ragionamento matematico non riuscisse sufficientemente esplicativo. In ogni caso, la prevalenza andava accordata al ragionamento, essendo i dati sensibili utili tutt’al più per rivelare l’accidentale23. Aristotile cambiò in parte idea sull’importanza dell’osservazione studiando gli animali, fino a giungere a ritenerla essenziale per la conoscenza scientifica in relazione all’importanza dei fenomeni concomitanti il fatto studiato, osservabili coi sensi e non tratti dal ragionamento. Solo però con Stratone di Lampsaco si introdusse nella scuola peripatetica la pratica sperimentale come normale procedimento metodologico, destinato a completare l’osservazione dei fatti naturali. Per cui, i fenomeni concomitanti avevano per lui la stessa importanza attribuita da Aristotile sia se osservati in natura che riprodotti sperimentalmente. Ma la scuola aristotelica non ben comprese le nuove teorie dei maestri come Teofrasto e Stratone, e le trascurò fino a tutto il Medioevo, “finché solo nel Rinascimento il metodo […] ripreso da quanti si crederanno e si diranno anti-aristotelici, darà tutti i suoi frutti” 24.

Essa giungerà invariata in pieno Cinquecento, quando Bacone starà ancora a subordinare la ricerca delle cause alle speculazioni sulla forma, e alle soglie del Seicento, quando lo stesso Galileo non si sarà ancora liberato completamente da una concezione qualitativa del moto20.

Il passaggio dalla potenza all’atto era legato all’azione di una causa formale su una causa materiale. I quattro elementi fondamentali (fuoco, aria, acqua, terra) sono il risultato dell’azione di quattro qualità fondamentali (caldo, freddo, secco, umido) sulla “materia prima”. Scartate le combinazioni impossibili (caldo-freddo, secco-umido), era possibile trasmutare un elemento in un altro sostituendo una delle qualità formatrici con quella contraria, oppure tramite un elemento intermedio. Oltre ai quattro elementi, ci sarebbe un quinto, “l’etere”, sostanza incorruttibile ed eterna dei corpi celesti. Oltre che per la rispettiva materia, il mondo celeste e quello sub-lunare si differenziano per i diversi oro movimenti “naturali”; circolare, quello celeste, e verticale (alto-basso e viceversa) quello terrestre. Il mondo sub-lunare è costituito da “luoghi naturali” ognuno dei quali atto ad accogliere uno dei quattro elementi, per cui “se ogni elemento raggiungesse definitivamente il suo luogo naturale, tutto sarebbe in stato di quiete, ma impedito dalle combinazioni con altri elementi ai quali è soggetto, esso tende costantemente a raggiungere il suo luogo naturale nella misura in cui le circostanze non l’ostacolano: di qui il movimento dall’alto in basso e dal basso in alto”, in relazione alle rispettive entità di peso che in ordine decrescente vanno a costituire le rispettive sfere concentriche che dalla sfera celeste più lontana giunge fino a quella mondana21. Di tutta la fisica, la dinamica è quella che lasciò più tracce nelle teorie scientifiche posteriori, con un “influsso non solo più nocivo ma anche più dispotico”.

3. A partire da Aristotile, “ragione significa capacità di conoscere”, da ciò la necessità di descrivere “il complesso dei princìpi e dei procedimenti che gli consentono di costruire la scienza del proprio tempo”. Quella di Aristotele è soprattutto classificazione, che utilizza uno “strumento meraviglioso per mettere ordine nei concetti”, il sillogismo. Poiché ragionare significa fare scienza, e fare scienza filosofare, è del tutto naturale che il sillogismo si trovi definito come il tipo stesso del ragionamento. Anzi, proprio in quanto ordina le idee esso “dimostra”. La dottrina aristotelica della prova, cioè del meccanismo caratteristico della dimostrazione scientifica, è una naturale derivazione del sistema [contro cui] combatterono tutti i novatori del Seicento25.

Cosa intendeva Aristotile per “dimostrazione scientifica”? Oggi parlare di dimostrazione in senso scientifico rigoroso è riferirsi alla prova matematica,ma questa “non ha alcun senso nella fisica aristotelica”, per la quale “la stessa dimostrazione geometrica è una classificazione”. Ciò comporta che per Aristotele “la prova è il sillogismo della necessità”, nel senso che “essa tien conto soltanto di premesse necessarie il cui contrario è un assurdo”. I princìpi necessari sono tratti dall’esperienza evidente e da verità di fatto ottenute per induzione. Ma

Essa consiste nella tesi di fondo dell’impossibilità dei corpi inanimati di muoversi senza l’intervento esterno e costante di un motore, ne consegue, tra l’altro, che un corpo scagliato con violenza persiste nel suo moto forzato solo se l’aria che ha dietro di sé, messa in moto dal primo impulso, continui a spingerlo nella direzione data. Proprio in reazione a questa

è qui che scopriamo il terribile equivoco nato dalla confusione tra convenzione sociale e natura, tra quiddità ed essenza: tutti

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quanti ‘dicono’ (e sanno) che la neve è bianca, quindi è proprio dell’essenza della neve l’esser bianca, dunque della neve rosa sarebbe una assurdità26.

della visione postuma, la quale, peraltro, per affermarsi deve confutare i luoghi comuni radicati dalle precedenti visioni razionali.

Nel classificare i concetti nei sillogismi si dimostra il rapporto di causa come produzione obiettiva operata dalla stessa natura, causa che viene assunta come l’idea che ne designa l’essere o la natura della cosa o del fenomeno. La credenza nella causalità dell’idea è un residuo di magismo del quale Aristotile non seppe liberarsi, per cui il sillogismo diventa la descrizione del rapporto ritenuto necessario tra concatenazione dei concetti e ordine delle cause naturali. La metafisica della natura aristotelica “è ricalcata sopra la sintassi della frase greca”, sulla sua analisi “logica”, basata sul convincimento che “le parole siano pensiero e che il pensiero sia l’ordine della parola”. Nondimeno, “la tentazione di identificare scienza e linguaggio era destinata a porre una pesante ipoteca sull’avvenire”. A cominciare dalla questione religiosa. In quale luogo è da collocare Dio? Nella natura, come proponeva Averroè, ovvero fuori di essa, come prevalse negli scolastici, più fedeli al dettato di Aristotele che nella Fisica parla di “Primo Motore”, distinto dal mondo al quale pure imprime il movimento? In Aristotile convergono sia la concezione della dinamica possibile a un Greco del IV secolo, e sia l’idea religiosa di origine platonica sul valore del Pensiero e dell’Amore che verrà ereditata dal Cristianesimo e dall’età moderna, Kant incluso, fino a Hegel. Il rapporto tra fisica e teologia fu complicato dal fatto che “ai principali libri in cui parlava di teologia fosse affibbiato, per caso, il termine equivoco e a lui sconosciuto di metafisica”, quasi a sottolineare cartesianamente che “l’idea di Dio ci proviene dalla mente e non dalle cose” 27. Ma anche il risvolto politico è riconducibile all’immagine greca della natura come cosmo strutturato gerarchicamente, di cui la città è il riflesso ideale. Vale, però, anche il rapporto inverso, per cui può ipotizzarsi che Aristotile “cominciasse col costruire la natura a immagine della città”, affermando “per via matematica” che “l’aristocrazia è la migliore forma di governo, perché la proporzione armonica che la simboleggia è più perfetta della proporzione aritmetica e geometrica, le quali, a loro volta, rappresentano rispettivamente la democrazia e la monarchia” 28. Questi ideali rispecchiamenti, derivati da Platone, perverranno al Medioevo tramite Boezio per ripresentarsi agli autori dei secoli XVI e XVII. Le relazioni di causa ed effetto stabilite nei ragionamenti scientifici del tempo, riflettono “l’antico sogno che ha sempre sedotto l’uomo e che ancora non cessa di sedurlo: la dimostrazione scientifica, fondata sullo studio della natura, dell’eccellenza d’una politica e di una morale” 29. Ovviamente ogni tempo e ambiente culturale ha coltivato una sua logica del ragionamento, cioè una sua scienza, per cui non sarebbe avveduto stigmatizzarla in considerazione

Una scienza nuova, anche se vittoriosa una volta per tutte sul terreno della tecnica, dovrà poi scontrarsi con tutta una serie di temi politici e sociali impegnati paradossalmente nel dibattito, tanto da assumere un aspetto “rivoluzionario” nel vero senso della parola. Di fatto, a partire dal sec. XVIII, l’antica cosmologia, proprio per la politica gerarchica autoritaria che comportava, riuscirà a compromettere lo stesso cristianesimo, tanto che i philosophes ingaggeranno battaglia più contro la prima che contro quest’ultimo30.

La rivoluzione scientifica del sec. XVI coinvolgerà dunque “tutto un mondo” di valori, abitudini, certezze e istituzioni, che ne verrà scardinato e violato. Lo stesso “cosmo tolemaico, che poi divenne il sistema classico, è geometrico come quello di Aristotele, ma è molto diverso”. Pur nella diversità e correzione di molti punti del sistema da parte di seguaci e critici, nondimeno il rinnovamento scientifico si presenta come un confronto con quel sistema, essendo “la ragione dello Stagirita quella che resiste al totale rinnovamento dei principi della scienza, e contro di essa combatteranno innovatori come Bacone, Galileo, Gassendi e Cartesio” 31. Infatti, l’aristotelismo del Seicento rappresenta pressoché l’unica coerente sistematizzazione dell’esperienza, in un’epoca in cui la tecnica ignora l’esistenza degli strumenti e del calcolo. Nel secolo XIII essa costituì un primo Rinascimento, un’attenzione tesa maggiormente al mondo e alla diversità dei fenomeni. Nonostante i numerosi e parziali tentativi, era quanto di meglio si potesse trarre dalla fisica qualitativa, in un periodo in cui s’imponeva a tutti, [senza contare che] le tendenze eticopolitiche che questa scienza aveva cristallizzato la superano di molto in ampiezza e la terranno in vita fintantoché sussisteranno.

Sia pure in un contesto ideologico mutato dalla sensibilità cristiana, “la scienza aristotelica finalmente offre il quadro di una natura in cui tutto concorre alla realizzazione di un ordine mediante l’amore” 32, sicché la revisione complessiva della scienza nel sec. XVII comporterà la revisione dei valori che essa aveva ispirato o suggellato, ossia la definizione di una nuova natura composta non più di forme gerarchizzate, ma di fenomeni tra loro equivalenti, [così come la] costituzione su nuove basi della ragione concepita più come modo di pensare di un matematico che di un biologo antico, e un rinnovato sforzo critico per abituare la sensibilità a moderare i propri desideri, a ricercare nell’animo quelli che, come l’amore, possano assumere un significato razionale e, in ogni caso, a non più verniciare con essi i fenomeni scientifici. Una scienza nova, significava creazione di un mondo nuovo33.

Il rinnovamento teoretico passava attraverso un duplice confronto che la leggibilità scientifica della natura apriva sia nei confronti del mondo artificiale dell’uomo che nei confronti della realtà sopranaturale,

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la cui incidenza è inversamente proporzionale a quella delle leggi matematiche. Naturale nella accezione aristotelica era quanto avesse un riscontro empirico comune, ossia gli eventi consuetudinarii, in rapporto ai quali si misurano quelli eccezionali (thaumata), che “non si vedono abitualmente” e che sono causati dal potere non meno portentoso del “taumaturgo”, l’arte del quale è al displuvio tra l’invenzione e la stregoneria, che vengono designate con la stessa parola: “magia” 34. Quelli che provano a rinnegarla per tenersi ben saldi alla natura, finiscono per farsene un’idea assai ridicola. Anche oro infatti vogliono produrre dei prodigi, solo che li mettono in conto alla natura. Questo è il vero dramma del Rinascimento. Tutti costoro hanno avuto un’inclinazione, un amore per la natura prima che si riuscisse a sapere che cosa fosse. Proprio perché l’amano, hanno la chiara sensazione ch’essa non rientri tutta intera nelle classificazioni e nei concetti scolastici, ma siccome non la conoscono, le attribuiscono le forme stesse del loro entusiasmo, tanto da renderla capricciosa e fantastica35.

Il discrimine tra “fatto” e “immaginazione” passava attraverso un giudizio di realtà, ma esso trovava la sua legittimazione logica nella fede ontologica che lo legittimava razionalmente, sicché, pur nella presa di distanza dai concetti aristotelici di scienza che per tre secoli avevano imperato nel mondo della cultura, sia quelli che si rifacevano ad Aristotele (Pomponazzi, Telesio, scuola di Padova), sia quelli che lo criticavano (Paracelso, Campanella) finivano per rifluire tutti in una “concezione magica del mondo”, dove i “miracoli” degli angeli e dei demoni venivano sostituiti con i “prodigi” della natura. Per loro i fatti restano quelli che sono per l’immaginazione popolare: hanno rigettato le sole regole allora disponibili per distinguere il possibile dall’impossibile, senza trovarne delle altre [pur ostentando] la pretesa di seguire sempre e soltanto “la ragione e l’esperienza”, [intesa di solito come il rifiuto di ammettere] i miracoli ortodossi della società cattolica in cui vivono36.

Ma questo atteggiamento scettico non basta a farli rientrare “tra i padri della scienza e del razionalismo moderno”. Infatti la attribuzione dei miracoli alla natura anziché agli angeli e ai demoni “significa la scomparsa delle poche regole fino allora elaborate per determinare la natura e la scienza [e] un ritorno alla natura magica delle prime età del pensiero” 37. La struttura teorica costruita sull’esperienza mostra i suoi limiti quando muta il corso dell’esperienza che l’ha creata e che essa ha legittimato idealmente. Tale mutamento va ascritto all’esaurimento di fede nel fondamento di ragione che sostiene il contesto istituzionale. L’esaurimento della fede è il risultato dell’approccio filosofico al problema della vita, la quale viene assunta come una realtà da giustificare, e non (più) un cosmo fattuale da scoprire. L’approccio filosofico è meta-empirico e fondato sul fondamento di ragione a priori, cioè non ristretto alla sequenza

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accertabile coi sensi delle scansioni fattuali ma al loro senso riposto. La tendenza ad assicurare il mondo fenomenico a un senso universale, cioè a leggi eterne, crea la differenza tra l’accertamento reale e quello possibile, spingendo sempre più oltre i margini di generalizzazione della ragione delle cose, fino a convertire l’esigenza di massima certezza di veridicità dei fatti razionalmente compresi, in una fondamentale e irresolubile incertezza, nata dalla consapevolezza di non poterla mai soddisfare. La contraddizione nasce dal voler costituire l’esperienza, oggetto di pensiero, a fondamento del pensare, creando così un circuito vizioso tendente a uniformare in una stessa ragione universale la molteplice esperienza, legata alla attualità della esistenza empirica, e il senso ideale astratto da ogni circostanza fattuale. Così, nel caso della scienza, l’idea di uniformare nello stesso modello ideale sia il concetto di Natura che la natura fisicamente reale, ha teso a cercare nelle manifestazioni naturali la coerenza essenziale e univoca del modello teologico naturalistico aristotelico. E poiché tale modello era stato sovvertito a opera di quello cristiano, ne ha risentito la stessa rappresentazione della natura fisica invalsa col primo, diventata incoerente e quindi incredibile. Ma l’ipotesi che si possa trovare della natura fisica una definizione scientifica emancipata da ogni rappresentazione ideale della Natura metafisica, è essa stessa una superstizione metodologica, legata alla trasformazione della crisi di fede nel modello tradizionale di Natura in ideologia della crisi come condizione sistemica definitiva, ossia come ragione del fondamento critico della scienza. Questa idea di scienza, che ha come fondamento epistemologico l’assenza di ogni fondamento ontologico, sostituito da un supporto surrogatorio ipotetico e congetturale, è non meno pretenziosa di veridicità di quella magistica post-aristotelica e neo-platonica. Il superamento di questa condizione aporetica coincide con l’abbandono della idea di “scienza” come costruzione teorica fondata sull’esperienza, poiché l’esperienza stessa è il risultato oggettivato della ragione, e non il suo fondamento. E se la scienza è la logica dell’esperienza, è tale logica che va riconsiderata come fondamento della conoscenza o criterio della verità, e non certo rinnegata l’esperienza, che del fondamento ideale è la sua fenomenologia. La tendenza empiristica è di correggere il prodotto di realtà, anziché il senso che lo ha generato, per cui, lasciando questo impregiudicato, si concentra sugli effetti fenomenici, inseguendo il corso degli eventi anziché orientarlo. Tale atteggiamento teorico e pratico consegue alla fine della fede nel fondamento tradizionale e alla incapacità di sostituirlo con altro. Nella transizione, lo strumento razionale – il metodo analitico – diventa l’unico ancoraggio teoretico alla verità perduta, e la verità stessa in tempi di miscredenza scettica. Questa verità falsa e provvisoria,


conseguenza della “scoperta della natura […] come unità dell’essere spazio-temporale regolato da leggi naturali esatte”, attraverso le quali “lo specialista delle scienze della natura tende a cogliere tutto come natura” e nient’altro che natura44. Ma è la stessa esperienza a opporsi alla “completa idealizzazione della scienza”, la quale “parte, non già dalla percezione del ‘particolare’, bensì dalle generalizzazioni confuse del senso comune, per osservare i casi particolari e pervenire per quanto possibile a un’altra generalizzazione, quella razionale ordinata” 45. Se per Aristotile la scienza è conoscenza dell’ordine naturale necessario e immutabile, la struttura cosmica che ve lo costituiva non era più confacente alla coscienza critica del tempo di Bacone, che contesta la legittimità del metodo sillogistico in fisica, “dove si tratta di legare la natura con l’opera e non di avvincere un avversario con le argomentazioni”, altrimenti “la verità sfugge dalle mani, dato che la sottigliezza del discorso non potrà mai uguagliare quella delle opere della natura. Perciò se le stesse nozioni, che sono l’anima delle parole, vengono ricavate ad arbitrio e senza un criterio unico dalle cose, l’intero edificio crolla da solo” 46. Qui si evidenzia l’effetto della dissoluzione metafisica operata dal razionalismo tra logica e ontologia, per cui la verità ideale ubbidisce a criteri di coerenza logica diversi da quelli ignoti che reggono la natura. Senza un fideistico fondamento ontologico, che Bacone chiama “criterio unico delle cose”, la supposta necessità del rispecchiamento reale dell’ordine logico del discorso, diventa “arbitrio”, per cui la deduzione dialettica della verità perde ogni valore conoscitivo rispetto alla “scoperta” scientifica. Infatti, la costruzione ideale dipendendo, dall’arbitrio umano, può fondarsi anche su premesse false, e perciò emendabili nel corso del tempo da una ragione più profonda; viceversa, le “nozioni” della fisica devono basare la loro validità, non dal costrutto teorico (il “sillogismo”) ma dalla corrispondenza a quel “criterio unico” che regge coerentemente “le cose” del mondo naturale, ossia quel principio legislativo, o formula, che fonda l’unità del molteplice e sulla cui ricerca deve concentrarsi – direttamente o indirettamente – lo studio scientifico. E’ questa la “superstizione” scientista di cui parla Husserl, essendo “ogni costrutto scientifico-naturalstico fondato su postulati di fede e non di ragione” 47. Esistendo “una natura che si manifesta nelle apparizioni delle cose” 48, l’apparenza molteplice nasconde e rimanda a l’unità della natura. Questa unità non si coglie dai sensi ma dalla ragione, è cioè una unità ideale, che “è” solo nei termini della sua idealità astratta dal molteplice essente. Le stesse relazioni causali esperibili sensibilmente non sono mai relazioni totali, coinvolgenti tutta la natura, ma esplicano la loro azione nei termini e nei limiti della loro relativa possibilità. Ciò è comprovato dal fatto che le supposte

che scambia le ombre con la luce, è la situazione rappresentata da Platone nella Repubblica dal mito della caverna, e la relativa rappresentazione cosmologica è, modernamente, la mitologia della scienza, ossia la scienza come moderna mitologia. La mitologia scientista si fonda sulla “ricerca delle cause” 38. Aristotile definiva le cause come “forze produttive”, come “virtutes”, alcune manifeste e altre occulte. Virtù manifesta è la pesantezza, occulta è quella della calamita. Manifesta è la conoscenza della causa socializzata, ritenuta dai più regolare e comune, mentre occulta è la virtù sconosciuta e insolita, non abituale ed extra sociale, come appunto il magnetismo. E la virtù occulta dà lustro e diffusione a due idee classiche già molto equivoche: la simpatia e l’antipatia. Con esse si elude ogni difficoltà, prodigi compresi. Così come la calamita ha simpatia per il nord e attira il ferro […], così la pietra preziosa attira o scaccia il temporale, le corna di bue scongiurano il malocchio, ecc. […] Si capisce bene come con “cause” di questo genere gli effectus admirandi non mettono più in imbarazzo gli scienziati; ora per essi c’è una “spiegazione naturale” 39.

Di conseguenza si recupera l’antica idea della “anima del mondo”, sostenuta già da Aristotile simbolicamente e che ritorna presso gli occultisti in termini animistici per cui la natura avrebbe un’anima. Ma poiché tutto ciò che si muove è mosso da altro, principio accolto anche da Aristotile per la sua evidenza, a muovere la terra sono gli astri, depositari del “fuoco universale”, ossia dell’anima del mondo40. Lo sforzo della classificazione è quello di sfuggire al caso, ossia al caos, grazie a leggi e princìpi di necessità. La necessità è l’opposto della spontaneità, sicché la libertà che voglia essere “razionale” e non caotica e spontanea deve conformarsi al principio di necessità e diventare consensuale. Avendo ogni cosa un’anima, e partecipando ogni cosa al tutto, anche la stabilità delle forme classificate pare artificiale e sostituibile con l’idea dell’unità della materia. L’idea di una unità psico-fisica del mondo collega il micro cosmo al macro cosmo attraverso una legge analogica universale che regola tutti gli esseri. “L’analogia è un residuo della filosofia della partecipazione” 41, in virtù della quale “sogno e realtà non sono ancora separati nettamente” e “il reale ha la fluidità della coscienza” 42. Se per la scienza galileiana e cartesiana “gli artificialia riproducono l’ordine obiettivo dei naturalia”, per gli alchimisti i “naturalia” erano l’opera di una magia, secondo un ordine di ragione opposto a quello affermato dalla scienza matematica. “Ma è soprattutto la dottrina del microcosmo che, permettendo d’agire sull’uomo mediante la natura, alimenta un’altrettanto facile speranza d’agire sulla natura mediante la volontà”, che nel Cinquecento rispecchiava un “principio della fisica” e un “fondamento della scienza” 43. Come ha ricordato Husserl, il naturalismo è una

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leggi naturali mostrano sempre un margine di refutabilità, cioè esauriscono la loro dinamica causale in relazione alla distanza della loro originaria esperienza apparente. Così che i nessi causali stabiliti per esperienza possono smentire la loro supposta validità universale, e ciò a ragione del fatto che la loro pretesa universalità è legata all’idea dell’unità della natura, e non alla fenomenicità naturale in quanto tale e in quanto appare all’esperienza. La scienza, pertanto, insegue una ideale corrispondenza tra il molteplice manifestarsi dei fenomeni naturali e la loro ideale unità razionalmente definita che è il programma ricalcato sulla petizione filosofica dell’unitarietà di senso di tutto il reale, ma che non corrisponde alla certezza relativa alla modalità di ricerca propria delle scienze naturalistiche ed empiriche. L’ipotesi, infatti, che ciò che appare sia il risvolto fenomenico del loro essere non evidente e quindi trascendente, è il tema proprio della ricerca filosofica, il cui senso razionale è riposto nella sua capacità di esplicitare l’essere unitario del molteplice. Se tale essere unitario non-è coincidente con nessuna manifestazione naturale, la loro supposta coincidenza è per l’appunto l’oggetto dell’ipotesi scientifica. Ma poiché la ricerca dell’unità ideale è la ricerca stessa del senso filosofico della realtà, la scienza vanta sulla filosofia una maggiore aderenza alla oggettività e certezza del suo contenuto tematico, i fenomeni naturali, appunto, legati fra loro da una identica rappresentazione individuale, garante della loro certezza. In realtà, però, la ricerca del senso unitario della realtà fenomenica, del mondo naturale, presume quella corrispondenza tra l’unità e il molteplice fenomeno che è solo un dato di ragione, cioè un’istanza razionalistica, postulata metodologicamente ma non dimostrabile empiricamente secondo lo stesso metodo conoscitivo. Tant’è vero che ogni ipotesi scientifica è confutabile, ossia contraddice il presupposto unitario che pure sta alla base del suo criterio di verità. si può dunque dire che a fondamento della verità della scienza vi è un postulato di fede (nell’unità, ossia universalità, dei nessi causali empiricamente riscontrati), privo di ogni certezza veritativa perché non dimostrabile empiricamente. Tale postulato fideistico è extra-scientifico e ipotetico, ma su di esso è basata la credibilità della stessa conoscenza scientifica. Ciò vuol dire Husserl quando afferma che le “proprietà” delle cose “sono ciò che sono solo in questa unità” di senso universale49. La “superstizione” in cui consiste la “credenza generale” che sia compito della scienza naturalistica dare risposte originali, e che essa sia in grado di farlo, è nata da una esigenza logico-sistematica metafisica, che è stata in età moderna trasferita nel campo della ricerca scientifica. Ma l’idea di una cosmologia che da principi semplici ed essenziali possa originare la spiegazione sistematica di tutta l’esperienza umana e naturale, cioè l’intera realtà cosmica, è essa stessa una

istanza razionalistica priva di ragionevolezza. Infatti tale istanza deve necessariamente presumere la corrispondenza – e cioè la essenziale omogeneità – Dell’ordine ideale con l’ordine reale, ossia quella “unione di teoria e pratica” che si richiede per definizione alla “vera scienza” 50. E, dal momento che l’ordine ideale è ritenuto eterno, diventa compito della ragione equipararvi il molteplice divenire delle cose del mondo, trasformandolo in una rigida catena di necessità razionale che sia il “rispecchiamento” dell’ordine ideale eterno e immutabile. Nel caso opposto in cui la conformità abbia come modello, anziché l’ordine ideale, la molteplice fenomenologia della realtà storica, allora è l’ordine ideale a doversi equiparare al modello reale, attraverso ‘abbandono della stessa idea di un ordine ideale terno, sostituito con l’ordine provvisorio delle storiche visioni del mondo, tutte destinate a mutare insieme al divenire del mondo reale. In questo senso, il naturalismo e lo storicismo sono gli opposti risultati di uno stesso pregiudizio teorico, secondo cui la verità coincide con l’assetto unitario dell’Essere. All’interno di una comune visione ontologica monistica, sia le scienze della natura che le scienze dello spirito occupano spazi teoretici complementari, riguardanti a seconda dei casi l’unità dello spirito ovvero della natura, oppure le sue singole manifestazioni, comunque rapportabili al supposto senso unitario delle cose e/o del mondo51. L’insieme derivato delle conoscenze teoretiche e delle esperienze pratiche e assiologiche che rinviano al comune fondamento intuitivo del mondo come “conoscere, valutare e volere”, costituisce una Weltanschauung, una visione del mondo relativa a una comunità culturale e a un’epoca52, costitutiva dello spirito del tempo o della sua filosofia. Ancora per Bacone “nel termine filosofia rientra pienamente ciò che oggi chiamiamo scienza”, la cui affermazione è turbata da “quattro specie di fantasmi” 53. 1. L’antropomorfismo, secondo il quale “il senso umano è misura di tutte le cose”, per cui “tutte le percezioni, sia quelle dei sensi che della mente, sono costruite a immagine dell’uomo e non dell’universo”. Sono gli “idola tribus”. 2. Il mito della caverna platonico, generatore di rappresentazioni collettive proprie al gruppo sociale in cui si vive, nate dall’educazione dei suoi membri, che, come diceva Eraclito, “vanno cercando le scienze nei loro piccoli mondi particolari e non nel mondo universale, quello cioè comune a tutti quanti”. 3. I fantasmi del foro, nati dalle relazioni e dal commercio fra gli uomini, “perché gli uomini si accomunano mediante i discorsi, e i nomi imposti alle cose sono commisurati all’uomo della strada. Da qui tante denominazioni inesatte ed espressioni improprie che ostacolano le operazioni della mente”. 4. I fantasmi del teatro, nati dalle rappresentazioni

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unitarie e ne varietur del mondo a opera di sistemi pretenziosi, scientifici e filosofici, di natura illusoria.. Come è detto nel Novum Organum, “tutti i sistemi filosofici via via inventati e accolti, sono come tante rappresentazioni teatrali che le diverse filosofie hanno aggiornato per poi venirle a turno a recitare, rappresentazioni che offrono ai nostri occhi altrettanti mondi immaginari e fatti veramente per la scena” 54. Alla ragione fantastica occorreva per Bacone sostituire il “buon senso” della ragione ragionante, ossia, come scrive el De dignitate, “l’uso del proprio giudizio”. La sua critica è diretta contro i “pigri”, il cui “servilismo” manda “in rovina” il pensiero dei grandi maestri. Infatti,

pensiero critico, dalla filosofia, che prende ad oggetto di ragione proprio quelle credenze, animato dalla stessa fede di mutarle che è alla base di quello che vuole invece stabilirle, ma più fresca e motivata di quella, pur tenace ma impigrita, della tradizione, che finisce per lasciargli il passo, anche se non sempre meritatamente. La filosofia dunque ridesta dall’assopimento pigro della ragione nella fede comune. Bacone era un chimico, e fabbricò una scienza sul modello della chimica, così come Aristotile, che era un biologo, la fabbricò sul modello della biologia. Solo con Galileo e con Cartesio la scienza prenderà il metodo moderno della fisica matematica. Nel Novum Organum Bacone afferma che “la vera conoscenza è la conoscenza per cause” (II, 2), distinguendo le cause fisiche (materiale ed efficiente) da quelle metafisiche (formale e finale), per cui egli “resta al di qua del meccanicismo. Ovviamente non esiste meccanicismo senza una meccanica esatta e non esiste meccanica senza matematica. E in Bacone di matematica ce n’è assai poca” 57. La ricerca scientifica della “causa metafisica” o “formale”, quale scopo di ogni ricerca particolare propugnata da Bacone, riflette, non già una deviazione dalle premesse epistemologiche della scienza, ma una coerente concezione idealistica della scienza, che tutto deve ricondurre all’unità trascendente i singoli fenomeni naturali, indicata con un termine astratto: “aureitas”, “malleabilitas”, etc., che sono le “qualità” (o “proprietà” o “virtù”) della materia, quelle che la unificano idealmente in una stessa essenza che sottostà o trascende il particolarismo delle sue manifestazioni empiriche. Bacone è ancora dentro l’unità di filosofia e scienza, per cui dei molteplici fenomeni naturali egli ricerca la “forma”, cioè l’unità ideale, le “vere” cause. Non si tratta di “animismo” 58, ma di uni-versalismo teoretico. E’ sbagliato voler giudicare la sua idea di scienza sulla definizione che ne daranno Cartesio e Galileo, Leibniz e Newton, sol perché i suoi concetti logici non sono espressi con formule matematiche. Né può avvicinarsi la sua idea di “forma” o di “natura” al moderno concetto di “struttura”, poiché questo ubbidisce a un criterio di validità puramente metodico, e non universale. Il metodo, universalizzato, porta al dogmatismo; l’universalizzazione, in sé, conduce solo alla sua confutazione empirica, producendosi come opposto, ma proprio per questa essa è superabile e aperta a nuove determinazioni ideali. La struttura metodica è ciò che è l’ideologia rispetto al pensiero filosofico, la Weltanschauung rispetto alla ricerca rigorosamente teoretica. Il sistema fisico che ha in mente Bacone è molto prossimo alla teoria delle categorie pensata dallo storicista Croce: entrambi, nei rispettivi campi d’indagine, pensavano a giudizi “cruciali” determinanti l’appartenenza o non dei fatti a certe

la pigrizia [della ragione] genera la presunzione […], così ogni volta che ci si sforza di far progredire la scienza invece di incoraggiamenti si ricevono bastonate [per cui] gli studi sono limitati agli scritti di determinati autori, in cui le menti di tutti sono come imprigionate; e se qualcuno si arrischia a deviare un po’ dal’opinione di questi autori classici, all’istante tutti grideranno al turbolento, al novatore, all’arruffone55.

Questa critica coglie la posizione razionalistica che ogni filosofia revisionistica della Weltanschauung del suo tempo intraprende contro le credenze consolidate in luoghi comuni dogmaticamente assunti e tramandati. La analoga rielaborazione del Mito in cui consiste l’opera filosofica di de-mitizzazione razionalistica, lo abbiamo vista, prima che in Bacone, in Socrate e in Platone, in Agostino e Tommaso, e dopo di lui in Cartesio e Spinoza, in Kant e in Hegel, in Nietzsche e in Heidegger, in Feuerbach e in Marx, in Jaspers e nello stesso Husserl, in tutti insomma i grandi filosofi che hanno ripensato in termini critici i fondamenti ontologici della ragione del mondo, che fanno da avanguardie teoretiche ai grandi riformatori religiosi, che offrono una nuova convincente sintesi spirituale. Perché i “pigri” s’oppongono alla libera ricerca? Perché essi non credono alla verità, della religione o della scienza, e perciò “temono di arrischiarsi nella ricerca” appellandosi al comodo “metodo d’autorità” come criterio epistemologico. Ma L’attaccamento servile all’autorità è un atteggiamento psicologico di persone che s’ingannano sulla natura stessa del’esperienza e della ragione. Grazie a tali pagine [Bacone] si iscrive nella tradizione di quelle grandi menti che da Platone a Cartesio, da Malebranche a Bergson, hanno tenacemente rivendicato di fronte al soggettivismo e al pragmatismo del pensiero “socializzato”, l’obiettività del pensiero effettivo, frutto dell’opera laboriosa di una ragione restituita alla propria natura e scrupolosa di fronte al reale. I veri scettici non sono quelli che hanno fede nella ricerca, ma quelli che credono di saper tutto56.

Il dogmatismo è il sintomo della paura, nata dal bisogno di tranquillanti sicurezze. Esso è il pensiero delle masse ammansite dalla persistenza delle credenze tradizionali, che per questo si distingue dal

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razionali per corrispondere alle prime necessità della ricerca, hanno finito di vivere in fisica. L’attrezzatura mentale con cui ci si accinge a pensare la natura è ormai tutta diversa. Galileo,riprendendo la tradizione misconosciuta di Democrito e di Archimede, e che è ricavabile anche da tutto un aspetto fin lì trascurato del platonismo, scrive finalmente che “la natura è matematica” 63.

forme ideali universali. Non a caso entrambi accolgono l’idea espressa nel Sofista platonico che l’induzione e la deduzione vadano congiunte nella ricerca della definizione. Per Bacone occorre cercare la vera “unità” senza lasciarsi fuorviare dalla molteplicità, per cui “ogni solida e fruttuosa filosofia naturale usa una duplice scala: una ascendente e una discendente. La prima che sale dall’esperienza agli assiomi [cioè ai princìpi primi o ipotesi scientifiche]; la seconda che scende dagli assiomi alle nuove scoperte” 59. Solo con Leonardo (1452-1519) viene superandosi l’antropomorfismo, poiché “in anticipo d’un secolo sulla grande scuola meccanicistica, egli intuisce che conoscere significa fabbricare. La parola è detta: la natura è meccanica” 60. Ma fu Galileo (1564-1642) a operare alla fine del Cinquecento quell’ “enorme lavoro di riordinamento e di risanamento” conseguente all’abbandono della fisica di Aristotile.

Ma tale definizione era pur sempre retta da una ipotesi, quella atomistica, la quale per tre secoli rimarrà indimostrabile sperimentalmente, per cui “l’ideale che fa dell’algebra l’officina dove si ricostruisce idealmente la realtà” è una teoria ipotetica, che, per quanto buona a scalzare “la vecchia teoria della materia e della forma”, cioè a sostituire la “concezione di un artista e biologo greco che Aristotele aveva opposto all’atomismo degli ingegneri e dei matematici”, si reggeva pur sempre sulla credenza nella sua migliore efficacia; cioè sulla fede novella che scacciava quella vetusta, messa “completamente fuori gioco”. E’ la nuova ipotesi dell’ “equilibrio matematico” che, creduta vera, ossia più vera rispetto all’antica nozione di “forma”, rende insignificante l’antica cosmologia, che “per lo scienziato [moderno] non significa proprio più niente”, per cui “né in Galileo, né in Marsenne, né in Cartesio troveremo mai una ‘critica’ sistematica di queste nozioni tradizionali” 64. Ma ciò significa solo che scompare il loro “impiego” metodico, ma non che sia stata superata la loro intima verità sistematica, logico-razionale. Infatti, Galileo, offrendo “il principio della fisica meccanicistica e della meccanicistica”, aveva sopravanzato l’aristotelismo di Bacone, che ancora subordinava “il moto quantitativo al cangiamento qualitativo”, ma ciò non equivale a dire che la sua teoria fosse quella “vera” rispetto alla “falsa” aristotelica, ma solo che essa è risultata più funzionale alla ricerca degli scopi prefissati dl moderno naturalismo di manipolare la natura fisica, anziché, come quello antico, di conoscerla per uniformarsi eticamente. Il fondamento epistemico razionale costituisce la premessa di ogni esperienza metodica. Non nel senso che i suoi contenuti siano eterni, non rivedibili né confutabili, ma che la sua natura ideale meta-fisica è tale da non renderli disponibili, mutabili per azione umana. Il senso della loro idealità è la loro indisponibilità. Solo a questa condizione il fondamento è ideale, non empirico ma meta-fisico. La teoria del “rispecchiamento” di idealità e realtà snatura la differenza ontologica tra l’essenza ideale e la condizione reale, talente che le proprietà dell’una vadano confuse con quelle dell’altra, dando origine, rispettivamente all’idealismo e al realismo teoretici, ognuno dei quali è una assolutizzazione e astratta universalizzazione delle rispettive proprietà ontologiche delle due nature o essenze. La natura dell’Idea è la sua Unità, mentre l’essenza del reale è la sua Molteplicità. Dall’unità discende la trascendenza

Come Bacone, ma con efficacia tecnica molto maggiore, stronca alla base la dimostrazione aristotelica dimostrando che i princìpi per sé evidenti su cui essa poggia sono soggettivi, relativi a una ragione antropomorfica e a una esperienza rudimentale, e rappresentano dei veri ostacoli per una scienza obiettiva. [Rispetto alla] idea antica d’una natura conosciuta, la cui struttura è già tutta fissata in norme “razionali” definite una volta per sempre, [Galileo prospetta la ricerca] di una natura da dover conoscere mediante una ragione sempre attenta a operare una revisione della propria attrezzatura mentale. Si tratta del famoso “rovesciamento di valori” che Bacone, seppure lontanissimo da Galileo, ha saputo realizzare per proprio conto. Si sarà per la libera ricerca o per l’autorità, a seconda che si abbia o no compreso il significato di questa rivoluzione intellettuale61.

Il metodo seguito da Galileo è di “dire sempre in dipendenza di ciò che si è detto e senza presupporre le sue [cioè di Aristotile]affermazioni di principio, per quanto possibile, vere”, al contrario di “certi filosofi che, assai spesso, quando insegnano fisica, presuppongono come vero ciò che è riportato nel De anima, o nel De coelo o nella Metafisica di Aristotele” 62. Ma, se in virtù dell’antica fisica, le fondamenta del cosmo erano esplicitate, ora la fede dai fondamentali si sposta sulle definizioni metodiche, che restano perciò senza fondamenti e del tutto sospese sull’ipotesi degli enunciati secondari. I dati “noti” sono quelli della fede esplicita,non già quelli della ipotesi presunta e implicita. Perché credere, infatti, a Galileo e non ad Aristotile? Non presupporre le sue affermazioni come “vere” significa sospendere il giudizio e brancolare nell’ipotesi. Galileo “rifiuta nel modo più assoluto l’assioma che identifica realtà obiettiva e percezione sensibile”, affermando così il principio della fisica moderna per il quale “le qualità sono relative ai nostri sensi, la materia per lo scienziato è quantitativa”. Da quel momento il pensiero scientifico ha superato un’altra tappa. Le classificazioni che Aristotele aveva eretto a principi

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dell’essenza ideale; dalla molteplicità deriva invece l’immanenza e storicità dei caratteri reali dell’Essere. L’equivoco si annida nella identità di unità e idealità, intesa questa come la totalità degli enti finiti. Infatti tale totalità è la finitezza, l’essenza finita degli enti, che finitizza la stessa unità, che diventa empirica, laddove la vera unità è trascendente la finitezza e quindi non rappresentabile come un prodotto reale ma bensì come l’attività infinita della coscienza, trascendente ogni singola determinazione empirica. Il fondamento ideale dell’Essere consente la comprensione razionale del molteplice; e in tal senso va inteso l’adagio per cui “con un uomo che nega i princìpi non si può discutere”, ché la comune premessa dello sviluppo dialettico riposa sui medesimi fondamenti razionali, che sono ontologici, e quindi non disponibili alla determinazione sofistica della volontà. La “discussione”, ossia lo sviluppo razionale delle premesse fondamentali, implica, da un lato, la necessità logica di trascegliere tra molteplici possibilità di fatto quelle coerenti alla natura razionale del discorso, congruenti coi suoi princìpi, e dall’altro la differenza tra tale necessità logica e le molteplici possibilità immanenti alla realtà empirica, per cui qualunque sviluppo dialettico deve ammettere che la necessità del suo percorso logico non includa la libertà dell’esperienza. In altri termini, che le verità di ragione non hanno alcuna cogenza di fatto sulle certezze empiriche, le quali perseguono un loro percorso di coerenza razionale. La differenza tra le verità di ragione e le verità di fatto è che le prime sono necessarie e non contraddittorie, mentre le altre sono legate alla attualità dei loro riscontri empirici, ossia alla credibilità della loro tradizionale certezza, la quale vene circolarmente confermata proprio dalla reiterazione degli atteggiamenti convalidanti. Anche le verità di fatto sviluppano una loro coerenza razionale, ma i cui princìpi sono acquisiti per fede nella realtà, ossia per tradizione. Anche questa tradizione si rifà – sia pure implicitamente – a verità di ragione, ma questa viene presupposta senza intima adesione razionale, per mera fede tradizionale. Le verità di fatto costituiscono le Weltanschauungen, l’orizzonte di ragione in cui si articola lo storico mondo-della-vita di un determinato contesto esistenziale. Il riporto inerziale delle verità di ragione va sedimentandosi nel tempo formando culture e mentalità socializzate attraverso l’opera di istituzioni socio-culturali preposte a uniformare la condotta singolare a un modello di prassi sociale stabilita come valore comune di senso. Se le verità di ragione perseguono una coerenza di senso formale, non immediatamente traducibile in prassi socializzata, le certezze empiriche sono legate ai tempi ravvicinati della loro pratica utilità, per cui la distanza tra le rispettive istanze razionali è la stessa che intercorre tra la coscienza soggettiva e la coscienza collettiva. La coscienza soggettiva ha come

mediazione tra la verità e il mondo la sola intelligenza del soggetto teoretico, mentre la coscienza collettiva ha come mediazione tra la verità e il mondo le forme sociali di razionalizzazione della realtà. Ciò vuol dire che l’adeguamento della prassi sociale alla verità di ragione implica un intervento istituzionale che non dipende dal libero convincimento di alcun membro della società, ma dall’azione efficace di volontà direttive legittimate (dalla morale o dalla forza) a intervenire sugli assetti istituzionali della società. Da qui il divario, non solo tra coscienza delle élites dirigenti e le masse, ma tra coscienza ideale delle classi intellettuali e coscienza sociale delle classi politiche. Soprattutto nelle società moderne, dove la direzione politica professionale si è emancipata da un omologo referente morale sentito come limitativo delle loro prerogative di potere, il consenso popolare ha sostituito la fonte di legittimazione del potere, creando una frattura sempre più larga tra coscienza ideale, legata a fini trascendenti e logicamente necessari dell’azione, e coscienza politica, legata agli scopi immanenti dell’efficacia contingente. Quando l’ordine ideale entra in contraddizione con l’ordine reale, la natura delle idee, che è il loro ordine sistemico gerarchicamente razionale, collide con l’esigenza centrifuga del Molteplice di liberare il movimento degli enti, per cui gli assetti sociali tendono a esaltare le espressioni particolari che sempre più difficilmente riescono ad armonizzarsi in una autonoma determinazione legale. In tali casi, il concetto d’ordine unitario tende ad affermare un’esigenza di governo della società, laddove il disordine del particolarismo sociale tende viceversa ad esaltare l’aspetto polemico legato alla convivenza umana, e quindi a concepire questa come una dialettica di interessi particolari politicamente rappresentati. Se l’ordine gerarchico è dominato dal principio di coerenza ideale o di moralità, l’ordine poli-archico è dominato dal principio di efficienza funzionale o di utilità. Lo “spirito” del primo è la coerenza coi princìpi, e quindi l’ossequio alla tradizione, mentre quello del secondo è la congruità con i fini utili o scopi pratici. Il primo delinea un tipico regime “etico”, tutto incentrato sulle funzioni di governo; l’altro delinea invece un tipico regime “politico”, tutto incentrato sulla mediazione e sul consenso. Ovviamente, i due tipi ideali sono modelli razionali, che possono, come sovente avviene storicamente compenetrarsi in forme istituzionali miste, che meglio assolvono a quelle che Parsons chiama gli “imperativi funzionali”.

4. La fisica aristotelica era essenzialmente una costruzione del mondo gerarchica, che ai tempi di Galileo e di Cartesio si presentava come una Weltanschauung alla quale “si trovavano legate tutte le immagini abituali della scienza, della religione e del pensiero comune, tutto quel mondo di Dante che

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occorreranno 150 anni di riflessioni sull’ipotesi copernicana per riformarlo”.

dall’intelligibile platonico del sensibile trasposto, ossia il riflesso dell’in sé, che dal sociale cristallizzato aristotelico, diventando indipendenti dall’uomo e perciò obiettivi69, eliminando in radice sia il dogmatismo che lo scetticismo antichi, in quanto ora “la scoperta della vera realtà è in funzione della scoperta della vera ragione” 70. Per Platone l’essenza delle cose era la loro idea, e per Aristotile il concetto debitamente elaborato esprime necessariamente l’essenza delle cose, per cui non c’è scienza che del necessario. Per la scienza oggettivistica moderna, la parola non corrisponde alla realtà, né perciò le sue distinzioni a differenze naturali, per cui intelligibile aristotelico “non è altro che linguaggio trasposto” 71. La pretesa della scienza è molto più ridotta rispetto alla conoscenza metafisica classica in quanto ha rinunciato a conoscere le “essenze”, considerandosi una conoscenza a misura umana, ovvero un’ “arte di utilizzare le cose”, per dirla con Marsenne72. La conoscenza scientifica non supera la realtà apparente per giungere a quella ideale, ma definisce una verità che permane al piano stesso dei fenomeni, che sono dati empirici di cui si ignora la provenienza, e che coincide con le leggi che li organizzano, per cui “la causa d’un fenomeno, per la scienza, non sarà mai più un in sé metafisico che lo ‘genera’, secondo l’antica metafora biologica di Aristotele, ma un altro fenomeno legato al primo da un rapporto costante” 73. L’aspetto più singolare di questa visione “orizzontale” della realtà quantitativa è che la scienza ha dei confini anch’essi quantitativi e relativi al numero delle esperienze sensibili che vuole conoscere. Ciò comporta che alla varietà delle esperienze corrisponda la relatività delle conoscenze, per cui la realtà molteplice si conosce per saperi molteplici, iuxta propria principia. Qui è la radice del relativismo, che dal piano gnoseologico discende a quello morale, secondo una inversione di prospettiva teoretica propria del razionalismo critico, che pone a fondamento della verità di ragione e non il fondamento di fede.

Per rendere probabile l’eliocentrismo bisognava quindi ribaltare il centro di gravità del mondo, e cioè trattare la terra come un astro qualunque […] rinunciando alla tradizionale gerarchia delle cose, essenziale tanto alla scienza del tempo, quanto alle abitudini acquisite. Solo la dinamica galileiana era in grado di promuovere una ipotesi di scuola come quella di Copernico al rango di teoria fisica; ma questa dinamica riformava tutti i postulati razionali allora in corso65.

L’effetto che i naturalisti cinquecenteschi sortirono nel campo della cultura con l’emancipazione dall’aristotelismo e la “ma tematizzazione della fisica” fu quello di rendere la natura e la ragione “di tutti” 66. La natura pensata in termini matematici diventa una macchina comprensibile e manovrabile, un meccanismo senza volontà intenzionali o cause finali, animato dal solo principio d’inerzia. Con questa visione, “la fusione di naturale e artificiale è compiuta”, per cui per Cartesio non esiste più “alcuna differenza tra le macchine che fanno gli artigiani e i diversi corpi che la natura compone da sola, […] di modo che tutte le cose che sono artificiali sono per ciò stesso naturali” 67. Si apriva la strada alla equazione di Leonardo per cui “comprendere” è “fabbricare”, che costituisce l’antecedente gnoseologico della teoria storicistica vichiana del verum et factum convertuntur. La natura meccanizzata e privata di una qualche volontà esaltava per contrasto l’umana “canna pensante”, e nello stesso tempo allontanava Dio dai processi oggettivi della realtà naturale. Fino alla vigenza della fisica aristotelica, si riteneva che le cose fossero tali quali noi le percepivamo. Per i casi controversi, “Aristotele darà la regola sociale della valutazione collettiva, alla quale s’attiene ancora l’odierno senso comune”, per cui una stessa cosa può sembrare ciò che in se stessa non è. La risposta degli scettici riteneva ingannevole la teoria platonica della “partecipazione” alle qualità diverse delle stesse cose, sostenendo che il mondo delle idee non chiarisce l’essenza delle cose, che resterà per noi sempre misteriosa in quanto inaccessibile ai sensi, che ci costringono alla sola realtà apparente68. Con la nuova visione quantitativa, la negazione di supposte “qualità delle cose” sarà ancora più recisa di ogni pregressa posizione scettica, in quanto verrà rigettata l’idea stessa di “oggettività” qualitativa aristotelica, di tipo soggettivistico, la cui relatività alle qualità umane assicuravano, come dimostrò Bacone, “il trionfo dell’immaginazione”. Infatti, con lo strumento matematico della misura, alle antiche qualità la nuova scienza oggettivistica sostituisce gli stati della materia misurabili, sicché la conoscenza oggettiva è quella che garantisce la conoscenza delle relazioni dei fenomeni attraverso le leggi di relazione quantitative. Non si tratta più di conoscere le cose in sé ma solo le loro leggi di relazione, per cui i dati naturali quantitativi erano tutt’altro sia

Il principio fondamentale della scienza aristotelica per cui non esiste scienza se non degli eterni modelli, era una conseguenza gnoseologica della predicazione morale. Tale predicazione, che passava da Platone agli stoici e infine al cristianesimo, invitava gli uomini a distaccarsi dai beni fuggevoli per volgersi all’eterno. la morale naturalista prevalente nel Rinascimento, anche se incapace di trovare immediatamente una scienza accettabile, per lo meno suscita un frenetico entusiasmo per il concreto e un’insaziabile curiosità per i dati sensibili. […] D’allora, infatti, la conoscenza di ciò che Platone considerava soltanto un’ombra meriterà il nome di scienza. Quindi, alle origini della nozione tecnica di fenomeno sta una “valorizzazione” affettiva delle apparenze e una relativa rinuncia all’ “in sé”. [Ciò comporta la] sostituzione dell’ideale del saggio che contempla con quello dell’ingegnere che agisce sulle cose [ossia] d’un nuovo tipo di intelligibilità determinato non più da una mente che risale dalle cose fino ai oro modelli ma dal suo modo di reagire nell’organizzare le cose74.

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Assistiamo a un autentico “rovesciamento di valori”, che dalla considerazione di una fisica celeste, ideale e dai movimenti necessari, passa a una fisica terrestre, fondata sulla varietà e molteplicità dei fenomeni, collegati da rapporti empiricamente osservabili, anziché logicamente deducibili. La conversione moderna all’analisi del Molteplice fonda la conoscenza sulla possibilità che l’osservazione empirica sostituisca la certezza dei riscontri fattuali alla veridicità dei costrutti logico-deduttivi, pensati come eterni e necessari. Il mondo delle apparenze, le “ombre” platoniche, diventa un cosmo con sue leggi adeguate agli scopi; non più “falso” ma “certo”, perché a misura e portata della intelligenza umana, comune. L’orientamento del mondo-della-vita acquista il valore etico di una garanzia di partecipazione dell’intelligenza umana alle vicende del mondo comune. L’ordine scientifico del mondo – “orizzontale” rispetto a quello “verticale” metafisico – introduce implicitamente una istanza democratica di partecipazione al bene comune della vita, sia pure (ancora) a un livello di sola intelligenza e comprensione teoretica della realtà. La forma mentis degli uomini del Rinascimento ci svela una delle sue caratteristiche essenziali, che l’avvicinano alla mentalità del Medioevo cristiano:

Una siffatta rappresentazione dello spirito del tempo è tanto appropriata per l’epoca quanto ingiusta storicamente. Infatti, ogni nuova ipotesi è innovatrice rispetto a quella che soppianta, compresa quella aristotelica rispetto alle mitologie pregresse. La questione storica è che era facile essere novatori quando le strutture razionali perdevano la loro carica di fede e di sicurezza tradizionali. La prospettiva fenomenistica contrasta idealmente ed eticamente il cosmo gerarchico classico, in cui sia la intelligibilità del mondo che la direzione sociale restano appannaggio di una élite socio-culturale esclusiva. Lo scienziato moderno, non avendo più il privilegio dell’iniziato alle verità di ragione e/o teologiche, ma come suo campo d’indagine il gran libro del mondo comune, costruisce le sue teorie gnoseologiche a partire dai dati comuni e accertabili da tutti, offrendo solo una chiave interpretativa adeguata, una guida razionale alle sue leggi oggettive, fruibili da tutti. La possibilità infatti di poter intervenire a modificare il mondo fisico con gli strumenti della conoscenza di esso e delle sue leggi, rompe il monopolio della sapienza e la volge verso l’utilità della stessa sopravvivenza umana. La scienza diventa così strumento, non di conoscenza, ma di azione, ossia tecnica utile agli scopi pratici. La fisica moderna è pertanto una scienza utile, una conoscenza tecnica al servizio degli scopi umani vitali. Il rapporto di contemplazione del’indisponibile si converte in rapporto di manipolazione: la natura perde la sua sacralità di sostanza vivente e acquista il valore economico di bene fruibile, di campo di applicazione delle conoscenze ai fini utili alla sopravvivenza e quindi alla potenza dell’uomo storico e naturale. il mondo diventa una miniera da sfruttare, trasformare a proprio uso e consumo. E’ evidente che la definizione di “natura”, allargata anche ala realtà umana e sociale, come corpo non più organico ma funzionale ai bisogni fisici, consentiva la strutturabilità strumentale dei suoi beni disponibili alla convenienza umana, assurta a scopo della stessa ricerca scientifica. Dalla manipolazione della natura fisica a quella della natura sociale, il passo sarà breve, almeno logicamente, con la conseguente definizione dell’esperienza culturale dell’uomo nei termini di una “fisica sociale”, cioè di un organismo strutturato secondo leggi funzionali allo scopo. Sono le leggi a costituire la stessa ratio del mondo, in quanto chiave di accesso della conoscenza e scopo della stessa ricerca scientifica. L’atteggiamento teoretico verso la scienza meccanicistica fu del tutto simile a quello che gli scolastici avevano rispetto ala fisica aristotelica: “la si credeva necessaria, derivata da una struttura immutabile della ragione e della natura”, che rendeva l’uomo del tutto estraneo. E così da una “scolastica dell’aristotelismo” si passò a una “scolastica del meccanicismo” 78.

la fede nella possibilità di un “rinnovo” in qualsiasi campo, da quello religioso a quello politico a quello artistico, presuppone infatti la ferma convinzione che in un momento ben determinato della storia umana si sia attuato l’ideale – religioso, o artistico o politico -, si sia rivelata la Verità: si prende a modello ciò che è accaduto solo quando si è intimamente convinti che l’accaduto rappresenti la perfezione […]. Ci si ritrova così dinanzi ad un atteggiamento tipico della mentalità religiosa in genere e in ispecie della mentalità cristiana, per cui la Verità si è rivelata in un momento preciso della storia, che racchiude pertanto in sé, in nuce, tutta la storia umana e tutte le possibilità di sviluppo che all’uomo – al singolo come alla massa – sono offerte […]75.

Un evento epocale, che più che scientifico e intellettuale può considerarsi “un dramma spirituale”, fu il processo contro Galileo, che segna l’abbandono della tradizionale natura mater e l’apertura della coscienza europea alla ricerca della definizione di una natura meccanicista che liberasse i concetti scientifici dalla clausura tradizionalistica di quelli che Marsenne chiamò “gli asili dell’ignoranza”, ossia gli “universali” della scolastica76. L’abbandono del metodo d’autorità, come si dice, in realtà consisteva in una nuova definizione del razionale, della natura e financo in un rinnovamento della sensibilità. Alla ragione statica di Aristotele vene sostituita una ragione dinamica e conquistatrice, capace all’occorrenza di riformare i propri princìpi; al primato della rappresentazione del senso comune, il primato della libera ricerca; al desiderio di sicurezza […] il gusto del rischio […] simboleggiato in qualche modo nella riforma della dinamica, grazie alla quale la natura che fin lì si prefiggeva la quiete, comincia ad “amare” il moto77.

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Cambia lo sguardo sul mondo, i cui fenomeni vengono distinti dalla loro essenza, la cui sopravvivenza impedirà fino al Settecento il determinismo universale, che diverrà il dogma metafisico degli illuministi, che in nome dell’unica scienza vorranno imporre allo spirito umano le stesse leggi della natura. Proprio contro di esso, nella versione occultistica o aristotelistica, era insorta la cultura scientifica del Seicento, con Pomponazzi e la scuola aristotelica padovana, che apportò un “magnifico contributo” a far uscire la cultura tradizionale da ciò che Gaston Bachelard chiama la “superdeterminazione” a cui era soggiaciuta a lungo l’umanità e in cui ancora permangono le società meno evolute. “Oggi, grazie ai lavori di Lévy-Bruhl e degli etnologi, sappiamo che un determinismo del genere è di fatto il primo postulato di ogni pensiero primitivo”, dal quale a fatica si è andato distinguendo un “determinismo propriamente scientifico, limitato alle cose”, e appunto distinto da quello animistico79. I secoli successivi dimenticarono le conquiste di libertà del Seicento dal determinismo, che non intaccò lo spirito umano e le sue creazioni nel campo morale, religioso ed estetico. La scienza di Gassendi interessa fenomeni elementari e non rapporti essenziali, per cui “fa posto alla fede” nel Dio creatore. Con la fine dell’aristotelismo, bisognava decidersi tra una nuova fisica dei princìpi e una scienza ipoteticistica che si limita a offrire risposte plausibili anche se provvisorie a esigenze pragmatiche. Cartesio opta per la prima ipotesi, mentre Pascal per la seconda. Per Cartesio, la scienza ci deve fornire il certo, ci deve condurre a una verità stabile, vale a dire, per definizione, a una verità eterna. E non appena si colloca l’eternità entro la verità, per quanto si faccia o si dica, si sta già oltre l’uomo, in essa s’è posto un riflesso di Dio. Ambedue queste intenzioni, religiosa e scientifica, di Cartesio confluiscono nella sua teoria dell’induzione. Chiedersi qual è il fondamento dell’induzione equivale a chiedersi in sostanza perché viviamo in un universo in cui sono possibili le leggi [piuttosto che il mondo] di Paracelso o di Campanella80.

Bisognava partire dalla ricerca di un possibile nesso tra il mondo quantitativo e quello qualitativo, che la nuova fisica aveva diviso abissalmente. Le nostre rappresentazioni si accordano con le cose? Qual è il nesso empirico tra sensazione biologica e fenomeno psicologico? Il rapporto per Cartesio resta un fatto senza sufficiente spiegazione81. Inoltre, chi ci assicura dell’intelligibilità razionale del mondo? La nostra scienza è un insieme di ricette pratiche, così come l’ha definita Gassendi, ma è possibile una scienza della verità? Cartesio crede che il mondo preso in sé costituisca un cosmo indipendente dal pensiero che si ha di esso, ma senza veramente saperlo, altrimenti la scienza sarebbe compiuta e non abbisognevole di ipotesi sempre modificabili. Ma che il mondo sia intelligibile Cartesio, come tutti i razionalisti, lo ritiene in quanto 66

opera di una Mente. Egli pone Dio “all’origine di qualsiasi scienza che creda in una verità eterna”. Fino allora Dio s’era provato partendo dal mondo, il che costringeva a ricominciare daccapo la dimostrazione tutte le volte che l’idea del mondo cambiava […]. Perciò egli inverte l’ordine delle dimostrazioni. Lungi dal concepire la metafisica come un prolungamento della scienza, chiede alla metafisica di giustificare e di fondare la scienza: la nostra ragione s’accorda con le cose perché sia l’una che le altre sono opere di Dio 82.

L’uomo è l’unico a poter pensare la scienza, ponendosi su un piano diverso da quello fenomenico. Elimina la nozione di “materia pensante” cara all’ilozoismo greco (e poi al materialismo settecentesco) e sostituisce la ragione pragmatista di Aristotile con la ragione matematica, rovesciando la fisica dell’empirismo, che parte dagli effetti per risalire alle cause, spiegando gli effetti con le cause, cercando di disegnare una macchina cosmica coerente “come un teorema di Euclide”, e non ferma allo sperimentalismo infinito in cui si erano impantanati gli alchimisti. Lo schema matematico-deduttivo segna infatti la differenza tra il Medioevo di Bacone e il mondo moderno. Ma una scienza compiutamente deduttiva resterà sempre un miraggio idealistico. Infatti, la compiutezza comporta la riduzione ad unità logicamente coerente la molteplicità fenomenica, stabilendo così l’identità dei due termini di “unità” e di “molteplicità”. Su questo miraggio lavora la logica matematica quale “scienza integrale”, tesa a chiudere in un principio ideale – cioè in una formula matematica – il divenire della realtà molteplice.

5. Diversa la posizione di Pascal, che opta per una fisica, non dei princìpi o dimostrativa, ma intesa come “collezione di fatti tenuti insieme da ipotesi sempre soggette a revisione”, così che “l’esperienza dev’essere ritenuta come la sola effettiva origine delle nostre ipotesi e quindi la ragione scientifica si verrà modificando man mano che le esperienze ‘si moltiplicano’ ” 83. Il sapere scientifico è quella conoscenza pragmatica che serve all’homo viator per risolvere le sue questioni pratiche, per cui ogni epoca ha la sua scienza relativa ai fenomeni scoperti e collegati, ed essa non può dare risposte definitive né dimostrazioni necessarie a chiarire la natura del destino umano. In tal senso la ragione scientifica deve lasciare il posto alla intuizione e alle ragioni del “cuore”, cioè quelle della fede nella “grazia” che sta a fondamento della verità. In Pascal il mistico guida la scienziato. In questo vicino a Cartesio, egli partecipa della tradizione platonica e agostiniana, per cui l’uomo è un essere pensante, come il mondo è un’occasione di pensiero, e non la vera realtà, che è ideale. Il Seicento è un secolo profondamente umanistico, ma diviso tra un umanesimo che prevede il fondamento


divino come “causa conosciuta” o ratio spiritualistica (Cartesio), e quello che invece ammette le sole cause materiali tra fenomeni, senza un posto riservato al pensiero puro, dal momento che il pensiero è in funzione della potenza (Hobbes). Generalmente, l’umanesimo sposta il pensiero dal problema dell’uomo quale essere ideale all’uomo empirico, all’essere molteplice della storia temporale, distraendosi dal pensiero di Dio. Questo movimento teoretico è all’origine della dissoluzione della sintesi religiosa cristiana, ossia del moderno razionalismo “emancipato” (etsi Deus non daretur), che si propone di eliminare col pensiero il mistero, e con questo la stessa fede. Come asseriva Pascal “se si assoggetta ogni cosa alla ragione, la nostra religione nulla avrà più di misterioso e di soprannaturale; se si offendono i principii della ragione, sarà assurda e ridicola” 84. Anche il mistero dunque deve definirsi, ossia essere circoscritto dalla ragione nel suo ambito, come già aveva insegnato Agostino, per il quale “che la fede debba precedere la ragione è esso stesso un principio della ragione” 85. La fede, sostiene Pascal, non è “un dono del ragionamento” ma “di Dio” 86, e non perviene a dimostrazioni, che sono atti di ragione, ma la dimostrazione è lo “strumento” della fede87. Il servizio reso alla fede fa della ragione il metodo e la scrittura logica del discorso religioso, che coincide con la scoperta stessa della verità, che dunque è interna al Mito e non lo fronteggia razionalisticamente.

provata. Su quali dimostrazioni riposa la nostra convinzione che domani tornerà a splendere il sole, o che un giorno moriremo? Dunque è l’abitudine a persuadercene, [sicché l’abitudine è] una credenza più agevole, che senza violenza, senz’arte, senza argomentazioni, ci fa creder le cose e inclina verso questa credenza tutte le nostre facoltà. [Infatti] bisogna che tutt’e due le parti di noi stessi credano: l’intelletto, per opera delle ragioni, che basta aver conosciute una volta; e l’automa, per mezzo dell’abitudine, e impedendogli d’inclinare verso il contrario 93.

La più lenta è la ragione, che tende ad assopirsi o a smarrirsi, poiché, fondandosi su tanti princìpi, deve poterli tenere tutti presenti e non sempre ci riesce. Più svelto è il sentimento, per cui “bisogna mettere la nostra fede nel sentimento: altrimenti, sarà sempre vacillante” 94. La Sacra Scrittura afferma che “Dio è un Dio nascosto” (Deus absconditus), e che “nemo novit Patrem, nisi Filius” 95. Tale Dio si fa conoscere nella natura e nella Storia, ma non abbastanza per tutti, bensì solo per gli animi già predisposti, separandoli da quelli più pervicaci e indegni della sua misericordia. Non era giusto, quindi, che apparisse in maniera manifestamente divina e assolutamente idonea a convincere tutti gli uomini; ma non era giusto nemmeno che venisse così di nascosto da non poter essere riconosciuto da quanti lo cercassero sinceramente96. […] Non è vero né che tutto riveli Dio né che tutto lo nasconda. M è vero un tempo ch’egli si nasconde a coloro che lo tentano e si rivela a coloro che lo cercano […]97. Il fatto che egli si manifesta qualche volta, e non sempre, toglie ogni equivoco. Se si manifesta anche una volta sola, egli è sempre; e così, si può concludere che esiste un Dio, ma che gli uomini sono indegni di lui98. Se non ci fosse nessuna oscurità, l’uomo non sentirebbe la propria corruttela; se non ci fosse nessuna luce, non spererebbe nessun rimedio. Perciò non è soltanto giusto, ma è utile per noi che Dio sia in parte nascosto e in parte manifesto, poiché per l’uomo è parimenti pericoloso conoscere Dio senza conoscere la propria miseria e conoscere la propria miseria senza conoscere Dio99.

Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i princìpi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnare la certezza […]. E in queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva88.

La stessa ragione supplisce all’ “istinto” o al “sentimento” della realtà, pervenendo alla sua conoscenza in modo indiretto, “per mezzo del ragionamento”, il quale costituisce una “fede puramente umana”, che orienta nel mondo finito e naturale, ma che è “inutile per la salvezza” 89. Ma cosa si conosce col “cuore”? La conosce del cuore è l’amore, e “il cuore ama naturalmente l’essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé” 90. Ciò vuol dire che l’amore di Dio comprende l’amore di sé, ma non viceversa, e così come si può intuire Dio amando l’uomo, si può misconoscere Dio conoscendo senza amore l’uomo, cioè per sola via di ragione. “Il cuore, e non la ragione, sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione” 91. Il cuore e l’intelletto hanno “ordini” diversi. ‘ordine del cuore è la “carità”, la quale “inclina il cuore a credere” 92. “Le prove convincono solamente l’intelletto”, ma non ogni convinzione può essere

“Ipsa veritatis occutatio aut humilitatis exercitatio est aut elationis attritio” 100. Se ci chiediamo la ragione del limite assegnato al potere intellettivo dell’uomo, e quindi allo stesso strumento razionale di conoscenza dei princìpi della realtà, intuibili soltanto, troviamo tale ragione nella circostanza essenziale e irrefutabile che la stessa realtà originaria, cioè non artificiale e non umana, ossia la realtà meta-storica, non è creazione dell’uomo, e perciò non veramente conoscibile in sé. Pascal e Vico in questo sono concordi, ma anche il cristiano Kant lo sarà. Secondo Pascal, “dei due princìpi di verità, i sensi e la ragione, non solo ciascuno manca per sé di veridicità, ma tutt’e due s’ingannano reciprocamente”, per cui “l’uomo è solo un soggetto pieno di errore, naturale e insanabile senza la grazia” 101. La grazia è dunque la condizione della verità, ossia dell’armonia tra sensi e ragione, da soli incapaci di determinarla e quindi fallaci. Non a caso, “la più spassevole causa di errori è

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la guerra che c’è tra i sensi e la ragione” 102. La coscienza razionale distingue la certezza dei fenomeni e la sua relatività metodologica, dalla valutazione di ciò che li trascende in considerazione proprio della loro limitazione prospettica, legata alla funzionalità pratica dei risultati scientifici. I sensi non ingannano perché offrono una visione incredibile della realtà, ma perché ne offrono una parziale, che non considera ciò che va oltre la loro limitata prospettiva, la cui veridicità è legata non alla ragionevolezza ma alla volontà di considerare quella prospettiva come l’unica valida ai fini del giudizio di realtà, che perciò è fallace. La fallacia dell’intelletto è legata alla sua propensione a “credere” sospinto dalla “volontà”, che è uno dei “principali organi della credenza: non perché generi la credenza, ma perché le cose sono vere o false a seconda del lato da cui vengono considerate”. E’ la volontà che trasceglie tra i diversi aspetti della realtà “le qualità di quelli che non le aggradano; e così l’intelletto, procedendo di conserva con la volontà, si ferma a considerare l’aspetto che piace ad essa, e finisce col giudicare delle cose soltanto da quel che ne vede” 103. Emerge nettissimamente in Pascal la considerazione per cui la credenza in se stessa non sia un criterio veritativo sufficiente a determinare la validità dei suoi contenuti di credenza, i quali necessitano del supporto della ragione, l’unica che possa giudicare della verità delle credenze, stabilendo la differenza tra un giudizio determinato dalla volontà di crederlo vero, e uno vero. Questo vuol dire che ogni giudizio razionale, anche formulato in buon fede, proprio perché suscettivo di essere espresso sotto ‘influenza della volontà, necessita di una integrazione, in quanto basato su elementi parziali assunti come totali. Questi elementi sono gli stessi che formano il contenuto del giudizio che afferma la realtà. Se la “realtà” dev’essere affermata, significa che può essere negata. “Negare” la realtà vuol dire prospettarne un’ “altra”, ossia pensare a ciò che non-è come realtà possibile. La possibilità indica il contrario della necessità, per cui la realtà affermata non è una realtà necessaria. La necessità appartiene al Lògos, non alla realtà, sicché la realtà affermata come necessaria è solo quella giustificata razionalmente. Senza tale giustificazione razionale, la realtà è affermata per sola fede. E ciò che è affermato per sola fede è voluto. Si vuole ciò che non è necessario. La realtà voluta è quella che nn è giustificata per via di ragione, ma appunto per via di fede. Volontà (fede) e Ragione (logica) sono elementi della realtà che la qualificano come possibilità (desiderio) o come necessità (forza). La scelta tra le due forme di realtà è conseguente alla dissociazione razionalistica della sintesi religiosa cristiana di fides et ratio e la conseguente emancipazione della ratio dalla fides, da cui si origina il razionalismo. Assunta la realtà come

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Storia, il razionalismo la interpreta come luogo della necessità. L’altra forma della dissoluzione religiosa è l’assolutizzazione della fede, che conduce al fideismo. La “sola fides” (Lutero) esprime la credenza che la Storia sia il luogo della possibilità. La Storia come necessità è la Storia della Forza, ossia il dominio della ragione politica. La Storia come possibilità è la Storia della Volontà, ossia il dominio della ragione economica. Sia il razionalismo (politicismo) che il fideismo (economicismo) negano la dimensione religiosa della realtà, affermando che la parte (sia essa determinata dalla ratio ovvero dalla fides) sia il Tutto, inteso come l’Essere della volontà o del giudizio. Se la volontà presiede alla stessa decisione ontologica tra Essere e Nulla, la credenza nell’Essere è viziata dal volontarismo particolaristico. Ed è appunto la volontà che, “proclive ad amare”, sospinge per Pascal verso la fede nell’Essere. Quindi, se l’intelletto, quale volontà di credere, “ama” il proprio giudizio di realtà, motivandolo “in un secondo tempo”, significa che la fallacia dell’intelletto è di mascherare di buone ragioni le scelte compiute “solo perché la cosa piace” 104. Pascal chiarisce, in anticipo rispetto a Pareto e alla sua teoria delle “derivazioni”, il rapporto tra volontà e intelletto, caratterizzandolo come giudizio parziale di realtà, fondato sul “piacere”, ovvero sull’interesse pratico, che è la ragione della scienza, e non sulla verità, che è la conoscenza della totalità della realtà. A questo punto possiamo comprendere, da un lato, il movimento che spinge il lògos a ripensare criticamente il fondamento fideistico del Mito, cioè il suo aspetto dogmatico e volontaristico (“ideologico”), e dall’altro lato possiamo comprendere il significato teoretico della “grazia”, la quale ha la funzione di consentire quella integrazione di verità necessaria a superare la parzialità dei sensi (scienza) e dell’intelletto (fede), mettendoli nella giusta relazione (recta ratio). Superamento dei sensi (cioè dell’esperienza e dell’abitudine) e superamento del giudizio razionale (cioè del logicismo “dialettico” socratico) sono operazioni indispensabili per conseguire la verità come conoscenza della totalità dell’Essere. E poiché la parzialità è ciò che viene superata dalla grazia per conseguire la verità, e la parzialità è l’affermazione della volontà, la grazia supera la volontà di definire la parte come Tutto, affermando le ragioni dell’altro, del diverso, del “prossimo”, che il giudizio parziale ha escluso quale volontà di parte. In altri termini, la grazia afferma la verità, ossia la totalità dell’Essere, scoprendone la sua natura dialettica. La grazia dunque è teoreticamente il principio dialettico stesso della verità. La scelta religiosa è giustificata dalla necessità, che assegna alla fede il suo fondamento appunto necessario. La realtà critica, espressa dalla dissoluzione religiosa, che emancipa la ragione dal suo


fondamento di fede, emancipa nello stesso tempo la fede da ogni necessità di giustificazione razionale, inaugurando la dimensione della libertà: la libertà del volere rispetto alla necessità della ragione, e del giudizio razionale rispetto al fondamento della fede. Libertà, dunque, è sinonimo di emancipazione della ragione dalla fede, e di affermazione della fede senza giustificazione di ragione. La libertà “da” la fede è l’affermazione “di” volontà in sé, priva di giustificazione razionale. Da qui la contraddizione del razionalismo che, emancipatosi dalla fede, si traduce in attivismo irrazionalistico (utilitarismo, edonismo, economicismo, vitalismo, libertinismo). Se al posto del termine di “razionalismo” poniamo quello di “liberalismo”, la contraddizione appare ancora più evidente, poiché l’esito di ogni volontarismo libertario è l’oppressione necessaria della forza: “necessaria” appunto a interrompere la contraddizione e “fortezza” di risolverla positivamente in realtà d’ordine, ossia in decisione di fede, che è la condizione opposta alla decisione liberale. La Storia intesa come “storia della libertà” è il processo della dissoluzione del cosmo religioso cristiano. In età moderna tale processo è contrassegnato dall’avvento del razionalismo teoretico, del fideismo religioso, del liberalismo politico e dell’utilitarismo economico, tutte espressioni culturali della mentalità soggettivistica di origine umanistica. Se i sensi e l’intelletto sono fallaci, in quanto dominati dalla volontà, come mai essi non si rivolgono all’immaginazione come rimedio teoretico? Secondo Pascal, l’immaginazione è

rivoluzionario, potevano cancellare lo stesso ingente patrimonio di saggezza accumulato nei secoli dall’umanità, rovesciando così in danno le conquiste della conoscenza scientifica. Da qui l’elogio della “abitudine” come la vera “natura” umana106. Infatti, afferma Pascal, i nostri principi naturali [sono] i nostri principi abituali […]. Una differente consuetudine ci darà altri principi naturali, come l’esperienza insegna; e se ce ne sono che non possono esser cancellati dall’abitudine, ci sono anche principi abituali contrari alla natura, che né la natura né una seconda consuetudine riescono a cancellare107.

Ciò vuol dire che la “disposizione” naturale dell’uomo è una “prima abitudine, così come l’abitudine è una seconda natura” 108. Tale condizione è già una forma di emancipazione dalle origini naturali, che fa dell’uomo un essere moralmente diverso dall’esponente di ogni altra specie, in quanto capace potenzialmente di costruire sulla sua esperienza di vita naturale una seconda natura, che è quella della sua civiltà alla quale appartiene e in base alla quale egli agisce abitudinariamente, con la spontanea naturalezza derivante dalla sua educazione, che dà il segno – la “potenza” – alla sua condizione umana, la quale, nondimeno, è pur sempre un prodotto culturale, sociale, e come tale reversibile fino alla sua scomparsa delle inclinazioni della condizione naturale primigenia. La potenza della consuetudine è tale che di coloro che la natura ha fatto solamente uomini, si fanno poi tutte le diverse condizioni […]. E’, dunque, tutto effetto della consuetudine, la quale violenta la natura. Pure, qualche volta questa riprende il sopravvento e trattiene l’uomo nelle sue inclinazioni native, nonostante qualsiasi consuetudine, buona o cattiva che sia109.

maestra di errore e di falsità […] segnando col medesimo carattere il vero e il falso, [persuadendo anche] i più savi, [ponendosi come una] superba potenza, nemica della ragione, che si compiace di controllarla e di dominarla, per mostrare quanto grande sia il suo potere in ogni cosa, [che] ha costituito nell’uomo come una seconda natura, [facendo] credere, dubitare, negare la ragione; sospendere i sensi e facendoli agire, [rendendo] pazzi [e] savi [a seconda dei casi, e] coloro che s’immaginano di essere grandi uomini provano un compiacimento di sé molto diverso da quello che possono ragionevolmente nutrire le persone di senno, [sicché] l’immaginazione non può rendere savi gli stolti, ma li rende felici, a dispetto della ragione, la quale non può rendere i suoi amici se non miseri. L’una li copre di gloria, l’altra di vergogna […]. L’immaginazione dispone di ogni cosa: crea la bellezza, la giustizia, la felicità, che in questo mondo è tutto105.

Le “inclinazioni native” sono la originaria “natura” dell’uomo, le abitudini prime, sulle quali vuole incidere una natura seconda, le nuove abitudini derivate dall’incivilimento. A volte le prime vengono soppiantate da quelle di poi, altre volte resistono alla novità e persistono, oppure, dopo alcun tempo, ritornano in essere. Ciò in dipendenza diretta dall’incidenza o meno della ragione. “La ragione rende naturali i sentimenti, e i sentimenti naturali scompaiono per opera della ragione” 110. Ciò significa che la “natura” umana, ossia l’abitudine ad ossequiare certe abitudini, è costituita dalla ragione, che fa dei sentimenti ammessi dalla ragione forme di sentire naturalizzate. E incidendo su di esse al fine di modificarle, afferma altri sentimenti facendoli sentire a sua volta come “naturali”. Il ruolo della ragione è dunque servile, fungendo da giustificatrice dei sentimenti e da rinnovatrice di modi di sentire obsoleti. Proprio per tale funzione, la ragione non può fondare la verità, rimandando sempre a qualcosa di originario che essa ha da giustificare o emendare. La giustificazione razionale rende “naturale” la volontà,

Il realismo di Pascal, che ha accenti quasi platonici per le sue riserve contro le involuzioni della fantasia, intende mantenere la dimensione del discorso gnoseologico a un piano di serietà teoretica che impedisca di allargare alle conquiste della scienza le critiche legate alle pretese di uno scientismo incurante dei valori trascendenti la pura coerenza formale del metodo razionalistico, la cui opera di svalutazione delle conoscenze tradizionali rischiava di sfociare in forme di superstizione immaginativa che, per spirito

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ossia i “sentimenti”, per cui nella ragione ricade la responsabilità di vegliare sulla loro giustezza. Da queste premesse scettiche discende la convinzione che non esista un’idea universale valevole per tutti gli uomini, i tempi e le culture, e che “la nostra natura [umana]”, non sia che un “continuo mutamento” 111, legato al variare della coscienza razionale. Contrariamente agli stoici,Pascal ritiene che “il capriccio degli uomini”, ossia la varietà dei costumi e dei sentimenti, ha così diversificato i valori che “il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose”, poiché “nulla, secondo la pura ragione, è per sé giusto; tutto muta col tempo. La consuetudine fonda tutta quanta l’equità, per la sola ragione che è seguita: questo è il fondamento mistico della sua autorità” 112. L’autorevolezza in questo caso è legata non alla ragionevolezza ma alla consuetudine in se stessa, alla tradizione, che diventa fonte di giustezza. “la giustizia è quel che è stabilito. Così tutte le nostre leggi stabilite saranno di necessità stimate giuste senza esser esaminate, sol perché sono stabilite” 113. Costituisce l’aspetto fideistico delle consuetudini, il risvolto dogmatico della ragione, che viene confermata non perché ritenuta giusta ma per l’inerzia della volontà, quella “pigrizia della ragione” di cui parlava Bacone a proposito delle dottrine tramandate e perciò solo ritenute vere. La stabilizzazione delle leggi è un processo direttivo della volontà, che trasceglie tra le tante volontà quella reputata giusta e meritevole di essere perseguita. Ma tale scelta compete alla ragione, che giustifica la volontà, sicché la scelta confermata razionalmente, perché diventi “abitudine” stabile, dev’essere appunto “stabilita” come necessaria, ossia ritenuta giusta per tutti. La volontà interviene a stabilizzare la scelta di ragione rendendola pubblica, comune a tutti. E a questo compito è preposta la “forza”, che impedisce che la “giustizia” venga “contraddetta”. Come ogni giudizio razionale, “la giustizia è soggetta a contestazione”, per cui essa dev’essere confermata dalla forza per affermarsi, col rischio implicito che questa alla fine prevalga sulle ragioni che doveva difendere, sicché alla fine “la forza si è levata contro la giustizia, affermando che essa sola era giusta. E così, non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto” 114. La forza della volontà prende su di sé l’ideale di giustizia per giustificarsi, e la volontà diventa l’idealità stessa. L’opposto, astratto dal Tutto, si converte in contrario, che del Tutto fa pur parte. Se traduciamo “forza” con “istituzioni” otteniamo che il giudizio razionale che giustifica la volontà sociale a costituirsi nelle sue forme storiche viene stabilito “giusto” attraverso la forza, espressiva di quella volontà. La giustizia ideale, spaiata dalle sue giustificazioni razionali, vive socialmente come forza istituzionale, la quale a sua volta manifesta la sua

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efficacia indipendentemente dalla sua giustificazione razionale, che pure rappresenta effettualmente. Tale effettualità, che è la realtà della forza, si manifesta come “opinione dei più”, i quali reputano che “sia giusto obbedire alla forza”. Pertanto, “non essendosi potuto rendere forte la giustizia”, cioè indipendente dalla forza per affermarla socialmente, si è giustificata la forza, affinché la giustizia e la forza possano andare congiunte e regni la pace, che è il supremo dei beni” 115 . In questo discorso si rende implicito il legame tra forza e ideale razionale, tra politica e giustizia, procedendo sia per distinzione che per confusione dei due concetti. Infatti, la congiunzione di forza e ideale si realizza nell’esercizio della giustizia, per i quale è indispensabile l’efficacia della forza, che perciò è strumento di giustizia. La distinzione, di contro, si stabilisce allorquando l’ideale viene assunto come un succedaneo della volontà di cui è servo. Ma la volontà iniziale, giustificata dalla ragione, e la volontà finale, la forza strumento dell’ideale, non sono la stessa volontà. La volontà iniziale, infatti, non è ancora “forza” sociale, volontà pubblica, ma lo diventa attraverso la giustificazione razionale, che fa di essa una volontà “giusta”, valevole per tutti e contro ogni diversa volontà. E’ in questo momento che la “volontà” diventa “forza” al servizio del principio che l’ha a suo tempo giustificata. Ed è questa forza giustificata ad essere “giusta”, cioè razionalmente ammissibile. In tal senso la giustizia, finché è tale, e cioè ideale razionale, non ha una sua “forza”, ma è quando diventa “forza” che manifesta la sua realtà sociale. Sicché, forza giustiziera e giustizia sociale diventano tutt’uno. Allorquando la giustizia astratta diventa concreta forza, tale da foggiare le abitudini sociali, essa diventa “opinione dei più”, la quale è a sua volta essa stessa “forza” sociale espressiva di giustizia reale, cioè giustificatrice della forza efficace. Opinione pubblica e forza sono dunque endiadi, e costituiscono la sintesi reali di valore ideale (giustizia) e forza sociale (politica). “perché si segue l’opinione dei più?”, si chiede Pascal, “perché hanno più ragione? No, ma perché hanno più forza” 116. Ma l’opinione dei più, in quanto affermatasi come realtà sociale, ha superato la divergenza tra diverse volontà e rispettive ragioni giustificatrici, essendo essa stessa la ragione e la forza dominanti storicamente. Avere “più ragione” rispetto alla ragione-forza dell’opinione corrente, non basta a negarla, socialmente, ma solo contrastarla idealmente, cercando di affermare la nuova volontà-ragione attraverso una volontà più forte di quella già dominante. L’abitudine è dunque l’inerzia della forza, da cui essa prende l’abbrivio per esercitarsi legittimamente ed efficacemente. Da qui il protagonismo della forza, come volontà giustificata e quindi legittima, sull’idea razionale e sull’abitudine, ossia sulla latenza della sua giustificazione razionale


quanto l’oggetto filosofico è lo stesso oggetto della fede ispirato dalla volontà che presiede alla scelta ontologica. Oggetto di credenza, sia pure razionalizzata, ma pur sempre mitologico. La dialettica platonica esautora la fede del mito ma non supera la credenza indispensabile all’esercizio della ragione: che l’Essere è. La opzione ontologica fondativa della scienza razionale è scelta di volontà, di fede: è credenza nella realtà dell’Essere, ma non presupposto di verità. E’ un’opzione arbitraria, come ogni volontà di credenza. La dialettica cristiana (nel nostro caso, pascaliana) non è interna al mito, e perciò non è opinabile come ogni altra fede di credenza. L’oggetto di fede cristiano viene sottratto al fondamento ontologico volontaristico, e quindi all’opinione, in quanto creazione divina, in sé misteriosa, non riducibile a oggetto di pensiero, a realtà disponibile alla ragione. La ragione conosce ma non crea, e potendo conoscere veramente solo il suo oggetto di pensiero, resta sempre al di qua del mistero divino, cioè della creazione naturale originaria e non umana. In tal senso, la scienza si muove pur sempre all’interno della creazione umana, ossia del mito quale oggetto d’opinione: all’interno quindi della “immaginazione” e della certezza ontica, che conosce solo l’ente in quanto ciò-che-è nella sua apparenza fenomenica. La filosofia quindi si dispiega come risposta razionale, come definizione logica, di cosa sia ciò che appare, di ciò che “è” l’apparenza. Ma l’essere dell’apparenza non può andare oltre la apparenza stessa, sia pure razionalmente definita, ne consegue che l’essere razionale “è” apparente, e ogni filosofia,non superando il limite di ciò che appare, è scienza della volontà o della immaginazione. L’esistenza è dunque il fondamento di ogni pensiero, la certezza originaria dell’uomo. Agostino l’aveva asserito ben prima di Cartesio. Ma se tale fondamento non è di verità, nessun pensiero sarà mai verace. Da qui la compatibilità di fede e ragione nel Cristianesimo, superatore dell’antica dialettica esclusiva esercitata dalla ragione sul Mito. E’ la sintesi religiosa cristiana che supera il Mito senza sostituirlo con altro analogo. Già Cartesio, nel dubbio se l’uomo fosse creato da un demone maligno anziché da un dio benigno (Prima Meditazione), risolve la questione solo ammettendo l’esistenza di Dio (Discorso sul metodo, IV), “non essendoci certezza fuori della fede”, secondo la tesi dei pirroniani ripresa polemicamente da Pascal. Si può dubitare di tutto?, si chiede Pascal. “A tanto non si può giungere […]. La natura soccorre la ragione impotente e le impedisce di vaneggiare sino a quel punto” 120. Infatti il “cuore”, ossia il “sentimento naturale”, “la natura soccorre i pirroniani e la ragione confonde i dogmatici”, come Socrate Eutifrone. Nessuno può “fuggire queste due sette, né acquetarvi in nessuna” di esse. Non rimane dunque che riconoscere che “l’uomo

e, rispettivamente, pratica. La condizione umana non può essere puramente naturale, brutale, in quanto essa è quella di un essere creato. L’atto di creazione implica l’ulteriorità e diversità rispetto alla condizione naturale da parte di un essere assimilabile spiritualmente a Dio. Pascal fa propria la tesi di Agostino, e quindi di Giansenio, dell’impossibilità per l’uomo di paragonarsi alla condizione di Adamo senza i doni soprannaturali elargiti da Dio, cioè creato “in puris naturalibus”. L’esistenza della colpa originaria è comprovata dalla stessa ricerca di Dio, come pena finale di chi non ne è compiutamente partecipe: “non est naturae iustituti hominis, sed poena peccati” (Agostino, De libero arbitrio, III, 18)117. Felicità, dovere, amore “sta nell’essere in lui e il nostro unico male nell’esser separati da lui”, cioè da Dio118, il creatore dell’uomo e l’unico che può veramente conoscerlo. La ignoranza (“cecitas cordis”) concerne per Agostino principalmente le verità morali, e insieme alla concupiscenza, o depravazione della volontà, nella sua triplice forma di “libido”, quella “sentiendi”, quella “sciendi” e quella “excellendi”, costituiscono le conseguenze del peccato originale di Adamo. Questa condizione impedisce all’uomo di trovare da sé la verità e il bene, né in sé. La filosofia, pur promettendolo,non può mantenerlo, perché non conosce la verità. solo l’unità con Dio e in Dio, per grazia, può conseguirla. “Tutto quello che è incomprensibile non perciò non esiste”, per cui “ci sono cose incomprensibili nella loro maniera d’essere e certe nella loro esistenza” 119. Proprio questo oggettivismo, legato al mistero dell’ignoto esistente, crea la meraviglia (thauma) per ciò che esiste ed è certo ma inspiegato. La condizione filosofica per cui la ragione possa conoscere tutta la realtà, e quindi attingere alla verità, è che l’oggetto da conoscere sia creazione del pensiero. Solo a questa condizione la ragione esclude la fede e la creazione umana Dio. La ragione è il segno della divinità nell’uomo, il discrimine dalla bruta condizione ferina di una naturalità ignara di sé e di Dio. Ma la ragione stessa non può giungere alla verità senza la grazia, perché strumentale alla rivelazione, ossia a quella certezza del sentimento che è verità incognita, perché potenziale, cui si può giungere attraverso Dio creatore, ossia per sua graziosa intercessione. In tal senso, la risposta della ragione al thauma, per quanto logica, rimane pur sempre circoscritta alla dimensione del Mito, ossia fondata sul principio volontaristico che costituisce l’oggetto della ragione, della sua giustificazione razionale. Volontà di fede e giustificazione razionale non vanno oltre il mito; occorre la mediazione della grazia, per giungere alla verità, ossia al superamento del contrastante pluralismo delle fedi e delle volontà Pertanto la dialettica opinione-scienza proposta dalla filosofia non supera la dimensione del mistero, in

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eccede infinitamente l’uomo e apprendere [da Dio] la effettiva condizione [umana]”. La condizione corrotta dal peccato impedisce infatti di riconoscere immediatamente e con certezza la verità ed essere perciò felici.

partecipare, come essere finito, alla condizione molteplice degli enti fisici, non può affidarsi, ai fini della comprensione del suo stato ontologico, ai soli sensi, che guidano l’esperienza della realtà finita, o alla sola ragione, che distingue i fenomeni dalla loro essenza e li collega alle loro cause efficienti. La ragione stessa, infatti, che pure giustifica nella maniera umana le intuizioni del cuore, è di per sé fallace, come si è visto, dipendendo dalla volontà che presiede alle sue scelte preferenziali. D’altronde, la sola fede, che pure assegna al dubbio i suoi limiti invalicabili, fidando nella verità intuitiva della coscienza, non può che affidarsi alla ragione per tradurre in termini umanamente comprensibili l’immensità del mistero, facendolo oggetto di pensiero, oltre che di fede. Il mutuo soccorso di fede e di ragione, che costituiscono gli elementi essenziali di ogni credenza giustificata umanamente, produce il risultato storico della religione; di ogni religione storica. La quale, a suo modo e tempo, risponde all’interrogativo posto dalla realtà del mistero. L’elemento ultroneo della religione cristiana, del quale è privo ogni altra credenza, è la natura del fondamento oggetto del pensiero umano, che rimane incomprensibile a ogni ragione in quanto precedente ogni pensiero, e perciò increato da esso. Un fondamento increato, indipendente dalla volontà dell’uomo e non manipolabile a libito, “sacro” nella sua eterna inviolabilità, e in-definibile in virtù della sua possibilità di restare eternamente trascendente ogni determinazione e definizione e trasformazione in termini “naturali” e umani. Questo fondamento, che presiede a ogni realtà certa, ossia a ogni finitezza mondana, a ogni esperienza reale, come a ogni giustezza di pensiero, ossia a ogni definizione razionale della attività della conoscenza, consente il collegamento metafisico tra le due nature ontologiche dell’uomo. Il Niente, che sta all’origine dell’Essere e dell’ente, da cui tutto pro-viene e in cui tutto di-viene, trova la sua forma simbolica nella Morte, che consente la mediazione del finito con l’infinito. Non a caso la morte di Gesù consente la trasformazione della sua umanità nella divinità consustanziale. La Morte, dunque, o il Niente, racchiude la verità del mistero che è all’origine della fede in esso e della sua giustificazione razionale. Perdere il senso del mistero originario, equivale a diventare “natura”, ossia simile in tutto agli enti nonspirituali, entrare cioè in una condizione di indifferenza ontologica per la quale ogni ente è uguale a ogni altro. Tale uguaglianza ontologica, che segna il regno della finitezza, rende ogni ente fungibile, compreso l’uomo de spiritualizzato, che diventa “cosa” tra cose, trasformabile a piacere. L’uguaglianza universale degli enti mostra la loro astratta natura finita, di realtà chiuse alla dimensione trascendente, impartecipi dell’unità mistica del mistero originario, della realtà di Dio, che si “nasconde” in virtù della sua

Noi abbiamo un’idea della felicità, e non possiamo conseguirla; sentiamo che c’è in noi una immagine della verità, e possediamo soltanto la menzogna: egualmente incapaci di ignorare in modo assoluto e di conoscere con assoluta certezza121.

Ma come giustificare la trasmissione del peccato originale? Nulla offende maggiormente la nostra ragione come il dir che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, essendo lontanissimi da tale origine, sembrano incapaci di avervi parte. Una tale trasmissione ci sembra non solo impossibile, ma anche sommamente ingiusta122,

al pari della dottrina (agostiniana) della dannazione dei bambini morti senza battesimo. Questo è un “mistero”, che è “il più incomprensibile di tutti”, ma senza la cui ammissione “noi siamo incomprensibili a noi stessi”. Il fondamento sia della fede che della ragione è dunque un “mistero”, una realtà assoluta e inaccessibile alla ragione, che pure “si rivela come la condizione necessaria dello stesso intelligere”, l’unica “ipotesi valida che spieghi e chiarisca i fenomeni della nostra vita interiore” 123. “Credo ut intelligam”. Ipotesi certamente fideistica, ma quale ipotesi non lo è fino a quando venga confermata dai fenomeni, dalla verità di fatto? E proprio in virtù della sua capacità di spiegare la condizione umana, contraddittoria perché duplice, la dottrina del peccato originale dimostra una sua insuperabile validità teorica, che sarebbe contrario alla ragione non ammettere. Da qui la “sottomissione” della ragione alla fede; la necessità di farlo al fine della stessa comprensione della verità. in questo senso, la misteriosa dottrina viene confermata dalla ragione, e diviene razionale essa stessa, così come la ragione che la spiega a suo fondamento diventa ragione di fede. L’autorità religiosa ci comunica dunque che ci sono due verità di fede egualmente ferme: la prima, che l’uomo, nello stato di creazione o i quello della grazia, è elevato sopra tutta la natura, reso come simile a Dio e partecipe della sua divinità; l’altra, che nello stato della corruzione e del peccato stesso è decaduto da quello stato e reso simile ai bruti124.

Elevarsi “sopra la natura” vuol dire superare la condizione di finitezza, e cioè la realtà molteplice degli enti fisici, partecipando all’unità ideale dello Spirito divino. Viceversa, “decadere” allo stato naturale, significa esistere come ente molteplice, realtà finita tra realtà finite. La duplice natura umana, tale da volgersi per un verso all’unità ideale (divina, eterna) e per l’altro

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all’inverso, è l’unità il presupposto e la distinzione un portato razionalistico dell’epoca. Ma fin quando il pensiero si mosse all’interno dell’orizzonte epistemico cristiano, i termini del rinnovamento spirituale furono dettati dalla attività artistica, il cui carattere creativo mutuava il suo potenziale simbolico dal modello della creazione divina, così come l’ascendente carismatico dell’artista dal senso di mistero che avvolgeva la sua arte. Se pensiamo alla tradizione tre-quattrocentesca italiana, che rappresentò l’avanguardia e l’apice della cultura europea del tempo, essa accreditò l’importanza preferenziale del rinnovamento artistico – a opera dl Petrarca, di Giotto e di Dante – su ogni altro aspetto della vita ideale e civile coeva, contrassegnando così il primato della cultura sulla politica e conseguentemente della morale sull’economia. Più generalmente, il primato della teoresi sulla pratica era ciò che Hegel chiamerebbe “l’essenza spirituale” del Medioevo. Ed esattamente lo “spirito medievale” rimase caratterizzato da un “motivo dominante”, costituito “dal problema dei rapporti tra Dio e uomo, e dal senso, cristiano e agostiniano, del peccato e della grazia”., in cui si compendiava “la vita, morale e spirituale, che ha il suo centro nella concezione religiosa del mondo e si attua nell’organizzazione ecclesiastico-gerarchica della società” 127. Tale “problema”, però, non era circoscritto alla “realtà dello spirito” come sola “vita di pensiero” e “modo con cui i propositi e le azioni degli uomini vengono sistemati concettualmente e da puro agire pratico, istintivo, diventano un credo spirituale, un programma di vita” 128, ma investiva la concezione antropologica stessa della civiltà cristiana, ossia l’idea di persona che, sorta all’interno della cultura cristiana, è all’origine dell’ideale di personalità del Rinascimento, il cui individualismo è il portato secolarizzato dell’individualismo religioso cristiano, superatore dell’oggettivismo religioso antico129. Lo stesso rapporto con la cultura antica ineriva l’ideale di perfezione dell’umanità, se in senso classico ovvero in senso cristiano. Per il Cristianesimo, il modello da imitare era quello ispirato al Cristo; per la cultura rinascimentale il modello eponimo diventa quello classico e pagano. Quanto al contenuto dell’ideale, la classicità ne forniva il modello, ma quanto al “modo” della sua rinascita, era tutto cristiano e interno all’individualità personalistica cristiana. La Weltanschauung medievale incubò per secoli l’ideale rinascimentale, che segnò a un tempo la rottura delle forme culturali pregresse e la continuità dell’ispirazione essenziale, in un rapporto dialettico con il processo storico-ideale precedente e conseguente. E’ ovvia che la “Roma antica” fosse accolta “dagli uomini del Medioevo solo in quanto si accordasse con la Roma cristiana” 130, dal momento che l’antica Roma non esisteva che nella nuova visione cristiana, che se ne serviva come esperienza umana partecipe del piano teologico professato.

trascendenza.

6. Il senso del mistero nasce dalla consapevolezza del Negativo come dimensione originaria dell’Essere e di ogni ente; ma anche di ogni conoscenza. Sapere di non sapere, la “dotta ignoranza”, è dunque la precondizione di ogni conoscenza, di ogni intuizione intellettuale. Il mistero è ciò che si oppone a ogni certezza della realtà finita, sicché il senso del mistero è il senso del’in-finito. La certezza del mistero è nella stessa realtà in-finita. Solo la fede che afferma il mistero rende possibile al costituzione dell’in-finito come oggetto di pensiero e il servizio della ragione. E la fede promana da Dio, come atto della sua grazia divina. Il mistero, che è all’origine della conoscenza, è sottratto al sapere stesso; è sconosciuto in quanto non comparabile a ciò che è conosciuto. La sua originalità è fonte di “thàuma”. Ma la sua pensabilità resta pur sempre negativa, in quanto l’in-finito trascende sempre ogni de-finizione, restando eterno mistero, e perciò inizio assoluto, fondamento di ogni pensare. Affondare nel mistero equivale ad immergersi nella verità, e viceversa. Questo il significato essenziale della ricerca di Dio in se stessi, cioè nel luogo altro da ogni realtà positiva, in interiore homine, dove appunto risiede l’in-finito dell’animo umano. In questa scoperta interiore l’uomo ritrova Dio e supera ogni dubbio e ogni incertezza, superando anche i limiti del mondo finito e le molteplici congetture intellettuali escogitate dal pensiero senza fondamento per definire la realtà, che gli resta inaccessibile senza la cognizione del mistero, cioè di Dio stesso. Il pensiero filosofico del periodo del primo Rinascimento o dell’Umanesimo, caratterizzato dalla “lotta per la preminenza della dottrina platonica od aristotelica”, secondo Cassirer non perviene “a nessuna vera innovazione nel metodo”, avanzando anzi un’istanza sincretistica, in quanto “l’unità di misura” che trova concordi i due partiti avversari, è posta fuori della sfera della filosofia sistematica, in presupposti religiosi o in decisioni dogmatiche, [tanto che] il carattere scolastico, che questa filosofia sembra ancora conservare ovunque, ha, come conseguenza, che non si possa qui tirare in nessun punto una linea chiara e netta di confine tra il pensiero filosofico e quello religioso [per cui] la filosofia del quattrocento è e rimane, e questo proprio nelle sue opere più significative e feconde, essenzialmente teologica125.

La “forza fondamentale dello spirito dell’epoca” è visto infatti nell’ “impulso alla netta delimitazione e formazione, alla distinzione e individualizzazione” 126, ossia, più propriamente, nella dissoluzione della cosmologia cristiana operata dal razionalismo. E’ interessante e significativa l’idea che la filosofia, come disciplina distinta dalla teologia e dalla fede, venga posta come presupposto della conoscenza, per cui diventa “conseguenza” l’unità del sapere, mentre,

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Avvenne lo stesso per la filosofia greca, di cui gli stessi umanisti si servirono a modo loro per conseguire i loro fini ideali. Qualunque esperienza ideale è al servizio della coscienza ermeneutica di chi ne usufruisce. In tal senso, ogni interpretazione piega la realtà nei termini ideali della propria ragione, e soltanto l’ammissione di una realtà “in sé” può deciderne la congruità o la mistificazione. Questa realtà “in sé”, che Platone chiamò Idea, è la Weltanschauung dell’epoca che interpreta se stessa, quel “modo” d’essere e d’intendere caratteristico che deve potersi ammettere per ogni tempo, ognuno espressivo di un “modo” di concepire la realtà, anche passata. La Roma rinascimentale era certamente diversa dalla Roma cristiana, ma anche dalla Roma classica, e ognuna di quelle diverse rappresentazioni era vera secondo il suo “modo” interpretativo. Dietro, quindi, alla questione della fedeltà alla classicità si nascondeva il motivo antropologico di cui si è detto sopra, un motivo che rimase modale fin quando il fondamento ontologico dell’antropologia cristiana non fu messo in discussione dalla critica razionalistica, e che divenne quindi contenutistico allorquando prevalse il motivo razionalistico eversore dell’unità religiosa del cosmo cristiano. Ogni epoca elabora a proprio “modo” l’esperienza storica che culturalmente rigetta o che prende a modello dei suoi ideali culturali, modelli i quali esistono storicamente non disgiunti ai modi delle loro storiche rappresentazioni. Così, il realismo naturalistico dei classici fu assunto dai medievali in termini teistici. Lo stesso realismo, ma in chiave concettuale, fu svolto dai rinascimentali in termini umanistici. La novità essenziale del Rinascimento: il suo cosiddetto “realismo e individualismo” conduce, come nell’arte e nelle lettere, così nella scienza, nella teoria politica e nella storiografia, all’affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici, e dell’opera d’arte e della politica e della scienza e della storia, con una linea di sviluppo continua che dall’Alberti prosegue nel Machiavelli, nell’Ariosto e sbocca nel Galilei; conduce cioè allo sbriciolamento della concezione del mondo tipica del Medioevo, in cui nessuna forma di attività umana poteva essere considerata a sé, fuor del nesso con l’insieme. All’allegoria si risponde col molto noto precetto dell’arte per l’arte: e sono due mondi essenzialmente diversi131.

Con la disintegrazione del cosmo medievale, le singole discipline intellettuali riflettevano il “proprio orto della storia” (Chabod), variegandosi per motivi e tendenze particolari. Nondimeno, la perdita del “centro unificatore”, ossia della mediazione culturale religiosa che aveva operato la sintesi di antico e cristiano, liberò i due fondamentali elementi essenziali delle rispettive civiltà d’origine, ossia il principio di libertà, proprio del Cristianesimo, e il principio d’ordine sociale, proprio della civiltà classico-pagana. Con l’incarnazione di Dio in Cristo, e la rinuncia di Gesù a un regno terreno, si inaugura il tempo

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dell’imitazione (imitatio Christi) del modello celeste in terra, cioè la fase del “passaggio” dalla prodigiosa creazione del mondo da parte di Dio all’unità mistica con lo spirito creatore. L’antica attesa messianica, che rimetteva nelle mani della Provvidenza ogni umano destino, venne sostituita con l’impegno responsabile di ogni credente di propiziare l’incontro di Dio nel mondo attraverso appunto l’imitazione della “via” di Cristo, che rappresenta la “verità” della possibile sapienza umana. L’uomo cristiano non è più abbandonato alla ignota volontà di Dio, ma diventa compartecipe del suo Mistero, espressione mondana della Sua verità eterna. L’umanesimo ha qui il suo nascimento ideale, la sua scaturigine teologica. Il Verbo incarnato rappresenta la perfezione umanamente possibile, il modello antropologico non mediato dalla civiltà storica, cioè da una cultura nazionale particolare, ma conseguibile attraverso il percorso personale della fede. Rispetto alla dimensione personale della libertà, conseguita dall’universalismo cristiano, il ritorno a una concezione nazionalitaria della libertà è indubbiamente un regresso culturale, propiziato dalla dissoluzione razionalistica del cosmo religioso cristiano, che, con Machiavelli e Botero, recupera la concezione pagana di condizione politica, per la quale lo Stato era una condizione naturale, e non artificiale, e quindi un presupposto dell’azione politica e dell’esercizio di governo, e non il risultato o la condizione giuridica. La posizione razionalistica del potere politico come azione demiurgica del principe, distinguendo la forza politica dalla legittimazione morale, segna un regresso rispetto alla distinzione nota alla pubblicistica medievale tra l’origine “immediata” della sovranità, di carattere umana, e l’origine “remota” attribuita a Dio, che consentiva ai calvinisti francesi, ai puritani inglesi e ai gesuiti spagnoli di trarre quel “principio della concessione popolare” del potere sovrano che ebbe “conseguenze talora rivoluzionarie, sempre gravi per i sovrani” 132. Quanto l’idea di una perfezione spirituale conseguita dalla volontà umana abbia inciso nella definizione dell’uomo come potenza creatrice del mondo umano, non sarà mai abbastanza sottolineato ai fini della comprensione della Weltanschauung umanistica propria della civiltà cristiana, superatrice del naturalismo antico, segnatamente di quello greco. Col Cristianesimo si introduce l’idea rivoluzionaria che l’uomo possa (ha il potere di) diventare Dio, partecipando della Sua potenza, avendo i Suoi attributi regali. Il fondamento dell’incarnazione è il Mistero e la Verità di tutta l’esistenza umana, ossia della Storia stessa come processo della salvezza dell’uomo terreno. Fuori di questo percorso salvifico, non c’è “Storia”, ma episodico smarrimento della coscienzaesistenza, errore. Nella Verità c’è la vera vita dell’uomo. Cristo, nuovo Adamo mondato del peccato originale, è legato a Dio solo più per origine divina,


essendo Egli stesso Dio. E’ l’apoteosi dell’umanesimo. Il rapporto fede-ragione è dialettico, cioè logico, sul piano del lògos, ossia sul piano della giustificazione razionale del fondamento ontologico, ma è dogmaticofideistico sul piano fondativo di principio. E’ questa la ragione della priorità del fondamento ontologico sul lògos che lo giustifica razionalmente, tale che la fede possa sussistere senza la ragione, mentre la ragione non possa sussistere senza la fede che la fonda nella sua verità. Le norme universali in genere – siano leggi scientifiche o morali – non possono essere comprovate dall’esperienza, come chiarito da Hume e da Popper, per cui ogni precetto che si voglia “universale” si fonda su un presupposto di fede, e cioè sulla credenza nella sua possibile validità. Quest’atto di fede è il sostrato etico di ogni principio universale, il quale, in realtà, è una norma culturale che “vale” all’interno del suo orizzonte valoriale, ossia finché dura la credenza nei suoi fondamenti. Il principio di universalità, ossia l’estensione del valore razionale della norma dal contesto fideistico della cultura nazionale all’esperienza coscienziale dell’uomo universale, è stato un portato del Cristianesimo, che ha trasferito il valore assiologico di una norma “politica” dal suo contesto socio-culturale della sua credenza de-finita istituzionalmente, al contesto in-definito di una condizione ideale meta-politica. Attraverso l’esperienza del razionalismo socratico e dell’idealismo platonico, la metafisica cristiana ha riversato nella realtà storica il valore ideale universale, facendo della Storia il luogo della manifestazione dell’Essere. Il contrasto tra la norma universale e la condotta empirica diventa problematico proprio in quanto esso viene de-istituzionalizzato, ossia non più riferito alle leggi socio-culturali della tradizione, ma rapportato a un valore assoluto, e come tale confutabile solo con l’esperienza. E poiché è inevitabile che ciò avvenga, ossia che il valore normativo venga ritenuto valido sino a prova contraria, ciò che vale per la legge scientifica vale anche per la legge morale, per cui le smentite alla loro vigenza conducono alla miscredenza circa il loro valore. In tal senso, all’origine di ogni “secolarizzazione”, intesa come rielaborazione razionalistica del Mito, vi è la stessa pretesa di universalità delle leggi del pensiero. E come la versione scientifica ha chiaramente confermato, la credenza nel valore epistemico si è trasferito modernamente dall’assoluto (non più razionalmente credibile) della fede religiosa, al relativo (epistemologicamente ammesso) della fede scientifica, senza però dismettere il comune presupposto razionalistico della fede nel valore universale delle leggi. Il relativismo, lo scetticismo e il nichilismo sono derivazioni a contrario dell’ipotesi universalistica del

razionalismo astratto, che stabilisce il fondamento di validità (verità) non nella fede, ossia nell’intuizione del mondo relativo, ma nella sua universalità logica, ossia in un principio destinato a essere smentito dal divenire della realtà. Da questa inevitabile distanza tra l’ideale e il reale nasce la crisi di coscienza idealistica e l’idea della costitutiva imperfezione della natura umana, per un verso (virtuoso) dedita a coltivare il vero ideale, e per l’altro verso (delittuoso) a smentirlo praticamente. E da qui inoltre il contrasto tra “la lezione delle cose”, che induce a considerare il mondo umano come una giungla di esseri egoisti in perfetto conflitto per la sopravvivenza e il predomini, e “la legge morale della coscienza”, che suggerisce di non perseguire gli istinti malvagi e di emendarsene attraverso la condotta virtuosa. Aver spostato il conflitto dal giudizio sociale al foro interiore, ha lacerato drammaticamente la natura umana e la stessa identità antropologica dell’uomo storico, che, in virtù dell’assunto universalistico del razionalismo cristiano, ha smarrito la sua essenza e la sua identità sociali, emancipandosi dal contesto valoriale de-finito dalla sua cultura nazionale e politica. 7. La logica stabilisce la sua unità sul fondamento del rapporto forma-contenuto. Questa correlazione concettuale costituisce una forma d’essere che insieme determina un modo d’essere del suo contenuto esistentivo. Il modo d’essere di ciò che è, interessa nel contempo il modo d’essere di ciò che esiste, per cui ciò che esiste nel modo d’essere del suo essere, esiste come ciò che è. Esistere come essere, significa essere contenuto di una forma. Nell’ambito del rapporto logico, l’essere del contenuto coincide con l’essere della forma, per cui l’esistenza di ciò che logicamente è viene identificata con l’essenza ideale, e l’essenza ideale identificata con l’esistenza reale. Ma la realtà logica non è la realtà spazio-temporale propria dell’essere fisico, per cui la determinazione formale dell’essere contenuto della forma logica non determina anche l’esistenza spazio-temporale dell’essere concettuale. Questa determinazione reale è esterna al concetto d’essere formale, il quale, senza tale determinazione reale, stabilisce col suo contenuto una correlazione assoluta, che è la realtà propria della forma artistica. L’opera d’arte è una realtà in sé conchiusa, il cui contenuto è giustificato soltanto dalla sua forma. Questa relazione assoluta consente all’opera d’arte di non sottostare ad alcun giudizio di realtà conseguente ad altro criterio che non sia quello formale suo proprio, per cui nell’arte non c’è errore perché non è possibile stabilire la correlazione tra l’essere ideale formale e l’essere reale in senso spazio-temporale o esistentivo. Correlazione che stabilisce il criterio di verità di ogni concetto logico, il quale o è oppure non è vero. Criterio del tutto estraneo all’arte, per cui assumere l’essere dell’arte come modello d’essere del concetto logico di

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realtà è una aristotelica “metabasi in altro genere”, che confonde la realtà dei contenuti di coscienza, prodotto della nostra immaginazione creativa, con la realtà degli enti fenomenici. L’arte, infatti, rappresenta la realtà, ma non la sua essenza della realtà, la quale a sua volta è diversa dalla sua esperienza reale. Un botanico può conoscere quasi tutto dei girasoli, ma non alla maniera di Van Gogh, il quale dipingendoli li rappresenta, ma non ne esprime l’essenza ideale, che è univoca, bensì l’essenza formale, che è simbolica. Il contenuto dell’arte è creato dalla sua forma simbolica, mentre la conoscenza logica dei fenomeni tratta della loro esistenza reale o fenomenica. Il che vuol dire che nella sfera logica l’esistenza precede l’essenza: la realtà è cioè indipendente dalla conoscenza. Questa realtà indipendente, non è distinta da quella teoretica, cioè pratica, ma è altra. Ed è tale alterità dalla forma conoscitiva a fare del mondo-dellavita un contenuto simbolico della conoscenza, e cioè possibile. Ed è questo contenuto ad essere l’oggetto dell’arte. La possibilità della conoscenza è dovuta all’Essere della coscienza, determinabile in relazione al suo orizzonte di senso. Se infatti il contenuto, non essendo determinato dalla forma conoscitiva se non nel concetto o atto conoscente, esso non è pertanto predeterminato logicamente, ma aperto a diverse possibili determinazioni conoscitive. E se il contenuto logico è un contenuto determinato necessariamente, tale cioè che il suo essere implica l’esclusione di ogni suo nonessere, il contenuto che non-è logico è disponibile ad altre determinazioni, per cui il suo essere proprio è la Possibilità, e non l’essenza, che è la forma esclusiva dell’essere logico. Il mondo-della-vita è la realtà possibile di molteplici determinazioni formali e perciò aperto alla trascendenza. Infatti, la realtà de-terminata in senso logico è de-finita dal suo concetto ideale, che è immanente al suo oggetto reale. La finitezza della definizione è quella della realtà del suo oggetto, per cui l’immanenza dell’idea nell’oggetto di pensiero costituisce la loro corrispondenza ideale-reale, ossia la correlazione della realtà alla sua idea. Questa correlazione è intesa come certezza della coscienza razionale, che è la dimensione della necessità in cui si muove la conoscenza logica, per cui ciò che è così com’è, non può essere altro da ciò che è. Da questa necessità deriva ogni etica, che in essa trova il suo fondamento deontologico. La realtà simbolica, invece, inerisce alla possibilità d’essere di ciò che non-è determinato logicamente, e che esiste in quanto altro da ciò che è. Ciò che è, ossia l’ente, è determinato dalla sua necessità d’essere così com’è, ossia dalla sua attualità. L’attualità è la modalità d’essere di ciò che è necessitato di essere ciò che è, cioè un ente logicamente de-finito, laddove ciò che non-è definito, è consegnato alla possibilità d’essere altro da ciò che è necessario, e quindi alla sua

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libertà, la quale è la dimensione propria della realtà del mondo-della-vita, e quindi dell’arte. Ma la libertà, che è l’essenza dell’Essere possibile, cioè la realtà della Possibilità, è l’orizzonte di senso simbolico della fede, la quale dunque si rappresenta nella forma della possibilità, non della necessità, e quindi nella forma dell’arte e non della logica. La fede nell’Essere, in cui consiste l’affermazione della sua esistenza, non esclude la sua determinazione logica, cioè la sua definizione, ma è la definizione logica che esclude la possibilità della fede in nome della necessità della certezza. E pertanto, se l’orizzonte di senso della fede include il livello di coscienza logico, la coscienza logica esclude sempre, per de-finizione, la possibilità della fede. In tal senso, la realtà esclusa dalla definizione logica dell’Essere, ossia la realtà possibile, è l’orizzonte di senso della fede, ossia esclude la rappresentazione simbolica del mondo-della-vita, che è rappresentata dall’arte. I contenuti simbolici dell’arte sono gli stessi contenuti simbolici della fede, per cui la realtà del sacro è la realtà rappresentata dall’arte. E non già la realtà oggetto della conoscenza logica. Aver determinato logicamente i contenuti simbolici della fede, è equivalso ad aver rappresentato l’Essere possibile nei termini della necessità, anziché della libertà, che è l’essenza della fede. Questo ha costituito l’errore fondamentale della coscienza religiosa cristiana, che si è determinata attraverso le forme teoretiche della logica greca, e da cui è nato il formalismo razionalistico del mondo moderno. La possibilità, quale dimensione aperta a una pluralità di determinazioni di pensiero, e quindi libera, si traduce in necessità di ciò che è così e non altrimenti, nel concetto, il quale attribuisce al suo contenuto un significato determinato. Ciò vuol dire che nella definizione concettuale la determinazione logica rappresenta una necessità valida solo nell’ambito di quella determinazione, ma non è costitutiva dell’essere del suo contenuto extra-categoriale. Tale “essere”, fuori del concetto, è un essere esistenziale, aperto alla possibilità d’essere altrimenti da ciò che è. L’essere esistenziale e l’essere essenziale coincidono solo nel concetto, ma non nel mondo-della-vita, che è l’orizzonte ontologico della possibilità. Poiché i fenomeni mondani, gli enti, si manifestano in una relazione che non è temporale ma di senso, il “dato” fenomenico si presenta alla coscienza logica in un ordine di senso empirico che è “sistemico” in relazione alla comprensibilità razionale presupposta dal “sistema”. Ed è questa struttura empirica del “sistema” di senso a variare storicamente nel tempo in relazione alle forme di cultura di un’epoca o di una civiltà. Ma questo ordine sistematico, empirico, è ben diverso da una “sistemazione” propria di un ordine trascendentale, originario e costitutivo quanto l’altro sia riflesso. Per cui “si deve considerare la


sistemazione come una forma costitutiva, perché un oggetto teorico non sistematizzato è addirittura inconcepibile”.133 Ciò significa che il “dato” dell’esperienza appartiene a una “sistemazione”, prima di appartenere a un eventuale “sistema” di relazioni empiriche riflesse razionalmente. La sistemazione logico-trascendentale è un ordine puramente formale, oggettivo e indipendente da ogni attività concettualizzante soggettiva.

aderisce completamente alla realtà come essa appare all’esperienza immediata. Immediatezza ed apparenza sono i caratteri dell’intuizione, ma anche della conoscenza razionale, per cui non è da essi che questa astrae per affermarsi. Infatti, il carattere ulteriore e fondamentale dell’intuizione, in quanto originario, e dal quale la conoscenza razionale astrae per stabilire i rapporti causali tra i fenomeni, è la Possibilità dell’essere di divenire altro da ciò che appare, ossia di essere altro da ciò che attualmente è. L’intuizione coglie il divenire della possibilità dell’Essere, e quindi anche l’elemento negativo che la conoscenza razionale non considera a favore della sola positività attuale del tempo presente. Il presente è il tempo della storia, in cui tutto è ciò che è in relazione alla sua attualità fenomenica, ossia entro la realtà di senso logico, esclusivo di ogni altro. Ed è l’evento storico quello che sorge e termina dal Negativo opposto alla positività dell’attualità, e non già il fenomeno intuito secondo la sua possibilità d’essere nell’Essere possibile, ulteriore a quello esclusivamente attuale. Nell’orizzonte di senso della Possibilità va intuito l’evento escatologico fondativo del senso stesso della Storia, il Dòkema di Cristo, che sussiste nella storia umana come la Storia significativa della possibilità di essere simbolicamente sempre altro da ciò che è, e quindi di essere oltre l’effettualità del presente. Tale alterità ontologica e tale ulteriorità temporale costituiscono i caratteri essenziali della trascendenza simbolica dalla attualità della storia costituita dagli aut-aut della conoscenza logico-razionale. Il fondamento di realtà della conoscenza intuitiva del mondo non è lo stesso fondamento di realtà della conoscenza razionale. Questa differenza fondamentale è la stessa che distingue la libertà della Possibilità dalla necessità dell’Attualità. Ed è la stessa differenza che distingue l’intuizione dell’Essere possibile dalla conoscenza dell’Essere certo. La certezza non appartiene all’intuizione, ma alla cognizione razionale, che appunto non è libera di determinarsi ma soggetta alla necessità. Se questo è chiaro, si comprende bene l’impossibilità, o improprietà, di conoscere razionalmente l’Evento escatologico, e quindi l’impossibilità o improprietà di giustificare la fede nel Dòkema con la ragione dialettica, con la logica. La conseguenza di tale coscienza è che la stessa libertà umana sussiste solo entro l’orizzonte di senso ontologico della possibilità, per cui ogni forma di relazione razionale tende a convertirla in necessità. Sicché la forma di socialità definita attraverso il patto politico di società è fondamentalmente illiberale, in quanto determinata secondo i senso della necessità razionale. La forma di socialità predicata da Cristo non è, dunque, quella politica derivata dalla conoscenza razionale del mondo, ma bensì quella della verità che libera da tale costrizione razionalistica. La “verità che

Un teorema, un giudizio, un concetto, la soluzione di un problema, hanno un senso soltanto se si presuppone che c’è una soluzione corretta, per quanto provvisoria ed erronea possa essere quella momentanea, che c’è una verità valida indipendentemente dal nostro contributo che non sorge nel nostro pensiero, ma al contrario viene da esso cercata, voluta e in caso positivo raggiunta. Per formare comunque un concetto, si deve emettere un giudizio, si devono presupporre le sistemazioni nelle loro forme postulate come completamente chiuse e valide in sé.134

Solo in relazione alla sua “forma” un contenuto può essere giudicato vero o falso. Ma la forma può essere vera o falsa solo in rapporto alla verità in sé, ossia alla relazione che il concetto ha col suo contesto sistematico. Il problema della conoscenza come “teoria” formale, presuppone che la conoscenza abbia di necessità un carattere “razionale”, confondendo la “conoscenza” con il “sistema” razionale. Ma la conoscenza razionale è conoscenza non di realtà, ma di relazioni, sicché essa opera astraendo dalla concreta realtà dei fenomeni per assumerne il solo valore di senso, e cioè, appunto, di relazione. La considerazione dei fenomeni si sposta dal loro essere evidente al loro essere in relazione ideale, il quale è perciò relativo al processo entro il quale i fenomeni vengono inscritti. Nella conoscenza razionale, dunque, non sono i fenomeni ad avere valore ma la loro relazione di senso. Ciò implica che i fenomeni oggetto della conoscenza, astratti del loro valore assoluto, proprio alla loro singolarità esistenziale, possano essere intercambiabili senza che venga a perdersi il loro valore di senso, cioè il valore conoscitivo della relazione razionale. In questa trasposizione della realtà propria con la realtà ideale consiste la astrattezza della conoscenza scientifica,la quale non considera i suoi oggetti quali appaiono all’esperienza concreta, ma in quanto realtà relativa al loro nesso razionale, sistemico. Il “relativismo” è il carattere proprio della conoscenza scientifica, che considera dello stesso valore oggettivo tanto l’evento meramente temporale (Ereignis) – la presa della Bastiglia o la morte di Cesare – che l’evento escatologico (Dòkema). La conoscenza della realtà nella sua dis-formità concretamente in divenire, è percezione intuitiva, non razionale. L’intuizione conosce i fenomeni nella loro apparenza mondana, per cui, mentre la ragione astrae da questa intuizione del mondo per stabilire tra i fenomeni una relazione di tipo logico, l’intuizione

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rende liberi” è quella che afferma che l’essenza dell’Essere sia la Possibilità, e non la necessità, per cui l’essenza della realtà sia l’amore e non già la legge. Amore vuol dire anzitutto a-more, ossia differenza dalle convenzioni sociali, dalle regole di condotta stabilite secondo prescrizione legale. Il modo d’essere della relazione libera è di costituirsi fuori della costrizione legale, fuori del pactum societatis, ma per libera adesione. Aderire alla comunità di fede significa convertirsi alla libertà. E “conversione” non significa “rivoluzione”, cioè passaggio dalla condizione concreta a quella razionale, ma l’opposto, ossia considerazione della insuperabile finitezza della condizione umana. Come aveva ben intuito Chateaubriand il fondamento dottrinario della socialità razionalisticamente intesa è il “sistema di perfezione”,135 consistente nel principio secondo il quale i governi sono predisposti a conseguire il bene comune dei governati. In base a tale principio, la politica diventa il sostituto razionale della Provvidenza, agendo sulla realtà razionalizzata della società con la tempestività e giustizia relativa alla certezza della sua cognizione morale. Conoscenza razionale e politica stanno in un rapporto logico molto stretto, chiaramente colto da Mannheim, per il quale “alla base di ogni pensiero politico stanno certi assunti filosofici, mentre in ogni filosofia sono impliciti un certo modello d’azione e un dato modo di vedere il mondo”.136 Esisterebbe dunque una corrispondenza logica necessaria tra pensiero e azione che, sia pure inconsapevolmente, consente la leggibilità razionale della prassi politica attraverso il riferimento (implicito) ai suoi principi ispiratori di natura ideale. ciò vuol dire che la prassi è orientata sulla falsariga di una necessità logica che la sovrasta e che la costituisce come senso tendenziale del suo processo razionale. Prosegue Mannheim:

rispettivamente, ex ante ovvero ex post. Spostato modernamente il senso unitario dalla religione alla politica, il pensiero diventa funzionale alla prassi, da funzione ancillare che quest’ultima aveva in origine. Il rapporto è ora rovesciato: è la prassi politica a spiegare il sistema ideale, per cui la “realtà” fondativa di senso non è la “ragion storica”, cioè il processo razionale astratto dal suo divenire concreto, ma la Storia stessa, assunta come fenomeno in sé compiuto in cui il senso resta immanente e solo da tradurre in formule razionali. Il primato della prassi è compiuto, e la filosofia non è che un’appendice retorica sovrastrutturale al “sistema” pratico-politico. E’ qui che la teoria razionalistica della Storia incontra il messianismo escatologico infra-mondano, per cui la rivoluzione diventa missione redentrice. I Saggi della Grecia videro gli uomini sotto il profilo morale; i nostri Philosophes in base ai legami politici. I primi volevano che il governo derivasse dai costumi, i secondi che i costumi fluissero dal governo. […] Platone, Aristotele, Montesquieu, Jean-Jacques vissero in un’età corrotta; bisognava allora rifare gli uomini con le leggi: sotto Talete, bisognava rifare le leggi con gli uomini.138

Impercettibilmente, l’azione politica, investita di un valore razionale immanente che con supponente atteggiamento realistico esautora le superfetazioni idealistiche, diventa la ratio della stessa vita umana, sicché le sue dinamiche di potere acquistano valore di paradigmi di pensiero, modelli “reali” della storia “concreta” e non più idealisticamente pensata. La volizione esautora la ratio e prescrive una logica di azione interna al suo scopo assoluto, svincolato da ogni astratta prescrizione razionalistica. Ora il processo razionale consiste nella stessa “volontà di potenza” dell’azione politica, la cui logica di dominio diventa espressione paradigmatica della natura antropologica dello homo faber o zoòn politikòn. Se la intuizione del mondo, per la sua natura di conoscenza del possibile, tende a fare della politica una prassi funzionale al valore e confermativa di questa, la visione razionalistica tende di contro a vedere nella politica lo strumento di formazione del valore, il quale per essa non è un dato originario presupposto all’azione storica, ma un dato di coscienza che si vuole “realizzare”, cioè tradurre in realtà di fatto. Dalla potenza dell’Essere si passa così alla volontà di potenza, alla volontà d’essere, secondo una trascrizione elittica della poiesis ideale in voluntas politica. Il “sistema della perfezione” ha dunque per suo programma la razionalizzazione del mondo sociale, ossia la riduzione della libertà della sua possibilità in necessità della sua coerenza al sistema formale.

Dal nostro punto di vista, tutta la filosofia non è che un’elaborazione più profonda di un dato tipo d’azione. Per comprendere la filosofia, si deve comprendere la natura dell’azione (dell’approccio pratico al mondo) che ne è alla base. Questa ‘azione’ è un modo speciale, specifico di ogni gruppo, di penetrare la realtà sociale; le sue forme più tangibili sono quelle politiche. La lotta politica esprime i fini e gli scopi che danno vita inconsciamente, ma coerentemente in tutte le interpretazioni coscienti o pre-coscienti del mondo, proprio di un gruppo determinato.137

Il “punto di vista” assunto è quello del sistema razionale che cerca nessi coerenti e li trova nel “rispecchiamento” ideale del sistema d’azione nel modello formale. La forma è una “elaborazione” dell’azione, ossia la sua sistematica spiegazione razionale secondo un “sistema” di corrispondenze razionalmente coerenti. Su questo schema Pareto ha derivato la sua teoria delle “derivazioni”. In essa la filosofia ha solo una funzione pragmatica, ovvero, come in Hegel, una funzione esplicativa della prassi, a seconda che il punto di osservazione sia,

E’ stato spesso notato – scrive Mannheim - che al caratteristica più tipica del pensiero moderno è il tentativo di realizzare una completa razionalizzazione del mondo. Lo sviluppo delle scienze naturali non è altro che un tentativo coerente di

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raggiungere tale fine, che di per sé esisteva anche prima. Non si può negare l’esistenza di elementi razionali nell’Europa medievale o nella civiltà orientale, ma in questi casi la razionalità era solo parziale e tendeva troppo facilmente a confluire nell’irrazionalità. L’elemento tipico della coscienza capitalistico-borghese è di non conoscere limiti al processo di razionalizzazione.139

La conseguenza più saliente di questo approccio gnoseologico è la “dissociazione” della conoscenza dalla cultura storica di formazione, così che il valore, ancora una volta, non viene ravvisato nel contesto socio-culturale e spirituale che lo ha prodotto, ma sul criterio di comprensibilità razionale, per cui tale “concetto di conoscenza”

La logica delle moderne “scienze esatte” si affermò entrando in contrasto con le correnti di pensiero della scolastica aristotelica medievale, e con la filosofia della natura rinascimentale.

ignora tutti gli aspetti specifici e concreti dell’oggetto e tutte le facoltà di percezione ed esperienza, che permettono all’individuo di cogliere intuitivamente la realtà, ma non di comunicare la sua conoscenza ad altri. Esso elimina tutto il contesto delle relazioni concrete, in cui ogni singola conoscenza si trova inserita [e] tiene conto solo dell’esperienza generale […] e apprezza nell’uomo soltanto ciò che lo fa “essere generico”, cioè lo socializza: la Ragione.142

La concezione aristotelica del mondo fu attaccata dalla scienza moderna a causa del suo approccio qualitativo e dell’assunto che la forma di una cosa è determinata dalla sua intrinseca finalità. Il nuovo pensiero lottò invece per una concezione del mondo, che spiegasse il particolare in base a cause o leggi generali e presentasse la realtà semplicemente come un insieme di masse e forze fisiche. La volontà di superare il pensiero qualitativo spinse gli scienziati moderni a sviluppare la matematica e a farne la base della loro analisi della natura.140

Quello che il sociologo non dice, però, è che la conoscenza intuitiva della realtà non è comunicabile nel senso razionale, non perché inesprimibile e ineffabile in senso mistico-romantico, ma in quanto investente “tutto il contesto delle relazioni concrete”, la sua rappresentazione della realtà non è de-finibile in termini esclusivi, e tali che possa configurarsi entro la formula di un concetto logico, ma in termini simbolici, aperti cioè a una indefinita determinabilità possibile. Esattamente quanto avviene nella rappresentazione artistica della realtà, dove gli elementi strutturali vengono proposti secondo il loro senso simbolico, aperto ermeneuticamente sul duplice versante dell’autore e dell’interprete, ognuno dei quali asserisce una possibile cognizione di senso, coerente al presupposto dal quale lo esprime, ma non mai esclusivamente univoca, ossia universalmente generale. Ed è tale indefinita possibilità di senso a costituire ciò che per la definizione razionale è il negativo della irrazionalità, e che invece è l’altro da ciò che logicamente è. Col razionalismo viene dunque invertito il processo di formazione della personalità morale dell’uomo, che parte dal sostrato d’esperienza comune per risalire attraverso l’educazione e la formazione spirituale (Bildung, paideia) alla definizione soggettiva e singolare. Ora, di contro, si elimina ogni riferimento particola rizzante dell’uomo concretamente inserito nel suo contesto etico e soci-culturale, per assumerne il solo essere sociale, l’astratta genericità della sua appartenenza sociologica, nel senso della ragione comune socializzata. De-culturalizzare e destoricizzare sono le stesse tendenze di un’astratta considerazione dell’uomo e della sua esperienza spirituale, contrapposta alla visone intuitiva dell’uomo come realtà spirituale organicamente partecipe della sua identità culturale. Il Cristianesimo, originariamente ha inteso rettamente questa organicità nel senso dell’appartenenza al corpo mistico di Cristo, sicché ogni persona era la depositario dell’intero patrimonio spirituale che consisteva nella Chiesa. In seguito alla implosione del

Il “pensiero qualitativo” sta a indicare che il fenomeno particolare trova la sua ragion d’essere nel suo essere stesso, non già nella sua relazione formale col sistema razionale, per cui ciò che per questo sistema è mero “fenomeno”, per il pensiero qualitativo esso è essenza, valore. Di conseguenza il mero “fenomeno” attende la sua sussunzione nel sistema per acquisire il suo valore di senso, senza la quale esso è solo realtà fisica, mentre il suo essere extra-sistemico può essere considerato solo nella dimensione qualitativa, filosofica e religiosa, teoretica, artistica, che per definizione è estranea a ogni considerazione scientifica, che è wertfrei. Ma tale “libertà da ogni altro giudizio” rende appunto il significato dell’astrazione del fenomeno dalla sua concreta realtà di senso intuitivo, ossia dallo stesso divenire del mondo-della-vita come realtà della Possibilità. L’atteggiamento scientifico, infatti, consiste nel conoscere delle cose solo ciò che può essere espresso in una forma universalmente valida e dimostrabile, e di non ammetterle quindi nella propria coscienza al di là di questo livello. Si voleva escludere dalla conoscenza tutto quanto fosse legato a particolari personalità o potesse essere provato soltanto a gruppi sociali limitati, con esperienze in comune, e limitare le proprie affermazioni alle proposizioni generalmente comunicabili e dimostrabili. Si vuole una conoscenza che possa essere socializzata. Quantità e calcolabilità appartengono appunto alla sfera di coscienza che è dimostrabile a chiunque. Il nuovo ideale conoscitivo divenne quindi la dimostrazione matematica. Ciò significò una identificazione tutta particolare della verità con la validità universale. Si partì dall’assunto del tutto infondato che l’uomo conosce solo quando può dimostrare la propria esperienza. così il razionalismo anti-qualitativo e antimagico implicò, da un punto di vista sociologico, dissociazione della conoscenza dalle persone e comunità concrete, sviluppandosi secondo linee completamente astratte (anche se differenziate).141

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cosmo cristiano, divenne la società il riferimento organico della visione razionalistica dell’identità individuale. Ma questa ideologia socialitaria, comune tanto agli utopisti rivoluzionari che ai conservatori romantici, non sarebbe, nella sua versione sociologica, sorta senza la previa proiezione cattolica della comunità mistica nella forma etico-politica della cristianità, che ha trasferito il principio personale dal soggetto umano al soggetto istituzionale, Chiesa o Impero. La razionalizzazione della realtà comincia con la definizione della forma istituzionale, secondo il modello giuridico romanistico, della comunità mistica, e il recupero della politica come luogo della mediazione tra ideale e reale. Ed è questa operazione a esautorare, in nome della scienza politica, la metafisica. Infatti, se è possibile una "conoscenza chiara e obiettiva" di quei "fattori della realtà" che sono "gli elementi fissi e ricorrenti della vita sociale", non è possibile conservare una "attitudine puramente teoretica" nel "regno della politica, in cui ogni cosa è in via di sviluppo e l'elemento collettivo presente in noi, quali soggetti conoscenti, aiuta a dar forma al processo, dove il pensiero non è passiva contemplazione, ma partecipazione attiva e ricostruzione del processo stesso", e dove sono i "concreti fini che un uomo si propone a condizionare il suo orientamento".143 Questo comporta che la condizione di conoscibilità della realtà razionalizzata dipende dal grado di riduzione della complessità e libera contraddittorietà del mondo-della-vita alla sua semplificata riduzione ai soli elementi razionalmente oggettivabili e perciò prevedibili entro gli schemi sistemici di controllo giuridico e pianificazione politica del cosmo sociale. A partire dallo screditamento teoretico di ogni forma di conoscenza che non sia formalizzata in senso sistemico. In tal senso, l’espressione artistica, che aveva culturalmente rappresentato nella civiltà cristiana i valori spirituali della fede e della Storia religiosamente pensata, perde il suo valore onnirappresentativo per diventare mera espressione estetica dell’intuizione dell’Essere inteso in senso logico-attuale, come ente fattuale e meramente esistentivo. Ciò consente, a partire dal Baumgarten, di definire un’estetica come scienza dell’espressione, in cui l’Essere intuito è lo stesso ente del giudizio logico e di ogni giudizio concettuale conosciuto prima della sua sistemazione relazionale di tipo razionale. E da qui la conseguente rappresentazione razionalistica della storia dello spirito umano come progressiva conquista della coscienza razionale a partire dallo stadio primitivo della coscienza fantastica o poetica o mitica, prodromico a quello della cognizione veritativa di tipo logico. La storicizzazione delle categorie ideali ha come riflesso politico-sociale la costituzione dell’antico regime monarchico e del moderno regime repubblicano, secondo una corrispondenza ideale di

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rispecchiamento istituzionale che assegna al processo storico la stessa necessità del movimento ideale. L’esito metafisico di tale riduzionismo è la perdita dell’intuizione del Tutto, e la conseguente rappresentazione di Dio come Ens absconditus. Sul piano sociologico, interviene quel “livellamento” (Scheler) socio-culturale che mette in comunicazione strati sociali e forme di pensiero prima isolati. La progressiva affermazione della borghesia “fu accompagnata da un radicale intellettualismo”, tendente al controllo delle emozioni individuali e delle sue ripercussioni sociali, che dunque “esigeva una scienza politica e di fatto procedette a fondare una tale disciplina”.144 La tendenza razionalistica, mirante ad “adattare in uno schema logico ogni fatto nuovo”, si pone di fronte alla realtà tradizionale in termini idealmente dialettici e politicamente polemici verso gli elementi extra-sistemici, giudicati irrazionali. E la situazione nella quale l'elemento irrazionale viene a trovarsi nella realtà sociale da razionalizzare è quella rivoluzionaria: "sono le rivoluzioni che creano un più valido tipo di conoscenza".145 Dal punto di vista politico, la coscienza critica del razionalismo provoca la riproduzione delle distinzioni ideali in termini di conflitto tra le classi, tendente al riconoscimento di istanze fino ad allora ignorate a livello pubblico. Questo stadio della coscienza delle differenze non si raggiunge "in una società stabilizzata", nella quale la vita "è organizzata su basi autoritarie e il prestigio sociale è accordato soltanto ai risultati della classe superiore", ma solo in quella dove "una democratizzazione generale delle strutture fa sì che il pensiero dei ceti più bassi acquisti un significa pubblico. E' infatti in virtù di questo processo di democratizzazione che i modi del pensiero, propri delle classi subalterne, vengono per la prima volta a possedere validità e prestigio", tenendo "testa a quelle dominanti su di un livello di parità”.146 La “parità” è la condizione della tensione polemica tendente all’affermazione sociale e al riconoscimento politico delle istanze private. Non c’è parità senza lotta per la supremazia, per cui la lotta per l’uguaglianza tende a negare l’equilibrio della stabilità sociale conseguita in seguito alla lotta per il riconoscimento della supremazia politica avente per scopo il Governo. In tal senso, la rivoluzione è la negazione della stabilità della condizione di Governo per la ridefinizione politica dei ruoli sociali. Essa riflette sul piano dei rapporti sociali ciò che il razionalismo opera sul piano della coscienza teoretica: la negazione dell’Essere nel senso della sua rielaborazione logica a favore dell’ordine ideale. Il pensiero rivoluzionario “mira al sistema”, ossia pensa “l’insieme” della struttura sociale,147 ma esso pensa questo insieme come struttura di parti, non come Tutto in sé distinto dalle parti. La struttura implica un concetto di relazione, ossia un ordine razionale di rapporti strutturali. Un “sistema”,


dell’economia, cioè nella fonte della produzione socializzata, che, entro il “sistema” economico, diviene anche produttiva di senso, sicché la ragione socializzata diventa razionalità economica, intesa come rapporto razionale di forze storico-sociale in conflitto politico. Ma la concretezza rivoluzionaria non è punto la concretezza del pensiero qualitativo del Tutto, che pensa la realtà a partire appunto dall’Essere (concreto), e non a partire dal concetto (astratto). E pensare il Tutto significa intuirlo, così come rappresentarlo significa esprimerne l’apertura simbolica, non già de-finirlo concettualmente in forma razionale. La coscienza che la realtà fenomenica oggetto della conoscenza categoriale non è la realtà del Tutto, cioè non è tutta la realtà possibile, impedisce di credere che la realtà sia la proiezione idealistica dei rapporti economici della società. In questo caso, l’Essere viene ridotto a rapporto sociale, e la dialettica concettuale a conflitto economico. Questa riduzione del pensiero dell’Essere a una ontologia sociale, interessa sia la prospettiva borghese e conservatrice che quella proletaria e rivoluzionaria, entrambe concordi che l’orizzonte storico capitalistico sia in trascendibile. Ed entrambe le prospettive sono le rappresentazioni astratte ed opposte di una stessa concezione razionalistica dell’Essere come un’Idea. La concretezza del pensiero, invece, consiste nel pensare l’Essere come Possibilità, e nessuna sua (vera o presunta) parte costitutiva come Tutto. Il discrimine fondamentale tra le due modalità di pensiero risiede nel pensare il Tutto, rispettivamente, come Essere trascendente ogni realtà fenomenica e quindi ogni oggettività concettuale che lo conosca, ovvero come la stessa realtà storico-sociale. Se il Tutto è la realtà storico-sociale, le dinamiche ideali non sono che il riflesso teoretico dei processi socio-economici, gli unici concretamente reali, mentre le strutture ideali non sarebbero che ideologie di copertura, derivazioni. Se, di contro, il Tutto coincide con l’Essere possibile, trascendente ogni sua determinazione fenomenica e concettuale, esso non può de-finirsi in nessuna realtà storico-fenomenica, e non può essere pensato né come riflesso dei rapporti sociali, alla maniera marxiana, né tantomeno come unità ricavata dalla composizione dialettica delle parti categoriali, alla maniera crociana. Il “sistema” categoriale, assumendo la realtà del concetto come riflesso ideale della realtà empirica, universalizza l’oggetto categoriale astraendo dall’universo di senso culturale di cui fa parte la sua supposta natura particolare-universale, ossia la sua astratta determinazione razionale, definendo “bello”, “vero”, “economico”, “etico”, ogni relativo prodotto della coscienza estetica o economica o teoretica o etica di qualunque civiltà, annullando le differenze storiche relative ai diversi universi di senso valoriale. In tal modo, giudicare “bello” un oggetto religioso come la Pietà di Michelangelo alla stessa stregua di un ninnolo

appunto. E proprio i questa esigenza sistematica il pensiero spiritualistico ha potuto trovare il suo collegamento teoretico con la metodica scientifica del razionalismo, concependo una “filosofia dello Spirito” come “sistema” categoriale di scienze dialetticamente collegate, costitutive di una ideale unità organica. L’equivoco sincretistico di tale metodologia, che intende rappresentare l’Essere spirituale, ossia la sua Possibilità, in termini di determinazioni de-finite in concetti categoriali, è di costituire ‘oggetto categoriale come realmente distinto dal Tutto e dagli altri oggetti categoriali, identificando la realtà concettuale con l’esistenza effettuale delle qualità categoriali. Tale ipostasi dell’Idea è il fondo idolatrico della superstizione razionalistica, che interpreta il fenomeno reale come un evento da sussumere nel sistema delle relazioni di senso razionale, ignorando che soltanto nel Tutto ogni parte può trovare la sua realtà concreta, mentre “è” oggetto di giudizio logico in quanto astratto contenuto della relazione formale, e come tale conosciuto scientificamente. In quanto realtà astratta, gli oggetti del giudizio categoriale non esistono come enti concreti, ma solo come oggetti ideali, per cui “le distinzioni tra filosofia, politica, letteratura, ecc. esistono soltanto nei libri di testo e non nella vita reale, poiché – appartenendo allo stesso stile di pensiero – devono provenire da un centro comune”.148 Tale “centro comune” è il fondamento d’Essere di ogni orizzonte di pensiero e di realtà, ossia quel Tutto indistinto intuito dall’atto di fede ontologica, che non è oggetto di conoscenza scientifica ma che la trascende. Pertanto, la realtà razionalistica, del concetto categoriale, non è una realtà concreta – non è il Tutto – ma è una realtà appunto concettuale, astratta dalla Possibilità dell’Essere e creduta come entità. Questa credenza concettuale rappresenta la modalità teoretica propria del razionalismo astratto, il quale assume l’essere negativo (non-essere Tutto, e cioè concreto) del suo oggetto di pensiero come una realtà effettivamente esistente, positiva, storico-empirica, e su questa finzione concettuale si basa tutto il moderno sistema di conoscenze del mondo. L’essenza della visione del mondo razionalistica è intimamente rivoluzionaria, in quanto la finzione ontologica considera l’essere concettuale come l’Essere concreto, ossia la parte astratta, oggetto di giudizio, come il Tutto reale. E poiché confonde nella stessa realtà l’essenza e l’esistenza dell’oggetto razionale, identifica la “struttura” ideale del “sistema” categoriale dello Spirito con la “struttura” sociale del “sistema” politico storico. Questo “rispecchiamento” del reale nell’ideale e viceversa, trasforma il rapporto dialettico in conflitto socio-politico, e il rapporto ideale in relazione sociologica. Il punto di mediazione sistemico di tale pensiero riflesso viene individuato nell’elemento più astrattamente oggettivo della struttura sociale, quello

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profano, significa prescindere dal rispettivo contesto culturale di riferimento e rappresentare l’oggetto categoriale come “reale” in virtù di questa astratta sua determinazione logica. L’universalizzazione concettuale di un fenomeno è pertanto un’operazione di annullamento della possibilità della sua realtà ontologica attraverso la logica dialettica, col cui strumento tecnico del pensiero il razionalismo ha creduto di conoscere il mondo storico come realtà di pensiero, identificando Storia e Pensiero. E confondendo Pensiero con Realtà ontologica, ha creduto di poterla dominare. Il dominio del mondo razionalizzato implica la riduzione ontologica dell’Essere possibile all’essere al sociale, ossia del regno di Dio al regno di Cesare. Questa opzione metafisica si realizza teoreticamente attraverso la rielaborazione razionalistica dell’universo mitico-sacrale con la riduzione dialettica dell’inclusivo valore di senso simbolico all’esclusivo valore di senso logico, mentre storicamente si realizza attraverso la Rivoluzione, che fa della politica lo strumento della libertà. La decisione dialettica del giudizio logico, e la decisione politica sono operazioni analoghe e corrispondenti, entrambe fondate sul principio polemico della distinzione di ciò che è da ciò che non-è (razionale secondo il sistema, e dunque “vero”; oppure buono in funzione della sua utilità, e dunque “amico”). La riduzione ontologica e la rivoluzione politica tendono ad affermare uno stesso principio di uguale determinazione universale degli enti ideali e di quelli reali, indicata come principio di libertà teoretica e, rispettivamente, sociale. L’astrattezza del concetto di libertà teoretica, conduce alla uguaglianza formale dei sistemi scientifici, mentre la libertà sociale conduce, per la totale rescissione dei contesti storico-culturali del valore della libertà, all’uguaglianza di ogni uomo, cioè di tutti. “L’uguaglianza è dunque il corollario logico di questa libertà: senza l’assunto della uguaglianza politica di tutti gli uomini essa è priva di senso”.149 L’uguaglianza politica è il riflesso storico-sociale della astrattezza del pensiero razionalistico, che assume a suo oggetto “universale” ogni dato di coscienza compatibile con i suoi assunti aprioristici. Ogni oggetto di astratto pensiero, privato delle sue qualità specifiche relative al suo contesto valoriale, ossia al suo universo di senso simbolico, diventa “uguale” a ogni altro dato di coscienza razionalmente omologato, sicché l’uguaglianza è l’esito del’opera di razionalizzazione della realtà. La pretesa ideologica liberale di non dare seguito empirico al postulato egalitario della ragione risultò del tutto indebita moralmente e quindi irrazionale politicamente, provocando la giusta reazione socialista e democratica. Da parte loro, i conservatori dello status quo ante, si opposero al concetto egalitario di libertà socio-politica, sostenendo che

gli uomini sono sostanzialmente diseguali, nella loro qualità, capacità e nel loro essere più intimo. La libertà può consistere quindi solo nella possibilità per ciascuno di svilupparsi, senza incontrare limiti o ostacoli, secondo la legge individuale di sviluppo.150

Ma tanto il rivoluzionarismo sociale che il conservatorismo individualistico pensano il concreto in termini logici, come aveva ben compreso Scheler, per cui lo confondono con il pratico, cioè con la realtà effettuale, con l’Essere attuale. Infatti, la concretezza non è solo, come vorrebbe Mannheim, una caratteristica del solo pensiero conservatore,151 ma di ogni pensiero immanentistico. Il pensiero conservatore coglie della “concretezza” il momento riflesso, la forma storica dell’Idea del mondo, di cui rappresenta il valore istituzionale, laddove il pensiero rivoluzionario considera il momento costitutivo del mondo, di cui rappresenta la coscienza filosofica. Sul piano ontologico, queste contrapposizioni ideologiche, non hanno alcun senso derimente, essendo entrambe espressive di una visione razionalistica della realtà storica, secondo la quale l’Essere è conoscibile e giustificabile (solo) razionalmente, per cui ciò-che-è attuale è Tutto l’Essere. Nella riduzione razionalistica del Tutto alla parte, cioè della Possibilità alla attualità, consiste l’essenza metafisica della violenza del Potere, che si traduce praticamente nella negazione della libertà come possibilità dell’essere di divenire altro da ciò che è attualmente, a favore di una determinazione parziale della libertà intesa come ragione del sistema, funzionale alla sua sola sussistenza. Tale coscienza è già presente in Chateaubriand quando scrive che “a rigor di logica si può argomentare sull’interesse generale degli uomini nella causa della libertà; ma so che ogni qualvolta si applicherà la legge del Tutto alla Parte, non c’è vizio che non si arrivi a giustificare”.152 Lo storicismo razionalistico è un portato della visione immanentistica moderna della Storia, ma non è un suo prodotto. La versione moderna, immanentistica, della Storia è la stessa visione cristiana de-mitizzata, cioè rielaborata filosoficamente con la logica dialettica, sicché l’analogia tra il fenomeno moderno della Rivoluzione e quello antico non è una mera comparazione letteraria, ma corrisponde all’essenza del principio polemico insito nel lògos dialettico della cultura filosofica greca, ereditata dalla metafisica cristiana e che ha presieduto la forma storica del cosmo cristiano come “cristianità” universale.

8. La centralità concettuale del senso teoretico della “universalità” per il pensiero razionalistico moderno deriva dal suo carattere teologico, per il quale la funzione tradizionale del theoréin acquista un valore strumentale al servizio divino di testimoniare la realtà mistica della Chiesa di Cristo nella Storia. Da qui nasce l’esigenza di affermare la unità spirituale di ogni

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spirito tende alla distinzione”.

uomo con la sua fonte divina costitutiva della “santità”. La tensione morale verso l’unità dell’atto umano col principio ideale eterno costituisce un surrogato secolaristico della “santità” quale unità perfetta con Dio. In termini razionalistici la “santità” si traduce in “universalità” del valore ideale. La santità, infatti, è un attributo solo di Dio,

Quando la filosofia moderna ha voluto stabilire un dinamismo dialettico di tesi-antitesi-sintesi, non ha potuto allontanarsi dalla attrazione costante del dualismo, nonostante l’apparenza ternaria, posto che la sintesi, all’interno di questa dinamica, non è altro che una nuova tesi, che necessariamente provoca una nuova antitesi. In verità, il superamento del dualismo a cui l’uomo propende può raggiungersi solamente per la presenza di Dio come rimo punto di riferimento di tutta la polarizzazione dualistica, e questa presenza del divino è precisamente ciò che eleva tutta la tensione umana all’ordine unitario dell’Amore. 158

giacché solo Lui è santo, ma l’uomo che offre a Dio il suo sforzo, che consacra o sacrifica questo sforzo, può sperare che Dio lo santifichi. Questa è la differenza tra il sacro e il santo: sacro è ciò che l’uomo offre a Dio, e santo è ciò che è di Dio.153

In altri termini, l’unità è una tensione ispirata divinamente dalla natura del Creatore, ma non è una condizione esistenziale dell’esperienza umana. Al contrario, il dualismo, da quello del potere di chi governa sui governati, a quello antico tra l’oikumene greca e i barbari extra-cittadini, è una costante della storia umana, che fu superata per certi versi dal Cristianesimo, che “vide la fondamentale uguaglianza degli uomini sotto l’apparenza dei diversi tipi di disuguaglianza”, anche se lo stesso Cristianesimo dovette distinguere tra i fedeli e gli infedeli, superando tale dualismo con “la convinzione che il mondo infedele, per il comando divino di evangelizzazione universale, debba essere considerato come potenzialmente cristiano in quanto evangelizzabile” a opera della “attività apostolica di conversione degli infedeli o ‘gentili’ in nome di Cristo”.159 Nel mondo secolarizzato moderno, la discriminazione religiosa divenne “distinzione meramente umanistica di civilizzati e incivili, che, in un certo senso, era un ritorno all’antica separazione pagana dei barbari”, in cui era assente la figura di Dio, e quindi dell’Amore unitivo, per cui “la nuova discriminazione umanistica servì per lo sfruttamento dei popoli poveri per i ricchi: il colonialismo nel suo senso peggiore”. La differenza economica soppiantò infine la dicotomia originaria di carattere religioso, manifestandosi come distinzione tra popoli sviluppati e popoli sotto-sviluppati, attribuendo allo “sviluppo” il nuovo nome della “pace”.160 La polarizzazione sulla capacità economica si attesta tra consumismo e comunismo, che costituiscono le forme storiche più aggiornate del dualismo logico.

Ciò vuol dire che, in termini religiosi, il valore della santità non è disponibile dagli uomini, i quali possono solo “sacrificare”, cioè dedicare, le loro azioni offrendole a Dio, nella speranza che Egli le santifichi trasmettendole la Sua santità. L’unione con Dio (e con tutti gli uomini) è “Amore”. Il percorso dell’Amore” è la ricerca dell’unità con Dio, ossia della santità, mentre il “disamore è la rottura di questa unità della perfezione. […] Però, il perfezionamento soprannaturale dell’uomo anche nell’ordine della sua coesistenza sociale cerca una unità.154

Ma non ogni unità è accettabile da parte di Dio, per cui “è logico che una società che per se stessa non è santa non può procurare la santità ai suoi membri”.155 La Chiesa è l’unica società universale realmente santa. Le altre società che pretendono di essere universali e mostrarsi indifferenti e neutrali, finiscono di fatto con l’essere contrarie alla volontà di Dio, e perciò compiono peccato […] di orgoglio. Questo è molto grave, perché vuol dire che l’unità, per se stessa, non è sempre buona, ma che può essere riconosciuta come dannosa […]. A sua volta, la non-unità, che potremmo chiamare pluralismo, non è sempre biasimevole per se stessa, ma può essere voluta da Dio.156

Ciò implica che ogni pretesa avanzata da parte di una istituzione secolare di Potere sugli uomini di costituirsi in termini di unità assoluta, indipendente da ogni fine teologico, confligge con il modello unitario di “santità” propugnato dal Cristianesimo come l’unico moralmente legittimo. Lo stesso dicasi per ogni volontà secolare tesa ad affermare il pluralismo sociale, mondato di ogni finalità teologica. L’unità e il pluralismo vanno invece sogguardati in relazione alla loro compatibilità col fine teologico, sicché, mentre il pluralismo interno alla Chiesa “è incompatibile” con la sua unità universale, “viceversa, il pluralismo delle società civili è incompatibile con quell’unità che è il principio di ogni organizzazione totalitaria”.157 Pertanto, il trasferimento del principio unitario dal contesto sacro nella realtà socio-politica profana viene legittimato dall’analogia che sussiste tra i due ordini di realtà, che hanno la stessa sorgente divina unitaria, ma anche la stessa “labile contingenza del Creato”, che porta “alla dualità”, intesa come “tendenza umana alla polarizzazione dualistica in qualunque caso in cui lo

Il capitalismo è, come si sa, un risultato della rivoluzione protestante, ma che ha provocato come reazione la nuova rivoluzione comunista; così il comunismo può essere considerato come un sotto-prodotto della Riforma, benché, apparentemente, si sia allontanato dai principi propriamente protestanti: il comunismo come reazione di fronte al consumismo.161

Dal punto di vista strettamente economico, “il capitalismo è riconosciuto [dalla scienza economica] come molto più produttivo di ricchezza che il collettivismo comunista. Il comunismo, da parte sua, può solo argomentare con vaghe ragioni di giustizia sociale, e principi morali”, convertendo la sua dottrina

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economica “in una ideologia umanitaria, facendo le veci di una religione”; e così, “quello che fu concepito come una sovrastruttura sociale venne convertito poi in sovrastruttura”.162 La divisione tra Occidente capitalistico e Oriente comunistico, tende ad assegnare ai comunisti lo status di “nuovi barbari”, “infedeli” e “incivili”,163 ma sia il capitalismo che il comunismo “si fondano su una visione materialistica, anche se di diverso tipo”. Il comunismo Fu una reazione di fronte al capitalismo ma conservò come questo il presupposto dello Stato, convertito in un unico proprietario, e l’idea che l’economia sia la scienza di produrre un incessante incremento di ricchezza.. In fondo, il comunismo nasce in seno ad una società cristiana, come una uova eresia, come una sub-eresia del Protestantesimo. Non è il suo fondamentale ateismo qualcosa di originario o atavico, ma il risultato di una nuova apostasia totale. La stessa dialettica della lotta di classe come processo necessario per raggiungere una specie di paradiso terrestre, come se non fosse esistito il peccato originale, è un’eresia concomitante con lo spirito di competizione caratteristico della morale protestante, e per questo del capitalismo.164

Se la competizione è “connaturata con l’economia di mercato”, e perciò dal punto di vista liberale “è la forma più appropriata per la produzione di ricchezza”, non significa che sia “moralmente accettabile”, in quanto tale ideale economico “non si fonda sull’amore della convivenza sociale, ma sulla esaltazione dell’interesse egoistico”, che diventa il movente dell’azione, che implica “l’ineludibile pericolo del danno altrui”.165 Il principio di competizione – variante economica di quello polemico – si presenta sotto forma di “uguaglianza delle opportunità”, ma, essendo gli uomini “necessariamente disuguali”, la loro dote personale si trasferisce nella “lotta per la vita”, confermando così la “naturale disuguaglianza”. Quest’ultima si può correggere proteggendo i più deboli, ma “la filosofia morale del capitalismo” asserisce “tutto i contrario”, esaltando la superiorità competitiva, che il comunismo ha trasferito a sua volta “a livello interstatale”, procedendo a espropriare definitivamente le persone , rappresentate come il “risultato della lotta di classe”.166 L’analisi dell’illustre giurista spagnolo, figlio del famoso storico Eugenio d’Ors e allievo del suo più noto parente Carl Schmitt, è interessante per più versi. Non soltanto perché, dal suo punto di vista di tradizionalista cattolico, conferma puntualmente i risultati delle nostre analisi circa la contiguità teologico-politica delle categorie essenziali del razionalismo antico e moderno, ma soprattutto perché l’angolo visuale prescelto, quello istituzionale e romanistico, dal quale scorgere lo scenario della Storia moderna non riesce a darsi ragione, che non sia politica e quindi ideologica, dei processi culturali che hanno condotto alla fine della cristianità. Il senso del

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discorso critico interno al cattolicesimo, anche in questo, come in altri casi - si pensi a Fabro e a Del Noce -, si sviluppa a partire da posizioni postulatorie rispetto alle quali ogni livello di coscienza interferente con il loro orizzonte di senso dogmatico, ancorché logicamente derivato, viene considerato spurio ed eterodosso, e perciò razionalmente inconsistente. Questa modalità monologica si inibisce la possibilità di interpretare i processi ideali in corso, e quindi di comprenderli nel proprio universo di senso come elementi di sviluppo teoretico dei comuni fondamenti di fede e di pensiero, salvo poi a doverli considerare a distanza, non più come sistemi ideali allo stato nascente, ma come forme storiche di pensiero socializzato, con le quali confrontarsi a livello istituzionale e quindi politico. Si pensi appunto ai maggiori fenomeni storici della civiltà moderna, dal liberalismo, al capitalismo, dal comunismo al fascismo; ma anche a quelli del passato, come la Riforma, l’Impero e gli Stati nazionali. Sicché la Chiesa che non ha inteso addivenire ad alcun dialogo teologico con i protestanti o i modernisti, si è vista costretta a stipulare concordati con lo Stato totalitario e ateo figlio dello scientismo moderno. Come ha ricordato d’Ors, La Chiesa generalmente ha favorito sempre la disintegrazione delle grandi potenze politiche, che ha visto come un ostacolo per la sua integrità. Ciò che determina tale condotta della Chiesa, non è tanto il desiderio di ridurre un eccessivo potere secolare, quanto il considerare che, affinché esista una reale potestà rispettabile come tale, vi è il bisogno che vi sia un suo effettivo riconoscimento sociale.167

In altri termini, la competizione tra strutture istituzionali verteva non sul primato della natura sacra della Chiesa su quella profana dello Stato, ma sulla necessità che tale primato venisse confermato dal consenso sociale, in ragione del quale ogni concorrenza ideologica di altri poteri sovrani veniva considerato riduttiva della propria immagine istituzionale sovrana. Il giurista non si avvede che l’ammissione di tale ragione politica legittima il tentativo dello Stato moderno a sottrarsi dalla dipendenza ecclesiastica con gli strumenti del “riconoscimento sociale”, costituendo all’uopo una propria religione civile supportata dal consenso democratico. Non si avvede, cioè, di come l’ideologia della Chiesa cattolica, costruita a difesa della forma storica della cristianità, abbia favorito e giustificato a contrario prima il liberalismo politico e quindi la democrazia di massa, ossia quelle correnti sociali e di pensiero che avrebbe voluto scongiurare opponendosi teologicamente al Protestantesimo. A proposito del liberalismo, d’Ors afferma che il suo “errore fondamentale” sia stato quello di aver creduto che la libertà personale sia possibile solo quando non esistono altri vincoli fuori dello Stato. L’esperienza dimostra che, al contrario, la libertà personale si rafforza


pubblico”.170

proprio grazie a queste forme sociali che siamo soliti definire i “gruppi intermedi”, iniziando dalla famiglia, poi il comune, il sindacato, e le altre forme di socialità naturale.168

L’elogio del diritto pubblico equivale all’affermazione del valore dell’Imperium, non a caso ricordato da d’Ors come consustanziale sia alla Chiesa che alla Roma dei Cesari. E il valore dell’Imperium coincide con l’affermazione dell’ “ordine pubblico”, ossia della volontà sovrana del Governo, interprete e depositario del “bene comune”. E’ pertanto la fonte giuridica che determina la natura del diritto. Il diritto è “pubblico” perché emana dallo Stato, e così il valore del “bene comune”, che è tale in quanto promana dal Governo. Imperium non veritas facit legem. Questa posizione, diciamo pubblicistica, che ripone il contenuto etico della sovranità nella fonte della sua legittimità storica, cioè il Governo, è specularmente opposta a quella diciamo privatistica liberale, la quale ripone invece la fonte legittima, anziché nell’istituzione, nella società civile. In entrambi i casi, vi è la tendenza a ridurre ad unità logica (si chiami Potere o Libertà) ossia a una “sistematizzazione” razionale la molteplice esperienza dei fenomeni sociali, la cui caratteristica è quella di universalizzare in senso astrattamente oggettivo i suoi contenuti qualitativi particolari, al di fuori di ogni connessione col loro relativo universo di senso ideale, partecipando così a quel processo di “livellamento” di cui parlava Scheler. La tendenza nel campo politico di negare l’esistenza dei corpi intermedi di origine “naturale”, ossia costitutivi per fini immanenti a status storico-sociali pre-politici, è corrispondente all’esigenza teoretica del razionalismo di negare la realtà di strutture di senso indipendenti dall’atto soggettivo della coscienza individuale. Così come il potere politico, per costituirsi a somma simbolica dei poteri particolari dello Stato, deve uniformare in senso democratico le unità cellulari della sovranità originaria del popolo che lo delega alla rappresentanza, il potere ideale della coscienza razionale deve trasformare ogni ente in oggetto del suo giudizio, cioè in un suo prodotto omogeneo. Solo in questo modo è possibile al potere (politico o ideale) di convertire la realtà molteplice e storica in prodotto della sua attività creatrice. L’antica fonte teologica, divenuta referente normativo, trasferisce all’istituzione secolare quel Potere che gli derivava dai suoi attributi sostanziali, per cui l’idea di legittimare moralmente l’Imperium fa dello Stato cristiano il detentore istituzionale anche della bontà dei suoi contenuti di governo. Una bontà formale che diventa, in virtù del monopolio istituzionale del suo esercizio, anche sostanziale. Lo Stato legislativo moderno deriva dalla funzione normativa del Potere auto-referente secolarizzato. Ma proprio in quanto la differenza tra lo status formale dell’istituzione, e il concreto esercizio della sua funzione sostanziale non può mai colmarsi se non “nell’ordine unitivo dell’Amore”, cioè in Dio – e

Tutto ciò è giusto e condivisibile, ma a condizione di spiegare il rapporto Stato-individuo nell’ambito della definizione cristiana di “persona” e di “libertà”, i cui concetti si sono sviluppati in relazione al Potere di Cesare, ossia a quello Stato che l’individualismo liberale ha preso a bersaglio polemico. Affermare che la “libertà personale” sia un prodotto sociale dei corpi intermedi, e i quanto tale da essi salvaguardabile, significa attribuire alle formazioni etiche secolari un valore costitutivo originario, che è “naturale” in quanto tradizionale ma non in quanto inscritto in un ordine pre-civile, che lo Stato è tenuto a riconoscere. Nel qual caso, lo Stato è da considerare il loro palladio. Nel caso contrario, è da spiegare come i corpi sociali intermedi possano sussistere nonostante lo Stato. La risposta che ne dà d’Ors è oltremodo significativa per illustrare la mentalità istituzionalistica romanocattolica. La “libertà di associarsi” egli dice, funzionale al rafforzamento della “libertà personale”, non deve intendersi come un diritto di costituire persone giuridiche per la semplice autonomia privata. L’equivoco del supposto diritto naturale di “associazione” deriva dall’aver considerato, caratteristica più tipica del diritto moderno, che tutto il gruppo umano debba rivestirsi di una personalità giuridica. Anche questo è un errore fomentato dal capitalismo, che si è servito della libertà di formare persone giuridiche come strumento puramente economico; e contemporaneamente dello stesso liberalismo, che l’ha utilizzato per creare gruppi di pressione o partiti politici.169

In altri termini, la libertà è un valore ma non un diritto, e dunque non è disponibile privatamente, né privatisticamente, creando istituti giuridici di tutela privata. Per la semplice ma fondamentale ragione che la tutela dei valori spetti all’organismo pubblico, ossia allo Stato. Da qui deriva la negazione che il corpo sociale possa essere riconosciuto come una formazione avente una personalità giuridica indipendente dallo Stato. Ma ora, ci chiediamo, come possano i corpi sociali intermedi garantire un valore che non sia esso stesso statale, cioè riconosciuto dallo Stato, e quindi avente un valore “pubblico”. Creare una persona giuridica – spiega d’Ors – significa creare un essere perenne, diremmo immortale. Questo trascende la capacità naturale dei singoli uomini, e si può solo giustificare, come accadeva nell’antica Roma e continua ad accadere nella Chiesa […], quando è in favore del bene pubblico e non degli interessi esclusivamente particolari.. la personalità giuridica appartiene, dunque, al diritto pubblico, e il suo controllo deve corrispondere alla potestà responsabile dell’ordine della comunità che deve governare. [Questo vale anche per] altri aspetti della libertà personale: questa non deve interferire nell’ambito del pubblico se non per servire il bene comune. […] La pubblicità – tutta la pubblicità – rientra, come cosa pubblica, nella responsabilità della potestà il cui fine primario è il mantenimento dell’ordine, che è, prima di tutto, un “ordine

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quindi non nell’ordine unitivo legislativo, cioè nello Stato – il monopolio del Potere - della Chiesa o dello Stato – non potrà mai superare e risolvere in sé quella “tendenza umana alla polarizzazione dualistica”, insita nella sua stessa natura finita. L’inanità di ogni sforzo unitario in senso monopolistico del Potere dovrebbe deflettere la fonte istituzionale del suo esercizio dal perseguire un obiettivo storicamente inconseguibile, mentre invece la Chiesa ha per tempo creduto che subentrando al Potere imperiale decaduto avrebbe essa realizzato l’intento impossibile ai Romani in quanto pagani, non in quanto uomini. E così, la critica romana al Cristianesimo di aver provocato la decadenza dell’Impero, è stata ricambiata dalla stessa critica cristiana al paganesimo di non averla saputa impedire. Modernamente, la riabilitazione dell’arte politica come scienza del Governo, si inscrive nella ritorsione neo-pagana della critica antica, che è alla radice della teoria di Nietzsche del nichilismo storico. Questa alternanza storica di posizioni ideologiche, che accusano l’altro dialettico di negare il proprio, è il prodotto di una dinamica razionalistica dicotomica che concepisce lo spazio esistenziale della realtà storica come il riflesso coerente di un sistema di valori esclusivo interno a un orizzonte di senso unitario. La demitizzazione della cultura religiosa greca comincia con la logica dialettica. La demitizzazione della cultura religiosa romana è opera del razionalismo monoteistico cristiano. La demitizzazione del Cristianesimo è opera del razionalismo scientifico neo-pagano. Tutti i fenomeni di rielaborazione razionalistica del Mito consistono nella critica del senso simbolico della realtà a favore di un supposto e professato senso unitario, che viene perciò assunto a modello ontologico universale. L’universalizzazione razionalistica della realtà procede a quel “livellamento” egalitario degli enti mondani che lo Stato legislatore erga omnes ha decretato per gli enti giuridici e la moderna democratizzazione della società costituito a livello politico, e di cui il capitalismo è l’espressione economicistica. Sono tutti aspetti particolari di uno stesso processo unitario di affermazione universale del Negativo come realtà positiva, la cui astratta determinazione esistenziale produce la spontanea reazione oppositiva del suo negato contrario dialettico, in un travaglio infinito del divenire storico che una concezione ontologica monistica come quella proposta dal razionalismo greco non può trascendere, ma solo riprodurre sotto mutate spoglie. Infatti, stabilita l’omogeneità politica, ovvero la consustanzialità ideale, o l’eguaglianza legale, o la parità economica, ogni formazione collettiva empirica diventa espressione di una “classe” (ideale, sociale, economica o nominale) di natura contingente, la cui costituzione occasionale non altera i contenuti essenziali dei suoi componenti, che sono determinati dal Soggetto politico o teoretico. La realtà di tali

“classi” non altera la loro essenza politica o categoriale, essendo esse il risultato di empiriche classificazioni politiche (i partiti) o ideali (i generi), variabili a seconda del punto di sutura che li unisce occasionalmente e nominalisticamente. E pertanto, se ogni membro del gruppo politico gode dello status della cittadinanza, tutti i cittadini sono uguali di fronte al potere che li ha costituiti, cioè creati politicamente. Parimenti, se ogni azione pratica, essendo il suo valore socialmente rilevante, rientra nella sfera economica, compresa l’azione etica, ogni azione pratica è soggetta alla legge dell’efficacia perché sia produttiva di senso economico. In tal modo, la legge di struttura diventa l’essenza di ragione, per cui a ogni formazione sistemica corrisponde una razionale conformazione strutturale. Ed è tale adattamento strutturale all’unità ideale di sistema che si chiama razionalizzazione, intendendo per essa l’identità della sua natura logica con la sua realtà esistenziale. Il principio d’ordine che collega l’unità razionale al pluralismo sociale è terzo rispetto ai due astratti elementi, e costituisce il potere del Governo la cui attività li rende concreti. Negli ordinamenti di tipo religioso tale potere di governo si ritiene non prodotto dall’uomo, e perciò inviolabilmente “sacro”, cioè indisponibile alla volontà “profana” su cui si esercita i suo potere. La legittimazione al suo esercizio non è originata dalla funzione, ma è derivata da una fonte superiore divina, di cui i Potere si fa rappresentante. Nei regimi secolarizzati, il fondamento di valore legittimante l’azione di governo - ossia la funzione giudicante, che decide della natura di ciò che è “concreto”, e perciò ammissibile come “pubblico”, distinguendolo da ciò che rimane “astratto” e cioè merita di persistere nella sua natura “privata” – è lo stesso Potere, che deve al suo efficace esercizio la legittimazione della sua sovranità. Nel primo caso, è l’unità mistica con la fonte divina il valore evocato dalle forme rituali di esercizio del Potere, per cui la celebrazione dei riti liturgici costituisce la forma stessa della sua legittimazione. Nell’altro caso, è la correttezza del procedimento a costituire il valore formale del suo esercizio, che pertanto è neutro rispetto ai contenuti della volontà sovrana. La neutralità e la correttezza formale sono gli attributi essenziali del metodo scientifico di esercizio del Potere. In entrambi i casi, nondimeno, l’esercizio del Potere ha un carattere oggettivo rispetto ai suoi contenuti reali, tale cioè che la sua essenza formale lo dispensa da ogni considerazione meta-strutturale, trascendente la sua effettualità. Ciò che conta per il Potere è la sua apparenza, ossia l’attualità del suo esercizio, sacrale o metodico. Ed è questa attualità che i riti del Potere rinnovano in occasione di ogni esercizio, la cui persistenza rappresenta simbolicamente l’unità della sua realtà ideale e sostanziale. L’attualità simbolica del Potere rappresenta l’unità di ciò che

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originariamente non è unico ma molteplice, per cui lo stesso Potere esprime simbolicamente la possibilità esclusiva di condurre ad unità ciò che è originariamente non lo è. E tale possibilità di trasformare il non-essere (unitario) in essere (unitario) è l’essenza del Potere, la sua demiurgica volontà di rendere Uno il Molteplice. In questo precipuo senso essenziale, il Potere coincide con la volontà umana di condurre all’unità del suo Sé la molteplicità del mondo, trasformando il diverso in istesso, portando l’Essere all’Idea, alla ragione del modello ideale. Portare l’Essere possibile alla ragione ideale, cioè razionalizzare la realtà significa ridurre la Possibilità dell’Essere all’attualità dell’ente, al fine di governarlo, ossia di disporne secondo la propria volontà. In questo consiste l’esercizio del Potere. E in questo senso, la razionalizzazione è indissolubilmente legata alla volontà di potenza. Ragione è, dunque, Potere, per cui razionalizzare significa esercitare il Potere secondo la sua modalità sistematica o scientifica che Machiavelli e Hobbes hanno portato a coscienza. Nei due casi, la “coerenza” razionale è data dalla omogeneità dei contenuti di valore coi princìpi costitutivi. Tale omogeneità, in campo politico, è la cittadinanza universale, che in campo “civile” diventa eguaglianza sociale: da qui nasce la costituzione democratica degli Stati secolaristici. In questo contesto secolaristico-democratico, i “corpi intermedi” non sono più gli ordinamenti storici, i “ceti” sociali e le istituzioni religiose ed etiche, bensì le “associazioni” e le “persone giuridiche” private, le quali, agli occhi del Potere, sono solo forme diverse di gruppi essenzialmente politici, costituiti cioè da cittadini. Orbene, poiché nella società secolarizzata l’attività “politica” ha per contenuto la vita economica dei gruppi privati, che agiscono per il loro riconoscimento pubblico, tale riconoscimento della loro privatezza da parte del Potere riguarda non già la loro ideale congruità coi principi morali fondamentali e legittimanti lo stesso esercizio di governo, ma la storica compatibilità coi principi direttivi del Governo, cioè con la “ragion di Stato”, che il Potere rappresenta monopolisticamente. Questi princìpi, inerendo alla vita dello Stato quale associazione universale di cittadini, sono anch’essi economici, cioè di natura non diversa da quella che ispira l’azione di tutti i gruppi sociali pubblicamente riconosciuti, che sono, in quanto più deboli del Potere statuale, “inferiori” al Governo, ma non qualitativamente diversi (altrimenti non sarebbero stati riconosciuti), ossia privati. La privatezza, dunque, equivale alla alterità. Ma alterità rispetto a che cosa? Non rispetto al Potere, nel qual caso si avrebbe mera inferiorità; e neppure rispetto all’essenza del Potere, poiché non sono grandezze commensurabili la riserva morale la volontà pratica. L’alterità che rileva ai fini del Potere consiste dunque nel suo carattere politico, tale cioè da prodursi

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come minaccia alla sua esistenza. Ne consegue che ogni discrimine privatistico del Potere del Governo, è una decisione politica, a cui il carattere “pubblico” conferisce un valore etico. Etico, pertanto, è soltanto l’atto del Governo, mentre tutte le altre attività dei corpi statali ma non governativi producono soltanto atti politici. L’eticità è dunque carattere del Potere, della fonte normativa, immanente ai suoi atti, originario della sua rappresentazione istituzionale dell’Idea da esso incarnata. E proprio tale rappresentazione si concretizza storicamente nella rappresentanza politica, in virtù della quale si realizza l’identità di ideale e reale nell’unità appunto del Potere. L’unità formale e sostanziale di ideale e reale nella stessa figura istituzionale realizza quella totalità del Potere sovrano che costituisce il fine di governo dello Stato monarchico.. Il passaggio della sovranità dall’ente unitario di Governo monarchico alla molteplice entità del popolo, fa di questo l’equivalente politico di ciò che è il corpo mistico rispetto alla Chiesa: il suo rispecchiamento reale, che nello Stato di diritto diventa giuridico. E’ su questa premessa razionalistica che si basa la rappresentanza politica come variante pubblicistica della rappresentanza privatistica. In uno Stato democratico non c’è differenza qualitativa tra funzione pubblica e attività privata, ma solo differenza di grado, poiché ogni attività pubblica, avendo la sua fonte di legittimazione sovrana nel popolo, quale ente civile politicizzato, si identifica con i fini di sussistenza della società civile, che sono di natura economica. In questo contesto egalitario, la “politica” si identifica con la stessa attività economica, la cui “ragione”, cioè il suo fine, è l’affermazione della privata particolarità, ossia dei gruppi privati in competizione economica per l’affermazione di sé. Ed è tale attività economica dei gruppi privati in competizione per il Potere che viene considerata come politica nei sistemi democratici (Schumpeter). Il diritto “pubblico” ora non è più di per sé l’interesse dello Stato, poiché anche lo Stato nei regimi democratici è un gruppo tra gruppi particolari, una formazione giuridica tra altre. “Pubblico” è un concetto che inerisce alla condizione “etica” (e non meramente giuridica) dello Stato rispetto alla volontà “politica” dei gruppi privati, sicché la differenza non riguarda l’ordine di grandezza dei gruppi privati, ma la natura ideale. In tal senso, la ricerca del Potere di unire nella stessa rappresentanza istituzionale l’ideale e il reale, postulava la distinzione tra il proprio carattere “pubblico” del Potere sovrano, di natura etica, e il carattere “privato” degli altri gruppi sociali, di interesse economico. Nel momento in cui l’unità ideale del Potere diventa in democrazia una unità sociologica molteplice, ogni elemento particolare è parte integrante della sovranità collettiva, che assomma nel suo carattere totale sia il lato politico che


“escludendo a priori la differenza”,175 evidentemente attraverso un atto d’imperio dogmatico emanante dallo stesso Potere e quindi auto-referenziale. Questo avviene infatti nella Chiesa come nello Stato moderno, dove

quello etico del Potere, il quale, a sua volta, essendo espressione rappresentativa delle formazioni sociali particolari, è anch’esso di tipo economico. L’uguaglianza degli enti sociali tra loro e con il modello ideale si realizza dunque con la costituzione dello Stato democratico di politica economica. E’ in questo tipo di Stato egalitario, che la rappresentanza politica acquista periodicamente valore costituente nei confronti degli organi di Governo a seguito delle elezioni dei suoi candidati all’esercizio. Il limite allo Stato onnipotente non proviene dalla concorrenza di altri organismi economici, statuali o finanziari, ma dalla realtà sociale di forze etiche politicamente indipendenti, non riferibili quindi alla forma istituzionale delle persone giuridiche, comunque riferibili a un Potere sovrano che li riconosca, la cui rilevanza politica non deriva dal loro riconoscimento pubblico ma dalla loro funzione. E’ dunque la funzione degli organismi etici a dover essere riconosciuta, e non le persone giuridiche, in modo tale che ne sia riconosciuto il carattere “naturale”, ossia trascendente l’attività politica degli organismi pubblici e privati. In tal senso, “la Chiesa deve essere universalmente riconosciuta come interprete autentica del diritto naturale. Dalla sua autorità dipende l’obbligazione morale di obbedire al potere costituito”.171 Questa condizione subordinata realizza il principio per cui “ogni potestà è delegata”,172 trovando per il suo esercizio un referente meta-politico che non è l’astratta lex dello Stato legislatore superiore alle parti private, ma lo jus di un’autorità morale diversa da quella politica la cui funzione è quella di legittimare il Potere, la cui titolarità va a “colui al quale si ordina di comandare”.173 Il “primo mandante” non è l’uomo o un gruppo sociale, ma una fonte di natura divina, secondo il senso di Rom. 13, 1 per cui “non est potestas nisi a Deo”. E, come afferma d’Ors, “solo il vizio immanentista del pensiero moderno ha potuto negare quest’origine, mediante il ricorso alla divinizzazione di un’istanza umana, di solito, anche se in maniera confusa, individuata nel popolo”.174 Ma il giurista cattolico ripone nella Legge la fonte della sovranità, ritenendo che la dislocazione dalla cittadinanza politica alla funzione etica possa evitare che il suo esercizio possa attribuirsi secondo un criterio di potenza socio-economica, per quanto legitimus, cioè conforme alla lex. Oltre al livello “convenzionale” o della legalità pubblica, distinto da quello della “convenzionalità privata”, da cui deriva la lealtà o fiducia tra le parti in accordo, il giurista spagnolo prevede un livello “sovraconvenzionale” o della legittimità delle leggi, che “può imporre “istanze contrarie a quelle legali, pubbliche o private. La contraddizione si può sciogliere, per d’Ors, solo identificando il livello pubblico con quello sovra-convenzionale,

le leggi positive non possono restare inefficaci con il pretesto di una presunta ingiustizia, ossia di una contraddizione con la legittimità. Così, seguendo strade diverse, la Chiesa e lo Stato giungono alla stessa conclusione che ogni legge è giusta: nella Chiesa, perché non possono esistere leggi ingiuste, ché, altrimenti, smetterebbero di essere leggi; nello Stato, perché tutto ciò che è imposto come legge, finché non cambia, deve essere rispettato come giusto.176

Ma esattamente questa circostanza, e le sue conseguenze totalitarie, dovrebbero far riflettere circa l’impercorribilità della strada legalitaria, all’ombra formalistica della quale “tutte le vacche sono grige”. La contraddizione tra legittimità e legalità presuppone il riconoscimento del diritto naturale, il quale, se per sussistere dev’essere riconosciuto dal Potere, non è più “naturale” ma “positivo”, per cui il discrimine giuridico diventa di natura politica, come invece non dovrebbe essere. D’Ors avverte che L’esperienza sembra aver dimostrato che quanto più ammettiamo l’esistenza di questo diritto [naturale], tanto più si fa forte la necessità di reagire contro gli abusi di un legislatore onnipotente, e non solo di un legislatore oligarchico o monocratico, come quello di alcuni regimi totalitari, bensì perfino democratico, salvo cadere nella divinizzazione del “demos”.177

Tale articolata reazione verso ogni espressione legislativa nasce in conseguenza della ammissibilità di un principio extra-formale di natura imperativa ma non cogente, come quello tipicamente morale. L’errore, e quindi la violenza, dei regimi legislativi consiste nel concentrare in una sola forma rappresentativa la totalità dell’esperienza di vita sociale, la quale, interessando l’uomo, è esistenziale, cioè spirituale, e non perciò riducibile a una tipologia sistemica meramente formale. Sicché, relativamente al sistema democratico-parlamentare del moderno Stato di diritto, concentrare nel Parlamento la rappresentanza, non solo del popolo, ma della società e del Governo, costituisce un “mostro politico […] gravido di potenza e di passioni” guidato da “tiranni”, di cui la Convenzione parigina fu il prototipo nefasto.178 Ma la fondamentale ragione della deriva illiberale di ogni sistema puramente ed esclusivamente legislativo risiede nella sua pretesa di stabilire con fattispecie normative ne varietur la validità futura di determinazioni attuali, la cui “certezza” tipologica astrae da ogni concreto rapporto di giustizia. La Teologia Politica ammette come potere “legittimo” soltanto quello “conforme al diritto divino”, secondo il quale solo Gesù Cristo è il “Re”, detentore dell’unico potere originario, per cui tutti i sovrani “non sono altro che delegati che devono comandare nel

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ricorda che, per il diritto romano, esso è “l’insieme dei cittadini (cives) che portano un cognome romano, ovunque si trovino, e si integrano nella res publica, cioè nella comunità unita da un proprio diritto e da un comune governo”.182 Si noti che nella definizione romanistica non viene contemplata l’unità di appartenenza religiosa, che invece è essenziale. Nell’accezione greca, “popolo” ha una connotazione territoriale, e non giuridica, per cui il suo concetto coincide con “coloro che compongono una determinata città locale”, da cui il senso moderno di “popolazione di uno Stato” quale città ampliata. Ma anche questa identità è arbitraria, in quanto “pubblico” non equivale necessariamente a “statale”.183 Per gli Ebrei, il “popolo eletto” è quello designato dalla Bibbia come lo “insieme di coloro che sono uniti dall’Alleanza con Yahvè, i circoncisi”.184 Infine, per i Protestanti, il “popolo di Dio” è quello dei fedeli, che però non formano una “Chiesa visibile, unica e gerarchica”.185 Nella prospettiva cattolica di d’Ors, la personalità giuridica non è del Popolo dei fedeli, come per i Protestanti, ma è della Chiesa; non del Popolo di Dio, ma della istituzione apostolica fondata da Gesù. Il principio della rappresentanza ecclesiastica costituisce l’istituzione al posto del corpo mistico dei fedeli. E’ chiaro che la struttura gerarchica risponde a un’esigenza istituzionale, ma non può riguardare lo spirito di relazione mistica che unisce la comunità cristiana, dove il collante unitivo è di tipo carismatico e non burocratico. Considerata la natura interpersonale della comunità di fede, al suo interno non può distinguersi la forma astratta del governo pastorale (la cd. “legittimità d’origine”, relativa alla struttura istituzionale della Chiesa) dalla determinazione concreta della persona preposta al governo (cd. “legittimità d’esercizio”), come invece avviene nella struttura ecclesiastica romana.186 Aver equiparato la comunità mistica (communitas) a una “società” di tipo civile (societas), che si organizza come un popolo politico (demos) in Stato, è all’origine dell’assolutismo, prima monarchico e quindi democratico, del Potere politico moderno, che discende dalla teologia politica cattolico-romana. Attribuire, infatti, il Potere al demos in via prioritaria, equivale a sostituire la fonte della sovranità rappresentativa dal re assolutista al popolo, pervenendo così a un “assolutismo democratico”.187 E’ dunque il concetto secolarizzato di Potere elaborato dalla teologia politica cattolica che, rimuovendo l’origine divina, costituisce la premessa teorica dell’assolutismo politico. Il principio della “sovranità popolare”, infine, liberando il diritto positivo da ogni legame col diritto naturale, crea le premesse teoriche del totalitarismo. Secondo d’Ors,

[Suo] nome e ai quali bisogna obbedire per la potestà che hanno ricevuto da Lui”, a prescindere dalla forma storica dei regimi istituzionali.179 Nei regime moderni, la “grazia di Dio” faceva dipendere il potere dei re da Cristo, ma con la Riforma la designazione divina perse ogni carattere di trascendenza, sicché il Re scelto da Dio non governava come vicario divino, bensì per il suo arbitrio assoluto: “Dio designa il Re, ma il Re designa la legge” è la formula dell’assolutismo. Pertanto, fra Dio e la legge attuale si interponeva la volontà assoluta del Re. Questo assolutismo, derivato dall’eresia protestante, si trasmise facilmente ai poteri democratici, che si sostituirono alle antiche monarchie, con l’aggravio di prescindere totalmente dall’origine divina del potere, in quanto la volontà del popolo venne divinizzata, in sostituzione della volontà di Dio.180

D’Ors non coglie che la possibilità di trasferire al popolo la rappresentanza del potere divino era già insita nell’idea di “rappresentanza”, che deriva dal concetto di “conformità”, ossia di “rispecchiamento” istituzionale del principio ideale. Che poi questa rappresentanza sia concepita nell’istituto ecclesiastico, o in quello monarchico, anziché in quello aristocratico o democratico, è questione legata alla storica preferenza ideologica. Lo stesso fondamento divino trascendente esclude logicamente l’esistenza di un regime politico più conforme alla volontà di Dio,181 per cui la stessa ammissibilità che una realtà relativa possa rappresentare in forma esclusiva un principio oggettivo e universale di carattere divino, attesta l’incongruità del principio di rappresentanza, e con essa la pretesa esclusività istituzionale. Infatti, l’impossibilità logica di dimostrare la verità di un qualunque sistema formale senza fare appello a un principio fondativo extra-sistemico (Goedel), deve poter supporre che la Grundnorm (Kelsen) di un qualunque sistema giuridico sia extra-giuridica, per cui qualunque tipo di rappresentanza di ciò che trascende la struttura istituzionale non può essere istituzionale, ma solo simbolica, aperta cioè a molteplici determinazioni ideali e reali. Il monopolio ermeneutico ecclesiastico della Legge divina, laicizzandosi, diventa monopolio del potere legislativo di interpretare la volontà del Popolo sovrano “divinizzato”. In realtà, è il concetto di rappresentanza del divino a divinizzare i rappresentanti, cioè i concreti esercenti del Potere. Infatti, la titolarità della divinità di Dio o secolare del Popolo – non incide sul Potere dei rappresentanti se non in senso legittimante, e quindi non sulla determinazione concreta del suo esercizio, che è poi quella che fa la differenza tra i regimi. Pertanto, il potere dei Papi, esercitato in nome e per conto di Dio, è storicamente esercitato in forme diversissime, e lo stesso vale per il Potere esercitato in nome del Popolo, che non ha impedito eccidi orrendi dello stesso popolo nominalmente sovrano. Facendo un riesame del concetto di “popolo”, d’Ors

la radice teologica dell’errore democratico deriva dalla confusione tipicamente protestante, che termina inevitabilmente nell’ateismo, per cui il Deus absconditus non è

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semplicemente un Dio spirituale e “nascosto”, in quanto i nostri sensi non lo riescono a percepire, bensì un Dio “assente” – che si trova oltre le stelle, e lì resta – un Dio che non si interessa delle cose umane, e che per questo lascia l’uomo in assoluta indipendenza. Infine, si tratta dell’equivalente del “Dio morto” della filosofia moderna.188

Per comprendere la funzione mediatrice del Potere sovrano tra Dio e Popolo, d’Ors ricorre alla distinzione tra “autorità”, che è “il sapere socialmente riconosciuto”, e “potestà”, che è “i potere socialmente riconosciuto”.189 Ciò comporta a suo parere che “la potestà è un potere che deriva da Dio, ma che richiede il riconoscimento della società”, per cui “Dio ordina di governare come potestà legittima a chi la società riconosce come tale”, e pertanto “il riconoscimento sociale è una condizione della legittimità del potere politico, ma non la sua origine”.190 Ma in cosa consiste tale “riconoscimento”? D’Ors sa dirci solo che è si natura “sociale”, ma non lo determina positivamente. Ecco “non può ridursi alla legalità attuale” né “nel consenso di una maggioranza formalizzata da un’elezione popolare organizzata”, il ché lo porta a concludere che i limiti della legittimità della potestà sono sempre, in qualche modo, irrazionali, poiché lo è il fatto stesso di riconoscerli. Il titolo che si fonda sulla legge non è più razionale della vittoria militare accettata dalla società, così come non lo è [razionale] ciò che si fonda sulla successione dinastica, rispetto a ciò che risulta da un’elezione popolare. Tutto dipende dal riconoscimento effettivo di un potere politico stabilito, che può essere effettivo pur non essendo maggioritario. In realtà, ciò che può influire nel riconoscimento sociale che converte il potere in potestà è l’assenso dell’autorità.191

La questione del “riconoscimento”, su cui si regge la legittimità del Governo della struttura socio-politica, viene derubricata da questione di diritto a questione di fatto, di cui “è impossibile stabilire regole fisse e discriminatorie”, non essendo essa solo “istituzionale, ma anche personale”.192 In altri termini, il “riconoscimento” del Potere converge in sé sia la “legittimità d’origine” che quella “d’esercizio”, ma solo quest’ultima è decisiva ai fini della effettualità della potestà, per cui “il potere costituito equivale al potere socialmente riconosciuto, cioè alla potestà”.193 Ossia dal libero convincimento del popolo, dalla dòxa, che possiamo indicare genericamente come “Mito” in senso soreliano, o come “tradizione” nel senso romantico del Savigny e della scuola storica del diritto, ma che tradisce il tipico atteggiamento “concreto” del pensiero “conservatore”, che si caratterizza per “il desiderio di restringere l’ambito” delle considerazioni “all’ambiente [valoriale] immediato nel quale si è posti, e di rifiutare decisamente tutto quanto sa di speculazione e di ipotesi”.194 Ma la “concretezza”, riferita a un contesto sociopolitico e culturale, se non può essere un giudizio categoriale, per definizione riferibile al solo dato di coscienza astratta dal Tutto, ossia dalla stessa 90

concretezza, non può consistere neppure in una condizione di fatto, essendo questa sempre oppugnabile di fatto o di diritto. Non resta, dunque, che considerarla in termini di unità intuitiva, priva della relazione dialettica con i suoi elementi costitutivi, di una “struttura”, che sia insieme “oggettiva”, in quanto trascendente i singoli punti di vista dei soggetti sociali, e ”spirituale”, in quanto inclusiva di questi. L’intuizione, infatti, è l’atto della coscienza che coglie sempre la realtà “oggettiva”, ossia indipendente dalla esperienza immediata del singolo attore, la quale realtà preesiste dunque all’intuizione. Questa non è una conoscenza razionale, astratta e soggettiva, ma un atto di ricezione della realtà intuita alla coscienza come mondo intuito. Nell’intuizione, la coscienza è passiva, ricettiva di realtà, la quale non è data dalla coscienza, non è un dato di coscienza, ma si dà alla coscienza, che l’assume come realtà n sé. La realtà “in sé” è quella che si dà esternamente alla coscienza come mondo intuito. La ragione decostruisce l’unità del mondo intuito, scomponendolo in oggetti formali dotati di senso razionale indipendente dall’unità mondica originaria concreta. La concretezza dunque è la condizione originaria della realtà mondica priva di distinzione razionale. E’, insomma l’universo oggettivo di senso simbolico proprio della coscienza mitica. Ed è questa coscienza concreta che sta alla base dell’intuizione della realtà strutturale del Potere, che, come abbiamo visto, non è soltanto istituzionaleoggettiva (una persona giuridica) né soltanto spirituale-soggettiva (una realtà esistenziale), ma l’una e l’altra. Una struttura oggettivo-spirituale è un nesso particolare di elementi psicologici e spirituali, che non può essere considerato del tutto indipendente dagli individui che ne sono i portatori, poiché la sua produzione, riproduzione e ulteriore sviluppo dipendono completamente dal destino e dallo sviluppo spontaneo di questi ultimi. La struttura può essere tuttavia oggettiva nel senso che il singolo individuo non la può mai produrre da solo, poiché appartiene solo a una fase del suo sviluppo storico, mentre essa sopravvive sempre ai singoli portatori. Il nominalismo e il realismo non sono in grado di cogliere l’essenza oggettiva di una simile struttura spirituale. Il nominalismo non riesce mai a coglierne la radice, perché cerca sempre di dissolvere la struttura oggettiva nelle esperienze isolate dei singoli (come nel concetto di “senso intenzionato” di Max Weber), mentre il realismo fallisce perché per “oggettività” e “validità” intende solo qualcosa di metafisico, del tutto indipendente dalla natura e dal destino dei singoli individui portatori, un elemento costante e normativo (preesistente). Tra questi estremi c’è tuttavia un’alternativa, quella che chiamiamo una connessione strutturale storica e dinamica. Il concetto implica un tipo di oggettività che inizia, si sviluppa e tramonta nel tempo, strettamente legata all’esistenza e al destino di gruppi umani concreti, e ne è di fatto il prodotto. Eppure è davvero una connessione strutturale spirituale “oggettiva”, perché esiste “prima” di ogni individuo e – rispetto allo svolgersi di una esperienza particolare – conserva sempre la propria forma specifica: la sua struttura.195


Tale “struttura”, afferma Mannheim, ha un intimo “principio ordinativo nel modo di collegare le esperienze e gli elementi componenti”,196 ossia una interna logica sistemica che ne prova la sua natura oggettivamente spontanea; cioè non casuale nel senso di caotica e incoerente, ma il cui sviluppo procede nel senso delle sue premesse teleologiche. Questo processo teleologico è il fine razionale immanente alla realtà considerata in termini di struttura ordinata. L’ordine interno alla struttura è la ragione del suo essere, che la rende appunto mondo strutturato. Ciò vuol dire, in altri termini, che l’universo di senso costitutivo della struttura ruota intorno a un fondamento intuitivo della realtà di natura ontologica che inerisce alla essenza dell’Essere. E’ questa intuizione fondamentale che stabilisce la “concretezza” dell’Essere, affermandone la “realtà”. Sulla base di questa affermazione di realtà, che è un atto di fede ontologica nell’Essere, cioè una “credenza”, si determina inoltre il senso normativo (tèlos) valido entro la struttura sociale, cioè razionalmente coerente con le sue premesse intuitive, e che costituisce quella Grundnorm che Mannheim chiama “intenzione fondamentale”. In ogni connessione strutturale storico-dinamica possiamo distinguere una specifica “intenzione fondamentale”, che l’individuo fa propria nella misura in cui la sua esperienza viene determinata dalla connessione strutturale in quanto tale. Anche questo “seme”, questa “intenzione fondamentale” non è però valida al di là del tempo e della storia. Anch’essa è sorta nel corso della storia e legata al destino di esseri umani viventi e concreti.197

Il “riconoscimento” sociale del Potere, dunque, consiste nel giudizio di corrispondenza tra la “intuizione fondamentale” della realtà condivisa dal contesto sociale, e la “intenzione fondamentale” che guida la volontà del Governo. Ed è questa riconosciuta unità a rivestire l’azione politica del Governo della sua funzione pubblica, distinta da ogni altra mera azione politica dei gruppi particolari privati. Il gruppo “privato” persegue il suo bene, appunto privato, avente un fine immanente allo scopo stesso dell’azione politica. Diversamente, l’azione del soggetto “pubblico” svolge un’attività trascendente i fini particolari, cioè strettamente istituzionali, e quindi la stessa azione politica con cui intende perseguirli. I fini trascendenti le azioni politiche sono esterne al sistema della legalità formale, cioè sono metastrutturali, e in tal senso “comuni”. Essi riguardano la società nel suo insieme, come totalità, e perciò rappresentati da una visione intuitiva e non logica, per cui la relativa prassi non si conforma a un criterio di astratta razionalità causale, ma a quello di “Bene comune”. Quello “comune” è il Bene che trascende gli interessi particolari rappresentati dalla politica e che ineriscono l’azione di Governo. In questo senso, l’azione di Governo è strettamente inerente ai fini etici

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della prassi politica finalizzata al Bene comune. I fini etici non possono essere arbitrari, cioè non possono riguardare una visione del mondo particolare e relativa a una soggettività sociale determinata, ma sono quelli stessi riconosciuti dalla coscienza sociale collettiva come quelli costitutivi del legame di socialità. Sono, cioè, i fini “religiosi” del gruppo sociale. Rispetto ad essi, ogni prospettiva ideale non socializzata resta “privata”. La dimensione “privata” di un’etica non socializzata, è relativa a una dimensione morale. Privata è la morale di Socrate, che non è riconosciuta avente valore sociale, ossia valore di Bene comune. La socialità costituisce il rapporto tra le singole determinazioni private e la dimensione pubblica della loro rilevanza sociale. Tale rapporto è il “riconoscimento” sociale della rilevanza pubblica dell’azione privata. Storicamente, questa facoltà era prerogativa del Governo, espressivo del Potere decisionale del Re. Nei regimi democratici, la stessa prerogativa è passata nominalmente al Popolo e funzionalmente al Parlamento. La verifica periodica della corrispondenza tra la volontà sovrana popolare e l’esercizio funzionale del Potere, ha trasformato il principio del “riconoscimento” in quello di “consenso” elettorale, provocando la costituzione privatistica, e quindi variabile e opinabile, di ciò che doveva per essenza restare “pubblico”. La privatizzazione dell’originario “riconoscimento” sociale nel moderno “consenso” elettorale è l’espressione ideologica della degenerazione strutturale del sistema etico-politico in sistema economico-consensuale e la trasformazione della tradizione sfera privata della morale in sfera economica. E’ chiaro che nella logica privatistica del consenso maggioritario non sia più possibile distinguere la titolarità legittima (etica) da quella meramente legale (politica), per cui il fatto sociale della effettualità del Potere ha sostituito il criterio del suo diritto, abolendo la condizione dell’usurpazione del Potere a favore della condizione della sua formalità. I dittatori moderni ottengono il Potere col consenso popolare, la fonte della moderna legittimità. In questa prospettiva epocale secolarizzata, l’assioma ecclesiale che le leggi fossero necessariamente “giuste” diventa un dogma dello Stato assolutistico, il quale, identificando nel Potere democratico sia il suo esercizio di Governo che la fonte della legittimità consensuale, si trasforma in sistema totalitario. E pertanto, nella nuova situazione storico-culturale postteologica, la credenza che “il paradigma di ogni comunità sia la Chiesa”, si converte in quella per cui “il paradigma di ogni società è lo Stato”. La comunità intuitiva, che riconosce nel Governo la “volontà generale” che lo legittima a governare, si trasforma in società razionale, che riconosce nel Governo la


legittimità formale che lo autorizza al Potere. Ciò che era la Giustizia (jus) per il Governo tradizionale, diventa il Diritto (lex) per il Governo formale. Il Potere esercitato contro il Bene comune faceva scadere la potestà a semplice uso della forza.198 Ora, però, è impossibile distinguere il legislatore dal tiranno, in quanto egli è il rappresentante e lo stesso titolare del Bene comune, per cui il giudizio di illegittimità del suo Potere deve formularsi fuori del sistema formale-legale, tale da stabilire che la legittima azione legale perda la sua legittimità morale quando esercitata fuori del Bene comune. Ma ciò presuppone che l’allocazione di tale Bene comune sia altrove rispetto al luogo della legalità, e quindi trascendente la struttura sociale formale. Ma questa ubiquità del Bene contrasta col fondamento istituzionalistico della comunità, mistica o razionale che sia, e quindi col criterio secondo il quale “la finalità essenziale della potestà” sia quella di “mantenere l’ordine sociale”, per cui “la potestà che non persegue questo fine perde la propria legittimità”.199 Infatti, il fine del Potere, come abbiamo visto, è trascendente, e cioè di conseguire il Bene comune, e perciò non può essere quello immanente di conservare “l’ordine sociale”, ossia il puro stato di fatto, perché questo criterio moralmente neutro è esattamente quello il razionalismo moderno ha inteso affermare per giustificare scientificamente il Potere in senso economicistico. L’ordine sociale come fine del Potere è l’antico principio sociologico pagano ereditato dalla teologia politica cattolico-romana e quindi riscoperto modernamente da Machiavelli e da Hobbes.

fondata su una credenza: che la parte sia il Tutto. Se l’ordine “giusto” è un ordine “politico”, esso è fondato su un presupposto fideistico di natura non negoziabile, cioè su un pre-giudizio o credenza di giustizia che sta alla base della posizione politica. Questa credenza pre-giudiziale consiste nel’assunzione della propria parte come il Tutto. Questa credenza non è universalizzabile, poiché non può allargare a ogni parte la pretesa di essere Tutto, ma restringerla soltanto alla propria. Questa privatizzazione della ragione politica, non tenendo conto delle ragioni altrui, può essere etica nel momento in cui impersona l’opinione pubblica interna al gruppo sociale di riferimento (partitico o nazionale che sia), e quindi anche “giusta”, ma non può essere una posizione morale, inerente il Bene, poiché un Bene che sia parziale è appunto politico. Il Bene è tale perché comune a tutte le parti in conflitto, e quindi trascendente le loro proprie posizioni politiche. Il Bene comune, dunque, non si identifica con la giustizia, cioè con un concetto logico. Esso non consiste in una ideo-logia, stabilita sul fondamento di realtà di ciò che la situazione attualmente è, e quindi sulla credenza che tale realtà attuale sia l’Essere totale, cioè ogni possibilità. Il Bene comune è la stessa Possibilità, ossia la condizione che ciò che attualmente è giusto non lo sia sempre e per tutti. Il Bene dunque è il valore che non è di parte, non è politico; è, anzi, il contrario dell’oggetto della logica politica. Questa perviene al Giusto, ossia alla decisione etica, ma non può la Giustizia rappresentare il valore morale, il Bene comune. La ragione tende per sua disposizione a ridurre il Bene al Giusto, facendo della ragione comune la ragione di parte, perciò il Bene è un valore meta-razionale, pre-giudiziale, e quindi fondamentale, ossia intuitivo. L’intuizione, intuendo il Tutto, intuisce il Bene, che è “comune” in quanto posto a fondamento di ogni discorso parziale, di ogni ragione politica e ragionevolezza logica. La natura fondamentale del Bene comune lo rende indisponibile alle parti, non negoziabile giuridicamente né politicamente. E proprio la natura comune del Bene, ossia la sua universalità ontologica, conduce il pensiero razionale a ravvisarlo anche nelle ragioni particolari altrui, come l’elemento comune a ogni ragione particolare. La essenza negativa del Bene rispetto alla positività di ogni posizione razionale, fa di esso il non-essere di ogni essere-attuale, ossia il suo referente trascendente. Ed è questo valore trascendente a dovere e poter giudicare ogni forma storica di potestà politica, in quanto Bene comune e non di parte. Sicché un ordine è “ingiusto”, non in quanto contravviene alle ragioni politicamente opposte al suo valore etico, il quale può anche essere del tutto legittimo; ma è “ingiusto” solo in quanto contrario al fondamento morale, opposto cioè al Bene comune. L’istanza, perfettamente etica, di difendere la patria, è giusta in sé, ma non può identificarsi col Bene, poiché la stessa

9. La distinzione tra “autorità” morale e “potestà” politica rientra in un sistema d’ordine gerarchicamente strutturato in modo tale da costituirsi nel reciproco riconoscimento delle rispettive funzioni. Il “riconoscimento” esclude la condizione conflittuale dei due poteri, ossia lo stato di emergenza da dirimere con una decisione risolutiva, che non può essere di tipo giurisdizionale, “poiché gli stessi giudizi giudiziari devono poter contare sulla forza legittima del potere in giudizio”, ma politica.200 “Politica” è la decisione che stabilisce la priorità delle ragioni di parte sulle ragioni comuni, le quali, in quanto “comuni” sono condivise e non soggette a contenzioso. E’ allorquando viene meno il riconoscimento di tale comunanza che sorge il conflitto politico. Lo stesso accordo pattizio è valido fin quando è riconosciuto, ma in quanto soggetto al riconoscimento, è soggetto anche a violazione. L’istanza politica si fonda dunque sulla pretesa che le ragioni di parte siano le ragioni comuni, e pertanto che la parte sia il Tutto. La supposizione che la parte sia il Tutto è l’essenza della rappresentanza, la quale dunque è una operazione logica, giuridica e politica

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e opposta giustizia vale per i nemici della patria, che difendendo la loro ne difendono il suo principio etico. L’azione politica può essere etica, e, come nel caso di un legittimo atto giudiziario, la sua forza è anche giusta. La giustizia è l’universalizzazione del valore economico-politico, e quindi privato, a valore pubblico, etico. Il valore politico, diventando pubblico, acquista senso etico, diventa “giusto”. Ma un’azione politica, recando in sé la possibilità di diventare azione etica, per ciò stesso custodisce un valore immanente, quello della Giustizia, che è proprio delle relazioni tra enti sociali finiti. L’universo di senso etico-politico è un universo finito; è l’universo delle relazioni del mondo della finitezza, quello cioè sensibile, rispetto al quale il Bene è l’altro, il mondo invisibile Il Bene, quale Essere totale, non è “nascosto” in quanto “assente”, ma in quanto “invisibile”, cioè non traducibile in enti reali finiti. E “invisibile” significa “trascendente” la finitezza della visibilità. La trascendenza dalla finitezza equivale alla stessa possibilità dell’Essere di non-essere così-come-èattualmente. E in questa possibilità di non-essere definito consiste la Libertà. La Libertà è la condizione ontologica dell’Essere quale Bene. E in quanto Bene, cioè essenza trascendente ogni finitezza, la Libertà non può essere politica, ma soltanto morale. La riduzione della sua essenza morale alla dimensione finita della politica, costituisce una derivazione ideologica del concetto della rappresentanza istituzionale dei valori trascendenti. La Libertà politica è dunque una credenza ideologica, e come tale assumibile da ogni parte politica come valore proprio, privato e parziale. Su questo fondamento ideologico è nato il concetto di Libertà politica moderna come indipendenza (di una parte) da altri poteri politici (di altre parti). Questa Libertà politica è soggetta a patti, a vincoli di reciproco riconoscimento giuridico, ma è pur sempre fondata su un presupposto polemico esclusivistico, per cui la Libertà giusta è sempre la propria. Su questo fondamento etico-politico si sono costituiti gli Stati, antichi e moderni. E sullo stesso fondamento è stata concepita la Chiesa quale istituzione tra altre istituzioni etico-politiche. La definizione di libertà offerta da d’Ors conserva tutti i limiti dell’istituzionalismo teorico. Per lui, infatti, la libertà consiste nella possibilità di non dover accettare tutti gli ordini del potere costituito, facendo dunque una questione quantitativa e di opportunità nell’opzione della disubbidienza. E la contrappone alla “schiavitù”, la quale a suo dire consisterebbe “nel non poter resistere agli imperativi di colui il quale è riconosciuto come padre”, per cui “si rinuncia alla libertà quando la sottomissione politica al potere costituito implica l’accoglienza di tutti i suoi precetti”.201 Ma “accoglienza” non equivale a “riconoscimento”, e

se un Potere è riconosciuto legittimo, è riconosciuta legittimo anche ogni suo atto di potestà. La “accoglienza” implica, invece, la possibilità che tale riconoscimento non ci sia, per cui il riconoscimento è riservato non già alla fonte del Potere ma ai suoi atti concreti. E’ il concetto di “critica” trasferito nel campo etico-politico, ossia il metodo dialettico stabilito nei rapporti politici. Riconoscere la fonte normativa, equivale ad agire come l’Abramo del Genesi, pronto a immolare a Dio suo figlio Isacco. Il “paradosso” della fede è l’obsequium alla Legge, ossia all’ordine della potestà; la quale, aggiunge d’Ors, “non è fonte di criterio morale”, avendo “la moralità altre fonti”, “ma semplicemente dispositivo i cui effetti sono sanzionabili dall’apparato giuridico dello Stato”.202 Entro la struttura d’ordine legale del Potere, l’autorità legittima coincide con quella legale, sicché la “possibilità” di resisterle ai suoi ordini coincide con la resistenza politica alla sua potestà. Infatti, la resistenza morale non afferisce alla logica dell’obsequium, per cui essa può sempre sussistere, anche in caso di sottomissione politica. La conseguenza di tale presupposto è che la resistenza morale, se non acquista consistenza politica, non può esercitarsi validamente contro il Potere costituito. Infatti “resistere agli imperativi” del Potere costituito, e godere della “possibilità di non dover accettare tutti i [suoi] ordini”, equivale ad essere “liberti, mentre “l’accoglienza di tutti i suoi precetti” equivale ad essere “schiavi”. Ciò vuol dire che la sudditanza politica di per sé – cioè concettualmente - è “schiavitù”, e che la “resistenza politica” di per sé – nella sua essenza - è “libertà”. E quindi si è liberi solo quando ci si può opporre al Potere, ossia quando si ha la possibilità di potersi sottrarre alle leggi. Ma nessuno può sottrarsi alle leggi del Potere senza negare l’ordine costituito. Infatti poter infrangere una legge, significa essere liberi di sottrarsi a tutte le leggi. Questa possibilità viene negata dal Potere, che è tale in quanto riconosce la sua sola Libertà come superiore a quella altrui. Ma se tale possibilità il Potere è costretto a riconoscere, e quindi a limitare la propria potestà, è per l’azione polemica di un altro Potere, indipendente da quello statuale, e legittimato politicamente a opporsi al Potere politicamente sovrano in quanto rappresentativo di un Potere superiore a quello dei sovrani storici, quello morale di Dio, di cui la Chiesa è appunto la rappresentante istituzionale, politica. La Chiesa nasce dunque in opposizione al Potere politico, come struttura parallela concorrente e limitante le sue pretese egemoniche. Nasce, cioè, come deterrente politico alla universalizzazione etica dello Stato, al quale contrappone quella propria. La storica polemica tra Stato e Chiesa ha per vertenza il carattere etico dei rispettivi poteri politici, che l’una parte afferma a scapito dell’altra. Solo dunque attraverso il “riconoscimento” del Potere ecclesiale da

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parte dello Stato si poteva derimere pacificamente la vertenza etica, che pertanto viene giuridicizzata e trasformata in contenzioso istituzionale. Perché tale contenzioso avvenisse sulla base di opposte pretese egemoniche doveva rappresentarsi in termini comunque politici, ma diversamente legittimate dalle rispettive parti: la pretesa di quella ecclesiastica veniva razionalmente giustificata sulla legittima rappresentanza divina, di un Potere cioè superiore e originario rispetto a quelli storici e derivati, quello di Dio, che è di carattere morale. Ciò implicava che la moralità potesse tradursi in termini concettuali e quindi politici, e che questo potesse avvenire legittimamente soltanto a opera della Chiesa, che dunque si rappresentava come l’istituzione politica esclusivamente rappresentativa della moralità di Dio. Questa reductio ad se ipsam della sacertà di Dio realizzava compiutamente in termini istituzionalistici quella incarnazione divina che per fede doveva essere prerogativa mistica solo di Cristo, il Verbum caro factum est. La Chiesa, attraverso la “rappresentanza” di Cristo, agisce politicamente nel mondo affermando le proprie ragioni di Libertà in nome e per conto di tutta l’umanità redenta e da redimere, e quindi universalizzando eticamente la sua politica presso il popolo anch’esso universale dei figli di Dio su cui esercita la sua santa Potestà. Il processo di universalizzazione del concetto di moralità, ossia la visione etica della Chiesa (la proiezione razionalistica della sua Idea di Bene; la sua ideo-logia legittimante la sua politica istituzionale), presuppone che la fonte storica della moralità sia la Chiesa, detentrice esclusiva della sua rappresentanza, per cui, dove la potestà della Chiesa non agisce, non sussiste neppure un “criterio oggettivo” di moralità. In una società non cattolica, mancando un criterio obiettivo di moralità, e, restando quest’ultima sotto l’arbitrio della coscienza individuale, le leggi possono restare totalmente separate da qualunque criterio morale. L’espressione più evidente della perdita dell’oggettività morale, prodotta dal Protestantesimo, è quella dell’imperativo categorico kantiano. Kant realizza la costruzione più chiara del soggettivismo metafisico di Descartes. Secondo quest’ultimo, l’esistenza dipende dal pensiero individuale, pertanto era logico che si arrivasse a riconoscere la dipendenza della moralità dalla coscienza personale. [Con tale] imperativo categorico, […] qualunque oggettività morale viene distrutta, poiché, per principio, si prescinde dalla legge di Dio. Pertanto, l’ordine morale risulta impossibile […].

del cielo”,203 e ancor prima di Lutero, “l’umanesimo aveva preparato il teismo religioso-universalistico”, rafforzato dalla riscoperta dello stoicismo romano.204 Infine Lutero riuscì con la sua poderosa predicazione, “congiunta a grandissima ed esuberante potenza creatrice e a genialissima ricchezza d’animo […] ad abbracciare nella fede l’uomo tutto intero [e] in una lotta mortale liberare la religiosità personale dal regime sacerdotale di Roma”.205 La sua energia del giudizio morale, la consapevole certezza dell’unione dell’uomo, mercé la sua coscienza, con un giudice supremo, la lieta fiducia di potere, giustificati dinanzi a lui, agire nel mondo come suoi strumenti, si manifestano in modo più profondo di quanto fosse avvenuto mai per l’addietro. Appunto questa sostanza di fede, concorde con la grande tradizione della Chiesa, diede ai riformatori l’energia eroica di scuotere l’apparato e la disciplina ecclesiastica e di operare quali creatori di chiesa.206

La potenza della fede di Lutero, “senza una scintilla d’arte nell’anima, e anche senza forte bisogno di scienza”, superò il formalismo dogmatico e la rappresentazione figurativa del pensiero visivo greco, per il quale il “cosmo intelligibile, trascendente, era la controparte del cosmo visibile”, staccando il processo religioso anche dalla “esteriorità reggimentale della Chiesa”, che, secondo il “genio romano poteva concepire il processo religioso solo in collegamento con un nuovo impero spirituale”, in base al quale “la vita superiore scendeva da Dio sui Cristiani solo nell’ordine e nella disciplina” regolati dall’obbedienza. In nome della vita e delle sue esperienze moralireligiose, Lutero condiziona “ogni sapere intorno ai rapporti con l’invisibile”, facendo passare in seconda linea “il nesso intellettuale del mondo, che collega l’essere razionale alla ragione mondiale”, a favore del “nesso morale”, e osteggiando per tal via anche il nominalismo del teismo religioso universale. Soltanto presso i popoli nordici il processo religioso s’inoltra nell’invisibile. Esso diventa consapevole della sua completa diversità dai procedimenti sensibili del pensiero quali si attuano nelle formule e dimostrazioni del dogma greco, e si stacca dall’apparato esteriore di mezzi, disciplina e opere di un impero spirituale esigente obbedienza, qual’era stato creato dallo spirito romano di dominio. In Lutero, che attuava tutto ciò, si conclude compiutamente il più profondo movimento del Medio Evo, rappresentato dal cristianesimo francescano e dalla mistica, e ad un tempo s’inizia l’idealismo moderno.207

Si chiarisce dunque che per “ordine morale” va inteso quello della morale “oggettiva” rappresentata dalla Chiesa. Ma ciò che non è ancora chiara è la ragione per la quale l’oggettività morale, il “criterio”, non possa sussistere in sé, quale orizzonte ideale comune all’universo cattolico, né in un ente diverso dalla Chiesa istituzionale, come ad esempio la coscienza personale. Già ai tempi di Hutten si metteva in ridicolo che “un bandito come Giulio II possedesse le chiavi

Ponendo la fede a fondamento del processo religiosomorale, lo dichiara “fondamentalmente invisibile e inaccessibile all’intelletto”, stabilendo che la libertà dell’uomo si attua solo al suo interno, attraverso la “parola divina”, la cui presenza nell’anima del credente “è una esperienza indecomponibile”,208 ossia intuitivamente unitaria e mistica. Un’esperienza, insomma, poetica. L’intuizione poetica della vita religiosa rappresenta l’esperienza mistica alternativa a

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quella formalistica della tradizione cattolico-romana, la cui “oggettività” ideale si rispecchia nella visibilità della realtà istituzionale. Non c’è necessità di fede per cui la morale non possa essere “oggettiva” in senso ideale universale, in quanto l’universalità del criterio morale cristiano si realizza con la sua coscienza, in interiore homine, e non con la sua effettualità. Il senso della “oggettività” cui si riferisce d’Ors, è l’oggettività etica di una istituzione storica che agisce attraverso atti politici. E’ l’oggettività del diritto positivo di un ente legislatore politicamente sovrano. E dunque la ragione per la quale l’ordine morale si identifica con la potestà esclusiva della Chiesa è una ragione meramente politica, legata alla pretesa ecclesiastica che la sua esclusiva giurisdizione derivi dal suo monopolio ermeneutico del “criterio” del Bene. Tale pretesa politica di detenere il monopolio della ragione del Bene costituisce il fondamento etico che legittima ogni imperativo legale avanzato da una istituzione sovrana. Da qui il contrasto etico-politico tra la pretesa della Chiesa e quella dello Stato a costituirsi come istituzione ciascuna sovrana e superiorem non recognoscentem, ossia come potere assoluto e legislativamente totalitario. E da qui l’increscioso ed equivoco giudizio storico della Chiesa sul fenomeno totalitario, circa l’insussistenza, cioè, del Potere statale totalitario in quanto sottoscrittore del patto di riconoscimento politico reciproco, la cui osservanza era comunque lasciata alla buona fede delle parti, in quanto la sua arbitraria violazione eventuale nessun organismo giurisdizionale potrebbe sanzionare. E in politica, giusta la regola di Machiavelli e di Hobbes, la “buona fede” equivale all’interesse contingente. La Chiesa concordataria non comprese per tempo che la nascita dello Stato totalitario segnava la fine anche formale di quella cristianità, entro la quale poteva aver senso un accordo legale, che presumeva il reciproco riconoscimento istituzionale. Ma un patto politico con uno Stato che aveva invaso altri Stati sovrani senza neppure avendo dichiarato guerra formale, e che violerà i patti diplomatici senza alcun ritegno morale, che senso poteva avere un Concordato difensivo della propria inviolabilità politica? La Chiesa concordataria con le potenze totalitarie segnò il distacco della potenza istituzionale dal corpo mistico cristiano, abbandonato a sé stesso, ossia alla potestà dell’ordine politico e alla sola resistenza morale personale. Paradossalmente, ancora una volta, nel martirio il Cristianesimo rivelò la natura morale del suo fine escatologico, altro rispetto a quello del mondo effettuale. Né fu un caso che la liberazione politica dal totalitarismo coincise con la secolarizzazione dei valori etici cristiani e la loro razionalizzazione in termini di ideologia ecclesiastica., con la conseguente perdita della loro “oggettività” universale. Divenuto ente sovrano tra ente sovrano, la Chiesa cattolica, dopo aver perduto il

monopolio ermeneutico della ragione, ha perduto anche quello della rappresentanza morale del Bene comune, ristretta alla sua influenza etica entro la sua giurisdizione legale. Anche nel caso della Chiesa, il presupposto della sua “oggettività” è costituito dalla fede nel suo fondamento ontologico, senza la quale ogni sua legislazione morale non ha potere vincolante per la coscienza meramente politica, che non sia anch’esso di natura politica. La questione della fede, come ben si può comprendere, inerisce molto direttamente alla questione del potere. Infatti, se il campo delle opere della fede tradizionale è la struttura istituzionale della Chiesa, per cui la nuova prospettiva religiosa luterana deve poterne prescindere. Nell’universo sociale cristiano medievale, esistevano “due imperi”, quello mondano dello Stato e quello spirituale della Chiesa. In un noto appello ai nobili cristiani di nazione tedesca del 1520 “intorno al miglioramento dello Stato cristiano”, Lutero nega la dottrina dei due corpi di Cristo e le sue supposte due sostanze, a favore di “un corpo solo”, per cui anche la potestà secolare, come ogni altra attività sociale, è “di condizione sacerdotale”, il cui “imperio coercitivo” è divinamente disposto per l’organizzazione della società cristiana, che costituisce nel suo complesso una “unica comunità”.209 La nuova coscienza cristiana coinvolge ciascun membro del corpo sociale, il quale è perciò chiamato alla “trasformazione della società tedesca nel suo ordinamento sia ecclesiastico che secolare”.210 E ai fini di questa trasformazione morale della società Lutero pone al rango di protagonista l’organizzazione politica. L’ “uomo interiore”, l’invisibilità del processo religioso che in lui si attua, la sua libertà, non contengono in sé alcun principio di forza e d’obbedienza in seno ad un organismo ecclesiastico, e quindi soltanto la società politica è in grado di organizzare l’azione sociale, e diventa sede di ogni attività che tenda ad attuare l’opera di Dio nel mondo. Il campo delle opere della fede è la società secolare e il suo ordinamento.211

La questione, rispetto alla prospettiva cattolica, è rovesciata. Perché la Chiesa separata dalla società se la società cristiana nel suo complesso può svolgere i suoi compiti di affermazione dei principi morali cristiani in ogni campo di umana attività? Domanda lecita, che però nasconde la premessa essenziale della sua liceità razionale, ossia il presupposto che il contesto sociale in cui agiscono sia la struttura ecclesiastica che quella secolare sia per entrambe loro quello della cristianità. Infatti, il sacerdozio universale è possibile dove la fede cristiana è un fondamento morale di coscienza comune; senza quel presupposto, ogni risoluzione della funzione istituzionale ecclesiastica nella singola personalità del credente perderebbe il suo valore di senso teleologico. Ciò vuol dire che la struttura separata della Chiesa dalla società secolare era superata dalla fede comune, e che l’opera

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L’essenza del Potere è dunque la violenza, la quale è tanto la forza che “impone un ordine di fronte a uno spontaneo disordine”, che la forza necessaria a “scomporre un ordine per imporne un altro che, da parte di chi esercita tale forza, è considerato un bene superiore”.214 Si noti come la funzione della violenza, e quindi del Potere, sia concepita moralmente neutra, ossia equivalente di fronte sia al disordine “spontaneo”, e cioè casuale e non necessariamente derivato da originarie ragioni teologiche, che al disordine ideale, cioè ritenuto tale da chi detiene la forza politica. La neutralizzazione del concetto della violenza dimostra come la sua universalizzazione razionalistica, emancipandolo dal suo originario orizzonte di senso teologico, si converte in principio machiavellico di ogni Potere.

di evangelizzazione intrapresa dalla Chiesa dell’universo pagano imperiale si era ormai conclusa. La “trasformazione” auspicata da Lutero era dunque interna all’universo religioso cristiano, e di carattere strutturale, non spirituale. La trasformazione spirituale delle coscienze cristiane era infatti il presupposto di quella “trasformazione”, e non finalizzata ad essa. Questa impostazione luterana della questione religiosa era speculare a quella cattolica, che concepiva l’opera di evangelizzazione un compito perenne della Chiesa, la cui funzione redentrice trovava plausibilità teologica proprio dalla circostanza storica che il regno di Cesare non fosse lo stesso regno di Dio. Se l’impostazione cattolica della questione del Potere lasciava impregiudicato il ruolo della Chiesa, comunque “santa” rispetto alla logica del mondo profano, e quindi indeterminato il compito evangelizzatore della struttura ecclesiastica, l’impostazione protestante ammetteva come un dato storico ciò che era solo un presupposto di fede, quello appunto che la comunità sociale fosse definitivamente cristiana, sicché l’intero impianto teologico del sacerdozio universale e della missione personale di ognuno, e del potere politico in ispecie, si reggeva soltanto sul convincimento fideistico che quanto era stato costruito dalla Chiesa – ossia l’ordine cristiano non sarebbe mai potuto essere perduto. Paradossalmente, Lutero riponeva sull’opera della Chiesa molta più fiducia teologica di quanto i cattolici stessi non ne avessero. E se la “trasformazione” di questi era nel senso della conversione, quella dell’altro era perlopiù di carattere amministrativo. Ma bastava che la fede si allentasse o sparisse dalla coscienza dei prìncipi perché la missione spirituale assegnata al Potere politico acquistasse una finalità tutt’altro che cristiana. E di fatti così avvenne storicamente, allorquando fu il Potere politico a volersi separare da ogni missione redentrice in senso cristiano per affermare la sua assoluta indipendenza dai fini religiosi, con le nefaste conseguenze spirituali che conosciamo. Ma l’ordo christianorum era tutt’altro che una conquista definitiva, che avrebbe realizzato in terra la città di Dio. Il “disordine” infatti, scrive d’Ors, è una conseguenza del Peccato originale, dal quale l’uomo “deve sollevarsi per la forza che deriva dalla ragione”. E tale “forza” razionale vittoriosa sul disordine “è ciò che può essere chiamata violenza”, che costituisce il “superamento virtuoso del disordine e, in quanto superamento, può considerarsi strumento della perfezione umana”.212 Sia in senso personale, come vittoria sul disordine delle passioni, che e ancor più in senso sociale, perché “anche la società, nel suo complesso, deve esercitare una certa violenza su se stessa affinché mantenga l’ordine senza cadere nel disordine”, sicché “non esiste ordine possibile senza violenza”. Anzi, “tutto l’ordine presuppone una violenza costituente ed esecutiva”.213

Tutto l’ordine richiede la violenza per esistere, chi impone questo ordine deve essere più forte di chi tenta di non compierlo o sovvertirlo. In altre parole: è naturale che chi detenga la potestà sia più forte, in modo che il più debole debba obbedire a chi governa e non [deve] comandare.215

L’originaria condizione teologica diventa ora “naturale”, nel senso di “universale”, valida per ogni situazione sociale, contraria dunque anche a quella dei testimoni della fede contro l’ordine pagano. L’incertezza terminologica del giurista tradisce quella teorica. Infatti, la “violenza”, quando non è mera forza, è ascrivibile a una delle forme di legittimità, senza contare che la “forza” in quanto tale è un’astrazione negativa, che designa il giudizio di chi non la riconosce. Il problema, dunque torma ad essere, perché irrisolto da d’Ors, quello del “riconoscimento”, ossia della legittimità dell’esercizio del Potere. Se l’accento si sposta dal riconoscimento morale alla obbedienza forzosa, il criterio di legittimazione della violenza diventa quello della “efficacia” del Potere, la cui empirica efficienza di per sé non custodisce alcun valore giustificativo né dell’ordine costituendo né del disordine provocato. E’ in questa accezione neutra e, per così dire, tecnica che d’Ors intende la “violenza” come sinonimo di forza efficiente. Ma la forza efficiente è la “causa” di un fenomeno, nel nostro caso dell’ordine sociale, la cui sussistenza viene assunta come un valore in sé, che può mettersi in discussione solo se e quando venga contestato dal dissenso sociale, cioè dal disordine, contro il quale si impone doverosamente l’ordine. Teoria contraddittoria e debole già nella premessa, che attribuisce a Dio ogni potere, ma non la responsabilità del suo esercizio, senza chiarire i termini di una potestà solo simbolica e nominale. Se infatti l’ordine è in ogni caso un prodotto della violenza, Dio ne sarebbe la legittimazione trascendente in ogni caso, e non solo nei casi che si ispirano a Lui, cioè nei casi legittimi. La questione della legittimità nasce invece dalla distinzione dell’ordine giusto da quello ingiusto, che è

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un giudizio di conformità all’ordine morale, che non può confondersi con la mera fattualità dell’ordine civile, soggetto al consensus populi, effimero e di per sé non avvalorante perché possibile frutto di errore, come nel caso della condanna di Gesù o del martirio dei cristiani nelle arene romane. L’autorità morale ha una sua forza, che non è quella del Potere né quella dell’opinione sociale del numero, e che poggia su principi trascendenti i rapporti di forza sociali, cioè la dimensione politica. Il discutibile principio potestativo, che fa di Dio la fonte di ogni potere mondano, da un lato crea l’equivoco di una legittimazione divina della forza sol perché istitutrice d’ordine; e dall’altro genera una mentalità efficientistica che, secolarizzata in senso universale, teorizza il cinismo machiavellico. Ciò che è l’ “ordine” per il cattolico d’Ors, è la “pace” per il razionalista Kant: situazioni di fatto in sé neutre e non legittimate da alcun principio trascendente. Ma un ordine che non sia valoriale, cioè conforme ai principi morali che lo legittimano, è “disordine”, a meno che non s’intenda per “ordine” e “pace” la mera conservazione ordinata del gruppo. Non così l’intendeva Lutero, né così Marsilio. Ma è questo lo scopo dell’ordine sociale? Se così fosse, quale la differenza con lo stato belluino e la successiva pacificazione leviathanica? L’idea di un originario disordine pre-civile nasce dall’ipotesi individualistica dell’uomo artifex mundi, che entra in lotta con gli altri per il reciproco riconoscimento. Questa ipotesi razionalistica è però smentita dall’esistenza di un nucleo sociale originario, perché “naturale”, dove il riconoscimento dei suoi membri non è legato alla loro forza politica, ma al carattere etico del gruppo, dove la convivenza si stabilisce come sintesi di necessità biologica e volontà morale: la famiglia. Nella famiglia, la società “naturale” ispirata dall’esigenza procreativa si stabilizza come realtà etico-sociale dalla permanenza dei rapporti, che trascendono l’occasionalità biologica e la convenienza, in virtù di un sentimento di partecipazione morale alla vita del gruppo che è di “amore”. La famiglia costituisce il “paradigma” di quell’ordo amoris in cui il contesto sociale è a un tempo inscindibilmente “naturale” e “morale”, dove il singolo uomo viene al mondo e si definisce come essere biologico e tipo morale. Ogni altro tipo di comunità sociale, compresa la Chiesa, è derivata dalla famiglia, o per astrazione societaria o per imitazione simbolica. La stessa “fraternità” cristiana è mutuata dal rapporto familiare. Solo a partire da questa base comunitaria originaria è possibile comprendere l’evoluzione della socialità nella storia, compresa la teoria individualistica, in campo teoretico e sociale, astratta rispetto alla concretezza della realtà familiare, e che, senza avvedersene, d’Ors fa propria considerando la “violenza” come la matrice e l’essenza di ogni rapporto sociale. Infatti, la violenza

in senso astrattamente neutro non è altro che lo stesso concetto di “economia” come ragione e fondamento della socialità politica. D’altronde, se il potere d’ordine costitutivo va obbedito in quanto al suo fondamento di legittimità divino, estendendosi all’ “obbligo di obbedire a tutte le leggi”, per cui la legge “si rispetta ma non si segue”,216 lo stesso principio può applicarsi alla Chiesa, di legittimazione divina ma di gestione umana. E questa constatazione basterebbe a confutare la pretesa canonistica di esprimere in positivo la regola morale, ma, soprattutto, priverebbe di ogni fondamento razionale il preteso monopolio ermeneutico della moralità vantato dall’istituzione ecclesiale. Quanto le categorie della teologia politica abbiano pesato sulla concezione moderna dell’autorità, e cioè sulla questione del Potere, possiamo rendercene conto riferendoci alla traduzione secolaristica che ne ha fatto de Jouvenelle, uno dei maggiori teorici della politica del Novecento. Per lo scrittore francese, l’autorità è intesa come “la capacità di dar vita ad aggregati”, che sono “qualcosa in più rispetto alle parti che lo compongono”. Questa capacità iniziatrice è la vis politica, la forza determinante di ogni formazione sociale o universitas […]. Questa forza può essere analizzata sotto tre aspetti, che spesso non si trovano riuniti nel medesimo agente: la facoltà di determinare un flusso di volontà, la facoltà di spingerle al’azione, la facoltà di rendere regolare, di istituzionalizzare questa cooperazione.217

“Colui che trascina all’azione un flusso di volontà […] è dux”, cioè “condottiero” e “leader”. Chi invece “istituzionalizza la cooperazione è rex, colui che ordina, che regge”, e da cui dipende “se l’opera additiva del dux diverrà una permanente aggregazione”.218 Possiamo dire che quello del dux è un potere costituente, mentre quello del rex è un potere di governo. La differenza consiste nella eccezionalità della prima e nella regolare continuità della seconda facoltà. Ciò vuol dire che il potere costituente è un esercizio originario ma provvisorio, funzionale alla definizione di una formazione sociale, ma non alla sua amministrazione. Perché l’atto costitutivo conservi un suo valore simbolico, occorre che la universitas che ne è scaturita lo acquisisca come valore pre-politico e meta-politico, cioè come atto di valore etico. Il valore “etico” dell’universo politico è dunque originario e genetico, sicché il “duce” si costituisce come il “padre” della patria, il “fondatore”. Non è difficile riscontrare qui una essenziale analogia con il Padre creatore del mondo, “mundus” è un universo organizzato. Il carattere organizzativo del mondo-cosmo è dato dal suo essere uni-verso, cioè diretto a un fine razionalmente unitario. Questo fine unitario e unificante del mondo è la sua ratio, ossia la

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ragione direttiva della sua vita sociale: il suo principio di socialità. IL principio uni-versale di socialità è quello che informa l’azione di governo del rex, del reggitore o amministrazione dell’ordine costituito. Tale “principio” è un valore, abbiamo detto, e non può dunque identificarsi con la nuda forza del Potere. E’ pertanto una forza etica, cioè capace di dare unità alle parti riunite in universitas. Non ogni forza è dunque unitiva, ma solo quella formatrice di unità sociale. “E’ chiaro”, sostiene de Jouvenelle “che nessun aggregato può mantenersi se non sia sostenuto dall’alto”, per cui l’aggregato “durerà soltanto finquando si eserciterà l’attrazione propria del dux”, capace di vincere le opposte “forze di repulsione”.219 Inoltre, come pure riconosce de Jouvenelle, “ la durata della costruzione presuppone il consolidarsi di una coesione tra gli elementi umani”, costituita da “simboli comuni a tutti, che si incorporano nello spirito di ciascuno e che costituiscono per lui il vero aggancio che lo tiene legato al resto”.220 Ciò vuol dire che la “forza” di cui parliamo non è un potere reale (di tipo militare o politico), ma ideale. Il potere ideale aggregante è la religione. Da qui l’origine divina del potere regale ordinatore della società di cui diceva d’Ors. “Religare” è unire il distinto secondo un principio morale condiviso, tributario del quale è l’identità etica del gruppo sociale. E da qui l’origine dunque dell’autorità. La questione del Potere inerisce alla stessa problematica del senso della Storia, poiché se il Potere decide esso divide il Bene dal Male, e quindi necessita di un criterio logico per la sua applicazione, anche capricciosa. Non ogni criterio, infatti, è necessariamente plausibile logicamente, ma comunque persegue una sua propria razionalità. Se, invece, il Potere governa, allora esso deve considerare non solo la ragione di parte, ma il Tutto. La proiezione del Tutto su scala storica ha la stessa portata del tempo come totalità dei tempi storici. E solo il compimento della Storia può darci il senso della sua esperienza finita. Ciò comporta che il processo temporale non è assunto come infinito, ma solo come indeterminato, per cui per governare il Tutto occorre riferirsi paradigmaticamente all’esperienza della Storia nella sua totale esperibilità di senso compiuto, a una Storia ideale eterna. All’interno del processo in-definito della Storia che si svolge dal suo principio fondamentale, l’unico senso possibile alla ragione umana è quello inscritto in un orizzonte situazionale di senso simbolico, che rimanda in-definitamente dal suo principio fideistico alla sua rielaborazione razionale, tale che la corrispondenza dei due livelli di coscienza costituisca la certezza scientifica della sua verità logica. In tal senso, “essere nella verità” equivale ad essere nella certezza della situazione di senso, che è sempre storicamente determinata nel tempo, per cui non c’è verità scientifica che non sia storica.

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Ma la certezza della verità, essendo interna all’universo di senso storico, è una credenza secondo la quale appunto la verità coincide con la certezza della corrispondenza del senso simbolico al senso razionale. Una rielaborazione di tale credenza implica un livello di coscienza trascendente l’orizzonte di senso storicoscientifico, che l’assuma come un’esperienza finita in quanto compiuta. Pensare la Storia nella sua totalità di senso compiuto significa non più pensarla nella distinzione logica, ma intuirla nella sua compiutezza, e quindi pensarla alla luce del giudizio di Dio, della sua giustificazione, nella cui totalità è solamente possibile pensare la compiutezza di ciò che per l’uomo storico diviene indefinitamente. Il giudizio di Dio è il giudizio morale, non quello storico, sicché per pensare – non la fenomenicità della Storia, ma - la verità della Storia, occorre trascendere la sua finitezza razionale e intuirla nella sua compiutezza meta-storica, divina. Solo ciò che è compiuto è sacro, in quanto la compiutezza non è soggetta a cambiamenti, e la Storia sacra dell’uomo pensata nella sua divina verità è la Storia di Cristo, che è il paradigma di ogni possibile storia umana pensata nella sua universale verità spirituale. Chi ebbe una chiara contezza di “un intimo nesso teleologico di tutta la storia” fu Sebastian Franck (1499-1545), di cui diremo oltre, il quale, prima di Vico, comprese che la narrazione delle Sacre Scritture era una “allegoria eterna”, cioè una rappresentazione simbolica del processo religioso-morale della coscienza umana di ognuno (“omnis homo unus homo”) di ogni tempo (“vita una et eadem omnibus”).221 La libertà della coscienza morale dell’uomo nasce dalla kénosis di Dio che limita volontariamente la potenza divina a favore della libera elezione umana entro un ordine teleologico mondiale, in cui la volontà individuale viene volta al bene universale. La volontà è libera nella sua scelta, ma il suo operare nel mondo è determinato dalla potenza di Dio, che stabilisce l’ordine mondiale. E la potenza della divinità volge al bene qualsiasi decisione volontaria: così come nelle città i rivenditori e gli usurai che agiscono sotto l’impulso dell’egoismo, tuttavia servono al vantaggio economico della generalità”.222

Qualche secolo prima di Smith, nella concezione di Franck troviamo la fonte della teoria della “mani invisibile” del provvidenziale Mercato, che opera teleologicamernte per il bene comune. Tuttavia, l’importanza di questa concezione, che fa del “libertino” Franck “il precursore o il fondatore della moderna filosofia della religione”,223 si pensi solo all’influenza su Lessing e su Kant, risiede nella rappresentazione dinamica del processo morale, consistente nello “antagonismo tra il principio morale della natura umana, che ha la sua radice in Dio, e il principio dell’egoismo, che deriva dalla volontà lasciata libera”.224 Il lumen naturale, o divino,


l’universalizzazione razionalistica dei suoi contenuti simbolici, comportava, per un verso, che il Cristianesimo, istituzionalizzato a seguito della “grande abominazione” intervenuta “all’indomani della morte degli Apostoli”,228 venisse svuotato di ogni potere di rappresentanza teologica in concomitanza con la consapevolezza del suo valore universale, ma per un altro verso che la dimensione coscienziale del processo morale universale, avendo ribaltato il principio d’ordine della socialità umana, non potesse lasciare impregiudicata la condizione sociale dell’uomo storico, che perciò richiedeva ora una presa di posizione morale in senso correttivo. La visione morale della Storia implicava che ogni ideale religiosamente fondato sulla fede diventasse “strumento dell’azione divina nel mondo”, per cui ogni “sforzo di conformare la società umana secondo i dettami della fede, della legge morale, della Scrittura” costituisse l’attività propria di una “etica sociale”.229 E’ questa istanza morale a contrassegnare, al di là delle divisioni dottrinali tra i protestanti e tra questi e i libertini, la tendenza spiritualistica in senso gioachimita del Cristianesimo riformato. La formazione di una società cristiana era un problema non presente al cristianesimo apostolico se non nei termini di una conversione universale delle singole anime, ma che divenne dominante allorquando la fine dell’Impero romano minacciava di indicare i cristiani come un corpo estraneo alla civiltà pagana, responsabile della sua decadenza. La questione religiosa divenne a quel punto pubblica e richiedeva perciò risposte politiche. La Città di Dio di Agostino rappresenta la prima grandiosa visione cristiana della società pagana, giudicata dalla prospettiva escatologica della fede. per la prima volta, il regno di Cesare diventa un problema religioso per i cristiani, i quali, a seguito della sua decadenza storica, non possono più considerarlo come l’altro mondo, quello politico, rispetto a quello dello spirito, ma si devono porre il problema della sua destinazione sociale. L’idea medievale dei due imperi, mondano e spirituale, nasceva dalla distinzione della condizione politica e profana dello Stato, da quella religiosa e spirituale della società. La società, costituita da persone, era il contesto di riferimento sia della Chiesa che dello Stato, ossia di due organismi istituzionali predisposti ad assolvere mansioni diverse, anche se non sempre concretamente distinte. La “mostruosa contraddizione” di una Chiesa intesa come “mondanizzazione dell’organizzazione spirituale”,230 nasceva dall’esigenza di fronteggiare un corpo politico concorrente nel controllo della società, la quale soltanto era oggetto di interesse religioso. Nella condizione storica di vacatio imperii, il rischio di una nuova costituzione politica avversa alla influenza cristiana sulla società, poteva riaprire una stagione persecutoria, che era da evitare. La Chiesa, nondimeno, non pensò di sostituire lo Stato, creando

presente in ogni uomo, lo rende capace di giudizio razionale. Ciò che per la sapienza antica era il Lògos, per la teologia è il Verbum, cioè il Cristo invisibile e interiore che, quando prevale sull’Adamo che è in ogni uomo, sconfigge moralmente l’egoismo. Pertanto il processo morale-religioso si ha allorché l’antagonismo tra carne e spirito, tra egoismo e luce naturale, che è in ogni uomo, vien superato da una rivoluzione, che nella Scrittura è indicata come rigenerazione. Allora è completa “l’abnegazione, odium sui, renunciatio” della volontà indipendente a tutto ciò che essa è ed ha, e il Cristo invisibile è elevato a forma e regola della vita. Questo processo è affatto universale. Esso non è legato alla condizione di una rivelazione esterna limitata nel tempo e nello spazio, ma soltanto all’universale rivelazione in Cristo, che non è altro se non il sostrato morale divinamente immanente nell’uomo.225

Universalizzando la formula della giustificazione davanti a Dio per opera di Cristo, Franck fa della dottrina della giustificazione un processo, non più oggettivo che si attua in Dio, ma soggettivo che si effettua nella coscienza, rendendo universale sia la caduta dell’uomo nell’egoismo che la sua giustificazione davanti a Dio attraverso “il Cristo invisibile, la cui essenza è l’amore, e che risiede in ogni elevata coscienza d’uomo”.226 Dai rapporti interni alla coscienza umana, derivano le forme dei rapporti esterni tra gli uomini, per cui la storia è sempre mossa dall’egoismo e dalla limitatezza dell’uomo, che dappertutto esteriorizzerà l’interiore processo morale-religioso, lo assoggetterà in ordinamenti esteriori alla volontà di dominio, e lo renderà sensibile in cerimonie. Senonché interviene l’avvicendarsi delle grandi forme storiche, poiché ciascuna di queste a causa dell’egoismo e della limitatezza in essa contenuti si risolve nuovamente nel nulla.227

Ecco dunque prospettato il ciclo nichilistico delle civiltà umane, il cui processo è inscritto nel senso ideale della vita spirituale come tensione eterna di superamento del fondo egoistico immanente alla stessa natura umana. In senso generale, si può dire che la rielaborazione della teologia cristiana attraverso il filtro intellettuale della cultura classica, tende a costituire un modello universale di religione che poggi sullo stesso fondamento razionale dell’uomo pagano, ma interpretato in chiave teologica, per cui l’antica natura è soppiantata da un’ontologia spiritualistica. Nella rinnovata visione umanistica cristiana, il fondamento di realtà si sposta dalla società alla coscienza, e quindi le leggi sociali vengono intese come una proiezione dei processi morali. E’ l’universalizzazione di questo principio morale soggettivo che contesta alla Chiesa ogni funzione mediatrice all’interno delle dinamiche della coscienza personale, la cui veridicità di fede deve moralmente rispecchiarsi nelle forme storiche di società umana acché queste siano dalla coscienza morale considerate legittime. La de-storicizzazione della figura di Gesù in simbolo morale-religioso universale, coincidendo con

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una respublica christiana, ma tutt’al più di costituire uno Stato di reggitori cristiani, fautori di una politica rispettosa delle prerogative religiose della Chiesa. La prospettiva dei Protestanti è molto diversa. Essi non si pongono il problema del controllo della società, ma pensano di rifondare lo Stato in senso conforme all’Evangelo. Il superamento della distinzione medievale dei due imperi, era legata al progetto teocratico di uno Stato compiutamente cristiano, che desse alla società un principio d’ordine teologicamente definito, pur strutturato secondo principi politici. Essi – i protestanti – per la prima volta spezzarono i vincoli servili, che la tradizione cristiana si trascinava dietro sin dal tempo del dominio dei Cesari, cioè la norma dell’età apostolica sull’obbedienza passiva e silenziosa delle comunità di un paese ad una sovranità per così dire estranea a loro. Essi per la prima volta riconobbero al nuovo spirito cristiano la forza di formare l’ordine sociale; essi considerarono come dovere cristiano quello di collaborare alla formazione della costituzione politica. secondo Zuinglio, lo Stato ha bisogno degli elevati sentimenti contenuti nel Vangelo; solo il vero cristiano esercita rettamente un ufficio sovrano; un governo senza timor di Dio è tirannide; la deposizione dei tiranni per opera della concorde volontà di tutto il popolo è legittima.231

La distinzione medievale veniva superata in senso integralistico, ossia costituendo il modello dell’ordinamento comunitario apostolico come “modello dell’ordinamento politico”, facendo dello “autogoverno del popolo cristiano […] l’ideale dei Cristiani riformati fino all’età di Cromwell e dei suoi cavalieri, e coopererà alla trasformazione del sistema politico europeo ancora fino alla rivoluzione del 1688”.232 La contraddizione di tale prospettiva era implicita nella formazione di realtà politiche, internamente coese in senso religioso ma necessariamente rivali verso l’esterno, le quali, essendo partite dall’idea di porre fine all’internazionalismo cattolico della Chiesa, finirono per distruggere la stessa possibilità di un impero politico, suscitando soltanto la formazione di comunità politiche nazionali coesistenti con le analoghe chiese nazionali, necessarie a fermare l’anarchia settaria. Se la Chiesa romana aveva sempre cercato di controllare la natura diabolica della politica attraverso il deterrente, simbolico e diplomatico, di una istituzione ecclesiastica parallela a quella dello Stato che potesse esercitare la sua influenza sulla società cristiana in termini non strettamente politici, le chiese riformate si posero l’obiettivo, per così dire, di convertire il Diavolo, eliminando dalla società cristiana la sua influenza politica. Sul fondamento esclusivo della fede e della parola divina, escludendo ogni mediazione ecclesiastica e ogni regolamentazione canonica, si poteva costruire una società spirituale che fosse la proiezione della personalità singolare del fedele, realizzando così la

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virtù cristiana in terra, ignorando che la forza della predicazione evangelica era riposta proprio nella consapevole differenza tra ciò che è verità interiore e libertà morale, e ciò che è soggetto alla necessità della vita sociale, in cui ognuno non solo è ciò che in libertà decide di essere, ma anche deve essere ciò che gli altri, con le loro libertà e convinzioni, esigono da lui. Un consorzio sociale che intenda essere libero senza regole di libertà, finisce per diventare preda degli strumenti dell’ordine necessari a delimitare la prevaricante libertà di ognuno. Una società di santi finisce quindi inevitabilmente a trasformarsi in una società diabolica. Il principio dell’autodeterminazione nazionale, infatti, fuori del controllo di una struttura morale superiore alle parti nazionali, ha dato vita agli Stati totalitari, religiosamente liberi e coesi, ma diabolicamente atei. L’epilogo del rinascimento cristiano avanzato dalla Riforma, confermando il rovesciamento storico dell’astratto opposto nel contrario reale, dimostra che la Storia intesa come processo compiuto non può oltrepassare l’orizzonte di senso spirituale entro il quale essa assume il significato che le è proprio secondo il suo principio. Voler rappresentare in senso universalistico tale significato implica la razionalizzazione sistemica di ogni concezione storica includendola nella struttura di senso del proprio orizzonte di senso. Che è la direzione nella quale si sta avviando da secoli la nostra civiltà razionalistica, il cui astratto scientismo tende a rimuovere il pluralismo degli orizzonti situazionali di senso a pro dell’unica rappresentazione dell’Essere in senso logico, che è quello che lo de-finisce nella sua attualità. Secondo tale rappresentazione ontologica universalistica della Storia, sarebbe più corretto parlare di “filosofie” della Storia ogni qualvolta si procede a incursioni ermeneutiche fuorvianti da quel senso univoco paradigmatico, dando al pluralismo delle interpretazioni quella variabilità di senso contestuale al singolo orizzonte spirituale, e lasciando intendere che esistano tante storie – cioè narrazioni - quanti siano gli orizzonti di senso che le comprendono, mentre “la” Storia è solo quella ipostatizzata dall’orizzonte di senso creduto unico e assoluto. Ma l’elemento accomunante ogni orizzonte di senso è appunto tale credenza, che fa sì che all’interno di ciascun orizzonte la scansione temporale sia del tutto logica, e non cronologica, tale cioè che il prima e il dopo perdono ogni carattere di causalità meccanica, così che il tempo acquista un senso puramente “ideale”, che è quello appunto creduto essere del processo logico, entro il quale si perde la linearità dei fenomeni in sequenza temporale per acquistare una circolarità di senso del tutto immanente al processo spirituale, consentendo in tal modo alla attualità storica di perdere la sua rappresentazione fenomenica presente per acquisirne una ideale, eterna e perciò necessaria, in cui va a perdersi il valore logico in


favore di quello simbolico-universale del “cuore”. Nel contesto circolare del tempo ideale, infatti, non ha più significato logico il prima e il dopo cronologico, ma solo il senso simbolico del processo spirituale, che lo configura come un orizzonte di senso meta-temporale, la cui compiutezza va mondanizzata. Questa condizione ideale circolare consente di eliminare dalla Storia ogni idea di frammento rispetto a una supposta intierezza finale, così che l’eskaton dell’inizio assoluto da cui si svolge il processo storico venga trasferito nell’analisi del senso morale già compiuto e sacralizzato dalla fede, e rimosso dal compimento storico del tempo lineare ad quem, perlopiù inverificabile all’esperienza umana concreta, e perciò esposto all’incognito futuro, al dubbio scettico, che rimanda incessantemente a un senso totale nascosto al pensiero analitico e frammentario. Il senso nascosto alla Storia simbolica e alle sue mitiche rappresentazioni, viene svelato dalla Storia fatta, la cui validità morale è rassicurata dalla veridicità del modello ideale. Ed è così che nasce la volontà rivoluzionaria di compiere la Storia spiritualmente pensata, strappando la sua verità all’intimità della coscienza religiosa per parteciparla universalmente, secondo una umana tentazione diabolica di onnipotenza dalla quale solo Gesù si è reso immune, e che ha invece travolto la spiritualità moderna. Il genio di Chateaubriand intese l’insuperabile differenza tra la libertà di coscienza, che dipende dal cuore, e la libertà “civile”, cioè politica, la quale, legata alla vita sociale, “è solo un sogno, un sentimento fittizio che non abbiamo affatto, che non abita affatto nel nostro intimo”. Il cuore umano, infatti, cela un “desiderio sconosciuto”, una “malattia” dell’anima, che accompagna l’uomo come “un istinto indeterminato, un vuoto interiore” che tormenta e non può essere appagato dalla “miserie inerenti alla nostra natura di uomo”.233 Si tratta del vago rapimento metafisico provato da Kant per la consapevolezza dell’umana finitudine al cospetto dell’immensità dell’universo fisico, all’esterno di noi, e di quello spirituale all’interno. Questa inquietudine, dovuta alla stessa civiltà umana, genera un “malcontento di sé” che non può essere superato dalla rivoluzione, anche se la genera, sottoforma di anelito alla “libertà”, che unisce alla “furia di distruggere” il desiderio di costruire “il più sublime dei governi in teoria”. Ma sono fole occasionali, che nascondono la costante realtà della condizione umana, che vincola i più al comando dei pochi, per cui ogni governo è un male, ogni governo è un giogo; ma non traiamone la conclusione che lo si debba distruggere. Poiché essere schiavi è la nostra sorte, sopportiamo la catena senza lamentarci, e impariamo a comporne gli anelli di re o di tribuni a seconda dei tempi e soprattutto a seconda dei nostri costumi. E stiamo certi, checché se ne dica pubblicamente, che è meglio obbedire a un nostro compatriota ricco e illuminato che non a

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una moltitudine ignorante che ci graverà di tutti i mali. 234

Le convinzioni politiche del grande e nobile Francese non sono dettate dalla sua appartenenza di ceto, ma dalla profonda consapevolezza circa la differenza tra un regime repubblicano fondato sul “costume” dei cittadini, cioè sulla loro condizione morale, e uno fondato sul “governo”, cioè sulla loro condizione politica. 235 Essa va ben oltre la differenza di cui a lungo si tratterà circa la “libertà degli antichi” in paragone con quella dei “moderni”, poiché non investe la considerazione, pur così importante per altri versi, dell’universalità del liberalismo moderno rispetto alla ristrettezza dell’antico, ma bensì inerisce la qualità, per così dire, dei suoi contenuti nei rispettivi casi. Nel caso antico, la repubblica era il risultato politico di una maturata coscienza morale, che prescriveva l’adeguamento organico dell’ordine politico agli stessi costumi sociali, mentre nel caso moderno, era sorta “un’altra specie di libertà”, che non era “figlia dei costumi”, ma era nata “dai progressi della civiltà, dall’infiltrazione dei lumi in tutti gli spiriti”, per cui “i popoli illuminati non vogliono più servilmente obbedire; e i governi illuminati a loro volta, non si preoccupano più del dispotismo”. 236 Chateaubriand ha in seguito ridimensionato la portata della prima felice intuizione della differenza tra le due libertà, correggendo il tiro in senso sociologico relativo alla sua diffusione universale, ma il suo genuino pensiero originario poneva l’accento sul carattere morale della libertà, che non poteva per decreto politico transitare sic et simpliciter nella costituzione giuridica di uno Stato. Infatti, com’egli si esprime, “se il cuore non può perfezionarsi, se la morale resta corrotta malgrado i lumi: Repubblica universale, fraternità delle nazioni, pace generale, brillante fantasma di una durevole felicità in terra, addio!” 237 Ciò vuol dire che “la nostra situazione” di popoli moderni è realmente la stessa, quanto ai risultati, di quella dei popoli antichi; che abbiamo perso in costumi ciò che abbiamo guadagnato in lumi. Questi ultimi sembrano posti dalla natura in modo tale che i primi si corrompono sempre, in proporzione alla crescita dei secondi [sic!]: come se la bilancia fosse destinata a prevenire la perfezione tra gli uomini. Ma è certo che i lumi non danno la virtù; che un grande moralista può essere un uomo disonesto. La questione della felicità resta dunque la stessa per i popoli moderni e per gli antichi, poiché essa non può trovarsi che nella purezza dell’anima. 238

”Felicità” sta per armonia tra vita interiore e realtà sociale, mentre “purezza dell’anima” sta evidentemente per prossimità alla condizione naturale dell’uomo, secondo la recepita indicazione di Rousseau. Ma, come abbiamo sottolineato nel testo riportato, Chateaubriand stabilisce una sorta di legge di contrappasso tra la regressione della condizione morale e l’avanzamento della condizione civile, che egli pare qui voglia limitarsi a constatare senza


altrimenti spiegarla, richiamandosi vagamente al suo ammirato scrittore ginevrino. In realtà, Chateaubriand va oltre la mera constatazione di fatto, poiché la relazione, inversamente proporzionale, tra morale e civiltà implica il rapporto tra unità spirituale e molteplicità delle conoscenze della realtà secondo il metodo della ragione illuministica. In altri termini, il rapporto tra uomo – come unità spirituale - e società – come organizzazione della comune vita civile – è stato modernamente alterato dalla esigenza del controllo scientifico della personalità umana, attuato con gli strumenti politici, i quali possono incidere sulla persona giuridico-economica dell’uomo empirico, ma non interferire, se non riduttivamente e quindi violentemente, nella formazione della sua personalità morale, la cui essenza trascende la finitezza di ogni umana determinazione. La legge del contrappasso sta dunque a indicare che ogni volontà di controllo della personalità morale dell’uomo, non considerando il suo valore spirituale trascendente, va a incidere sugli aspetti esteriori del costume civile, ma lascia impregiudicate le eventuali mancanze della sua costituzione morale. Con questo discorso, non soltanto si stabilisce un limite insuperabile della politica negli affari del “cuore”, ma si teorizza la vanità di ogni sforzo rivoluzionario teso a cambiare la più intima natura umana. Ed è proprio questa critica radicale alla rivoluzione politica, alla sua antistorica pretesa di trasferire nella coscienza spirituale moderna la logica sociale esclusivamente politica dell’etica antica, a lasciare l’adito alla metanoia della fede religiosa, quale rivoluzione del cuore, o cristiana “conversione”, al fine del miglioramento spirituale dell’uomo totale. Ogni altra forma di totalitarismo, rifacendosi alla logica politica invalsa nella Rivoluzione francese, avrà sempre l’insuperabile limite spirituale additato genialmente da Chateaubriand, quello appunto che pretende fare della rivoluzione politica una fede religiosa, però del tutto mal posta e destinata quindi a scontrarsi con l’eterna verità della condizione morale dell’uomo.

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Note al saggio 1. Schumpeter, Epochen der Dogmen – und Methodengeschichte (1914), tr. it., Torino, 1965, pag. 9. 2. Ivi, pagg. 9-10. 3. Ivi, pag. 10. 4. Ivi, pag. 12. 5. Ibidem. 6. Ivi, pag. 14. 7. Ivi, pag. 15. 8. R. Lenoble, Le origini del pensiero scientifico moderno, in Storia della scienza, a cura di M. Daumas (1957), tr. it., Bari, 1969, pagg. 293-294. 9. Ivi, pag. 298. 10. Ivi, pag. 299. 11. Ibidem. 12. Ivi, pag. 300. 13. Ivi, pag. 301. 14. Ivi, pag. 302. 15. Ivi, pag. 303. 16. Ivi, pag. 304. 17. Ibidem. 18. Ivi, pag. 305. 19. Ibidem. 20. Ivi, pag. 306. 21. P. Brunet, La scienza nell’antichità e nel Medioevo, in Storia della scienza, cit., pag. 193. 22. Ivi, pag. 194. 23. Ivi, pag. 195. 24. Ivi, pag. 197. 25. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 306-307. 26. Ivi, pag. 307. 27. Ivi, pag. 309. 28. Ibidem. 29. Ivi, pag. 310. 30. Ivi, pag. 311. 31. Ibidem. 32. Ivi, pag. 313. 33. Ivi, pag. 314. 34. Ivi, pag. 315. 35. Ivi, pag. 316. 36. Ibidem. 37. Ibidem. 38. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 318. 39. Ivi, pag. 319. 40. Ivi, pag. 320. 41. Ivi, pag. 320. 42. Ivi, pag. 321. 43. Ivi, pag. 322. 44. H. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft (1911), tr. it., Roma-Bari, 2010, pag. 13. 45. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 340. 46. F. Bacone, De dignitate, V, 2; cit. da R. Lenoble, Loc. cit., pag. 339. 47. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft (1911), tr. it. cit., pagg. 90 sgg. 48. Ivi, pag. 40. 49. E. Husserl, Op. cit., pag. 45. 50. Ved. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 333. 51. “In accordo con le consuete concezioni dominanti, lo specialista delle scienze della natura tende a cogliere tutto come natura, mentre lo specialista delle scienze dello spirito tutto come spirito, come formazione storica, fraintendendo ciò che non può essere inteso in questo modo. […] Ciò che caratterizza ogni forma di estremo e conseguente naturalismo […] è da un lato la naturalizzazione della coscienza […], e dall’altro la naturalizzazione delle idee e con ciò di ogni ideale

e norma assoluti”: E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft , tr. it. cit., pagg. 13 e 14. Tale opposto esito speculare è come sappiamo legato all’astratta determinazione monistica dell’Essere ideale, che si converte dialetticamente nel suo opposto reale. 52. Ivi, pag. 85. 53. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 341. 54. Cit. da R. Lenoble in Loc. cit., pag. 342 passim. 55. F. Bacone, De dignitate, I, 90; cit. da R. Lenoble, Loc. cit., pag. 343. 56. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 343. 57. Ivi, pag. 345. 58. Ivi, pag. 347. 59. Cit. da R. Lenoble, Loc. cit., pag. 351. Per il concetto classificatorio di Croce, ved. C. Marco, B. C. filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2003. 60. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 356. 61. Ivi, pagg. 359-360. 62. Cit. da R. Lenoble in Loc. cit., pag. 359. 63. Ivi, pag. 360. 64. Ivi, pagg. 361-362. 65. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 367. 66. Ivi, pag. 369. 67. Cartesio, Principia, IV, 203; cit. da R. Lenoble, Loc. cit., pag. 378. 68. Ivi, pag. 381. 69. Ivi, pag. 382. 70. Ivi, pag. 383. 71. Ivi, pag. 384. 72. Marsenne, La vérité des sciences, cit. da R. Lenoble, in Loc. cit., pag. 385. 73. Ivi, pag. 388. 74. Ivi, pag. 389. 75. F. Chabod, Il Rinascimento (1942), in Scritti sul Rinascimento, Torino, 1967, pag. 18. 76. Cit. da R. Lenoble, in Loc. cit., pag. 374. 77. Ivi, pagg. 375-376. 78. Ivi, pag. 390. 79. Ivi, pag. 391. Secondo E.B. Tylor (Primitive culture, 1876), la vita religiosa nella forma primitiva è animistica. La mentalità del selvaggio tende a oggettivare i dati della coscienza, anche quelli involontari percepiti nei sogni. Per la loro spontaneità, gli esseri dell’immaginazione possono abbandonare il loro aspetto fisico e vagare come realtà incorporea. Anche l’uomo ha un suo doppio, uno del quale è l’anima, che con la morte si separa definitivamente dal corpo diventando uno spirito, che abita in un mondo parallelo a quello dei corpi vivi. L’indistinzione tra realtà fenomenica e realtà immaginativa estende a livello cosmico la visione animistica antropologica. Ved. P. Marquer, in Storia della scienza, cit., vol. II, pag. 1159. 80. R. Lenoble, Loc. cit., pag. 397. 81. Ivi, pag. 398. 82. Ivi, pag. 399. 83. Ivi, pag. 401. 84. B. Pascal, Pensieri, 129. 85. Agostino, Epist., CXXII, 5 ad Consentium. 86. B. Pascal, Pensieri, 142. 87. B. Pascal, Pensieri, 143. 88. B. Pascal, Pensieri, 144. 89. Ibidem. 90. B. Pascal, Pensieri, 146. 91. B. Pascal, Pensieri, 148. 92. B. Pascal, Pensieri, 150. 93. B. Pascal, Pensieri, 156. 94. Ibidem.

103


95. B. Pascal, Pensieri, 107. 96. B. Pascal, Pensieri, 562. 97. B. Pascal, Pensieri, 563. 98. B. Pascal, Pensieri, 564. 99. B. Pascal, Pensieri, 570. 100. Agostino, De civitate Dei, XI, 22. 101. B. Pascal, Pensieri, 227. 102. B. Pascal, Pensieri, 235. 103. B. Pascal, Pensieri, 228. 104. B. Pascal, Pensieri, 230. 105. B. Pascal, Pensieri, 235. 106. B. Pascal, Pensieri, 243. 107. B. Pascal, Pensieri, 244. 108. B. Pascal, Pensieri, 245. 109. B. Pascal, Pensieri, 248. 110. B. Pascal, Pensieri, 249. 111. B. Pascal, Pensieri, 300. 112. B. Pascal, Pensieri, 301. 113. B. Pascal, Pensieri, 309. 114. B. Pascal, Pensieri, 310. 115. B. Pascal, Pensieri, 312. 116. B. Pascal, Pensieri, 313. 117. Ved. n. 2 di pagg. 248-249 dei Pensieri, ed. Serini, Milano, 1970, da cui riportiamo la versione italiana. 118. B. Pascal, Pensieri, 455. 119. Questa tesi di Pascal, Pensieri, 455, verrà fatta propria dalla Logica di Port-Royal, IV, I. 120. B. Pascal, Pensieri, 456. 121. Ibidem. 122. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna tr. it. Torino, 1952, I, pag. 569; Id., Filosofia dell’Illuminismo, tr. it., Firenze, 1935, pagg. 202-204. 123. Ibidem. 124. B. Pascal, Pensieri, 456. 125. E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), tr. it. Firenze, 1935, pagg. 11-13. 126. Ivi, pag. 12. 127. F. Chabod, Il Rinascimento, cit., pagg. 87-88. 128. Ivi, pag. 83. 129. Ved. N. Berdjaev, Il senso della storia (1923), tr. it., Milano, 19772, pag. 88. 130. Ivi, pag. 89. 131. F. Chabod, Loc. cit., pag. 98. 132. F. Chabod, G. Botero, in Loc. cit., pag. 312. 133. K. Mannheim, La logica della sistemazione filosofica, in L’analisi strutturale della epistemologia (1922), tr. it., Milano, 1967, pag. 45. 134. Ivi, pag. 48. 135. F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française (1797 e 1826), tr. it., Milano, 2006, pag. 82. 136. K. Mannheim, Il pensiero conservatore (1927), tr. it. in Id., L’analisi strutturale della epistemologia, Roma, 1967, pag. 148. 137. Ibidem. 138. F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions, tr. it. cit., pag. 114. 139. K. Mannheim, Il razionalismo moderno e la nascita dell’opposizione conservatrice (1927), in Id., L’analisi strutturale, cit., pag. 153. 140. Ivi, pag. 154. 141. Ivi, pagg. 154-155. 142. Ivi, pag. 155. 143. K. Manneheim, Ideologia e Utopia, tr. it., Bologna, 1972, pag. 171. 144. K. Manneheim, Ideologia e Utopia, tr. it. cit., pag. 122. 145. Ivi, pag. 128. 146. Ivi. Pag. 10.

147. K. Mannheim, Il razionalismo moderno e la nascita dell’opposizione conservatrice, tr. it. cit., pag. 186. 148. K. Mannheim, Il pensiero conservatore, tr. it. cit., pag. 148. 149. K. Mannheim, Il pensiero conservatore, tr. it. cit., pag. 190. 150. Ivi, pag. 191. 151. Ivi, pag. 185. 152. F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions, tr. it. cit., pag. 128. 153. A. d’Ors, La violenza e l’ordine (1994), tr. it., Lungro di Cosenza, 2003, pag. 100. 154. Ivi, pag. 103. 155. Ivi, pag. 104. 156. Ivi, pag. 105. 157. Ivi, pag. 105. 158. Ivi, pagg. 110-111. 159. Ivi, pag. 112. 160. Ivi, pag. 113. 161. Ivi, pagg. 114-115. 162. Ivi, pag. 115. 163. Ivi, pag. 116. 164. Ivi, pag. 118. 165. Ibidem. 166. Ivi, pag. 119. 167. Ivi, pag. 107. 168. Ivi, pag. 139. 169. Ibidem. 170. Ibidem. 171. Ivi, pag. 143. 172. Ivi, pag. 57. 173. Ivi, pag. 58. 174. Ibidem. 175. Ivi, pag. 59. 176. Ivi, pag. 60. 177. Ivi, pag. 61. 178. F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions, tr. it. cit., pag. 124. 179. A. d’Ors, Loc. cit., pag. 62. 180. Ivi, pag. 66. 181. Ivi, pag. 63. 182. Ivi, pag. 67. 183. Ibidem. 184. Ibidem. 185. Ivi, pag. 68. 186. Ivi, pag. 63. 187. Ivi, pag. 68. 188. Ivi, pag. 69. 189. Ibidem. 190. Ivi, pag. 70. 191. Ivi, pagg. 70-71. 192. Ivi, pag. 71. 193. Ivi, pag. 72. 194. K. Mannheim, Il pensiero conservatore, tr. it. cit., pag. 176. 195. K. Mannheim, Loc. cit., pagg. 174-175. 196. Ivi, pag. 175. 197. Ivi, pag. 176. 198. A. d’Ors, Loc. cit., pag. 75. 199. Ivi, pag. 77. 200. Ivi, pag. 78. 201. Ivi, pag. 81. 202. Ivi, pagg. 82-83. 203. W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, tr. it. cit., pag. 67. 204. Ivi, pag. 69. [205. Ivi, pag. 72. 206. Ivi, pag. 74.

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207. Ivi, pagg. 75-76. 208. Ivi, pag. 77. 209. Ivi, pagg. 80-81. 210. Ivi, pag. 81. 211. Ivi, pag. 80. 212. A. d’Ors, Loc. cit., pag. 88. 213. Ivi, pagg. 88 e 90. 214. Ivi, pag. 89. 215. Ivi, pag. 90. 216. Ivi, pag. 84. 217. B. de Jouvenelle, La sovranità, tr. it., pag. 28. 218. Ivi, pag. 29. 219. Ivi, pagg. 29-30. 220. Ivi, pag. 30. 221. W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, tr. it. cit., pag. 111.] [222. Ivi, pag. 108. 223. Ivi, pagg. 110-111. 224. Ivi, pag. 109. 225. Ivi, pag. 110. 226. Ibidem. 227. Ivi, pag. 114. 228. L’espressione è di S. Franck, Chronica und Bescheitung der Turkey (1530), cit. da H. De Lubach, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, vol. I de Joachim à Schelling (1979), tr. it., Milano, 1981, pag. 224. 229. W. Dilthey, Loc. cit., pag. 88. 230. Ivi, pag. 92. 231. Ivi, pagg. 90-91. 232. Ivi, pag. 91. 233. F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions, lib. I, LXX, tr. it. cit., pagg. 212-215. 234. Ivi, pag. 215. 235. Ivi, lib. I, LXVIII, tr. it. cit., pag. 203. 236. Si tratta di una nota aggiunta dall’A. nell’ed. del 1826, riportata Ivi, pag. 402. 237. Ivi, lib. I, LXVIII, tr. it. cit., pag. 205. 238. Ivi, pag. 204.

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