Coscienza Storica, n. 2

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso marcoeditore@tiscali.it

In copertina: Nikolai Alexandrovich Berdyaev

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Coscienza Storica


Coscienza Storica Nuova Serie 2

Berdjaev. La coscienza infelice della Russia cristiana

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BERDJAEV. LA COSCIENZA INFELICE DELLA RUSSIA CRISTIANA

«Si vive sempre sotto lo sguardo del fratello più radicale che ci costringe a portare fino alla fine la conclusione pratica» (c. schmitt)

1. Se le propaggini ormai incontrollabili del neo-idealismo si offrivano a prestare la loro tecnica filosofica per creare ponti metafisici alle due anime pauperistiche della cultura italiana, una cultura più consapevole e più eticamente motivata, che il comunismo l’aveva vissuto direttamente, si sforzava di comprenderlo all’interno della relativa verità. A questo riguardo, una delle più limpide e profonde testimonianze è quella di Nikolaj Berdjaev (1874-1948), un aristocratico che fu in origine attratto dalle seduzioni radicali del marxismo e quindi ne ebbe ripulsa per i suoi risvolti totalitarii, tanto che nel 1922 fu espulso dalla Russia rifugiando prima a Berlino e poi a Parigi, dove visse lunghi anni e dove vi morì. Alcune sue tesi precorrono sia le analisi di Voegelin che alcuni giudizi di Spirito sulle mancanze morali del cristianesimo storico, e sono tanto più interessanti in quanto meditate durante il consolidamento dei regimi totalitari in Europa e conosciute in Italia sin dagli anni Trenta, in pieno regime fascista 1. Egli non considerò la rivoluzione russa un’esperienza provocata da «chissà quali forze malvage», ma in generale come «una malattia grave, la dolorosa operazione di un malato [che] testimonia l’insufficienza di forze creatrici positive, il mancato adempimento di un dovere» 2. La rivoluzione come esito non voluto, anche se preparato nel corso di un secolo, e mancanza di dovere (di una monarchia ormai in putrefazione, e, come vedremo, dei cristiani), fanno della situazione russa non già il frutto della libera azione umana, ma una sorta di fatalità,


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non diversa da quella che incombette sulla Germania hitleriana 3 e che provocò una trasmutazione antropologica. «Il nuovo tipo antropologico era uscito dalla guerra, nella quale si erano appunto formati i quadri bolscevichi», ed era «altrettanto militarizzato del tipo fascista» 4. Non vi è, però, un diretto rapporto causale tra abbrutimento guerresco e spirito rivoluzionario. Berdjaev insiste sul carattere fatale della rivoluzione, indicando nella sua natura anti-spirituale un risvolto patologico antico, legato allo spirito stesso del cristianesimo russo. O meglio alla sua mancata realizzazione. Più che su di ogni altra cosa, forse, la responsabilità ricade sul cristianesimo storico, sui cristiani che non hanno adempiuto il proprio dovere. Ho interpretato il comunismo come un ammonimento per la mancata osservanza del dovere cristiano. Appunto i cristiani avrebbero dovuto realizzare la verità del comunismo, e se lo avessero fatto non avrebbe trionfato al suo posto la menzogna del comunismo [...]. Il comunismo per me non è stato soltanto una crisi del cristianesimo, ma è stato anche una crisi dell’umanesimo 5.

Questo passaggio è importante per comprendere il senso di colpa che anima la posizione del filosofo cristiano, che non addita nel comunismo l’aberrazione liquidandolo con il facile anatema del materialismo. Già nel saggio sulla Verità e menzogna del comunismo, Berdjaev esplicita il suo costante punto di vista citando e facendo proprio un detto di Soloviëv, secondo il quale «Per vincere la menzogna del socialismo bisognava comprendere la verità del socialismo». Una verità certamente anti-cristiana, ma pur sempre verità 6. Questo vuol dire non soltanto che il mutuo ideologico marxista non assolve i rivoluzionari russi dalle responsabilità dell’impiantamento locale, ma altresì che la versione russa è l’emanazione storica di una formazione spirituale autoctona, che dà della negazione cristiana un significato particolare. Per il cristiano, il comunismo dovrebbe avere un significato particolare: la testimonianza del dovere non compiuto, della parte irrealizzata del Cristianesimo. La verità cristiana ha avuto il torto di non essersi mai manifestata nella pienezza della vita; e le vie segrete della Provvidenza vogliono che alle forze brutali sia riservata la sorte di far risplendere la verità


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sociale. Ecco dove risiedono il senso spirituale e la tenebrosa dialettica di ogni rivoluzione. Il «bene» cristiano è rimasto troppo spesso convenzionale e declamatorio e talmente sommerso nell’astrazione, non attuato nella pratica, che la realizzazione effettiva di qualcuno dei suoi elementi ha generalmente portato a tremende reazioni contro il cristianesimo. Il vizio e l’indegnità dei cristiani, o più esattamente dei falsi cristiani, hanno oscurato la luce sfolgorante della Rivelazione 7.

Sono qui le radici (non citate) della critica di Spirito al cristianesimo. Ma non si ferma a questo punto l’analogia. Infatti, la colpa morale del cristinesimo storico non è generica, ma ben connessa alla sua adesione ai valori di una civiltà lontanissima dalla predicazione del Cristo e dalla vita della sua Chiesa. La «tenebrosa dialettica» è però interna al cristianesimo storico, non riguarda un corpo estraneo. La rivoluzione, in altri termini, nasce come reazione a un mondo reale, costituito, che figura, rispetto al modello etico, come la sua negazione storica, contro la quale si adopera lo spirito rivoluzionario. Non dunque, come vorrebbe Voegelin, la messa in atto di uno spirito eretico che, per le sue aberrazioni teologico-politiche, assolve l’ortodossia, ma la reazione interna a una colpa morale, già denunciata da Dostoevskij attraverso la figura del Grande Inquisitore. Quale questa colpa? Di aver edificato una civiltà contraria ai principii cristiani. La civiltà borghese e capitalistica moderna. Il mondo cristiano, essendo stato sempre colpito da dualismo, ha vissuto sempre in due ritmi ben distinti: ritmo religioso, ritmo della Chiesa, che assorbe un numero ben ristretto dei momenti della vita, e ritmo laico, extra-religioso, che ne assorbe tutto il resto. La maggior parte della vita cristiana non è né rischiarata né santificata dalla luce del Cristo: in modo particolare, la vita economica e sociale che sembra non debba dipendere che da proprie leggi. Non a torto Marx afferma che la società capitalistica è una società anarchica in cui la vita si definisce esclusivamente come un giuoco di interessi particolari. Non v’è nulla di più contrario allo spirito cristiano: cosicché l’epoca capitalistica coincide con il declino del Cristianesimo e l’affievolimento della sua spiritualità 8.

Si spiega la traduzione italiana di questo saggio, funzionale alla “terza via” fascista tentata tra socialismo e liberalismo. Ma con Berdjaev non si spiega la riduzione operata da Spirito dell’anticapitalismo a


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comunismo. La “terza via” di Berdjaev, infatti, è quella cristiana, senza alcuna concessione alle ideologie totalitarie e neppure al capitalismo, sia pure in funzione anti-comunistica. Ma Berdjaev intuisce anche il sotterraneo rapporto tra rivoluzione totalitaria e masse, e la profonda distanza tra il materialismo di queste e lo spirito liberale. L’esperienza della rivoluzione russa ha confermato un’idea che avevo già da tempo, e cioè che la libertà non è democratica ma aristocratica. La libertà non interessa e non è necessaria alle masse insorte, esse non possono portare il giogo della libertà. È una cosa che Dostoevskij aveva profondamente capito. I movimenti fascisti in Occidente hanno confermato a loro volta questa idea e si pongono sotto il segno del Grande Inquisitore: la rinuncia alla libertà dello spirito in nome del pane. Nel comunismo russo la volontà di potenza si è dimostrata più forte del desiderio di libertà 9.

La libertà non è dunque una «religione» di masse, mentre il comunismo è pervaso da uno spirito religioso che è comune al cristianesimo primitivo e risale a Platone, e costituisce «nel senso più profondo della parola... un sogno elevato ed eterno dell’umanità» 10. Ma se «la comunione vera tende verso Dio», «i comunisti vogliono arrivare a questa comunione mediante una organizzazione meccanica e coercitiva della società» che rinneghi il valore cristiano della persona, cioè della «libertà spirituale», votandosi al fallimento. Lo stesso cristianesimo, «ogni volta che ha tentato di organizzarsi sotto il segno della coercizione, come al tempo della teocrazia medioevale, ha finito per nuocere a se stesso, mentre la sua idea si è sommersa nell’inefficacia» 11 . È la professione di fede cristiana nel valore assoluto della libertà della persona a impedire a Berdjaev quella deriva illiberale e mondana rivendicata dal comunismo materialistico, che si dimostra apparentemente più efficiente di ogni predicazione spiritualistica nell’edificare l’agognata società perfetta proprio perché rinuncia al valore della libertà, del rischio conneso della dissidenza e dell’abiura, ma al prezzo di una irrimediabile contraddizione di segno vitalistico e irrazionalistico.


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Quando i comunisti accusano il cristianesimo di non aver saputo liberare gli uomini dal male e dalla sofferenza, misconoscono l’elemento essenziale del problema: la libertà dello spirito umano; e per conseguenza l’impossibilità di imporgli dall’esterno una organizzazione meccanica e di creare con la coercizione una società perfetta, annientando il peccato 12.

La realtà del comunismo comprova la possibilità di realizzare una società «che riposa non sull’infallibilità della natura umana ma sull’esistenza della colpa». La società comunista è organizzata sul peccato; è una utopia reale che, nella sua forma peggiore e più empia, appare come il termine fatale dell’evoluzione delle società dette «cristiane»; incarna quel giudizio severo ch’esse non hanno voluto portare sopra se stesse, ma che pesa inevitabilmente sopra di loro. Ecco perché – conclude Berdjaev – è tanto difficile distinguere ciò che il comunismo apporta di vero o di falso 13.

In realtà, l’evoluzione del cristianesimo in Occidente non aveva seguito un percorso univoco, e gli idoli surrogatorii (lo Stato, la nazione, la classe, la razza...), giustamente stigmatizzati da Berdjaev 14, nascevano sul terreno del cristianesimo non riformato in senso liberale, nel senso cioè di porre il valore della libertà di coscienza quale problema di convivenza, e non solo quale principio personalistico. La risposta anticristiana delle religioni secolari totalitarie giungeva al termine di un processo teologico che non coglieva l’importanza del liberalismo politico ed economico ai fini della salvaguardia dello stesso cristianesimo come etica sociale, oltre che religione tradizionale. Anche Berdjaev, distratto da considerazioni di carattere equitativo, non coglie, nella polemica anti-capitalistica, l’essenza cristiana della difesa dei diritti della persona garantiti dalle istituzioni liberali, distinguendo il «sistema sociale» del comunismo dal carattere «demoniaco» della sua negazione della «libertà» e della «persona», arrivando a dichiararsi un «fautore del socialismo», ma «personalista, non autoritario», «anticollettivista» e contrario al «primato della società sulla persona» 15, senza porsi la questione della costruzione storico-sociale di un regime di libertà che salvaguardi i valori in cui egli crede. Berdjaev, nell’ammettere che «il totalitarismo contemporaneo risponde a un’esigenza religiosa ed è un surrogato della religione», conferma la


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vocazione totalitaria del cristianesimo, di cui il comunismo è espressione idolatrica secolarizzata, rifacentesi alla stessa matrice religiosa originaria, quell’appunto cristiana, di cui costituisce versione mondana capovolta. Infatti, egli afferma apertamente, era il cristianesimo che doveva essere totalitario, ma doveva essere totalitario liberamente e non in maniera coatta. Invece, dopo l’insuccesso del totalitarismo forzato della teocrazia, esso è diventato qualcosa di parziale, è stato confinato in un cantuccio dell’anima e allontanato da tutte le sfere dell’esistenza. E allora totalitario è diventato ciò che, per essenza, doveva essere soltanto parziale: lo Stato, la nazione, la razza, la classe, il collettivo sociale, la tecnica. Qui appunto è l’origine della tragedia contemporanea 16.

Si noti la particolare angolatura che, seppure mediata dall’esistenzialismo, soprattutto di Jaspers 17, risente di una intonazione tutta ortodossa e medievale, da cui Berdjaev scruta i mali della modernità, interpretati come caduta dall’utopia religiosa verso forme di socialità religiosamente spurie, ma legittimate dalla destinazione originaria della sfera religiosa, di carattere appunto totalitario. L’errore del comunismo è per lui quello di convertire la libertà cristiana della coscienza, l’unica a legittimare la vocazione totalitaria del cristianesimo, in necessità sociale, in azione coatta, sostituendo l’efficienza politica al libero arbitrio. Ma pur sempre conservando il momento della sua verità totalitaria, anche se tramutata in forme errate, e realizzata con strumenti malefici. È questo il limite di una concezione religiosa che, da un lato esalta la libertà personale e dall’altro stigmatizza l’anarchia capitalistica; per un verso lamenta la socializzazione collettivistica, per l’altro rimpiange il totalitarismo religioso del cristianesimo, considerato la vera ed originale espressione dell’unico legittimo totalitarismo, quello dello spirito. Il male del comunismo è la sua religiosità piegata al valore sociale ed economico, «esso incarna la tentazione della trasmutazione delle pietre in pane e della realizzazione del regno di questo mondo» 18. Ma la sua stessa tentazione è di natura religiosa. Infatti, simile in questo alle altre religioni, porta in sé un’etica integrale; vuol risolvere i problemi fondamentali posti dalla vita; ha i suoi dogmi, diffonde i suoi


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catechismi, possiede perfino gli embrioni del culto; infine esso si rivolge alle anime, per sollevarvi l’entusiasmo ed il gusto del sacrificio. In contrasto con la maggior parte dei partiti politici, il comunismo esige dai suoi membri un’adesione che abbracci completamente la loro concezione del mondo. Nell’energia straordinaria ch’esso spiega, troviamo qualche cosa di quell’energia religiosa primitiva, legata al cuore dell’uomo e che i secoli hanno man mano sviluppato. Sono le energie religiose dell’anima messe al servizio di una ideologia atea 19.

Berdjaev non parte da questa constatazione per ridiscutere la pretesa totalitaria della religione cristiana, cercando di correggerne l’esito che aveva condotto al comunismo, ma lamenta il «vuoto di eroismo» attraversato dalla «società cristiana» nei tempi moderni, nel «periodo borghese della storia cristiana», che indica perciò come «un periodo di decadenza, che ha preparato le vie al successo del comunismo» 20. E senza registrare la differenza tra le società cristiane occidentali, che non hanno conosciuto il comunismo, e quelle cattoliche e ortodosse, che hanno fatto esperienza del totalitarismo rosso e nero, Berdjaev rimuove completamente l’esperienza del cristianesimo riformato, asserendo il nesso insolubile tra totalitarismo cristiano, identificato come lo stesso «sentimento religioso», e totalitarismo ateo, che non potrebbe esistere senza il primo. «L’idea anti-cristiana non può trionfare se non grazie ad una formazione spirituale cristiana, ad una capacità cristiana alla fede ed al sacrificio» 21. Ma cosa ha provocato la trasmutazione dei valori positivi del cristianesimo in quelli negativi del comunismo? La risposta di Berdjaev è consapevole, meditatamente precisa: è il razionalismo il male della rivoluzione. Una rivoluzione comporta infatti delle forze elementari irrazionali, uscite dagli anditi più oscuri e più inconsci della vita dei popoli; e nel medesimo tempo, essa assegna a se stessa scopi razionali di vita, si pone sotto l’insegna di una dottrina razionalista, prendendo il carattere occasionale di una teoria di combattimento. Così la Rivoluzione francese, per quanto ispirata dalla filosofia illuminista e razionalista del secolo XVIII, conteneva essa pure forze tenebrose e demoniache. La rivoluzione comunista russa si è preoccupata a tal punto dei problemi della razionalizzazione della vita, da voler eliminare da se stessa ogni irrazionalità ed ogni mistero 22.


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Il razionalismo non è altro, marxianamente, che l’affermazione della libertà sulla necessità dei rapporti economici naturali. Questo presuppone il panlogismo hegeliano, che sta alla base della stessa lotta di classe. Infatti «la dialettica delle parti è possibile solo in quanto è immersa nella logica dell’intiero» 23. E la società perfettamente liberata dalla necessità economica coinciderà con l’affermazione della più completa razionalizzazione della vita umana, così che la città degli uomini realizzerà la città di Dio, senza più alcun Dio. In questo disegno risiede il messianismo marxista, per cui la «società socialista» e il «proletariato» perdono ogni rapporto con la visione scientifica della storia e «appartengono al regno della fede» 24. Il comunismo è la risposta razionale al male radicale dell’uomo, al «peccato originale delle società umane», che è «lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, che riveste la forma dello sfruttamento d’una classe da parte d’un’altra classe» 25. La natura dei rapporti economici viene rivestita di valore morale, dove il polo malefico è rappresentato dalla «borghesia», la quale può esercitare il suo dominio di classe solo grazie alle false credenze ideologiche e religiose che immergono nell’irrazionale la coscienza umana. Il riscatto potrà avvenire quando la classe del bene, il «proletariato», incarnerà la ragione illuminata dalla verità degli autentici rapporti umani, segnando così il «trionfo del razionalismo sociale e la disfatta delle forze irrazionali del mondo» 26. Ovviamente il proletariato, pur legato alla dialettica delle forze sociali in lotta, non è una classe come altre. Esso incarna il bene, e perciò può costituirsi, da parte com’è in origine, in totalità. Questa sua condizione lo oppone alla «democrazia formale» 27, che è gioco di forze paritarie dagli equilibri reversibili, ma indica pure la sua eversiva incompatibilità con un sistema liberale, il cui presupposto funzionale è che ogni parte della società non assuma se stessa come tutto. Ecco dunque l’origine escatologica della politica marxista, l’assumersi come una religione autosufficiente e totale, che si estrinseca come progetto sociale totalitario proiettato, non già verso un equilibrio storico, perfettibile e incerto, ma un equilibrio finale e definitivo. Una escatologia immanentizzata, che trasforma lo Stato in una chiesa laica, la Terza Roma di Filoteo (XV sec.) nella Mosca della Terza Internazionale 28. Prima di Loewith e di Voegelin, Berdjaev individua la natura


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messianica della filosofia della storia marxiana, parlando di «messianismo secolarizzato» 29. Il popolo russo è attraversato, a partire dalla caduta di Bisanzio, da una potente carica messianica che, assieme con l’ortodossia cristiana, conserva la speranza di una purificazione mondiale dello spirito. Questo assunto implica l’esistenza di una umanità da purificare e una distinzione decisiva all’interno della stessa cristianità, così, quando nel sec. XVII si pone in essere, all’interno della tradizione ortodossa, il vulnus del riformismo di Pietro il Grande, è l’idea stessa di ortodossia che pare presa di mira, per cui «gli elementi religiosi e nazionali si intersecano strettamente come nella coscienza dell’antico popolo ebreo» 30. L’anima popolare si allontana dalle forme di cultura superiore, e «la Russia imperiale, imbevuta di cultura occidentale, non è più, rigorosamente parlando, un “regno ortodosso”. L’attitudine delle masse di fronte al potere si fa diffidente, manifestamente ostile. L’idea messianica rimane, ma ora si afferma in una scissione profonda con la realtà dell’ambiente» 31. Lo stesso spirito religioso lo si ritroverà nel sec. XIX, sia pure di segno rovesciato, «come la sua espressione antireligiosa, o religiosa a rovescio» 32. L’intellighènzia del secolo XIX, fu una intellighènzia dissidente; viveva in rottura costante col presente, con la Russia imperiale; volgeva lo sguardo, sia verso un passato ideale, verso una Russia idealizzata, anteriore a Pietro il Grande, sia verso un’avvenire ideale, verso l’Occidente idealizzato 33 [...]. Nella struttura psichica degli ambienti colti del secolo XIX si vedono elaborarsi gli elementi tipici che lo caratterizzeranno: assenza di tradizione, rottura col presente, coscienza dell’abisso che separa la classe intellettuale dal popolo, da una parte, e dal potere, dall’altra; escatologismo in quanto attributo dell’anima indipendente dalla fede religiosa, (escatologismo sia religioso che sociale), attesa della catastrofe e della fine, massimalismo, incomprensione della scala gerarchica e della gradazione storica, tendenza a negare l’importanza del relativo e a trasporre perciò il relativo in assoluto, tendenza verso i poli estremi, una forma singolare di ascetismo, il disprezzo dei beni di questo mondo e delle virtù borghesi; infine, aspirazione a realizzare la Verità nella vita ed in primo luogo nella vita sociale 34.

La spinta nichilista e rivoluzionaria proveniva da due confluenti tendenze dell’anima russa: «il sentimento d’una colpa, il pentimento, il travaglio della coscienza, presso gli uni», cioè presso coloro che


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sentivano il distacco dalle tradizioni religiose avite come una espiazione; «l’impressione d’esser stati offesi, il risentimento, la rivolta degli oppressi, presso gli altri» 35, coloro cioè che non potevano soffrire alcuna forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, promettendosene il riscatto sociale. Berdjaev sottolinea quale «fenomeno fondamentale» il «passaggio dell’elemento religioso e della struttura psichica-religiosa nella sfera extra-religiosa ed anti-religiosa e nella sfera sociale», dal momento che tale energia psichica viene in seguito «orientata verso la cosa sociale e la cosa sociale assume un carattere religioso» 36. Ma prima di proseguire il discorso di Berdjaev sugli esiti nichilistici e rivoluzionari dell’originaria tensione religiosa, occorre tornare sulla presunta verità del comunismo la quale secondo il filosofo russo, ha due facce. Una negativa, consistente nella «critica della civiltà borghese e capitalista, delle sue contraddizioni e dei suoi disagi; la denuncia d’una falsa società cristiana, decadente e degenerata e piegata agli interessi dell’era capitalista»; e una faccia positiva, che si manifesta nell’organizzazione dell’economia, da cui dipende la vita degli individui; economia che non può più essere considerata come il giuoco degli interessi e degli arbitrii [ma deve costituirsi come un’economia pianificata, razionalizzata]. L’idea di una economia organizzata secondo un piano, è un’idea buona; poiché la salvaguardia d’una libertà del tutto fittizia nella vita economica non può che generare gravi ingiustizie e privare in definitiva tutta una parte dell’umanità della vera libertà. La verità del comunismo consiste nel volere che la società sia una società di lavoratori [...] [e] il comunismo dice il vero quando afferma che non deve verificarsi sfruttamento da uomo a uomo e da classe a classe. La supremazia dell’uomo sulle forze elementari della natura non deve infatti mutarsi in supremazia dell’uomo sull’uomo [...]. Tutta la critica della democrazia formale sta qui. La politica deve servire la scienza economica, ma dev’essere legata ad una concezione generale del mondo; altrimenti resterebbe priva di azione. La teoria e la pratica devono unirsi in un tipo superiore di cultura e di vita [...]. La forza del comunismo sta nell’aver posto il problema in tutta la sua ampiezza, l’aver fuso in una stessa nozione teoria e pratica, pensiero e volontà. Esso raggiunge in tal modo la concezione teocratica del Medio Evo: sottomettere la vita dell’individuo allo scopo universale; e ritorna a quella nozione di servire che era completamente scomparsa nell’era libero-borghese scristianizzata 37.


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È un passaggio cruciale delle tesi di Berdjaev, che focalizza l’appartenenza ideale del comunismo all’universo teologico-teoretico medievale, mostrando così, insieme alla sua stretta appartenenza alla cultura spirituale russa, anche la sua sostanziale estraneità, sia pure in termini di riserva morale, al nuovo corso della civiltà moderna, verso cui esso anzi si dispiega come reazione etica di tipo economico-sociale. Non è dunque il comunismo il male assoluto, ma il suo bersaglio polemico, la società liberal-borghese scristianizzata. L’errore del comunismo è di aver «oltrepassato la zona media in cui si era mantenuto l’umanesimo», rinnegando Dio non in nome dell’uomo, ma in nome della nuova divinità, la «collettività sociale», in nome della quale rinnega il mito cristiano, di Dio e del Dio-uomo, «punto estremo al quale non era mai giunto l’umanesimo» 38 e al suo posto pone il «proletariato», che «è la creazione di un processo mitologico» che non ha niente a che vedere con la realtà della classe operaia 39. Ogni aspetto degenerativo viene attribuito all’influenza razionalistica occidentale, che fa tralignare l’autentica fede dal suo alveo tradizionale, così che la scoperta dell’Occidente acquista valenza di un trauma metafisico, esponendo la coscienza ortodossa all’influenza della degenerazione secolaristica cristiano-europea. Se pertanto la scoperta del Nuovo Mondo aveva indotto la più avvertita coscienza cristiana del tempo (pensiamo a Francisco de Vitoria) «a far saltare il quadro europocentrico della storia» 40, l’orizzonte in cui si muove Berdjaev mostra di ignorare tutto il travaglio patito dalla filosofia cristiana occidentale alla ricerca di una definizione di umanità e di rapporti sociali emancipati dal pregiudiziale «diritto sovrano della civiltà alla conquista e all’asservimento dei barbari», per dirla col Burckhardt 41, così come pure il profondo sentimento religioso che aveva animato la costruzione della civiltà occidentale moderna, come documentarono gli studi di Troeltsch e soprattutto di M. Weber. E proprio rispetto alle analisi sociologiche weberiane, quelle di Berdjaev mettono in risalto la profonda diversità della lettura del marxismo, rispettivamente come fenomeno della secolarizzazione, ovvero, come reazione religiosa alla secolarizzazione stessa. La riduzione del fenomeno marxista nei puri termini del Verstehen sociologico, rischiava di perdere di vista l’essenza totalitaria del comunismo quale struttura ateocratica della società costruita sulla falsariga del modello teocratico medievale. D’altro canto,


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la persistenza di modelli teoretici tradizionali mutuati dalla tradizione teologica, rischiava di non stigmatizzare del marxismo la sua derivazione teologica, interpretata come mera deviazione immanentistica dalla recta ratio fidei, non scorgendo che proprio il razionalismo occidentale aveva impedito alla teocrazia cattolica di giungere a realizzare storicamente quella visione organicistica e totalitaria propria invece della tradizione bizantina, che costituì un terreno favorevole alla sua traduzione secolare per opera appunto del marxismo 42. Berdjaev, in una sua tarda pagina, ribadisce la natura idealistica del marxismo, che è piuttosto una filosofia della prassi, dell’atto, dell’azione piuttosto che una filosofia materialistica. Infatti, una dialettica della materia è impossibile; è possibile soltanto una dialettica della ragione, dello spirito, della coscienza. La materia di per sé non conosce senso; è la dialettica che lo scopre, attingendolo allo spirito [...]. L’apoteosi della lotta, l’esaltazione della volontà rivoluzionaria, sono possibili solo sulla base di una filosofia non materialistica 43.

Ma esiste, egli dice, anche un indubbio elemento materialistico nel marxismo, che lotta contro i valori e i principi spirituali. «Si tratta qui di un monismo per il quale esiste solo un ordine dell’essere, il regno di Cesare, ed è in esso che il movimento dialettico si compie. In queste condizioni, è facile sboccare in un’assolutizzazione delle forme sociali» 44 . L’uomo nuovo è dunque una pura astrazione ideologica, che nasconde una sostanziale continuità spirituale. La novità di superfice non è indicativa di un reale cambiamento interiore. Si tratta piuttosto di uno sviluppo sulla base della propria natura. Infatti il modificarsi della posizione sociale, per cui il ricco diventa povero ed il povero ricco, non rende di per sé l’uomo interiormente nuovo. L’uomo può migliorare e peggiorare nei limiti del proprio tipo; ma non è questa la creazione di un uomo nuovo [...]. Solo una nuova nascita, la nascita dell’uomo spirituale che prima sonnecchiava ed era soffocato, è realmente l’apparizione di un uomo nuovo 45


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La trasmormazione dev’essere interiore, ma anzitutto deve interessare l’uomo stesso come essere spirituale, nella «sua qualità di uomo» 46. Chi ha rinnovato l’uomo è stato il cristianesimo, che ha introdotto l’idea della «nuova nascita», sconosciuta al mondo antico 47, e che ha legato l’uomo nuovo all’uomo eterno, «Adamo Kadmon, ma anche l’uomo antico, il vecchio Adamo». Sotto l’uomo nuovo si cela anche l’antico, così che «nel suo subcosciente c’è di tutto, c’è anche l’uomo primitivo, non definitivamente superato», per cui «il potere del passato sull’uomo permane anche nelle rivoluzioni più radicali» in cui gli «antichi istinti di violenza, di crudeltà e di dominio si scatenano», rappresentando «ciò che in loro è vecchio, non ciò ch’è nuovo». L’idea di una rivoluzione sociale che possa mutare in profondità l’essenza umana, è dunque fuorviante. Anzi, sostiene Berdjaev, «la rivoluzione è un fenomeno del vecchio regime, non è di per sé un mondo nuovo» 48, capace di opporsi al regime precedente ma non di costruire il nuovo, poiché «l’economia appartiene ai mezzi, non ai fini della vita» e «mai è capace di creare un uomo nuovo», tutt’al più a degradarlo «quando la si trasforma in fine» 49. La degradazione umana è riferita al ruolo nuovo attribuito all’uomo sovietico, all’uomo rivoluzionario socializzato e tutto immerso nel presente, dimensione in cui «non solo la libertà si riduce, ma svanisce la stessa comprensione di ciò che è libertà» 50. Le innovazioni antropologiche, più che la rivoluzione, le ha apportate la guerra, introducendo un tipo militarizzato d’uomo, che è tutt’altro che nuovo nella storia, ma fornito di una capacità tecnica questa sì del tutto nuova 51 . Ma se scambiamo la potenzialità tecnologica dell’uomo con la sua trasformazione spirituale, non comprendiamo la stessa natura delle rivoluzioni, le quali, secondo Berdjaev, proprio perché legate all’aspetto economico della vita, alla dimensione sociale e politica, sono da leggere come conseguenze della necessità, più che della libertà, cioè del «fato», e non già dello spirito umano. In questo senso egli afferma che «la rivoluzione è in gran parte un saldo dei debiti del passato, il segno dell’assenza di forze creatrici spirituali capaci di riformare la società» 52 . Questo giudizio costituisce anche la massima presa di distanza dalla civiltà cristiana così come storicamernte è stata costruita, attribuendo alle sue deformazioni le conseguenze delle tragedie rivoluzionarie. Da


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qui l’aspetto di verità del marxismo, quale religione surrogatoria di quella tradita dalla sua deformata realtà storica, e il suo «messianismo secolarizzato», che ne fa il suo punto di maggiore forza propulsiva. Infatti, «non nella coscienza scientifica del marxismo va cercata la fonte del suo dinamismo rivoluzionario, ma nella sua attesa messianica. Il determinismo economico non può accendere l’entusiasmo rivoluzionario e incitare alla lotta. Questo entusiasmo è suscitato dall’idea messianica del proletariato e della liberazione dell’umanità» 53 , che ne fa un «tipo particolare di idealismo», ben lontano da ogni asserito materialismo 54, presentando anzi «tutti i tratti specifici di una religione» 55, compresa «la teoria del salto dal regno della necessità nel regno della libertà [quale] attesa della trasfigurazione del mondo e dell’avvento del regno di Dio» 56. E «in quanto religione, è una forma secolarizzata dell’idea di predestinazione» 57. La contraddizione del marxismo è di voler costruire il regno della libertà partendo da quello della necessità, concependo «la libertà come necessità pervenuta alla coscienza. In realtà, questa è una negazione della libertà, che è sempre legata all’esistenza di un principio spirituale non determinato né dalla natura, né dalla società» 58. Da qui la sua condizione di «vittima del dominio dell’economia» capitalistica e di passività «nei riguardi dell’ambiente sociale in cui è sorto e al quale non ha opposto nessuna resistenza spirituale. Perciò, secondo il marxismo, l’uomo nuovo, l’uomo dell’ordine sociale avvenire, è creato dalla produzione industriale: è figlio di una crudele necessità anziché della libertà» 59. In questo senso, se «l’atmosfera nella quale il marxismo è nato, oggi non esiste più» 60, è nondimeno vero che «il marxismo, in quanto fenomeno d’ordine spirituale, è legato all’economia caitalistica del secolo XIX, e senza questa non sarebbe mai esistito. Esso ha rappresentanto una reazione all’economia capitalistica» 61. Una reazione manichea di carattere militare, per cui il mondo è diviso in due parti, senza molteplicità di forme, senza una morale universale, chiusa entro «un cerchio magico dal quale non si vede via di uscita» 62. Il carattere debole della scienza marxista ne fa un prodotto teoretico ambiguo, imbevuto di miti, insomma una «utopia spirituale» legata al desiderio «di una perfetta razionalizzazione della vita umana» e alla pretesa «di rispondere a tutte le esigenze dell’anima umana, appunto


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perché pretende di vincere il carattere tragico della vita umana» 63, sommergendo «l’uomo nella vita collettiva, fino all’annullamento della coscienza personale» 64. Questo è il grande crimine spirituale del marxismo, che ne segna la sua debolezza ideale e l’inevitabile scacco storico, quello di proiettare all’esterno, oggettivandolo, il dramma esistenziale dell’uomo, che è tutto interiore e che è irrisolibile, legato alla differenza insormontabile tra il finito e l’infinito. Tutta la tragedia nasce dallo scontro tra finito e infinito, transitorio ed eterno, dall’urto fra l’uomo come essere spirituale e l’uomo come essere naturale che vive nel mondo della natura. Nessun miglioramento dell’ordine sociale può rimediarvi; anzi, metterà in luce lo scontro e la sua insolubilità nel loro aspetto più puro [...]. Le cause esterne dei conflitti tragici si potranno eliminare attraverso un ordine sociale più giusto e libero e il superamento dei pregiudizi del passato. Ma allora, appunto allora, l’uomo si troverà di fronte alla tragedia pura della vita. L’elemento tragico aumenterà in regime socialista. La lotta sociale, che distoglie l’uomo dalla riflessione sul proprio destino e sul senso della sua vita, si placherà, e l’uomo si troverà faccia a faccia con la tragedia della morte, la tragedia dell’amore, la tragedia della finitezza di tutte le cose di questo mondo [...]. La teoria ottimistica, antitragica del progresso, condivisa anche dai marxisti, rappresenta nella sua estrema contraddittorietà la tragedia senza vie di uscita del tempo apportatore di morte e trasformante gli uomini in mezzo per l’avvenire 65.

A questo punto il discorso del filosofo cristiano ci appare più chiaro e più coerente. Il marxismo ha cercato di occupare uno spazio vuoto lasciatogli dal cristianesimo, che non ha saputo adempiere alla sua missione redentrice. E lo ha occupato con gli strumenti meno ideonei alla rivoluzione spirituale, quelli dell’economia, del bisogno e della necessità dell’essere naturale, concentrando i suoi sforzi sulla realtà sociale, sulla sola dimensione politica della vita umana, abbarbicandosi sul monismo esistenziale che attribuisce a Cesare tutta la realtà, e niente a Dio. «Lo spirito stesso del comunismo è la negazione dello spirito, del principio spirituale dell’uomo. La sua è una menzogna atea. Orbene, l’ateismo conduce all’inumanità; la negazione di Dio alla negazione dell’uomo» 66. Negare l’uomo significa negare la sua realtà spirituale, di libertà, esaltando la sola parte mondana, sociale, legata alla necessità. L’utopia sociale viene contraddetta dalla filosofia della prassi, che intende affermare quella libertà che in teoria si dichiara mitica. Da qui


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il carattere contraddittorio del comunismo e della sua rivoluzione, legato alla condizione della realizzabilità delle utopie. «Le utopie sono realizzabili – sostiene Berdjaev – ma all’espressa condizione d’essere deformate» 67. E questo perché il carattere dell’utopia è la sua totalità. «L’utopia è sempre totalitaria», nel senso che «essa è chiamata a superare la frammentarietà, a realizzare l’integralità», che nasce dall’esigenza di ricomporre ad unità armonica il mondo frantumato in cui vive l’uomo, che sogna quindi «un mondo integrale» 68. Berdjaev stabilisce dunque l’equazione tra utopia e totalitarismo, e con essa introduce «la questione essenziale della libertà», che rappresenta «l’utopia più irrealizzabile», fornendoci la chiave di lettura del suo antirazionalismo. La libertà presuppone una vita non interamente regolata e razionalizzata, una vita in cui sussiste un male che dev’essere vinto grazie a un libero sforzo dello spirito. Ma di questo libero sforzo dello Spirito le utopie non tengono nessun conto; la perfezione e l’armonia non si realizzano mediante la libertà. Ed eccoci di fronte al paradosso del movimento storico. Nella storia operano forze irrazionali, di cui i partigiani di una politica ragionevole non tengono conto. Ma appunto queste forze irrazionali, queste forze elementari, possono assumere la forma di un’estrema razionalizzazione. Tale è la proprietà della rivoluzione. La rivoluzione è sempre il risultato dell’esplodere di forze irrazionali. Nello stesso tempo, la rivoluzione è sempre posta sotto il segno di idee razionali, di una dottrina razionale totalitaria; quella che si chiama follia della rivoluzione è una follia razionale. Il mito che la mette in moto è generalmente un mito razionale, legato alla fede nel trionfo della ragione sociale, in un’utopia razionale 69.

L’utopia sociale «contiene sempre una menzogna», e «il mito rivoluzionario include sempre una menzogna inconscia»; ma essa è necessaria ai fini della rivoluzione, perché «senza mito rivoluzionario non si fanno le rivoluzioni» 70. Da qui il lato tragico della storia, ovvero del regno di Cesare, che fa di questo una realtà non commensurabile con il regno dello Spirito o di Dio, che è il vero ordine della libertà, «concepibile solo escatologicamente». Infatti, scrive Berdjaev, «perfetto e armonico può essere solo il regno di Dio, il regno dello


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Spirito; non può esserlo il regno di Cesare». Questo può essere più o meno regolato, ma «l’ordine armonico perfetto del regno di Cesare non sarà mai quello della libertà: appunto perciò la sua realizzazione nei limiti di questo mondo è impossibile» 71. L’interesse di questa analisi è che Berdjaev, diversamente da molti critici della rivoluzione e del collettivismo, non ritiene il socialismo, unitamente alla sua carica utopica e al suo messianismo, essere un fenomeno semplicemente irrazionale, ma soprattutto un fenomeno messianico, e quindi religioso, che conferma a suo dire, con le tragedie storiche e contraddizioni ideali, la necessità di andare oltre la sfera mondana (il regno di Cesare) e aprirsi al trascendente. E ciò non in virtù di una aspirazione dell’uomo religioso, ma a ragione della necessità del critico di comprendere la nuova «epoca sociale» in cui oggi siamo immersi 72. I tempi nuovi vanno nel senso del superamento delle religioni tradizionali, nelle quali «l’esperienza spirituale è oggettivata, socializzata e organizzata», e sono contrassegnati da «una nuova forma di mistica, la mistica dell’avvenire», intesa come «esperienza spirituale che oltrepassa i cofini dell’opposizione di soggetto e oggetto, cioè che non cade sotto il potere dell’oggettivazione» 73. E a questo filone va inscritto il messianismo collettivistico, che è una specie di pseudomistica schiacciata sulla dimensione dell’oggettivazione sociale, «altrettanto falsa» di quella della monarchia sacrale o della «mistica della democrazia di tipo giacobino-rousseauiano» rispetto alla «mistica autentica», che è «spirituale e implica un’esperienza spirituale in cui l’uomo non sia soffocato dall’oggettivazione» 74. Berdjaev non soltanto precorre la lettura neo-gnostica di Voegelin del totalitarismo, ma ne indirizza anche la più corretta chiave di lettura del comunismo in senso profetico e messianico, caratterizzato da «una mistica super-storica, escatologica», diversa da quella propriamente gnostica dedita all’anima individuale, alla vita del cosmo e di Dio 75. La differenza sostanziale è che questa analisi dell’esperienza religiosa del comunismo lo intende nell’ambito di «un profondo significato ontologico» e di «una grande verità sociale», sia pure «mescolata alla menzogna» che ne ha fatto allontare Dio 76. Questa «verità» è la duplice drammatica composizione dell’esperienza umana, non circoscrittibile alla sola dimensione finita della storia profana (il regno di Cesare, appunto). E in base a questa consapevolezza occorre «innanzitutto di


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non negare la verità [del comunismo], ma di liberarla dall’errore». Ciò vuol dire che non si può opporre al comunismo una forma qualsiasi di restaurazione, oppure l’esempio della società capitalistica e della civiltà borghese del XIX e XX secolo. I principii individualistici e liberali sono frusti e vuoti di forza vitale. Ora, quando principii del tutto relativi pretendono rivestire un valore assoluto, bisogna loro opporre principii autenticamente assoluti e non altri che mirano indebitamente ad essere tali mentre sono, essi pure, relativi. Quando il tempo si erige in faccia all’eternità, non gli si può opporre che l’eternità stessa e non un’altra forma del tempo, già sorpassata. Non un’idea bisogna elevare di fronte al comunismo, bensì una realtà religiosa [...]. Contro il comunismo materialista integrale, non si potrebbe suscitare che il cristianesimo integrale 77.

L’avvenire delle società cristiane è legato, dice Berdjaev, alla questione di sapere «se l’umanità cristiana cercherà finalmente di realizzare nel nome di Dio e del Cristo la verità che i comunisti realizzano in nome di una collettività atea, in nome del paradiso terrestre», ragion per cui «tutto dipende dal fatto di sapere se il cristianesimo, o più esattamente, se i cristiani respingeranno l’appoggio del capitalismo e di una società ingiusta» 78. Occorreva, sostanzialmente, nel convertire il comunismo al cristianesimo, conservandone l’animo totalitario, ma in chiave cristologica. Ci si chiede, perché mai lo sforzo dei cristiani non poteva e doveva essere quello di convertire il capitalismo soggettivistico al personalismo cristiano? Perché mai il sistema capitalistico e liberale poteva apparire più lontano del comunismo dal cristianesimo? La risposta è drammaticamente sempice: l’umanesimo liberale, avendo piegato alle esigenze mondane l’escaton cristiano, aveva rinunciato, in nome della convivenza pacifica e tollerante, a realizzare l’etica evangelica, a vivere secondo i suoi precetti, accettando il male sociale e trasformando in «retorica convenzionale» gli insegnamenti cristiani. Il regime liberale occidentale non era dunque il modello di riferimento contro ogni esperienza totalitaria, religiosa o atea che fosse, ma l’antimodello che aveva suscitato «una rivolta legittima» 79 da parte delle nuove forze messianiche, pure esse in errore perché anti-trascendenti e atee ma pur sempre forze religiose. Il trait-d’union tra i totalitarismi


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cristiano, fascista e comunista era dunque la loro dimensione religiosa, che il liberalismo borghese aveva espunto dalla vita umana, privatizzandola in interiore homine e il cui individualismo aveva impedito la formazione di ogni comunità spirituale, la quale, a differenza di quella collettivistica, antipersonalista, che si stabilisce attraverso la definizione di rapporti sociali costruiti al di sopra dell’uomo, fonda i rapporti tra gli uomini attraverso Dio, il modello della persona umana 80. Ma se Dio non ha più posto come verità assoluta nella società borghese, la sua falsa coscienza è ben peggiore di ogni anelito messianico, che almeno richiama l’esigenza di ripensare al regno di Dio. I cristiani dell’epoca borghese hanno creato un equivoco che ha portato il più grave pregiudizio alla causa del Cristo nell’anima degli oppressi. La posizione del mondo cristiano di fronte al comunismo, non è solamente la posizione di colui che porta in sé la verità eterna ed assoluta, ma è pure la posizione del colpevole, che non ha saputo realizzare questa verità ed anzi l’ha tradita. I comunisti realizzano la loro verità: ecco ciò ch’essi possono rinfacciare ai cristiani. Certo, la verità cristiana era più difficile a realizzarsi della verità comunista; si richiedeva di più dai cristiani, e non meno, di quanto si richiedesse dai comunisti materialisti. Se pertanto, essi hanno corrisposto invece in maniera inferiore, la colpa non è della verità cristiana. La tragedia della storia sta in questo: che il vero cristianesimo non può conquistare il dominio del mondo, perché la potenza appartiene ai falsi cristiani. Il mondo si allontana dal cristianesimo. Eppure, solo sul terreno del cristianesimo si può risolvere il conflitto fatale fra la personalità e la società, conflitto che il comunismo risolve col soffocamento definitivo della personalità 81.

La filosofia personalista di Berdjaev si costruisce polemicamente attraverso la critica del mondo socializzato, che tende a negare l’individuo universale, che ha per modello Dio stesso, a favore di surrogati sociologici astratti che pretendono di essere reali enti puramenti nominali che non hanno però alcuna vera realtà esistenziale 82 . Ma, al di là del merito di queste asserzioni, che rivelano la natura totalitaria della religione cristiana in quanto religione, esse si basano sul presupposto – molto ortodosso – che l’esperienza moderna occidentale si svolga come degenerazione e non come sviluppo del cristianesimo storico, per cui la società liberale borghese, tralignando dall’alveo della


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recta ratio fidei, ha provocato la reazione pagana dei totalitarismi contemporanei, la cui giusta causa è l’aspirazione, negletta dallo spirito borghese, a realizzare il valore in questa terra. Valore sbagliato, perché economico e antipersonalista, ma pur sempre religiosamente creduto come necessario alla vita delle moltitudini altrimenti in via d’imborghesimento. La soluzione non può essere, per Berdjaev, che riportare il mondo sui cardini cristiani e rifondare conseguentemente una nuova ortodossia emendata dalle colpe storiche della civiltà borghese 83. Il tema della socialità, e quello connesso della solitudine dell’uomo moderno, sono stati impostati e risolti senza la considerazione di una modalità essenziale alla soddisfazione sia dei problemi individuali che di quelli politico-sociali; modalità di tipo religioso, l’unica che a suo dire possa liberare l’uomo dall’angoscia solipsistica e dalle costrizioni inumane della collettivizzazione, incentrate sull’ignoranza della dimensione spirituale dell’essere umano. La trascendenza diventa così per il filosofo cristiano russo il medium per raggiungere quella coesione spirituale altrimenti non conseguibile sul piano della mera realtà socioeconomica. In più, la stessa solitudine, così decantata dagli esistenzialisti, da Kierkegaard a Heidegger, da Jaspers a Sartre, gli appare invece il vero termine medio di un’equazione tra l’individuo e la società, quasi un rimedio e l’unico mezzo che sia stato concesso dall’io cosciente per mantenere inalterati i suoi pregi e le sue caratteristiche. In tal modo l’uomo anche considerato su di un piano squisitamente politico, non potrà se non rappresentare se stesso, e non sarà mai in grado di abbandonare quel sentimento di individualità che gli appartiene intimamente 84.

È la stessa individualità a condurre l’io alla socialità, da qui l’importanza essenziale accordata alla spiritualità, il rilievo attribuito a quello «spirito umano» che consente all’uomo di non elevare il generale a misura arbitraria della vita e di concepire la libertà non come esercizio di diritti ma bensì come la condizione, richiesta da Dio, dello stesso esercizio morale della personalità umana come soggettività responsabile. La società organizzata secondo o il principio di felicità (quella borghese), o il principio della giustizia (quella socialista), tende


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a espungere dalla sua dimensione antropologica la libertà spirituale, sostituendo all’accezione religiosa di essa una versione razionalistica, che ne declina la sua decadenza. Torna a proposito il tema dostoevskijano del Grande Inquisitore quale figura dell’Anticristo, come pure il retaggio della Chesa russa, con la sua idea mistica di libertà religiosa. Ma queste posizioni ci aiutano anche a comprendere il significato metafisico e spirituale che Berdjaev accorda alla rivoluzione russa, quale succedanea al fallimento della democrazia liberale e dell’umanesimo moderno 85. La critica al razionalismo occidentale, a partire dall’Umanesimo e attraverso il Rinascimento e la Riforma, sottolinea dunque la riserva verso un concetto di libertà lontano da quello di virtù, che interrompe perciò il sodalizio con la Divinità per proporsi come mero esercizio di diritti, senza alcun riferimento religioso e trascendente 86. Il rapporto con Dio non equivale soltanto a definire un colloquio intimistico con l’Ente trascendente, che soddisfi il bisogno d’infinito insito nell’uomo, ma comporta la definizione di una modalità di approccio interpersonale qualitativamente diversa da quella pratica fondata sull’intelligenza, imperniata sul sentimento dell’amore, il quale allarga la prospettiva della visione individualistica, costruttrice di «civiltà», a favore di una visione personalistica incentrata sulla «cultura» della persona, cioè sui valori spirituali, che sono sempre trascendenti e non possono perciò ridursi alla dimensione dell’organizzazione della vita sociale e dello Stato. Rispetto alla visione razionalistica dei rapporti civili e con la società politica, l’idea che ha Berdjaev della relazione tra persone e Stato è di tutt’altro genere, fondato non già sul rapporto contrattuale e obiettivato, che proietta al di fuori della personalità umana l’obbligo dell’adempimento formale, bensì su una comunione spirituale che trascende ogni legame politico e fa dello Stato l’elemento servente e non quello da servire agli scopi delle persone. Se questa idea di comunione tra persone libera da ogni tentazione pampoliticistica e totalitaria, d’altro canto afferma una dimensione a sua volta assoluta, quella spiritualistica, che negando l’autonomia della sfera politica, con le sue regole specifiche, immagina una convivenza comunitaria non meno totalitaria di quella politica, sia pure all’insegna della volontarietà e del referente trascendente. Sostituire Dio allo Stato


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sposta i termini della questione ma lascia impregiudicato il problema della convivenza umana; non tanto di quella regolabile all’interno della comunità spirituale, ma inerente i rapporti tra fedeli e infedeli, che poi stabilisce i termini concreti della sovranità. L’elusione del problema della pratica organizzazione sociale, e quindi della concreta costituzione politica, fa dello spiritualismo di Berdjaev la premessa del suo relativismo istituzionale, il quale, non declinando alcuna preferenza per qualsivoglia regime politico, finisce per non approntare alcuna difesa che non sia morale contro gli attentati alla libertà spirituale. Come, per altri versi lo spiritualismo del Croce, anche quello di Berdjaev configura una società religiosa del tutto irreale e astorica, fondata sul primato della persona, che sposta sul campo della cultura – e cioè dei valori spirituali e del libero convincimento – il problema eminentemente politico del potere, cioè dell’ordine sociale che non può essere lasciato al libero convincimento dei membri ma che, ai fini della salvaguardia di quell’ordine, dev’essere imposto come condizione stessa della convivenza. Di fronte ai drammi della storia, le risposte dello spiritualismo, laico o religioso, ripiegano verso i motivi morali, cercando nella trascendenza del soggetto morale la consolazione surrogatoria all’impotenza, il rifugio dalla battaglia mai condotta. La tendenza a tradurre in termini ideali i reali enti della vita socio-politica, cerca di neutralizzarne la incidenza storica, trasferendo nel piano dei rapporti idealizzati anche le risposte ai concreti problemi sociali, i quali, così trasformati, diventano contraddittori e perciò logicamente irreali e astratti, neppure degni di considerazione. Scambiandosi la morte teorica per la neutralizzazione politica, non si riesce più a dar conto della realtà politica in atto, e le logicizzazioni dei teoremi interpretativi dei processi sociali devono far ricorso (postumo e infelice) a giudizi di irrazionalità degli eventi problematici che non si è riesciti a spiegare altrimenti. Scrive significativamente Berdjaev nella sua Autobiografia: Da un punto di vista spirituale sono rimasto un avversario del comunismo totalitario, in Russia come in Occidente [...]. In realtà, da un punto di vista metafisico, io sono più radicalmente ostile al comunismo di quanto lo siano i rappresentanti delle varie correnti dell’emigrazione, che per lo stato della lor


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coscienza sono collettivisti e riconoscono il primato del collettivo, della società e dello Stato sulla persona. Io invece, sono sempre stato e resto un personalista radicale, che riconosce la superiorità della coscienza personale, il primato della persona sulla società e sullo Stato. Non riconosco la realtà originaria di nessun collettivo, sono fanaticamente attaccato alla realtà di ciò che è individuale e personale, di ciò che è irrepetibilmente unico e non universale e collettivo 87.

Come il don Ferrante manzoniano al cospetto della tragedia della peste, di fronte all’irruzione delle masse nella storia europea contemporanea, lo spiritualismo di Berdjaev non seppe fare molto altro dall’inquadrare il fenomeno nuovo in vecchie categorie, quali il «religioso», all’uopo rispolverate, che non davano il senso della effettiva novità del fenomeno epocale – appunto la dimensione collettiva dei fenomeni – concentrando l’attenzione sulle figure carismatiche dei leaders, perloppiù anonimi, la cui possibilità di incidenza sulle masse andava invece spiegata con la peculiare tensione spirituale dell’epoca. La vera rivoluzione non fu tanto il fenomeno politico in sé, le sue modalità di realizzazione e le vicende conseguenti all’instaurazione del potere, quanto la realtà della sua possibilità d’essere ciò che è stato. Quello che andava spiegato era come ciò fosse stato possibile. Era evidente che la rivoluzione era essa stessa un prodotto, estremo, del regime che l’aveva consentita. Ed era perciò quel regime che andava compreso, per intendere la rivoluzione, non la presunta irrealtà logica dell’epifenomeno rivoluzionario. Il personalismo era una netta presa di distanza dal collettivismo marxista, ma non ne spiegava l’origine iuxta propria principia. (A rendersi conto dell’obsolescenza delle vecchie categorie storico-filosofiche e politologiche di fronte al fenomeno totalitario sono stati pensatori liberali come Ortega e R. Aron.) Era indubbiamente vero che gli enti collettivi non soffrissero, come le persone singole, i dolori dell’esistenza, ma il fatto decisivo è che essi riuscissero a farli soffrire, e per quanto astratto e pseudo-concettuale potessero apparire logicamente il partito unico (della nazione o del popolo), è fuor di dubbio anche che esso aveva preso il potere e dominava su intieri popoli e innumerevoli e realissime persone. L’idea della sofferenza umana quale viatico alla libertà trascendente, e l’idea dell’asservimento dello Stato alle ragioni della persona, diventano asserzioni senza senso storico al cospetto dell’immane olocausto di milioni di Russi, di Ebrei e di soldati e civili di ogni


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nazione. Ciò che la dimensione soggettivistica non pare cogliesse a pieno era esattamente l’entità della tragedia epocale, che trasformava il dramma individuale e morale in dramma sociale ed etico. I grandi numeri erano l’indizio della portata non solo teoretica e spirituale del fenomeno totalitario, ma della sua natura essenzialmente pratica e sociale. Il totalitarismo, che negava le ragioni dell’individualità rispetto a quelle unicamente considerate della storia collettiva, non poteva essere compreso attraverso l’assolutizzazione dell’altro polo dialettico della esistenza umana, quello appunto spirituale, la cui essenza non rendeva il senso del fenomeno collettivo 88. E ciò era tanto vero che quel fenomeno fu possibile, a dispetto di ogni resistenza morale e di ogni cultura segnata dal millenario cristianesimo. Anzi, esso nacque proprio all’interno della civiltà cristiana, come suo fenomeno terribile. Come poteva una cultura della persona, quale quella cristiana, (o, come in Occidente, una cultura liberale dell’individuo economico) secernere quei terribili processi di massificazione? La loro stessa realtà era il segno della loro latenza, per cui erano quelle culture a covare il loro potenziale spirito eversivo. La rivoluzione diventa il segno tangibile del collasso interno a un regime, a una cultura e a un indirizzo spirituale, e quasi il correttivo provvidenziale e apocalittico alla loro decadenza storica. La crisi di valori (sociali, etici, politici) provoca la risposta rivoluzionaria, che appare necessariamente irrazionale alla luce dei valori cui si contrappone per sovvertirli. Ma poiché il senso recondito dei processi storici che sfociano in così drammatica effettualità è anch’esso a suo modo un valore (sia pure negativo), ecco che la sua chiave interpretativa deve coinvolgere un senso ultroneo a quello della storia, fornito di una sua intrinseca razionalità e che non necessariamente deve conciliarsi con quello della ragione delle cose evidenti. Questo senso è trascendente, e irrompe nella storia con tutta la sua veemente potenza nei periodi appunto di crisi, così che, all’opposto della ragione hegeliana, quella cui fa riferimento Berdjaev sposta i termini valoriani (e cioè di giudizio) su un piano meta-storico, religioso, nel quale l’irrazionalità degli avvenimenti acquisisce un senso esplicativo non altrimenti rinvenibile. A questo punto, l’opzione religiosa non è una gratuita adesione a punti di vista soggettivi, ma diventa la chiave di


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volta ermeneutica dell’intiero corso degli avvenimenti storici. In altri termini, il senso religioso chiarifica il lato oscuro della storia, rimettendo alla sua interpretazione e ai suoi giudizi quanto dei fenomeni positivi, oggettivati, è rimasto in ombra: situazioni non apparenti e non registrabili, ma che pure si sono sedimentate nel tempo fino a un punto critico di saturazione rivoluzionaria. In questo senso la rivoluzione è apocalittica, (la «apocalisse interiore», com’egli la chiama), in quanto manifesta la violenza concentrata del male sociale e storico non assurto alla coscienza comune e ufficiale; e in questo stesso senso, essa diventa la risposta anti-storica alle negligenze della storia, che sono sempre di carattere morale. L’ammonimento che la rivoluzione rappresenta inerisce alla pretesa della ragione politica e statuale di poter fare anche le veci della comunità religiosa, che non le competono, assumendosi l’onere di dirigere i caratteri spirituali degli uomini, volendo costruire in terra il regno di Dio, se non addirittura di negarli, abbandonando e riducendo la loro esperienza esistenziale al solo regno di Cesare. Ma è anche vero l’opposto, e cioè che lo strapotere secolare nasce da una intima debolezza delle forze spirituali, non adeguatamente attivate o sopite, per cui la forza dell’ateismo diventa in Berdjaev l’implicita accusa della povertà morale dei cristiani. Come scrisse Dostoevskij, nella storia cristiana le rivoluzioni hanno significato sempre un verdetto pronunciato sul cristianesimo storico, sui cristiani, sul loro tradimento dei precetti del cristianesimo, sulla deformazione insomma del cristianesimo della quale essi si sono resi colpevoli. Proprio per i cristiani la rivoluzione ha un senso, e a loro più che ad altri compete di coglierlo; essa ha da essere per loro una sorta di appello, una evocazione di quella giustizia che essi, i cristiani, non hanno saputo realizzare. L’accettazione della storia è anche l’accettazione della rivoluzione e del significato che è in questa, come di una catastrofica soluzione di continuità nei destini del mondo immerso nel peccato 89.

Come sostiene Berdjaev, «l’ateismo militante delle tendenze rivoluzionarie russe socialistee anarchiche non fu altro che il completo capovolgimento della religiosità russa e del suo risvolto apocalittico» 90. Ripercorrendo la genesi ideale del comunismo russo, egli ci informa sulla disposizione d’animo dogmatica degli intellettuali russi del sec. XIX, il cui «tratto caratteristico... è lo “sradicamento”, ossia il distacco da qualunque forma di vita propria di questo o quel ceto e dalle


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tradizioni», come pure di «cercare una concezione universale del mondo che fosse capace di fornire una risposta a tutte le questioni vitali, di unificare la ragione teorica con la ragione pratica e di giustificare l’ideale sociale mediante una base filosofica» 91, per cui ciò che in Occidente era solo una teoria scientifica suscettibile di critiche ovvero una semplice ipotesi o, in ogni caso, null’altro che una verità relativa, parziale, non tale insomma da pretendere all’universalità, presso l’intelligencija russa si trasformava invece in un’affermazione dogmatica, in qualcosa che confinava con una rivelazione religiosa 92.

È dunque lo spirito religioso che trasforma l’idea filosofica e l’ideologia politica in qualcosa di totalitario, ed esso deriva dallo spirito dell’ortodossia, che appunto è «dal punto di vista psicologico, una forma di integralismo e di totalitarismo» 93 tipica «dell’Oriente cristiano», la cui «unità... si contrappone alla dissezione e al frazionamento razionalistici dell’Occidente» ed è più conseguente dell’idealismo tedesco. Infatti, «a somiglianza dei romantici tedeschi, il pensiero russo tende verso l’unità integrale e si adopera in ciò in maniera più conseguente e radicale di quanto non fecero i romantici, i quali avevano smarrito a loro volta l’unità» 94. La stessa idea di «missione del proletariato» era stata di Bakunin prima che Marx la facesse propria 95 e originariamente era stata formulata da Chaadaëv 96, «un tipico aristocratico-europeo, che con orgoglio chiamava la civiltà europea “nostra” e nel proprio paese non trovava ciò che amava, quello in cui vedeva valori universali assoluti», il quale, al pari dei tradizionalisti cattolici alla Bonald e Lamennais, vedeva nella ragione una forza unificante e nella tradizione un fondamento razionale che guida, attraverso le personalità carismatiche, le masse nella storia, il cui progresso, secondo una visione opposta a quella illuministica, non può aversi attraverso l’attività spontanea dei singoli, guidata dal loro egoismo, ma riscoprendo il senso sacrale del disegno divino, ovvero soltanto nell’universo cristiano 97. Senza parlare di Belinskij, attraverso il quale si perviene al socialismo individualista e infine al comunismo russo. La sua «indignata protesta contro il male, le sventure e le sofferenze della vita [nonché la]


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compassione per gli afflitti, i diseredati e gli oppressi» conduceva all’ateismo, non potendosi «accettare un Creatore che ha edificato un mondo malvagio, imperfetto e colmo di sofferenza», e quindi all’idea di ricostruire un mondo senza quei mali, quelle ingiustizie e quelle sofferenze. Ma, come aveva previsto Dostoevskij, se «nelle fonti primigenie dell’ateismo russo era celato un sentimento dell’umanità elevato a spinto fino all’esaltazione [,] nei risultati ultimi raggiunti dall’ateismo russo, con la negazione di Dio bellicosa e trionfante che s’impadronisce del potere, lo spirito umanitario degenererà e si trasformerà in una nuova disumanità». Ma ciò che più conta per quegli intellettuali è la coscienza che la società nuova, che «può preservare la persona umana dal dolore e dall’avvilimento ingiusti», poteva crearsi solo attraverso la rivoluzione, cioè la sovversione del popolo, che sopporta i dolori e le ingiustizie sociali 98. Il principio universale della religione tradizionale era risultato opprimente per il popolo russo, ed esso doveva essere sostituito da un altro principio universale, la società, che come il vecchio Dio, «esige per sé la completa subordinazione dell’uomo», in quanto principio di verità. Da questa «dialettica fatale» del pensiero rivoluzionario deriva il carattere religioso dell’ateismo socialista russo 99. L’altro caratteristico aspetto morale dello spirto russo è il nichilismo, inteso come un «ascetismo ortodosso stravolto, una sorta di ascetismo privato della grazia», negatore del mondo immerso nel male, individualista, illuminista, materialista e anti-tradizionalista, dogmatico e negatore della legittimità della cultura, dalla speculazione filosofica alla creatività artistica: insomma «la negativa fotografica dell’apocalittica visione russa» 100. Più dei cristiani, i nichilisti diedero prova di una grande capacità di sacrificio e di rinuncia, dimostrando come «il nichilismo fu nel suo genere un fenomeno religioso», non a caso coltivato da molti seminaristi e figli di preti, giovani critici verso la decadenza della vita religiosa del loro tempo e imbevuti di cultura illuministica, che, per quanto inferiori al livello intellettuale della intelligencija degli anni Trenta del sec. XIX, fiancheggiarono quella gioventà ispirata a «una sete di giustizia sociale che appariva come il frutto d’un cristianesimo rivestito d’una nuova forma» 101. Inoltre, il loro interesse per le scienze naturali e l’economia politica, «determinò in anticipo gli interessi della generazione comunista della rivoluzione


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russa» 102. Uno dei campioni della generazione dei nichilisti degli anni Sessanta è Dobroljubov, figlio di un arciprete, la cui «struttura spirituale era la stessa dalla quale derivano i santi». Tempra ascetica, devozione religiosa, sensibilità vivissima, amore familiare, senso del peccato e pentinenza, purezza, austerità, sono in lui tutte qualità che lo rendono vulnerabile al male di vivere, così che «quest’anima pia, ascetica, grave fino alla severità, smarrisce all’improvviso la fede», non potendo egli ammettere, come Marcione, che un Creatore onnipotente abbia potuto tollerare un mondo tanto malvagio, affrontato senza esito dalla meschinità di un clero oscurantista e privo di spiritualità. Con la perdita della fede, altro non era da desiderare per gli uomini che la felicità terrestre 103. Un altro campione è Chernysevskij, anch’egli figlio di un arciprete, e fornito di una cultura enciclopedica, molto stimato da Marx quale economista, il cui martirio dimostrato nelle sue tristi vicissitudini di prigioniero politico ingiustamente recluso in Siberia a seguito di false accuse, testimonia uno spirito di santità. Scrisse nel 1863 il romanzo Che fare?, che divenne «il catechismo del nichilismo russo, il breviario dell’intelligencija rivoluzionaria russa» 104 e fu considerato da Plechanov, il fondatore del marxismo russo, uno dei precursori del comunismo. Lo stesso Marx, per leggerlo, prese a imparare il russo 105. La sua teoria economica, fondamentale per i comunisti russi, in questo lontani dal marxismo, era che «la Russia potesse ridurre a zero lo stadio dello sviluppo capitalistico e passare direttamente dalle forme più arretrate dell’economia a un’economia socialista» 106. L’altro campione è Pisarev, il più importante dei tre e il più radicale nel suo ingenuo e volgare materialismo. Figlio di nobili, scrisse la maggior parte dei suoi saggi in prigione, sostenendo che il fine cui tendere era l’emancipazione intellettuale dal retaggio di superstizioni e pregiudizii legati ai costumi e alle relazioni familiari tradizionali. Non la questione sociale lo interessava ma la liberazione della personalità singola, cui doveva tendere il «realista pensante», il modello antropologico opposto a quello dell’idealista astratto senza rapporti con la realtà, e piuttosto incline al cinismo «ogniqualvolta si tratti di smascherare le illusioni religiose, metafisiche ed estetiche», arrivando a dichiarare che «un paio


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di stivali vale più di Shakespeare» e a confutare l’esistenza dell’anima dalla sua constata assenza nella dissezione dei cadaveri 107. Il principale lascito della corrente nichilista fu l’«imperativo sociale», che restò la consegna ideologica rivoluzionaria anche a mutato clima positivistico. Ma il realismo russo, sia quello teorico, che di ispirazione politica o letteraria, è pur sempre una derivazione dello spirito religioso, che è «di integrità e di totalità», cioè volto «non tanto a raggiungere una cultura perfetta e a creare dei prodotti artistici perfetti, quanto ad attingere una perfezione di vita e una perfetta verità di vita» 108. E in tal senso la tradizione religiosa ortodossa costituiva il terreno di coltura di ogni atto spirituale russo, compreso quello che la rinnegava. Questo retaggio spirituale si manifestava sotto forme diverse ma convergenti nel problema di coscienza di definire il ruolo metafisico della cultura e delle istituzioni socio-politiche, senza dare per certa la loro funzionalità e la loro storica necessità. Da qui il senso di «turbamento religioso e sociale» 109 che caratterizza gli scrittori russi, fruitori di quei beni della civiltà che non erano stati offerti alla generalità del popolo, e avvertiti quasi come un colpevole privilegio, negato ingiustamente ad altri. La distanza tra l’intellettualità russa e il popolo era tale da mettere in discussione l’unità spirituale stessa della nazione. Ma la coscienza di tale distanza da parte degli intellettuali li spingeva a riflettere sul valore di una civiltà il cui sviluppo avrebbe reso più acute le differenze tra coloro che vi erano coinvolti e gli altri. Il rigetto della civiltà occidentale e borghese nasceva sulla constatazione dei limiti della sua universalità sociale, che sembrava caratterizzasse lo sviluppo del cristianesimo cattolico, rispetto alla tradizione ortodossa, nella quale spiccava sicuramente l’«elemento ascetico», ovvero «la ricerca della salvezza e l’attesa di un’altra vita» 110, ma anche lo spirito partecipativo alla realtà antropologica comune all’umanità cristiana. Il problema della modernizzazione in senso occidentalistico, ovvero quello opposto della conservazione tradizionalistica nel senso degli slavofili, partivano dalla consapevolezza che il modello della civiltà ortodossa era entrato definitivamente in crisi, messo in discussione dalle stesse forze religiose e politiche sin dai tempi di Pietro il Grande, le cui forzate riforme avevano allargato soltanto le distanze tra gli strati elevati della società russa, culturalmente occidentalizzata, e quelli popolari, che perpetravano le antiche tradizioni religiose 111. La rottura dell’antica


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unità morale della nazione russa – reale o mitizzata – implicava e motivava la ricerca di una nuova unità morale, edificabile partendo dalla sovversione della realtà attuale, caratterizzata appunto dalla divisione. La questione sociale si frammetteva a quella religiosa in quanto la ricercata unità non poteva che essere trovata nel segno di una verità per definizione universale, e quindi partecipabile a tutti, ricchi e poveri, dotti e ignari. Una verità che aveva tutti i requisiti per essere simile a quella religiosa, e insieme di carattere sociale e non puramente teologico 112. La letteratura ha rappresentato il luogo della riconciliazione morale dello spirito russo, il terreno dove gli stessi contrasti drammatici della vita culturale e sociale trovavano una ideale ricomposizione, la quale, inevitabilmente, proiettandosi nel mito della vita armoniosa si dispiegava come utopia socio-politica e profetismo ideologico, di segno progressista o tradizionalista 113. Da questa mancanza di presente, di radicamento nel proprio tempo e nel problematico riferimento a una sempre più labile tradizione, derivava il sentimento di precarietà esistenziale, quella condizione heideggerianamente angosciosa che De Martino definirebbe di «crisi di presenza» per cui, come ben dice Berdjaev, «gli scrittori russi dei secoli XIX e XX sentivano di essere sull’orlo d’un abisso, giacché non vivevano in una società stabile e in una civilizzazione dalle basi solide», determinando quel loro caratteristico «modo catastrofico di percepire il mondo», privo dello «scudo» della cultura classica, che «con le sue barriere, con i suoi strati differenziati, con le sue norme, con il suo spirito di finitezza e la sua paura dell’infinito» preserva l’anima occidentale da «quei fluidi che emana il futuro ignoto», che sono così tipici della «struttura spirituale escatologica» dell’anima russa, «volta verso la fine ultima, aperta a ciò che è da venire, capace di presentire le catastrofi storiche», determinandone «un’atmosfera prerivoluzionaria» 114. Lo scontro delle due civiltà, quella occidentale e quella russa, fu dilacerante per l’anima russa. «Si scontrarono da una parte la Russia tradizionale, quella ereditata dal passato, nobiliare, mercantile e della piccola borghesia, quella che l’impero aveva cioè consolidato, e dall’altra la Russia dell’intelligencija, socialmente e spiritualmente rivoluzionaria, assetata di infinità e protesa a cercare la Città del futuro»


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. Da questa lacerazione proruppe la «dinamica rivoluzionaria» 116, nella quale erano immersi gli stessi Tolstoj e Dostoevskij, i quali «sono stati possibili unicamente in una società che si avviava verso la rivoluzione e in seno alla quale si erano accumulati dei materiali esplosivi» 117. La predicazione dei due grandi scrittori russi era di segno escatologico e auspicava quella «umanità universale» che fu una tipica «idea russa dell’universalismo cristiano, del panumanesimo» del «popolo teoforo», recepito dal comunismo quale sua «immagine deformata» 118. Si può infine dire che «Tolstoj e Dostoevskij sono gli araldi di una rivoluzione universale dello spirito. Senz’alcun dubbio, essi si sarebbero ritratti con orrore dinnanzi alla rivoluzione comunsta russa e alla sua drastica negazione dello spirito; ma anch’essi ne furono in certo modo i precursori» 119. Ma non furono i soli (si pensi ai filosofi Leont’ëv e Solov’ëv). Si trattò anzi di un movimento spirituale di carattere apocalittico diffuso e pervasivo che interessò l’intera cultura russa della fine del sec. XIX 120, fondato su un sentimento che era «duplice, cioè triste e gioioso a un tempo», derivato dalla consapevolezza dell’impossibilità di riesumare il mondo della tradizione ma anche dalla volontà dei «più acuti e sensibili tra gli scrittori» di tracciare all’anima russa un percorso originale rispetto al «banale cammino tracciato dall’Occidente», non rassegnandosi a seguire «la via borghese, razionalistica, liberale e umanitaria» 121. Simili all’eroe rinascimentale descritto dal Burckhardt o i santi medievali del deserto, come Sant’Antonio, San Simeone Stilita o San Girolamo, questi cavalieri esiliati dello spirito del sec. XIX russo, riscoprirono la vena mistica del cristianesimo custodita dalla tradizione ortodossa ed estinta in Occidente, vagheggiando una trasformazione della vita spirituale dell’umanità che avesse il suo epicentro nella terra russa, portando alle estreme conseguenze lo spirito di lacerazione tra la «fedeltà alle gerarchie maschili del Padre, e la sete per gli oscuri piaceri della Madre» 122, che aveva attraversato la cultura occidentale nei secoli XII e XIII. Ma questa volta il dissidio archetipico tra l’autorità paterna e la permissività materna non veniva introiettato nell’intimità esuberante di una sublimata poetica erotico-cavalleresca, bensì veniva estroiettato nella dinamica della storia sociale, che aveva per


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protagoniste le vivide masse, anziché le scarnalizzate pulzelle trobadoriche. Tale atteggiamento storicizzante, dettato in origine dall’ispirazione mistica e quindi secolarizzato in un mondo intrascendibile 123, farà la differenza, di cui ha detto Merleau-Ponty a proposito del Rubashov di Koestler, tra «l’avventuriero che ammanta le sue palinodie di pretesti teorici» mettendosi «al centro del mondo», e il marxista che motiva la sua adesione con una tesi generale e «non vuole esistere fuori della verità interumana», vivendo «nel mondo e nella storia» per aver «riconosciuto la mistificazione della vita interiore» 124. In Russia lo jato tra il cielo degli ideali e la terra della vita non rimaneva nell’orizzonte religioso o poetico ma prendeva fisionomia reale nella distanza tra élite colta e popolo, che impediva la formazione di una cultura comune, così che «tutti vagheggiavano il modo e il momento di superare questo scisma e di colmare quest’abisso, approdando a questa o a quella forma di collettivismo». In altri termini «tutto convergeva verso la rivoluzione» 125. La tendenza rivoluzionaria non costituisce il punto di partenza ideologico sul quale poggia l’analisi teorica o politica dei pensatori russi, ma è l’esito di una posizione intellettuale e morale che, stigmatizzando i percorsi tendenziali dello sviluppo culturale della società moderna, ne offre una interpretazione metafisica che trascende i dati ideali in chiave sociale, anziché individuale, pur senza perdere i suoi connotati mistici ed escatologici. Essa consta fondamentalmente di due momenti: uno polemico e negativo, vertente sul rifiuto delle condizioni storiche della società del tempo; e l’altro utopico e positivo, concernente la definizione in chiave avveniristica di valori mutuati essenzialmente dalla tradizione cristiana, che si ritrovano alterati ma visibili nella declinazione dell’utopia sociale. La svalutazione (gnostica?) dei valori storici, sia laici che religiosi, prospetta una crisi di identità antropologica, e conseguente risoluzione rivoluzionaria, che parte dalla condizione spiritualmente decadente dell’(ipostatizzata) anima russa, per definirsi come un’ermeneutica della decadenza della civiltà europea, di cui quella russa diventa il paradigma simbolico, sia in termini di ricupero-preservazione della tradizione non ancora corrotta, (l’archetipo dell’ortodossia quale cultura altra da quella occidentale) che dell’esperimento di un novus ordo condendo, che


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appunto la rivoluzione deve far scaturire e realizzare. Poiché l’analisi della realtà russa è pur sempre contrassegnata dalla riflessione teorica o artistica, la posizione tragicamente polemica degli scrittori si colora di tinte apocalittiche caratteristicamente esistenzialistico-religiose, ma trasvalutate in direzione sociale e antiindividualistica, in cui la piega soggettivistica propria del pensiero esistenzialista occidentale viene corretta in un personalismo comunitario, dal movimento coscienziale di massa, e la tendenza antipositivistica in senso spiritualistico-profetico, riabilitativo del retaggio religioso cristiano-orientale, primitivistico e pre-sociale. Da qui deriva quel «sentimento duplice, cioè triste e gioioso a un tempo» di cui si è detto supra, per cui anche nel nostro caso può dirsi che «dal punto di vista del problema della società l’esistenzialismo procede dalla società perduta sul piano della realtà oggettiva alla società ritrovata sul piano dell’esistenza» potendosi quindi parlare di esso «come di un’esperienza sociale, che di fronte alla rottura dell’equilibrio fra individuo e società a danno dell’individuo si butta su un primo tempo dalla parte dell’individuo, quasi per cercare un contrappeso, e poi a poco a poco, riproponendo ex novo l’esigenza della società, ritrova l’equilibrio in una più alta armonia dei due termini contrapposti» 126. L’esistenzialismo europeo si dispiega «come reazione al panlogismo hegeliano e cioè all’identificazione tra realtà e pensiero» 127 che «non ha spiegato il mistero del mondo, ha semplicemente chiuso gli occhi sopra di esso» 128 ma nasce all’interno del pensiero moderno, e anche «quand’esso parla di essere, esistenza, ontologia, struttura metafisica... lo fa nel clima della filosofia moderna e non, direttamente almeno, di quella classica o medievale» 129. La critica russa al razionalismo occidentale si allarga allo stesso pensiero moderno, al suo astratto individualismo e alla sua frammentazione dell’originaria unità del pensiero. Anch’esso parte dal pensiero moderno ma per attraversarlo criticamente e rigettarne i presupposti teoretici ed etici in nome di un pensiero fondato sull’esistenza della persona nella sua totalità, inclusiva sia della sua storicità che della sua trascendenza, cioè del rapporto con Dio. Il dato caratteristico di questo pensiero non è di rigettare il soggettivismo razionalistico in nome di istanze irrazionali e fideistiche, ma, più profondamente, consiste nel rifiuto della riduzione umanistica


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dell’uomo all’esperienza mondana 130, alla reificazione dello spazio e del tempo nella scienza kantiana e nella storia hegeliana, e alla «oggettivazione della soggettività» stessa, che viene a sparire nella coscienza in generale di Kant o nello spirito assoluto di Hegel 131, con la conseguente «esigenza [comune all’esistenzialismo] di ricupero integrale della soggettività come spiritualità autentica» conseguita attraverso l’«abbandono dell’Idealismo» e in «opposizione diretta al principio idealistico della sintesi» 132. La visione neo-organicistica degli slavofili quali Kireevskij, Chomjakov e soprattutto Solov’ëv, critica verso il razionalismo occidentale di tipo puramente teorico e astratto, si collega strettamente alla concezione di Dostoevskij circa la deificazione della creatura umana, per cui il momento soggettivo dell’autocoscienza filosofica acquista valore di decadenza e «dissoluzione della primitiva unità religiosa» in quanto prodotto individualistico della segregazione dell’Io dal pensiero partecipato e socializzato. Secondo questo punto prospettico, la filosofia occidentale è sorta dalla lotta della ragione individuale con la fede (l’autorità), e le tappe successive del suo sviluppo sono state: razionalizzazione della fede (scolastica), emancipazione totale dalla fede e, infine, negazione integrale di ogni conoscenza immediata; fase che ha portato a mettere in discussione la sostanzialità del mondo esterno, ad identificare la vita con il pensiero (Hegel),

privando questo del «substrato reale» e riducendo la realtà a «una vuota forma» 133. Per gli slavofili il protestantesimo, con la sua «libertà senza unità», il suo collettivismo scristianizzato, il suo individualismo ateo e razionalistico, rappresentava il culmine della civilizzazione occidentale, tipica di una fase evolutiva dell’umanità come organismo reale caratterizzata dalla distinzione e separazione dei suoi elementi costituenti. Gli altri due momenti dell’evoluzione dell’umanità, secondo Solov’ëv, sono, il primo, l’unità indistinta, il sostanziale monismo della civiltà orientale e dell’Oriente musulmano del sec. XIX, mentre lo stadio terminale, dopo quello intermedio occidentale, è della «rinnovata


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unità, unità libera, che non elimina le differenze a unisce i vari elementi dell’assieme con un legame interiore organico» 134. Nella prima fase, quella dell’unità sostanziale, o libera teurgia, «le tre sfere dell’attività umana – della creatività, della conoscenza e della pratica sociale – sono subordinate integralmente alla religione». Nella seconda fase, o della libera teosofia, invece, i singoli gradi di ognuna delle tre sfere di attività si separano l’uno dall’altro, tendendo all’autonomia o al dominio sugli altri, e nel conflitto che ne deriva la materia vince lo spirito: l’ultima tappa della civiltà occidentale è rappresentata infatti nella sfera sociale dal socialismo economico (secondo Solov’ëv figlio non degenere del capitalismo), nella sfera della conoscenza dal positivismo, e in quello della creatività dal realismo utilitaristico.

Nella terza fase, o della vita integrale, o della libera teocrazia, che sarebbe sopraggiunta in ossequio alla legge che regola ogni evoluzione, compresa quella dell’umanità, «i singoli campi (gradi) della creatività, della conoscenza e della vita sociale, già dissociatisi, si sarebbero uniti nuovamente, conservando tuttavia le proprie caratteristiche specifiche e la propria identità». Portatore di questa rinnovata unità spirituale in senso all’umanità sarebbe stato il popolo russo, l’unico a poter iniziare questa fase evolutiva e finale dell’umanità 135. L’universalismo, sempre più marcatamente religioso, spinse vieppiù Solov’ëv a prendere le distanze da ogni forma di nazionalismo, e quindi a dissociarsi dall’ideologia slavofila, pervenendo a un’ideale ecumenico del cristianesimo, quale «religione universale», alla cui unità dovevano tendere gli sforzi di ogni vero cristiano. In questa prospettiva, la contrapposizione della Russia all’Europa non aveva senso, essendo entrambe momenti dell’unica civiltà europea e cristiana, e la missione del popolo teocratico russo acquistava quindi il valore di un programma universale, l’unione spirituale dell’umanità «sotto l’autorità spirituale del papa e quella laica dello zar di Russia» 136. Il suo saggio su Il tramonto della visione del mondo medievale (1891) gli alienò definitivamente le residue simpatie degli slavofili e lo indicò come un progressista liberale, un cosmopolita, sradicato molto più degli «uomini inutili» slavofili dalle tradizioni russe del «patriarcalismo nobiliarecontadino» e dalle sue rappresentazioni sociologiche. Se dunque «l’utopia slavofila potrà diventare la piattaforma ideologica per una


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politica quanto mai “realistica”, l’utopia teocratica di Solov’ëv si trasformerà (nell’ultimo periodo della sua evoluzione spirituale) in visioni apocalittiche, in escatologia mistica» 137. Sia detto per inciso che l’intelligencija liberale russa, «terrorizzata dallo sviluppo del movimento rivoluzionario di massa» passò dal marxismo all’ideologia slavofila e all’indirizzo religioso della sua soluzione proprio attraverso Solov’ëv, prendendo grazie a lui le distanze dal velleitarismo spirituale di chi non conobbe l’angoscia e il senso tragico della vita proprio di chi, come Berdjaev, «il problema dell’Oriente e dell’Occidente» lo viveva «apocalitticamente», con «speranze escatologiche» 138. Il dualismo (spirito/mondo, immanenza/trascendenza, anima/corpo, Oriente/Occidente, peccato/redenzione, pane/libertà) è fondamentalmente quello religioso tra male e bene, e si riflette nel contrasto tra esistenza e pensiero, tra aspirazione all’assoluto e oggettivazione razionale, da cui scaturisce il dolore, il «male di vivere» montaliano. Il mondo viene perduto dalla sfiducia nella vita, per poi essere ritrovato in una dimensione ultronea, che trascende la finitezza umana e storica 139. «La religione quindi è il mistero stesso dell’essere dell’uomo, essa è il fondamento dell’essere umano che si trova in quanto si perde, che fonda se stesso in quanto si trascende» 140. Questo atto non è che la ricerca della pienezza della verità, che l’uomo custodisce non in quanto soggetto economico, essere finito, ma in quanto figura teandrica e universale, persona spirituale, che è indissolubilmente esistenza e valore. Lo spirito religioso è «direzione verso il valore» del giudizio, reso possibile dalla libertà, la cui negazione rappresenta il demoniaco. Tra il bene e il male c’è dunque la libertà, che è la condizione della loro effettualità. Nel concreto, il valore comanda di lottare per la religiosità, attraverso la libertà della scelta 141. Questa lotta viene plasticamente rappresentata da Dostoevskij 142 nella figura del Grande Inquisitore che fronteggia il Cristo, accusato di aver preferito la libertà, il «pane celeste», «alla bandiera del pane terreno», la libera scelta dell’elezione alla sconfitta della necessità. «Tu avevi ragione», dirà l’Inquisitore a Gesù. Il segreto dell’esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui deve vivere, l’uomo


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non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani. Questo è giusto, ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai ancora accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male? Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla è anche più tormentoso 143.

Il messaggio evangelico è andato perduto nel compromesso dell’«ecclesialismo» con la mediocrità comune, poiché «si è escluso dal cristianesimo tutto ciò che è superiore alle forze dei più e lo si è adattato alle loro possibilità e ai loro desideri. Al posto della libertà hanno dunque messo l’“autorità”, al posto dello spirito il “miracolo”, al posto della verità il “mistero”, ossia la magia», e il popolo vive contento 144. Alla grazia, «essenza del cristianesimo», si è sostituito una «tecnica di dominio sulle persone e sulle anime», per cui è intervenuta una «trasformazione del vivo rapporto tra l’uomo e Dio in un sistema di garanzie di salvezza, di formule e di pratiche» a opera della Chiesa cattolica, che è l’opposto del vero cristianesimo, «religione della libertà» 145. La rappresentazione del cristianesimo fatta da Dostoevskij – ha ragione Guardini – è «irreale» 146, in quanto la sua purezza lo destina ad una schiera di eletti, la cui condizione minoritaria rispetto alla gran massa della mediocre umanità suggerisce la necessità di una profonda trasformazione del mondo reale, di una rivoluzione spirituale, la quale è di per sé la negazione della realtà dell’incarnazione divina 147. È la rappresentazione di un anarchico, di un rivoluzionario quale è Ivan Karamazov, che non accetta la creazione e ne vede solo il male, il peccato, costituito dalla realtà mediocre della massa, che non è l’evangelico «prossimo», ma gli altri, gli impuri, che abitano un mondo gnosticamente assurdo. Ma la lettura della Leggenda può essere anche capovolta. L’Inquisitore è egli stesso un puro che si è ricreduto di fronte alla realtà del mondo trasformando l’originario ardore messianico e profetico in rassegnato e crudele cinismo, con cui infierisce contro l’umanità asserendo di rappresentarne le più profonde ragioni. Egli è «un uomo dell’idea», un asceta, che «perduta la fede, ha compreso che un’enorme massa di uomini non ha la forza di sopportare il peso della libertà rivelata da


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Cristo [...]. Non crede in Dio ma non crede neppure nell’uomo. Questi sono due aspetti della medesima fede» 148. L’Inquisitore «alla sua maniera è un democratico e un socialista» 149 e il mondo da lui disegnato è quello che uscirà dalla rivoluzione d’ottobre, il «socialismo costrittivo» 150, in cui al posto dell’«ordine pieno di dolore» della creazione divina la sua «“mente euclidea” vorrebbe imporre un ordine in cui non vi siano più né dolori né responsabilità, ma neppure libertà» 151 . È la traduzione secolaristica dell’«idea teocratica», storicamente sempre costrittiva, che «fatalmente urta con la libertà cristiana, ed è una rinnegazione della libertà» in quanto «presuppone il potere terreno», la cui rinuncia è condizione della «libertà in Cristo» 152. La rivoluzione socialista combatté anzitutto contro il mondo borghese capitalistico, una realtà imperfetta, segnata da quell’ideologia del progresso che vorrebbe prendere il posto della religione tradizionale in senso soteriologico. Ma «la concezione eudemonistica è inevitabilmente ostile alla libertà dello spirito umano [la quale] non è compatibile con la felicità degli uomini». Questa è una tendenza volgare, materialistica, mentre «la libertà è aristocratica, esiste per pochi eletti» 153. Lo spirito rivoluzionario dunque contrasta sia il cristianesimo decaduto a formalismo accomodante, quello cattolico, e sia la versione secolarizzata della società opulenta ed edonista nata dall’individualismo protestante, che ha sostituito alla libertà della coscienza la libertà dal bisogno. La Leggenda è però fondamentalmente un atto d’accusa alla società massificata, alla democrazia che basa la sua legittimità sul consenso comune, quello stesso che induce l’Inquisitore a fare le veci del Diavolo, riportandone l’ideologia accomodante della mentalità comune, dandosi pensiero dei molti... che non possono sopportare la prova della libertà» 154. Il suo realismo è quello di chi conosce le bassezze dell’animo umano e non cerca velleitariamente di mutarlo, ma di assecondarle al fine di dominarne la volontà. È quello dei socialisti, per i quali gli uomini «non potranno mai essere liberi, perché sono deboli, viziosi, insignificanti e riottosi» e per i quali «non esiste questo tragico problema della libertà», che travaglia il cristianesimo, accusato perciò di non aver dato la tranquillità agli uomini, di «non averli saziati». Il socialismo ateo «predica la religione del pane terreno, dietro


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cui andranno milioni e milioni, contro la religione del pane celeste, dietro cui andranno solo pochi» 155. La differenza, fa presente Berdjaev, tra le due prospettive è, ancora una volta, la libertà dello spirito umano, la libertà di coscienza, che contrasta con la costrizione del metodo socialista. Ma nello scagionare il messaggio della redenzione, affermando che «non ha colpa il cristianesimo, se l’umanità non ha voluto seguirlo e l’ha tradito. È colpa dell’uomo, non del Dio-uomo» 156, Berdjaev inserisce una limitazione antropologica nel seno dell’umanità redenta dall’incarnazione tra chi persegue la via evangelica e chi ne è lontano. Ciò implica uno svolgimento della storia umana a scansioni diverse, qualitativamente distinto in virtù della considerazione che gli uomini hanno o non della libertà. I poli dialettici della vita spirituale sono dunque gli estremi della libertà e della felicità, della grazia e del benessere, il che fa del sentimento del dolore – opposto a quello della felicità – la condizione stessa della libertà. Il dolore, per Dostoevskij, segna «il passaggio» dal male al bene, e ne costituisce la sua «dialettica» attraverso la redenzione del pentimento, col quale «l’uomo vince il peccato e se ne libera» 157. La centralità della libertà è riposta nella facoltà «di scegliere fra il bene e il male» 158, che costituisce anche la sua «tragedia». La tragedia della libertà è che il bene non è veramente tale se è imposto o se è necessario. Il bene è costituito come tale dalla possibilità di accoglierlo o di rifiutarlo: il bene imposto è negato come tale. La libertà non è il bene: la libertà è libertà. Confonderla col bene significa rendere il bene oggetto e risultato d’imposizione, effetto ed emanazione della necessità; ma allora esso non è più bene, anzi è male 159.

Il contrario della libertà non è dunque il male, ma la necessità. La libertà come tale è una condizione neutra, non è un valore, oggetto di giudizio. Ed è una condizione tale che la sua mancanza rende anche il bene moralmente inaccettabile, perché imposto. Ciò vuol dire che il bene va indissolubilmente legato alla libertà, mentre non è vero il contrario, essendo libera anche la scelta del male 160. Ma anche che «la verità si può raggiungere solo attraverso la libertà», per cui non si può «essere costretti alla verità» ovvero «essere nati nella verità». Infatti, per Dostoevskij, «la verità accolta per imposizione o per tradizione, senza


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l’intervento personale della libertà, non è tale [...] Non è possibile esser “collocati” nella fede; la fede come “abitudine” è impossibile: la fede è una continua lotta contro Dio e una continua vittoria sul dubbio» 161. La «dialettica» della libertà come espiazione del male costituisce il fondamento morale del pentimento e del dolore, di quella punizione che è tutta interna allo spirito e che non va confusa punto con la punizione legale per il delitto. La riabilitazione civile, così come la sofferenza imposta e non spiritualmente redentrice, non sono segni della rinascita spirituale, che può avvenire solo nel segno della libertà di coscienza. Questo assunto rappresenta la più forte negazione del potere temporale regolativo del «formicaio sociale», e costituisce la barriera morale invalicabile opposta a ogni disegno rivoluzionario negatore della libertà e quindi della verità e del bene. Il travaglio della libera penitenza è anche volontà di conoscere il male, attraverso la cui lotta si può pervenire alla verità. In questo senso Berdjaev afferma che Dostoevskij «era uno gnostico» 162. La conoscenza del male diventa «il destino degli uomini liberi» e «spiritualmente maturi», e la sua esperienza ha il valore di un arricchimento perché tramite e strumento della «tragica via dell’uomo» verso la verità 163. In questa chiave finalistica si chiarisce il senso della sofferenza umana come riscatto della sua finitezza, e anche la nullità di un dolore che non sia finalizzato al conseguimento del bene. Così, per Dostoevskij «la natura del male è interna, metafisica, non esterna, sociale», per cui l’azione umana che voglia imporre un male esterno e sociale viene moralmente delegittimata dalla sua incongruenza metafisica e dalla vanità di uno sforzo destinato allo scacco. In questa luce, di fronte alla libertà paziente del cristianesimo, la forza palingenetica rivoluzionaria appare assurda e il dolore da essa provocato senza interno riscatto antropologico, possibile soltanto quando appunto si assume liberamente il dolore come superamento della finitezza del male. Il regime di Cesare, per la sua natura volta alla finitezza, non si presta al riscatto del male e rimane sempre al di qua della libertà spirituale dell’uomo, assumendo le fattezze della «instaurazione positiva d’una realtà negativa, l’effetto d’una deliberata volontà di male, la presenza d’una forza demoniaca nel mondo umano» su cui bisogna prevalere. In questo senso, come affermato da Pareyson, in Dostoevskij «l’aspetto escatologico prevale


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su quello gnostico», ridimensionando nella speranza del bene finale il suo pessimismo 164. Ma non si può concordare con l’interpretazione che identifica il «non essere» del male come «irrealtà e inesistenza» 165. Per il suo carattere finito, il male è negazione del bene, dell’assoluto, che è compresente nell’uomo quale suo elemento divino. La scelta del male è quindi negazione dell’assoluto, riduzione al finito dell’esperienza umana. Ma il male, in quanto esperienza finita, è esso stesso reale, ha una sua viva realtà, che si può negare attraverso il suo superamento col dolore, che rappresenta il «punto di svolta di questa dialettica» 166. La questione sorge allorquando si definisce questa dialettica in termini hegeliani di superamento-conservazione del male nel bene. Se così fosse, ogni azione sarebbe nel bene quale sintesi inclusiva del negativo male 167. Ma non è così nel nostro caso. Infatti la concezione drammatica di Dostoevskij – che è quella degli slavofili e in genere degli anti-idealisti russi – implica l’esistenza di due realtà distinte e separate: quella del bene che fronteggia il male in una lotta esclusiva che marca la differenza tra la scelta della realtà infinita (o divina) ovvero di quella della finitezza (diabolica). La condizione del male non è la negazione della vita, ma la negazione del bene. Si può anche vivere nel male, edificare la città degli uomini e il regno di Cesare, senza che tutto ciò sia «irreale». Esso ha invece una sua mondana realtà, che è quella dichiarata dall’Inquisitore e che semplicemente non è quella dello spirito, propria del Cristo. Dalla contrapposizione ideale e dallo scontro reale di queste due dimensioni interne alla libertà umana, e che costituiscono quelli che Berdjaev chiama «i due poli dell’anima russa» 168, scaturisce, soggettivamente, il dolore, e storicamente la lotta politica per l’egemonia del potere: la rivoluzione 169. Lo stigma di Dostoevskij (e non solo di lui) sulla realtà conciliata del cristianesimo occidentale, con la sua cultura sintetica e ottimistica, poggia proprio sulla rimozione del dramma cristiano della scelta tra bene e male, funzionale hobbesianamente alla pace sociale, ma non al riscatto spirituale delle coscienze, che non possono acquetarsi sul compromesso morale mutuato dal paradigma politico. Di fronte al male, la scelta per il bene si può effettuare o nel senso della estraneazione dal mondo, ovvero nel senso della lotta contro il male. Scartata la posizione teocratica, che contraddice la libertà, non rimane che la fuga verso il


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cielo. È la soluzione del «visionario che fantastica solo di sé» di cui ci parla il giovane Hegel; la cui fantasticheria che disprezza la vita può molto facilmente tramutarsi in fanatismo, perché per mantenersi nella sua assenza di relazione deve distruggere ciò dal cui contenuto è distrutta, ciò che per essa è impuro, fosse anche la massima purezza; fare offesa spesso anche alle relazioni più belle [...]. [E] poiché in lui vi era solo la coscienza delle forme limitate, null’altro rimaneva che una fuga nel vuoto realizzata mediante atrocità e devastazioni 170.

Chi non vede il questo ritratto del visionario il fratello rivoluzionario del nichilista Stavroghin? Essi hanno in comune l’odio gnostico per il mondo, mancando loro il «sale della terra», l’amore cristiano, quello «spirito» la cui abnegazione e accettazione pietosa del dolore della redenzione rimane «ostile a ciò che alla superficie della vita si chiama “rivoluzione”», a un sovvertimento di rapporti meramente sociali, esterni, che niente hanno a che vedere con la cristiana «rivoluzione dello spirito», la quale, per il suo carattere di libera e intima adesione al bene, «in generale nega lo spirito della rivoluzione», che è «libertà trascesa in arbitrio vuoto e ribelle», «destino fatale dell’uomo sceso dai fondamenti divini» che, per non essersi liberamente unito in Cristo, si è costretto in una forzosa unità nell’anticristo 171. Su questa contrapposta unità nasce in Dostoevskij il problema religioso del socialismo 172 quale «fenomeno dello spirito», «forma laica dell’antico chiliasmo ebraico», che «vorrebbe sostituire il cristianesimo» come suo antipode e «risolvere il destino della società umana»; problema che coincideva con quello della natura della rivoluzione quale «incarnazione contemporanea dell’ateismo», l’«avvento del regno di Dio sulla terra», con i suoi caratteri 173. «Religione di schiavi della necessità e di figli della gleba», il socialismo non è la negazione del capitalismo, ma è «carne della sua carne», nascendo sul suo stesso terreno, quello del rinnegamento di Dio e il cedimento satanico «alla tentazione di mutare le pietre in pani, alla lusinga dello spirito sociale, alla lusinga del regno di questo mondo» 174. È la religione degli sterminati «uomini del sottosuolo» 175 alla Smerdjakòv, che si contrappone alla religione cristiana degli eletti,


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secondo una rappresentazione oggettivata in termini esistenziali dei valori/disvalori che proietta sul piano dei rapporti sociali la dialettica spirituale, sia pure intesa in senso «ciclico» 176. Non è difficile cogliere l’incongruenza di questa rappresentazione oggettivata della ragione collettiva in lotta contro la ragione spirituale, la quale stabilisce un rapporto ontologico di necessità tra le figure sociali antagoniste in netta contraddizione con l’asserita libertà di scelta valoriale del singolo, per cui il conflitto tra le entità sociali non pare redimibile al di fuori di una competizione radicale molto prossima alla lotta politica schmittiana e a quella sociale teorizzata dal marxismo e ha per posta paradossale la sofferenza umana, che è congiunta alla libertà, «calvario di dolore» 177. La lotta tra bene-libertà-dolore e male-costrizione-pane terreno riproduce i termini stessi della libertà, che appare storicamente sempre polarizzata in una scelta concreta tra le sue due possibilità reali. Una delle quali è per il Cristo, l’altra per il regno diabolico, sia esso teocrazia papale o socialismo, fondamentalmente simili perché entrambi espressione di «un ordinamento costrittivo del regno terreno» 178. L’attenzione va spostata nel regno dei cieli, l’unico ove sia possibile la libera armonia spirituale invano ricercata attraverso la costrizione politica o teocratica. E in attesa del suo avvento, agli uomini di buona volontà non resta che l’amore sociale, contrapposto all’odio sociale: la carità al posto della politica, la Chiesa solidale dello spirito al posto dell’unità forzata nello Stato. La visione di Dostoevskij è la trascrizione letteraria di una profondamente sentita decadenza della civiltà europea, descritta nei termini proprii al suo universo mentale religioso 179, ma dove compaiono le figure stilizzate della folla di Kierkegaard e dell’impersonale di Heidegger, in cui l’ermenutica dell’esserci o, in termini jaspersiani, la chiarificazione dell’esistenza si dispiegano attraverso le vicende delle personificazioni dei valori autentici o del bene, che lottano contro i disvalori del male o dell’inautenticità. Ciò che per i filosofi occidentali è la caduta nell’impersonalità dell’anonimato, per lo scrittore russo è la perdita della personalità spirituale, ma in ogni caso lo smarrimento si palesa come estraneazione dal mondo in cui prima si era accasati e integrati. Diversamente dalle ipotesi esistenzialistiche occidentali, la scoperta della convivenza come gli heideggeriani Mitsein (essere con


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gli altri) e Mitdasein (esserci insieme), non avviene in termini di coesistenza di enti nello stesso essere universale, ma in quanto persone spirituali che realizzano la propria unità spirituale attraverso Dio. La mediazione, cioè, non è costituita dal mondo, ma dall’appartenenza allo spirito divino. In questo senso precipuo, le figure dostoevskijane sono costitutivamente reali, e non semplicemente esistenziali, perché possiedono una fisionomia valoriale che manca alle figure inautentiche delle filosofie esistenzialistiche. Il personaggio personale, anche se negativo, non è mai un das Man, ma lo diventa quando perde la sua personalità nella massa. Ciò vuol dire che il rapporto tra i personaggi non ha quella nota di strumentalità, quella «cura» (Sorge) che invece possiede il Mitwelt heideggeriano. Come per Jaspers, anche per Dostoevskij la socialità non è di per sé il luogo della perdizione del soggetto, il quale non decade perché socializzato ma in quanto assorbito nella sua logica assolutisticamente finita 180. La logica che presiede il regno di Cesare è costruita sul rapporto servopadrone illustrato da Hegel nella Fenomenologia, in cui manca quella «comunicazione esistenziale» essenziale per Jaspers a incontrare e riconoscere l’altro come persona. Il dialogo inter-personale, a sua volta, suppone una concezione dualistica e drammatica della realtà, che non possiede il razionalismo monistico. Da qui parte la critica di Berdjaev al razionalismo idealistico e la sua distinzione tra il piano della oggettività, proprio della natura e dell’essere, e il piano della soggettività, proprio dello spirito e dell’esistenza, distinti nell’antitesi tra società e persona, che costituisce il «tragico eterno della vita umana» 181 . La soggettività non è una condizione univoca, ma un percorso esistenziale che parte dall’io e giunge alla persona. «La persona si afferma nella comunione, dove ciascuno esce da sé verso l’altro» 182. La persona è il prodotto spirituale di un travaglio intimo verso il trascendimento dell’io sociale 183, nel quale è la stessa persona che si trascende nell’incontro con l’altro, che è comunione, condizione opposta a quella della oggettivazione sociale 184. La condizione intermedia tra i due stati è la solitudine, che è la situazione esistenziale di chi si trova nella libertà, di cui ha parlato Dostoevskij, la cui essenza è il dolore e che anche per Berdjaev «non può essere superata che attraverso Dio» 185, che diventa il medium tra la


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riduzione a oggetto e la trascendenza personale dell’io. La comunione, che realizza il regno di Dio, è il dialogo spirituale tra persone che vivono un’esistenza trascesa nella dimensione divina, propria del cristianesimo, «filosofia dell’esistenza umana» o «teandrica» 186, pervasa dal mistero paradossale della convivenza del tempo e dell’eterno nella stessa persona 187. Il problema della persona richiama quello della società, o della comunità spirituale, e quindi si sviluppa come questione della formazione spirituale dei singoli nel dialogo inter-personale. Questo processo di formazione spirituale e dialogico, non soltanto risolve la solitudine della libertà della singola coscienza nella scelta esistenziale, ma introduce la dimensione della temporalità, cioè della storicità, del divenire persona dell’individuo originario. E poiché il processo diveniente è attività di compartecipazione del singolo con altri singoli, la temporalità entro la quale si sviluppa è anch’essa una dimensione sociale, oggettiva, distinta dal sentimento del tempo interiore. Così, l’incontro dell’eterno nel tempo si realizza come fusione del singolo nell’identità della persona, la quale diventa pertanto depositaria delle due dimensioni temporali (finita ed eterna) e delle due dimensioni esistenziali, quella sociale e quella comunitaria. Come ha detto Bobbio, «persona non è singolarità irrelativa e solitaria, centro a se stessa, ignorante e ignorata centralità, ma è il singolo che, trovando e riconoscendo nell’altro singolo un altro se stesso, completa la propria monca singolarità e arricchisce la propria sfera del vedere e dell’agire» 188 . È anche vero, in tal senso, che «la personalità non è un fatto naturale, né un dono gratuito [ma] è una dignità che io acquisto sottraendomi alla schiavitù della collettività o alla prepotenza del mio io individuale, e [che] conservo soltanto se rispettando gli altri ne sono rispettato» 189. Ma è meno certo che «la personalità sia un valore sociale», nel senso che «questo valore, di cui io individuo mi abbellisco, e in cui mi elevo a persona, è la società che me lo conferisce» 190. Se così fosse, la personalità coinciderebbe con la socializzazione tout-court, e la comunità interpersonale non sarebbe altrimenti che quella arcaica della città antica. In realtà, nella nuova dimensione comunitaria, nella cristiana società spirituale, l’incontro degli individui singolari non avviene in virtù della loro condizione di cives, ma per libera scelta tra


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singolarità che si riconoscono nel medium del dialogo. Tale dialogo non coincide con un qualsiasi orizzonte ermeneutico, ma è un dialogo essenzialmente religioso. E religioso in quanto intrattenuto in virtù del trascendimento in Dio. Senza tale trascendimento, il dialogo non si realizza tra persone, ma continua a essere tra individui. Non tutti i dialoghi, quindi, sono impostati nel senso della trascendenza dell’io nella persona, ma soltanto quelli forniti di un senso particolare, anzi universale. La fattualità della «situazione dialogica», sostiene Calogero, «non dipende dal dialogo: non dipende da nulla che dal dialogo sia prodotto, da nessuno dei discorsi che in esso si svolgono, e quindi neppure dalle loro eventuali leggi. Essa dipende, unicamente, dalla volontà d’intendere», per cui il «principio del dialogo» ci dice che «qualunque cosa noi intendiamo da altri, essa sarà sempre a posteriori rispetto alla nostra volontà d’intendimento... Questo vuol dire che nessuno al mondo potrà mia convincermi a spezzare quel rapporto di comprensione, che è il legame etico fondamentale» 191. Tale legame etico, concide con la stessa libertà di scelta, ed è quindi un valore neutro, che non dice nulla circa il contenuto della comprensione. Ora, esattamente questo contenuto fa la differenza tra un dialogo e un altro, fra la sapienza degli uomini e le ragioni di Dio, fra la logica di Cesare e lo spirito del credente, tra il logos di Atene e quello di Gerusalemme. Il «principio del dialogo» appare più cogente del «principio del logo» 192 in una situazione agnostica nella quale i contenuti sono indifferenti, in quanto tutti rientranti nel crogiuolo della dialogica universale (che può essere lo Spirito del mondo o la Storia). Ma quando il senso del dialogo è insito nella sua finalità trascendente, il «logo» non coincide più con il «come», cioè con il metodo dialogico, ma con l’essenza della sua verità. In questo caso, il dialogo è preceduto dalla scelta del suo fine trascendente, cioè dalla fede nella verità, che distingue il fine precipuo del dialogo da altri fini di altri dialoghi. Proprio l’elemento della scelta dei dialoganti fa sì che la comunità dialogica non sia occasionata da ragioni qualunque, né tantomeno cogenti, ma da ragioni spirituali che rendono quella comunità appunto spirituale e non meramente sociale. L’aporia del «liberalismo agnostico» che «rifuggiva, quand’era al potere, non solo dal togliere ad alcun altro la possibilità di diffondere il verbo proprio, ma altresì dal


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valersi dei mezzi dello stato per diffondere il verbo suo di liberale» 193, era dovuta alla mancanza di ogni finalità insita nel dialogo che non fosse quella del dialogo stesso, cioè della libertà esercitata come libertà. Ma se l’esercizio in sé della libertà è pur sempre espressione di libertà (tanto che la storia potè crocianamente essere definita storia della libertà), non ogni esito di tale esercizio consegue gli stessi fini rispetto alla coscienza della persona morale. Rispetto a questa coscienza personale, la libertà è la condizione della scelta del suo fine, volta al bene o al male, e pertanto giudicata. Il che comporta che, rispetto alla coscienza personale, l’esercizio della libertà non è mai neutrale, perché non è indifferente alla coscienza personale il suo fine, cioè l’esito della libera scelta. In questo senso, il personalismo si contrappone alla logica dello storicismo come il giudizio morale rispetto al fatto naturale. L’equivalenza dei fatti naturali non può essere assimilata alle azioni umane, che sono frutto della responsabile libertà di scelta del fine dell’esercizio della libertà stessa. E se le azioni prive del fine trascendente possono considerarsi alla stregua di neutri fatti sociali, le azioni che tendono, attraverso il dialogo, a trascendere la finitezza dell’individuo, sono sempre azioni caricate del valore positivo del bene, così che il dialogo tra persone coincide con la condivisione del bene, cioè del valore trascendente i singoli, che è Dio 194. E se il dialogo finalizzato alla convivenza sociale necessita di una «azione educatrice allo spirito di libertà» la quale, in quanto «implica la cooperazione di volontà altrui», e quindi «l’adozione di mezzi e metodi tecnici» abbia necessariamente carattere politico 195, il dialogo spirituale tra persone presume, per realizzarsi, uno stato di grazia non conculcabile né prescrittibile, che è l’amore cristiano, che eguaglia i dialoganti non in virtù di una legge o di un diritto relativo, ma in virtù di una scelta di verità che accoglie il bene ad esclusione del male. Tale scelta non si fonda sulla ragione, che è uno strumento cognitivo, ma sulla fede, cioè su un valore. Il valore della fede che si serve dello strumento della ragione per comunicarsi, ma che non si esaurisce nella ragione (fides quaerens intellectum) bensì «considera la rivelazione cristiana come un ausiliare indispensabile alla ragione» 196. Lo scambio del valore con lo strumento della sua comunicazione, vuol attribuire a un metodo un contenuto deontologico che esso non può avere. L’unità spirituale non è paragonabile alla società politica, fondata su un


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contratto di convivenza che esorcizzi la paura dello homo-lupus. L’unità spirituale dei fedeli si fonda sul riconoscimento della deificazione della natura umana in Cristo, attraverso il quale i fedeli sono «associati alla sua pienezza», come afferma S. Paolo 197. Il fine della comunione spirituale non è la difesa dell’integrità individuale, l’habeas corpus, ma la partecipazione alla gloria divina, per cui se la consegna dei cives, quali esseri politici, cioè della polis, è «siate potenti», la consegna dei fideles, quali esseri liturgici, è «siate santi» 198. 2. La critica alla oggettivazione mossa da Berdjaev al razionalismo positivistico occidentale mira proprio a confutare quella «santificazione simbolica del mondo materiale paurosa di ogni rivoluzione spirituale» e la cui limitatezza distoglie l’uomo dalla dimensione dello spirito, «la sfera in cui il divino e l’umano si uniscono» 199, che è appunto la dimensione religiosa della vita incentrata sulla persona. Secondo la definizine di Mounier, «la persona non è il più meraviglioso oggetto del mondo, un oggetto che noi possiamo conoscere dal di fuori, al pari degli altri oggetti. Essa è la sola realtà che noi conosciamo e che noi nel contempo creiamo [fassions] dal di dentro» 200. La filosofia personalista si presentava, in questo solidale con «le filosofie del nulla», come un «felice antidoto alle Stimmungen del pensiero borghese, al suo fatuo ottimismo, al suo idealismo ingannatore, all’appiattimento positivistico del reale», e quindi come il tentativo di superamento della «razionalizzazione di una decadenza» 201 individuata nel liberalismo individualistico, che confinava l’esercizio delle libertà alla sola dimensione sociale, senza fine trascendente la libertà stessa, e perciò destinato a risolversi nel suo opposto, nel socialismo, cioè nell’esigenza, per la salvaguardia della libertà comune, dell’organizzazione sociale 202. Di fronte alla crisi della civiltà europea venuta in evidenza dopo la seconda Guerra mondiale, quella che Mounier chiamava «la disgregazione della nozione classica dell’uomo» 203, richiedeva, in quanto «problema totale di civilizzazione», una «risposta totale» 204. La risposta del comunismo passa attraverso l’opposizione all’idealismo, alla sua teoria del razionalismo coscienziale, per la quale la ragione è nella coscienza e non, come vuole il realismo marxista, nell’essere. Lo stesso comunismo, a detta di Marx, «non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi [ma il]


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movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» 205. Esso fu anche il primo a criticare «l’oggettivazione», «cioè la trasformazione dell’uomo in cosa per mezzo di alcune forme di vita, in particolare la materializzazione», anche se poi Marx «ha irrigidito la sua originaria critica in un nuovo materialismo, più acuto di quello che combatteva, ma anche infine del tutto oppressivo per l’uomo reale» 206. La tesi dell’oggettivazione, intesa come «processo per il quale noi ci perdiamo nell’assenza e nell’impersonalità delle cose», è stata fatta propria dall’esistenzialismo contemporaneo, costituendo uno dei suoi temi dominanti, quale lo si ritrova in Jaspers, in G. Marcel, in Scheler, in Heidegger e in Berdjaev. Per questi filosofi, lo spirituale è «ciò che non può mai diventare oggetto» e coincide col personale, secondo una equazione che ci porta «al cuore dell’affermazione cristiana» 207. Il che è esattamente il contrario della tesi materialista del marxismo, il quale, riducendo il dialogo dell’uomo con le cose e i viventi al rapporto di proprietà e di dominio, ne cristallizza l’essere nel solo avere, secondo quanto descritto dal Marcel 208. Ma, secondo una «dialettica interna al mondo dell’avere, che è altresì quello della cupidigia e del dominio», si determina un capovolgimento di condizione, per cui i possessori delle cose diventano a loro volta posseduti dalle cose, provocandone una «segreta schiavitù che assimila la loro natura a quella delle cose» stesse, una sorta di «elucubrazione magica» che soltanto «l’armatura spirituale dell’antropologia cristiana» può scongiurare 209. Infatti, secondo la Genesi, il destino dell’uomo non è quello di possedere le cose e di sviluppare su di esse il suo istinto di possesso, ma di nominarle, introducendo per mezzo di esse il dialogo con Dio. Un dialogo originario e di destino che è francescanamente fraterno, e non fondato sul rapporto servo-padrone. Come riassume Mounier, «la natura non è proprietà dell’uomo, ma una sorta di sacramento naturale che contribuisce a volgerla verso Dio», così che essa «prima di essere oggetto d’attenzione da parte degli uomini, è già piena di Dio», al pari dei nostri corpi, che sono «i templi di Dio» 210. Non si tratta di panteismo, o di facile psicologismo prodotto dal liberalismo e dal romanticismo, che esaltano un soggetto di cui il vocabolario soggettivistico riesce a cammuffare il materialismo e perciò molto lontano dal soggetto di coesione spirituale affermato dal personalismo, ma dello schietto realismo cristiano, tipico della filosofia del Medioevo,


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che eleva l’essere naturale alla sua forma trascendente, «un realismo in cui trascendenza e immanenza si compenetrano vicendevolmente» 211. L’uomo cristiano, se è proteso verso il trascendente e quindi teso ad emanciparsi dall’amor proprio, cioè dal possesso dei beni terreni, nondimeno, per le sue «condizioni di accesso alla vita spirituale», è anche l’essere più legato al mondo, a quella natura che costituisce «la sola via normale che va dall’uomo a Dio», e quindi al suo corpo, il «primo prossimo» 212. Il che comporta che la conoscenza più autentica non sia quella più obiettiva, quella dove il soggetto interviene il meno possibile, ma al contrario quella in cui il soggetto si impegna più profondamente, in cui l’oggetto viene conosciuto nella misura in cui il soggetto vi venga implicato, tale che può dirsi che «un tale modo di conoscenza è intimamente organizzato sulla mia vita e sulla mia esperienza, il che non è una forma di pragmatismo, dal momento che l’atto della conoscenza trascende esperienza che lo assume, in senso cristiano del termine: nel senso che assicura l’assunzione a una forma più spirituale di esistenza» 213. La conseguenza più rilevante per noi è che «un tale modo di conoscenza mette fine al divorzio che, a seguito della frattura dell’idealismo, separa la vita dello spirito dall’azione responsabile», secondo «le abitudini stesse del pensiero liberale», privo di una teoria dell’azione, laddove il pensiero cristiano, «quantunque su piani differenti, offre una mano al santo e l’altra al politico». Una filosofia, una cosmologia e un’antropologia in grando dunque, quella cristiana, di «assicurare l’unità delle loro concezioni del mondo», contro la «anarchia delle scienze, segnatamente quelle dell’uomo» 214. Notevole è la disparità di piani rispetto alla critica mossa al pensiero cristiano da un idealista gentiliano come Spirito, della critica spiritualistica di segno cristiano e personalista, fondata su un’ontologia dell’uomo che intende «ricomporre nel disordine delle scienze dell’uomo il punto di vista direttivo di una antropologia costituita da tre assi portanti: la trascendenza della persona, la sua incarnazione, e la sua situazione di natura non corrotta, ma ferita al cuore a seguito della rottura originaria» 215. Un impegno che si proponeva anche sul piano pratico un superamento delle «alienazioni e dell’idealismo politico», basato su un «umanesimo drammatico», che cerca di «inquadrare


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istituzionalmente le manchevolezze di un uomo ontologicamente uguale a se stesso attraverso i secoli». Un pensiero insomma che «colloca l’amore al centro del mondo e della filosofia», la quale deve perciò essere profondamente rinnovata, mettendo al primo piano quanto è stato «ridicolmente» trascurato rispetto «all’enorme sviluppo dell’Epistemologia e della Critica», e cioè «il probema filosofico della Sessualità, o della Famiglia, o dell’Infanzia» 216. Chiarito che la riduzione del comunismo ad ateismo sia «una pura operazione dialettica» e una «algebra teologica che non può essere applicabile all’azione», anche perché «il militante comunista rivela spesso un senso di Dio più autentico, benché non confessato, di quello che si riscontra abitualmente nel proprietario benpensante», ciò che costituisce «l’essenziale del comunismo per un cristiano» non può identificarsi «né con il bilancio bruto dei partiti comunisti» e neppure con «un sistema dottrinario che per definizione si modifica costantemente nella e attraverso l’azione» 217. L’essenziale del comunismo non sono dunque i problemi che esso solleva, nei vari campi economici sociali e politici, ma «il suo mistero, la forza centrale che determina la sua potenza nel cuore degli uomini, e che continua da un trentennio ad attirare l’attenzione della storia» 218. Diversamente dall’ipotesi di Dosteovskij, Mounier dipinge il comunismo come una forza tutt’altro che esterna al cristianesimo, ma come ideali che si affrontano «come Giacobbe e l’angelo, con un rigore e una freternità d’armi che supera infinitamente la posta del potere», legati da un «segreto legame» che né i cristiani né i comunisti «possono ripudiare». In un certo senso, «il comunismo rappresenta per il cristianesimo contemporaneo quello che era per Israele il mondo dei Gentili, negatore e persecutore del Dio unico, ma erede presuntivo del Vangelo anche se dal cuore non ancora maturato nella verità e nella giustizia, che gli rendeva la pelle impermeabile» 219. Il cristiano può anche accettare un sistema economico kolkoziano, anzi può conformarsi a ogni regime politico che rispetti i valori fondamentali della libertà di fede religiosa, ma non può aderire a «una filosofia che misconosca la trascendenza, svalorizzi l’interiorità e tenda ad annettere una critica fondamentale della religione a una giusta critica dell’evasione idealistica» 220. Anche la rivoluzione è da considerare una occasione storica piuttosto che una grande possibilità storica, da elevare


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a verità assoluta. Affermare che «la rivoluzione ha sempre ragione» equivale a dire «Hitler ha sempre ragione», il che è palesemente un «falso assoluto» 221. Lo stesso è da dirsi della libertà. Quella del liberalismo, dei diritti dell’uomo, come «ha dimostrato Marx in termini definitivi» che un cristiano «dovrà essere l’ultimo a rigettare», «è una concezione storica, legata a uno stato delle strutture economiche e sociali, che non può passare intatta in un’epoca nuova», e soprattutto, «priva di ogni fondamento nella condizione umana e di ogni finalità, ha sempre ripugnato alla coscienza cristiana» 222. Riecheggiano ancora gli anatemi del Sillabo in questa analisi che accosta piuttosto il comunismo che il liberalismo al cristianesimo, paragonando l’ideologia marxista a «una Chiesa», sia pure debole perché priva del fine trascendente, indispensabile a «garantire l’equilibrio interno tra la libertà collettiva e la libertà individuale» 223. La forza del comunismo risiede nella rivoluzione, che è la speranza dei popoli che non accettano la grettezza delle «forze del capitalismo», la «ristrettezza, l’egoismo e le complicità mortifere delle libertà borghesi», aprendosi alla conquista del domani anziché al mero rifiuto del passato 224. La conquista del futuro non si può conseguire piegando la rivoluzione ai vecchi metodi democratici del parlamentarismo, non essendo opportuno «dissolvere la rivoluzione nella democrazia formale, come troppo spesso fanno i socialisti, ma di reinventare la democrazia nella rivoluzione, nell’ambito delle sue forme nuove, come ha cercato di fare Lenin», inserendovi «la passione della spontaneità e delle tecniche oneste, intelligenti, di persuasione» 225. La rivoluzione socialista diventava dunque per Mounier il campo fenomenologico della nuova politica cristiana, l’orizzonte eversivo della società liberal-borghese entro il quale costruire l’ordine nuovo, integrale, spiritualistico e comunitario, in netta antitesi con quello della civiltà borghese, che pure era nata dal seno del cristianesimo occidentale. Affrontare il tema della crisi della civiltà europea equivaleva anche per i cristiani a fare i conti col socialismo marxiano. Il «marxismo trapiantato sul terreno russo» fu, nel giudizio di Berdjaev, «la forma estrema dell’occidentalismo russo», che inferse un colpo mortale al vecchio populismo in quanto «attendeva la liberazione per mezzo dello sviluppo industriale della Russia, che era per l’appunto ciò


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che il populismo voleva evitare» 226. Ma quello che ai primi marxisti russi premeva, non era tanto lo sviluppo industriale, premessa del socialismo, quanto la formazione della «psicologia rivoluzionaria» 227, che voleva dire la formazione di una mentalità scientifica, la cui acquisizione divenne la nuova fede dei socialisti, i quali identificarono così l’industrializzazione con la lotta rivoluzionaria 228. La contraddizione di un tale assunto, in un paese economicamente arretrato come la Russia, è evidente. Si auspicava anzitutto il superamento della civiltà contadina, e quindi il male del capitalismo, contro cui si doveva combattere in nome del socialismo. Il «conflitto morale e logico» fu risolto da Lenin, che teorizzò la realizzazione del socialismo indipendentemente dallo sviluppo capitalistico e dalla formazione di una classe operaia, per cui nel «marxismo russo la volontà rivoluzionaria aveva il sopravvento sulle teorie intellettuali e sull’interpretazione accademica e libresca del marxismo» 229. È importante isolare il concetto di «spirito rivoluzionario», in quanto è su di esso che verrà foggiandosi ed adattandosi il marxismo russo. Ma in cosa consiste tale «spirito rivoluzionario»? Berdjaev, per definirlo, si rifà alla teoria di Lukàcs espressa in Storia e coscienza di classe, secondo la quale lo spirito rivoluzionario è la totalità, l’integralità in relazione a ciascun atto della vita. Il rivoluzionario è colui che, in ogni singolo atto da lui compiuto, riferisce codesto stesso atto a un tutto, alla società intera, e lo sottomette a un’idea centrale e comprensiva d’ogni altra. Per il rivoluzionario non esistono delle sfere delimitate; egli non ammette alcun frazionamento e non ammette del pari né l’autonomia del pensiero rispetto all’azione né l’autonomia dell’azione rispetto al pensiero. Il rivoluzionario possiede una sua concezione totale del mondo, in cui la teoria e la pratica sono organicamente fuse. La visione totalitaria in tutto è, appunto, l’indizio fondamentale dell’attitudine rivoluzionaria in rapporto alla vita [...]. I rivoluzionari russi, anche in passato, furono sempre dei totalitari. La rivoluzione fu per essi una religione e una filosofia, e non solamente una lotta legata al lato sociale e politico della vita. Si dovette perciò elaborare un marxismo russo che corrispondesse a questo tipo rivoluzionario e a questo istinto di rivoluzione nel segno della «totalità». In ciò consistono Lenin e il bolscevismo [...]. Egli ha fatto la rivoluzione nel nome di Marx, ma non secondo Marx. La rivoluzione comunista è stata fatta in Russia in nome del marxismo totalitario, del marxismo inteso come religione del proletariato, ma è stata realizzata in contraddizione con tutto


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quanto Marx ha affermato intorno allo sviluppo della società umana [...]. E ciò si rivelò in armonia con le tradizioni russe e cogl’istinti delle masse popolari 230.

Se a caratterizzare la rivoluzione comunista non fu tanto il marxismo – pure in nome del quale essa si realizzò –, e neanche il suo anticapitalismo, quanto lo «spirito rivoluzionario», inteso come spirito totalizzante, allora possiamo facilmente renderci conto che la condizione della sua effettualità politica dipendeva anzitutto dalle premesse religiose che ne erano alla base. Premesse che in Russia erano radicate nell’ortodossia, così come che in Occidente nel cattolicesimo romano e nel protestantesimo tedesco. Lo spirito rivoluzionario è dunque una emanazione secolarizzata della religione cristiana, una traduzione laica della sua teologia. Il rivoluzionario ha come prototipo e modello originario il santo, sradicato dalla società che vuole cambiare, ma non dal mondo, perché radicato nella sua comunità spirituale dove condivide il sodalizio ideale con i suoi compagni di fede. La sua religione secolare diventa la fede nella scienza, nelle sue leggi storiche, che sono le stesse leggi della cultura borghese e capitalistica. Ma con una fondamentale differenza: che la società e la cultura borghese che l’esprime sono frammentate, non organiche, lontane dalla compattezza antica del cosmo religioso, e perciò decadenti. E poiché le religioni tradizionali hanno permesso l’involuzione religiosa della società borghese, occorre una nuova spinta mistica per rinfocolare spiritualmente la società cristiana (religiosamente) decadente. Questo ritenimento è importante per definire lo stesso concetto di decadenza come relativizzazione, in ambito di cultura liberal-borghese, della distinzione essenziale e propria di ogni concezione religiosa, «in due classi, in due generi opposti, designati generalmente con due termini distinti che traducono molto bene le parole di profano e di sacro» 231. Il sistema liberale, proprio perché ammette al suo interno il «politeismo dei valori» (Weber), la tolleranza religiosa e il pluralismo della rappresentanza più o meno democratica, viene meno alla essenziale condizione discriminante della gnosi religiosa, fondata su valori assiologicamente assoluti. La definizione durkheimiana di religione ci aiuta a comprendere la funzione secolaristica della politica come


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strumento della fede, anche se riporta l’analisi intieramente sul piano della oggettivazione scientifica, senza entrare nel merito della definizione fideistica di religione, che comprende un elemento teoretico, «cioè una credenza in potenze superiori all’uomo», e un elemento pratico, «cioè un tentativo di propiziarsele o di piacer loro» 232 . Ma anche in questo caso essenziale è la corrispondenza tra teoria e pratica (ovvero, in termini teologici, tra fede e opere), per cui «se la fede non conduce a una pratica corrispondente, non è una religione ma semplicemente una teoria» 233. È dunque il momento pratico che segna il passaggio dalla astratta aspirazione ideale alla concreta volontà realizzatrice. E in tale passaggio operativo consiste appunto la volontà rivoluzionaria, che è la volontà politica di realizzare l’armonia ideale nella storia 234. (Come realizzare il progetto rivoluzionario? Bisognava rigettare la tradizione, cioè negare il processo storico pregresso e stabilire un nuovo cominciamento. In Russia i primi marxisti «dovettero prima di ogni altra cosa ripudiare la concezione del mondo dei populisti» 235, introducendo, sul modello occidentale, «non soltanto il mutamento d’una concezione del mondo, ma anche uno sconvolgimento della struttura spirituale», sviluppando «la volontà di potenza, che si proiettò alla conquista della forza e creò anzi l’ideologia della forza» 236. Cambia l’atteggiamento verso la realtà e verso gli uomini. Non più la compassione per le condizioni del popolo, «per la sua condizione di oppresso e di infelice», ma la «credenza che esso è destinato a vincere, che è una forza in marcia ed è chiamato a liberare l’umanità» 237. Non è più l’anima personale, e neppure la pietà verso i meno fortunati, a muovere la considerazione del rivoluzionario sulle sorti del mondo e a decidere il senso delle sue azioni sociali, ma è la fede che la verità si sia incarnata nel popolo, lo abbia eletto a sua rappresentante, a stabilire il criterio della sacralità delle sue azioni, che il rivoluzionario propizia e dirige alla stregua di un sacerdote della storia. Lo spirito religioso aveva spostato i suoi referenti sacri dagli spiriti singolari allo spirito collettivo del popolo, ritenuto fideisticamente soggetto elettivo della rinnovata teodicea, ma «il sottosuolo spirituale è rimasto però fondamentalmente lo stesso: la ricerca del regno della giustizia sociale e dell’equità, lo spirito di sacrificio, una posizione ascetica riguardo alla cultura e un atteggiamento verso la vita ispirato a una concezione totale e integrale»


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. Ora lo «scopo essenziale» che si prefiggevano i rivoluzionari «è la realizzazione del socialismo» 239, ma lo spirito religioso è rimasto immutato, cambiando la prospettiva: da celeste a terrestre. Il fedele moderno non si rassegna più all’attesa della parousìa, ma egli stesso se ne fa interprete e profeta messianico, testimoniando della sua verità con la dedizione concreta ed assoluta alla causa del bene. Abbiamo un cristianesimo realizzato, una verità che si fa realtà moralizzata, o morale realizzata. E che diviene per la buona volontà degli uomini. L’antico afflato predicativo e mistico diventa ora missione storica, azione sociale. L’antico rito ecclesiastico diventa qui comportamento metodologicamente scientifico, e il tradizionale rito liturgico viene surrogato dalle ritualità programmatiche della rivoluzione, con i suoi santi e i suoi martiri. Ogni volta che mi sento urtato da un metodo del comunismo e cerco di comprenderlo dall’interno, non ho che da voltarmi verso il suo analogo nel clericalismo tradizionale, assimilando quelli dell’Inquisizione e dei processi di Galileo alla Gepeù o ai processi di Mosca, la paralisi del laicato di fronte alla gerarchia con la paralisi del movimento operaio sotto il potere del Partito 240.

Non era una iperbole, o un’immagine polemica, ma la situazione effettiva di ogni consapevole credente. Nella logica della rivoluzione, come scrisse un credente rivoluzionario italiano di allora, «occorreva rivedere il concetto di politica». Non più intesa in senso machiavellico di «assoluta», ma come «onere morale», cioè come missione redentrice. Da quando le monarchie solari sono scomparse, – scrive G. Gangale – da quando la coscienza popolare è l’arbitra della sua missione e la giudicatrice di coloro a cui ha commesso la responsabilità del governo, la politica è un terribile onere morale, non l’arte del domatore o del corruttore [...]. La autonomia filosofica e politica è stata infatti impotente da sé a dare una unità morale alla Nazione appunto perché inficiata da un vizio di origine: della mancanza cioè di un «primum movens» religioso 241.

La rivoluzione morale è l’inserzione dello spirito religioso nella


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dialettica politica. La coscienza morale, sviluppata dalla fede, ha bisogno di condizionare la politica, come ogni altra sua attività, a un ideale metapolitico, cioè religioso. Esso dà unità alla vita cosciente in quanto dà una legge. Perché il socialismo, per esempio, debba trionfare non può dircelo la politica. Quando si risponda che deve trionfare perché «è giusto» che trionfi si è già passati dalla politica alla morale. E la «giustizia» l’assoluto «dover essere» di questo trionfo non può scendere da un regno di concetti astratti («morale laica») ma da una volontà che ci trascende e che si fa obbedire. Siano già nella religione 242.

Secondo il rivoluzionario protestante, se l’Italia ha incontrato la crisi nazionale del dopoguerra, che ha segnato la fine dello Stato liberale e l’andata al potere del fascismo, è per la mancanza di una riforma religiosa. Il problema posto nel Risorgimento da De Meis e nell’anteguerra da Missiroli si mostrava nel dopo guerra in tutta la sua profondità. Noi non abbiamo Patria perché non abbiamo avuto Riforma religiosa, che sola unifica, cementa le regioni e gli spiriti, sola dà il senso messianico del compito da adempiere 243.

In mancanza di un «mito patriottico concreto», in Italia si è fatto ricorso a surrogati letterarii di retaggio classico. La sostanza nuova all’idea patriottica è data soltanto dai principii della Rivoluzione francese. Ma questa, inficiata anch’essa dal vizio originale di non essere stata una rivoluzione religiosa, è costretta ad accettare i parametri tribunizi e cesarei della storia romana. Pur tuttavia i fermenti ugonotti e anglosassoni in essa contenuti hanno e dèstano vita. Infatti è ad essa che dobbiamo i moti e le idee del Risorgimento 244.

È forse inutile aggiungere che la critica neo-idealistica, polemizzando proprio con l’eredità razionalistica francese per l’edificazione di una ideologia nazionale, ha cercato a suo modo di farla questa riforma religiosa, ma in chiave elitaria e filosofica, lontano dalle esigenze delle masse in ascesa. E se Croce, liquidando l’eredità delle «alcinesche seduzioni» rivoluzionarie, finì per vedere nello Stato liberale la realtà storica della verità filosofica, Gentile ritesse la trama religiosa italiana non escludendo laicamente da essa la civiltà cattolica, ma provando a


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profetizzare quell’unità morale mancata al Risorgimento storico attraverso lo Stato religioso fascista, forma reale della spirituale religiosità. Per il protestante italo-albanese Gangale la lotta andava fatta al cattolicesimo non in quanto istituzione o cultura teologica, ma come «male» morale e «mentalità», le cui caratteristiche, già ricordate da Prezzolini, sono «il riformismo, l’accomodantismo, il gradualismo o, peggio, il quietismo morale religioso politico», che hanno reso il popolo italiano un «popolo sacerdotale» 245. Il superamento di questa tara morale e civile, riflessa dalla politica, era una nuova fede politicoreligiosa che instaurasse la «vera democrazia», ovvero un regime politico fondato su verità religiose. E infatti egli credeva che alla vera democrazia non si potesse arrivare che attraverso e dopo una rivoluzione religiosa. La democrazia francese, di fronte a questa pregiudiziale, non può non apparire equivoca [perché malata di liberalismo. E dunque occorreva] guardare alle grandi compiute democrazie inglesi, americane, tedesche, [nate a loro volta dal] fermento umanistico italiano [che] nel suo viaggio circolare attraverso l’Occidente, poté, in terra libera e lontana dal clima irrespirabile creato in patria dal Vaticano, far sviluppare e fruttificare 246.

Siamo qui di fronte a una rappresentazione della civiltà occidentale speculare a quella ortodossa, perché volta ad esaltare anziché a stigmatizzare la tradizione umanistica e moderna della cultura che portò alla Riforma religiosa e alle democrazie dell’area protestante, in polemica con la tradizione morale del cattolicesimo, che avrebbe minato la stessa soluzione liberale dello Stato italiano. Ma il vero oggetto della polemica del Gangale è, nondimeno, lo stesso dei rivoluzionari russi anti-occidentali: la distanza tra morale e politica, tra il dover-essere degli assoluti etici e il miserabile accomodamento dell’essere storico. E il modello virtuistico è anch’esso il medesimo e comune anche a quello dei filosofi attualisti: la religiosa «totalità» indicata da Berdjaev, cioè la gentiliana sintesi vivente della teoria e della prassi nella condotta umana e nella vita istituzionale. In altri termini, la moralizzazione della vita sociale in una comunità di fedeli retta da uno Stato-Chiesa 247. L’interconnessione tra rivoluzione e religione divenne stretta e


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indissolubile nella mentalità dei nuovi santi rivoluzionari. La circostanza più interessante è che la nuova ventata spirituale, man mano che progrediva in termini intellettuali, si distaccava dalla tradizione e dalla mentalità popolare, ristabilendo quella scissura tra élite e popolo che le forze rivoluzionarie avrebbero voluto abolire, così che allo scoppio della prima rivoluzione russa del 1905 «tra lo strato superiore e quello inferiore della cultura russa non vi era pressoché nulla in comune; lo scisma poteva dirsi completo» 248. E fu lo strato inferiore della cultura russa a dirigere la rivoluzione, del tutto digiuno delle questioni intellettuali che travagliavano gli strati più alti 249, e per questo essa fallì, gettando il discredito su le idee liberali, il riformismo sociale e le idee del diritto 250. La svolta rivoluzionaria di Lenin, ovvero l’abbandono della filosofia della storia marxista e l’instaurazione del comunismo in una società precapitalistica, così come il giudizio di Berdjaev, secondo cui «in Russia, e in Russia soltanto, poteva avvenire la rivoluzione comunista» 251 , avvalorano la tesi che il comunismo non sia l’essenza della rivoluzione ma solo uno dei modi sociali della sua realtà storica, e che la rivoluzione sia invece l’essenza della politica del nuovo corso democratico europeo post-bellico. Il comunismo è sicuramente «un’eresia cristiana» e una «religione secolare» 252, ma l’intero corso ideale della cultura europea si dispiega come una traduzione in termini secolari della teologia cristiana e quindi inscrivibile nella relativa generale civiltà del cristianesimo. Quello che ha di caratteristico la rivoluzione russa è il comunismo, che è la forma storica e la formula politica di una realtà sociale pregna di spiritualità cristiana medievale, pre-moderna. Abbiamo visto con Spirito che il comunismo è l’evoluzione mancata del cristianesimo medievale, francescano e mistico. Non poteva essere la soluzione rivoluzionaria nell’Europa cattolica e luterana, dove l’esito della rivoluzione ha assunto forme diverse quali il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco. Ma, a fronte del come la rivoluzione si sia svolta nei diversi paesi, quello che dobbiamo anche chiederci è il perché la politica ha assunto la forma rivoluzionaria. O meglio, perché c’è stato bisogno della rivoluzione per affermare la nuova eresia nata dal cristianesimo. Nel sec. XIV la trasformazione dei Comuni in Signorie non ha richiesto alcuna


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rivoluzione. E così nel VI sec. a.C., la trasformazione in senso democratico della polis greca non richiese una rivoluzione. La rivoluzione è un fenomeno tipicamente moderno e tipicamente cristiano, che si basa su due presupposti essenziali: l’uguaglianza universale, e quindi la libertà dei moderni, e l’incarnazione della verità nel popolo, cioè la democrazia egalitaria. Già nella Repubblica e poi nelle Leggi, Platone aveva descritto la democrazia come il potere che viene dal basso, ma la democrazia antica non conosceva il principio di uguaglianza, senza il quale non si sarebbe avuta la democrazia universale, né la spiritualizzazione o incarnazione della verità in un ente collettivo, il popolo, sul quale si è trasferito il culto riservato tradizionalmente agli dèi. Il senso dell’ateismo moderno e la sua trasformazione in deismo democratico, nella religiosità insita nello spirito rivoluzionario, si spiegano con questo transfert misticoideologico dalle divinità quali figure antropomorfiche, al popolo quale ente collettivo e impersonale. E poiché la teologia cristiana si fonda tutta sulla incarnazione della divinità nell’umanità di Gesù, ovvero nella divinoumanità del Cristo, essa ha offerto alla rivoluzione democratica il paradigma teandrico della divinizzazione del popolo quale dio collettivo, del quale la politica è l’espressione della volontà. La rivoluzione moderna, al pari dell’avvento del nuovo Adamo, ha creato e politicamente affermato la figura della nuova divinità, che non abita più i cieli della religione tradizionale, ma la stessa società umana, di cui ognuno può far parte misticamente per il semplice fatto di essere membro di quel corpo mistico-sociale. È questa dimensione partecipata la vera rivoluzione politico-religiosa moderna, che intende eludere la legge sociale del monopolio del potere da parte della classe di governo. Tutta la storia dell’umanità civile si riassume nella lotta fra la tendenza che hanno gli elementi dominatori a monopolizzare stabilmente le forze politiche e a trasmetterne ereditariamente il possesso ai loro figli, e la tendenza, che pure esiste, verso lo spostamento di queste forze e l’affermazione di forze nuove, la quale produce un continuo lavorìo di endosmosi ed esosmosi fra la classe alta e alcune frazioni di quelle basse 253.

Anche Dio, in qualche modo, ha seguito la regola designando Suo Figlio al potere di rappresentarlo. E lasciando stare se tale legge persista anche


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nei regimi democratici come negli altri assetti politico-istituzionali, essendo l’unio mystica un mito, ciò che conta è l’idea di (poter) sovvertire «l’ordine naturale che il grande numero governi e il piccolo numero sia governato» 254, per cui la legittimità del potere, la sovranità legittima, sia stata religiosamente riposta, in termini di fede, nel popolo quale ente mistico-sociale collettivo. Questa è la grande novità, appunto rivoluzionaria, del nostro tempo, e in questa trasformazione radicale dell’idea del potere, che dagli dèi superni si è calato nella volontà del popolo, è da individuare il senso della politica religiosamente pensata come totale, e totalmente consegnata al popolo depositario della verità (filosofica, per Marx, politica per Lenin e gli altri dittatori totalitarii europei) 255. La totalità, propria della dimensione religiosa della vita, è stata sperimentata e vissuta come esperienza storico-sociale nei regimi di democrazia totalitaria, negli Stati-Chiesa comunisti e fascisti, i quali, come nelle Chiese cristiane, hanno espropriato il bene ai suoi depositari mistici per assicurarlo alla casta dei sacerdoti-politici 256. Ma ciò che ha infranto il sogno mistico della realtà terrena della Chiesa universale, non è la confutazione della fede religiosa da parte di altre dottrine più credibili, quanto l’evidente impossibilità di realizzare perpetuamente, attraverso la politica polemologica degli Stati-Chiesa, la volontà dei demiurghi della rivoluzione. Se la guerra «totale» aveva reso le condizioni rivoluzionarie 257, riportando la società a condizioni pre-sociali, nelle quali la militarizzazione generale aveva sospeso o abrogato i termini stessi della civilizzazione 258, dalla divisione del lavoro al riconoscimento delle qualità intellettuali degli uomini, la sconfitta militare dei regimi totalitarii è stata la prova storica della loro impossibilità di fare i miracoli alla stregua di Dio, nonostante il fideismo ideologico-religioso avesse assegnato ai popoli fedeli la missione di redimere il mondo degli infedeli. La guerra ruppe l’unità mistica nell’atto in cui ne rivelò l’inefficacia, e laddove il martirio di Cristo sublimò la debolezza mondana nella gloria ultraterrena, la debolezza politico-militare fu negata invece alle religioni immanentistiche rivoluzionarie, che identificavano il potere della loro fede nel potere reale. Dal punto di vista della rinascita religiosa, la rivoluzione russa segnò i termini della nuova missione evangelizzatrice dell’Occidente borghese e secolarizzato, che aveva esportato in oriente gli strumenti della politica scientificamente pensata e al servizio del nuovo credo


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materialistico 259. A seguito della disfatta bellica – che non sempre concide con la sconfitta militare, come comprova il caso del fascismo italiano – e del conseguente disfacimento dell’unità civile ed etico-politica nazionale, le forze rivoluzionarie si prefiggono lo scopo di riportare l’ordine sociale e politico. Naturalmente con mezzi eccezionali, dettati dalla bisogna. La dittatura soltanto aveva il potere di arrestare quel processo di decomposizione definitiva e di trionfo del caos e dell’anarchia. Bisognava mettere in bocca alle masse in rivolta le parole d’ordine in nome delle quali esse acconsentissero a organizzarsi e a disciplinarsi; ci volevano insomma dei simboli capaci di contagiarle. In quel momento il bolscevismo, preparato da Lenin da gran tempo, si rivelava l’unica forza in grado, da una parte, di completare la dissoluzione del vecchio ordine e di organizzare, dall’altra, l’auspicato ordine nuovo [...]. E, demagogicamente, esso seppe servirsi di tutto ciò che gli conveniva 260.

La rivoluzione comunista è dunque un parto della guerra 261, tanto che «lo stile del comunismo russo e mondiale è uscito interamente dalla guerra» 262. Come la guerra, la rivoluzione scatena e contemporaneamente imbriglia le forze del caos, e quella comunista, dopo aver scagliato le masse a travolgere tutto, le organizza quindi nella disciplina dell’idea comunista e grazie alla «simbologia magnetica del comunismo» 263. Ma, al pari della guerra, la rivoluzione è soprattutto un evento spirituale e morale, che scatena le forze elementari e irrazionali del popolo insite nella storia. La sua risposta è però anche il sintomo della irrazionalità del vecchio regime, «non più giustificato da alcuna ragione» 264. Proprio per questo suo carattere dirompente, «il senso della rivoluzione si identifica con un’apocalisse interiore della storia», che riflette «un giudizio sulla storia all’interno della storia, anzi una condanna di questa, poiché ne mette in evidenza il fallimento». Giudizio sul fallimento dell’idea di «progresso ininterrotto e graduale» 265. Anche per Berdjaev, come già per De Maistre 266, la rivoluzione «ha un significato ontologico, la cui


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essenza è pessimistica, non mai ottimistica» che «rappresenta il peccato e attesta il peccato», incarnando «la fatalità della storia, il destino irreversibile dell’esistenza storica», che mostra come «il bene si compie per effetto delle forze del male, giacché le forze positive si sono rivelate impotenti a realizzare il loro bene nella storia» 267. E qual è il «bene» espresso dalla rivoluzione russa? Il comunismo – afferma Berdjaev – contiene un aspetto giusto e sano, in pieno accordo, del resto, con la concezione cristiana: esso consiste nel considerare la vita di ogni creatura umana quale un servizio ordinato a un fine superiore, come un servizio reso non a se stessi ma al Tutto [...]. Nel comunismo c’è anche la giusta idea che l’uomo è chiamato, in unione con gli altri uomini, a regolare e a organizzare la vita sociale e cosmica 268.

Evidente la critica al sistema occidentale, borghese-liberale, alla sua cultura progressista, all’ottimismo scientista, al suo individualismo. Tutte condizioni, però, che non esistevano nella Russia zarista, né tantomeno nei suoi popoli contadini e servili. Lo stesso Berdjaev ha ammesso che «la rivoluzione russa era possibile unicamente come rivoluzione agraria, che facesse leva innanzitutto sul malcontento dei contadini e sull’antico odio che costoro nutrivano per i possidenti terrieri di origine nobile e per i funzionari» 269. Non c’è niente nella Russia prerivoluzionaria che possa motivare la repulsa popolare verso la civiltà occidentale, se non la paura della sua contaminazione. È questa la situazione rovesciata rispetto a quella fascista europea, dove «lo spauracchio» era invece il marxismo, con la sua minaccia comunista, che terrorizzò le forze contro-rivoluzionarie occidentali, che lo combatterono in nome della tradizione 270. La tensione irrazionale della rivoluzione consiste dunque nella paura della perdita dell’identità culturale, che scatena la reazione emotiva contro chi attenta a quella identità, avvertita come valore sociale unificante, (il «nemico»: interno, rivoluzione civile; esterno, guerra diplomatico-militare) e contro l’antico regime che viene ritenuto troppo debole per far fronte alla minaccia. E da qui anche il giudizio morale, contro l’ingiusta condizione socio-economica di un regime politico che non riesce più a giustificare le ragioni del suo potere, ovvero contro una classe dirigente la cui perdita di credibilità morale fa sentire la sua superiorità sociale come un iniquo privilegio 271.


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Ma proprio in considerazione della sua funzione strumentale, la rivoluzione non può essere in sé stessa un valore, che va invece ricercato in un principio superiore e trascendente gli assetti storico-politici di un regime sociale ed economico. In tal senso il servizio prestato dall’uomo al Tutto, non può essere inteso – per un cristiano, così come per un liberale osservante della religione della libertà – come servizio reso al potere politico, ma come reso a quello spirituale, cioè, finalmente, a Dio. E in questo consiste la «corruzione» della «nobile idea» avanzata dal comunismo, il «rifiuto di accordare a ogni persona umana un valore indipendente e una dignità inalienabile, la negazione insomma della sua libertà spirituale», e la riduzione della sua socialità a «forme poco meno che maniacali» che riducono «l’uomo a strumento e ad arma di rivoluzione» 272. Sarebbe dunque errato ridurre il comunismo a mero fenomeno sociale. Esso, al contrario, «è anche un fenomeno spirituale» 273 , la cui idea «d’una società senza classi e fondata sul lavoro, di una società in cui ciascuno lavora per gli altri e per tutti, in vista di un fine elevato [...] è più conforme al cristianesimo che non a quella su cui è fondata la società borghese del capitalismo» 274. Ma «il fatto che quest’idea si leghi a una concezione bugiarda del mondo che nega lo spirito e la libertà, questo fatto conduce a risultati funesti», rendendola un’idea eretica e blasfema. Infatti, il carattere religioso del comunismo, lo ha reso «antireligioso e anticristiano in essenza», poiché l’apirazione alla totalità della società e dello Stato comunisti intende usurpare la prerogativa solo divina. «Soltanto il regno di Dio può essere totale nella sua essenza; il regno di Cesare sarà sempre “parziale”. Per il comunismo invece il regno di Cesare viene innalzato a regno di Dio, proprio come avviene nel nazionalsocialismo, ma in modo più conseguente e completo» 275. Siamo al punto decisivo. La rivoluzione ha in sé una componente benigna di verità, legata alla sua aspirazione, che è anche cristiana, alla trascendenza dei valori puramente pratico-economici, sui quali è fondata la società capitalistica, che essa fa bene a combattere. Ma il suo peccato, e la sua menzogna, cioè il suo errore, consiste nel risolvere tale trascendenza nel senso dell’immanenza, negando Dio e la libertà della persona, cioè della sua creatura fatta a sua immagine, così che la forza della liberazione dal male si converte in forza diabolicamente


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opprimente gli stessi uomini liberati dal giogo sociale. Questa analisi di Berdjaev, che ha, come del resto quella di Mounier, una sua intrinseca coerenza, è viziata dalla grave quanto decisiva incongruenza relativa al ruolo della razionalità, e segnatamente di quella politica. Berdjaev ha accusato, come abbiamo visto, il comunismo di aver voluto, sulla stregua dello scientismo occidentale, razionalizzare del tutto la vita umana, non lasciando spazio al non razionalizzabile, a ciò che Bataille chiamava l’eterogeneo, ovvero tutto ciò che non era riducibile alla razionalità funzionale dell’omogeneo 276. L’aspetto religioso del totalitarismo si inscrive proprio in questo bisogno di riempire il vuoto lasciato dalla razionalizzazione della vita moderna, le cui dinamiche ottimistiche hanno ridotto il ruolo problematico della filosofia allo spirito conciliante della sintesi hegeliana, che non ammette nessuna realtà del negativo. Su questa premessa sintetica si inserisce il marxismo, (ma anche i fascismi europei, con la loro pretesa di surrogare in chiave laica il sacro assente dalla razionalità moderna) con la sua riduzione ideologica della religione a totalità politica, portando alle estreme conseguenze le premesse della razionalizzazione delle politiche liberali, cioè la politicizzazione progressiva e totale della società. Questa politicizzazione totale non è altro che lo sviluppo dei diritti soggettivi in senso universale, e concide con la democratizzazione integrale della società, con cui quel fenomeno totalizzante coincide. Il principio religioso della totalità spirituale viene surrogato dal principio secolaristico della totalità politica, che sostituisce alla grazia divina la forza del potere, alla volontà graziosa del Creatore, la volontà fatale del demiurgo politico. Questo è il senso profondo della «lotta contro la trascendenza» (Nolte) condotta dai totalitarismi nella loro riduzione immanentistica del potere, che da provvidenziale diventa politico. Tale riduzione consiste nella eliminazione del mistero implicito nella imponderabilità umana del disegno divino, ovvero nella razionalizzazione della vita umana, che ha per campo fenomenologico non più la natura antica o la ebraico-cristiana valle di lacrime, ma la Storia, la realtà di cui vichianamente e crocianamente è artefice l’uomo. Razionalizzazione e storicizzazione dunque coincidono con politicizzazione ed economicizzazione della vita umana ridotta a espressione della pura volontà, in prassi 277.


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3. Con la Prima Guerra mondiale e la rivoluzione russa, la storia contemporanea, afferma Berdjaev, «si sta concludendo, e inizia un’era ignota», nella quale è mutato il «ritmo della storia», che oggi si dispiega sotto un segno «catastrofico» di «dissoluzione» spirituale dei valori moderni che precede il dissolvimento delle acquisite sicurezze materiali 278 . L’Europa, senza più «le antiche e secolari fondamenta» cede all’influenza di civiltà lontane e straniere, contro la quale non può opporre più barriere di benessere e utopie progressiste, «che hanno sedotto il XIX secolo» ma che odiernamente sono del tutto incredibili 279 . Ma la crisi della civiltà europea non ha ragioni contingenti, bensì segna il tramonto di una civiltà, quella appunto moderna, «che venne concepita all’epoca del Rinascimento», il quale «non era solo un insieme di creazioni eminenti, ma rappresentava anche un tipo completo di cultura e di “sentimento dell’universo”, per cui la fine del Rinascimento, è la fine di tutta un’epoca storica... e non solo l’estinzione di tale o talaltra forma creativa». La fine cioè di quell’umanesimo che era la sua base spirituale 280. L’umanesimo era minato da intestine e paradossali «contraddizioni distruttive», che hanno «debilitato» anziché rafforzare l’uomo, minandone la fede e la credibilità nelle proprie possibilità assolute, private di ogni autorità 281. Berdjaev anticipa e conferma, con questa diagnosi, la lucida analisi su La situazione spirituale del tempo di Jaspers, che, diversamente da Husserl, individuava «nella crisi delle scienze» contemporanea una crisi antropologica, prima che scientifica, ovvero «una crisi degli uomini, che si riverbera sulle scienze stesse», provocandone uno «stravolgimento del senso» 282, per cui «non è lo sviluppo immanente delle scienze che può spiegarne esaustivamente la crisi, quanto piuttosto l’uomo, per il quale la situazione scientifica ha un senso. Non la scienza di per sé, ma l’uomo che pratica la scienza è in crisi» 283. La ragione «sociologica e storica» di questa crisi spirituale, veniva individuata da Jaspers nella condizione «dell’esserci di massa» propria del tempo, che opera una trasformazione del «pensiero un tempo vivente» in una «funzione esercitata da migliaia di persone, una specializzazione che si configura come corporazione professionale» che si traduce in «mediocrità», ovvero nello «stravolgimento del senso della ricerca e della letteratura scientifica» 284. La scienza delle università


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massificate è svuotata di senso spirituale, perché segue «l’esserci meccanizzato delle masse», le quali perseguono esclusivamente scopi pratici, che «annientano la scienza in quanto scienza», riducendola, da «inquietudine spirituale» a «obiettività intellettiva dello scibile», da «istruzione superiore» a mera «istruzione» di massa, coi suoi «piani di studio obbligatori [che] dispensano i singoli dal rischio connesso alla ricerca autonoma d’una propria strada», cioè al «rischio della libertà» senza il quale «non si dischiude neppure la possibilità d’un pensiero originale», ma solo «un virtuosismo della tecnica specialistica e, forse, una grande erudizione», che è la negazione della autentica ricerca scientifica, che consiste in una «missione aristocratica alla quale sono chiamati quanti riescono a selezionarsi da se stessi» 285. La storia moderna nata dal Rinascimento, afferma Berdjaev, fu «l’esperienza della libertà umana», una «via libera e indipendente» staccata dal «centro religioso al quale tutta la sua vita era stata sottomessa durante il Medioevo» 286. In realtà, la presunta «scoperta dell’uomo» avanzata dalla modernità, ha prodotto una sua «caduta» dalla «profondità» del suo «centro spirituale» alla «superficie» dell’esistenza, provocando la «rovina della sua costituzione organica» con l’essere e l’esaltazione di «centri vitali fasulli» 287. Ma lo stesso spirito rinascimentale della riaffermazione di antiche forme culturali pagane era intriso di aspirazioni cristiane al trascendente, pregne di quell’idea del peccato che è preludio alla redenzione 288, per cui «nell’Europa cristiana il paganesimo non poteva essere un’esperienza profonda», ma solo costituire una complicazione dell’anima europea, senza poterle imporre l’antica unità della civiltà pagana. «Nulla di veramente classico, di perfettamente compiuto sulla terra, è possibile nel mondo cristiano», per cui «l’umanesimo ha liberato le energie umane; ma non si può dire che, spiritualmente, abbia elevato l’uomo: lo ha svuotato» 289. In questo senso si può dire che la fioritura rinascimentale dello spirito umano fu una esigenza nata nel seno della cultura cristiana, che si manifesta nella fase iniziale dei santi Domenico e Francesco, di Gioachino da Fiore e san Tommaso, di Dante e di Giotto «in una fioritura profumata di santità, che è la più grande elevazione che lo spirito creativo dell’uomo possa raggiungere», per finire nella perdita della fede dell’uomo in se stesso, allontanandolo dalle «sorgenti


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spirituali della vita». Così che «nella storia moderna, il trionfo dell’uomo naturale sull’uomo spirituale doveva condurci alla sterilità creativa, cioè alla fine del Rinascimento, all’autodistruzione dell’umanesimo» 290. Se l’ascetismo del mondo cattolico medievale aveva preparato la fioritura dell’umanesimo, «l’esaurirsi del Rinascimento nella storia contemporanea, lo spegnersi della sua energia creativa, sono la conseguenza del suo allontanamento dal cristianesimo e dall’antichità», che provoca il suo inaridimento spirituale e la sua caduta 291. Esiste una «dialettica» interna alla modernità, propria della scissione rinascimentale dell’uomo naturale dall’uomo spirituale, tale che «l’affermazione dell’uomo senza Dio e contro Dio, la negazione dell’immagine e della somiglianza divina nell’uomo conducono alla negazione e alla distruzione dell’uomo [e] l’affermazione del paganesimo contro il cristianesimo conduce alla negazione e alla distruzione dell’antichità» 292. Il processo di decadimento della civiltà rinascimentale è proprio dell’uomo europeo moderno, che esaurisce «fino all’ultima, tutte le illusioni umaniste, per giungere, al culmine della sua storia, all’autodistruzione, al crollo delle fondamenta stesse dell’identità umana» 293. Infatti, «il volto dell’uomo non può essere salvaguardato dalle potenze dell’uomo naturale; richiede l’uomo spirituale» 294. La malattia della storia moderna è «l’individualismo privo di base spirituale», che «rende privo di oggetto tutto il senso della volontà umana, rivolto d’ora in poi verso il nulla, senza scopo», trasformando «l’anima umana in un deserto» 295. Ma, per una sorta di eterogenesi dei fini, «nella vita storica dell’umanità, non si realizza mai ciò che l’uomo si propone come scopo. Ma, a sua insaputa, si creano valori enormi, che egli non avrebbe mai previsto» 296 . Così, nel corso moderno, la dialettica dell’umanesimo rivela «un problema colossale, al centro del quale stava il tema dell’uomo», che rende il senso dello stesso umanesimo: «l’uomo doveva passare attraverso la libertà e, nella libertà, accettare Dio» 297. La decadenza dello spirito rinascimentale comincia a partire dalla fine del sec. XIX, quando «il gioco libero e impetuoso delle traboccanti energie dell’uomo è giunto al termine», allorquando si profila nettamente che «l’uomo che ha abusato della cultura non è l’uomo di un rinascimento, bensì di una decadenza»; decadenza che si configura come «una delle forme della


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fine del Rinascimento» 298. Questa forma si presenta come un «umanesimo astratto, separato dal fondamento divino della vita», come «atomizzazione della società umana», i cui due estremi sono l’individualismo e il socialismo 299. Il cammino dell’umanesimo nei tempi moderni coincide con il passaggio dell’uomo dalla concezione spirituale, dove tutto è organicamente congiunto, all’astrazione che divide, dove l’uomo si trasforma in atomo isolato. In questo passaggio da concreto all’astratto, l’uomo della nuova storia sperava di ottenere la propria liberazione, di affermare la propria individualità, di acquistare una energia creatrice. L’uomo ha voluto emanciparsi, sbarazzandosi di quella grazia divina che aveva costruito la sua immagine e che lo nutriva spiritualmente. L’umanesimo astratto è questa scissione dalla grazia, la negazione della grazia; la vita fuori della grazia è una vita astratta. Ed è su questo terreno che si fondano tutte le illusioni dell’umanesimo. Tutto quanto appare all’uomo come liberazione, come recupero dell’individualità e dell’energia creativa, non è altro che una sottomissione del suo essere spirituale al turbine naturale, una disgregazione della personalità. E ciò si verifica in modo definitivo al culmine della storia moderna 300.

La modernità è dunque questa tendenza a trarre l’uomo concreto dalla sua relazione organica coi suoi legami spirituali per considerarlo «in maniera astratta, come se si trattasse di un atomo della natura chiuso su se stesso», la quale tendenza «doveva condurre inevitabilmente a un individualismo estremo e a un socialismo estremo, che sono due forme dell’atomizzazione, della decomposizione astratta della società e della personalità» i cui campioni filosofici sono Nietzsche e Marx 301. Sia il superomismo individualistico nietzscheiano che il sovrumano collettivistico marxiano sono due forme opposte di sostituzione del «Dio perduto» 302 e di «smascheramento delle illusioni umaniste» di un «umano che è sufficiente a se stesso» 303. Ma a cosa è dovuto la disgregazione della civiltà rinascimentale, delle sue pretese di edificare un regno solamente terreno, «di creare una vita perfetta, felice e bella in questo regno umanista»? Ecco che nella risposta a questo cruciale interrogativo ritroviamo le fonti della interpretazione jaspersiana della crisi moderna. Infatti, Berdjaev vede «l’allargamento e l’estensione del regno umanista», cioè «la sua democratizzazione» come le condizioni «fatali alla sua esistenza» di «società umana selezionata». Quello che


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costituiva ancora una possibilità di esaltazione della libertà umana nel segno della creazione spirituale, diventa con l’Illuminismo e la rivoluzione francese, che «hanno introdotto il livellamento nel regno umanista», la ragione della sua «disgregazione interna», la sua «entropia» 304. La decadenza del Rinascimento coincide dunque con la fine della «struttura organica della vita gerarchizzata» e l’inizio della «secolarizzazione e meccanizzazione..., scambiata per liberazione delle energie creative dell’uomo», mentre in realtà solo conseguenza della fuoriuscita dallo stato organico 305. Infatti, «quando le parti si separano dal tutto e cessano di essere a servizio del centro organico, allora, insensibilmente, si sottomettono a una natura inferiore» 306. Questa legge ontologica è all’origine delle trasformazioni storico-sociologiche della modernità, partita dall’esaltazione rinascimentale della creazione elitaria dello spirito umano per terminare con «l’ingresso trionfale della macchina e la meccanizzazione della vita», che inagurano l’epoca nuova della Zivilisation 307, la quale capovolge gli intenti naturalistici del Rinascimento, di imitazione delle forme della natura, dichiarando «guerra alla natura», diventata interiormente estranea all’uomo, che «la considera un meccanismo morto» interponendo tra lui ed essa «la macchina» 308. È da questa situazione spirituale che nasce il socialismo, quale risposta alla «dissoluzione» e «disgregazione» dell’individualismo, del quale rappresenta «l’altra faccia» della sua «interna fatalità dialettica» ostile «a una concezione organica del mondo» 309. Al centro della visione socialista c’è il «pathos del lavoro collettivo e organizzato», che fa pendant col «pathos dell’individualità creatrice» e sostituisce quella che un tempo era la centralità religiosa 310. Il dato saliente del socialismo è la nuova considerazione tutta economica che si ha dell’uomo, la cui attività creatrice viene concepita ora come «riflesso» delle sue condizioni di benessere. Così, all’uomo dell’umanesimo si sostituisce la classe sociale, che ne è la sua «negazione» in quanto lo configura come «strumento della collettività sociale e del suo sviluppo», rinnegando «la cultura umanista nel suo insieme», mettendone a nudo, del suo edificio, «le fondamenta, che risultano essere l’economia e gli interessi economici delle classi», e pertanto «l’uomo viene dissolto nei suoi interessi» 311. Con il socialismo ha termine l’illusione


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rinascimentale di una possibilità dell’uomo di essere creatore senza Dio, ma anche della sua libertà individuale, poiché «il Rinascimento era aristocratico, era opera di uomini che non erano sottomessi alle necessità dell’esistenza», mentre «nel sistema socialista, ogni esuberanza creativa viene disciplinata e sottomessa a un centro materiale», rappresentato dalla collettività, che è il contrario dell’umanità nata dalla «proclamazione dei diritti dell’uomo, dell’individualità umana, innanzitutto nelle scienze, nelle arti, nella vita intellettuale, e quindi nella vita politica» 312. Con il collettivismo, invece, «ogni forma di pensiero rivela una costrizione e viene sottoposta a un accentramento sociale di tipo confessionale», provocando «un ritorno al Medioevo, ma non su base religiosa, bensì sulla base materialista dell’irreligiosità» 313. L’analisi di Berdjaev, nel sottolineare l’esito dialetticamente opposto degli intenti originarii dello spirito rinascimentale, introduce nella storia moderna una sorta di legge di contrappasso, costruita appunto su coppie antitetiche e quindi contraddittorie – individuo/collettività, libertà/costrizione, creatività/regolamentazione, Medioevo/modernità, Stato/anarchia, aristocrazia/democrazia –, ognuna delle quali rappresenta un momento della verità dell’insieme dell’esistenza umana, ma la cui parzialità assolutizzata si converte in tendenza distruttiva dell’ordine umanistico, o della società umana tout court. Di ogni riporto negativo si può individuare l’elemento essenziale, costituito dalla disgregazione dell’originaria condizione organica dell’esistenza umana, religiosamente fondata. Disgregazione che è il risultato di una «passione» ideologica (l’uguaglianza democratica) e affettiva (invidia che nega l’essere dell’altro) che conduce al nulla 314. Dalla situazione spirituale del nostro tempo, si può desumere una verità ontologica, che risulta comprovata dall’esperienza storica della modernità, secondo la quale «l’uomo senza Dio cessa di essere uomo: questo – per Berdjaev – è il senso religioso della dialettica interna alla storia moderna», che diventa ai suoi occhi la «storia della grandezza e della decadenza delle illusioni umanistiche» 315, fondate appunto sulla credenza di poter fare a meno di Dio, mettendo al suo posto l’uomo, creatore di realtà e depositario della verità etsi Deus non daretur. «In questo stato di separazione» da Dio, afferma Berdjaev, «svuotato della propria anima, l’uomo diventa schiavo non già delle forze superiori,


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sovraumane, bensì degli elementi inferiori e inumani» 316. È questo dunque il senso metafisico della decadenza contemporanea, sedimentatasi lungo il corso della modernità quale processo di allontanamento dall’organicità religiosa che poneva Dio al centro dell’esperienza umana. La religione non è una semplice fede nel trascendente – e Berdjaev sottolinea il valore civilizzatore del cattolicesimo, suscitatore di «bellezza e gloria sulla terra», nei rispetti dell’ortodossia orientale, che si limita a «guidare l’uomo verso il cielo» 317 –, ma è l’ispirazione delle forme ideali e quindi della stessa identità umana 318. Questa funzione teoretica e morale della religione, e segnatamente di quella cristiana, ne giustifica non solo il ruolo sociale, ma anche la considerazione infra-storica quale barriera offerta all’uomo «contro il cattivo infinito del caos» 319, ovvero la smodatezza di una libertà, pur necessaria, ma informe, e dunque «inferiore» 320. È questo il senso dell’«imbarbarimento del mondo europeo» dei nuovi tempi, «dopo la [sua] raffinata decadenza che [ne] segnò l’apogeo della cultura». Ora l’Europa, dopo il congedo da Dio, è «senza difesa di fronte all’invasione barbarica», «nuda» al cospetto del suo «destino», sul quale la guerra mondiale ha giocato «un ruolo fatale» in similitudine col periodo della «caduta dell’impero romano» e «la fine del mondo antico» che schiude «l’avvento di una nuova epoca religiosa» 321. Anche Berdjaev, come Spirito, accusa la disfatta del cristianesimo, ma diversamente dal filosofo fascista approdato al comunismo, il Russo riafferma la verità di una promessa riservata a un mondo non storico, liberando così l’umanità dalla tentazione utopistica di costruire la Gerusalemme terrena, che pervade l’animo di chi non assume il cristianesimo come l’essenza della stessa umanità liberata dai demoni del naturalismo pagano. Per Berdjaev, invece, convinto che «nel cristianesimo, l’antropologia non è ancora esaurita», e che anzi sia «questo il senso del problema antropologico posto dall’umanesimo moderno», «una rigenerazione spirituale dell’uomo e delle sue opere può essere oggi concepita solo attraverso un approfondimento del cristianesimo, attraverso un’ultima rivelazione dell’immagine del Cristo nell’uomo, fedele alla rivelazione cristiana della personalità umana» 322. La nostra è un’epoca di transizione, che segna «la fine dei tempi


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moderni e l’inizio di un nuovo Medioevo» 323 inteso come «il cambiamento di epoca, il passaggio dal razionalismo dei tempi moderni a un irrazionalismo, o a un superazionalismo, di tipo medievale» 324. Come lo Hegel della Fenomenologia di fronte all’irruzione storica di Napoleone, Berdjaev afferma prima di Ortega e di R. Aron, che «tutte le categorie atte a comprendere il giorno solare che ormai se ne va non sono di alcuna utilità per orientarsi tra gli eventi e i fenomeni della nostra storica ora serale» 325. Ma per il filosofo russo sono gli stessi «princìpi spirituali della modernità [che] sono logorati, [e] le sue forze spirituali esaurite» 326, intendendo per essi le correnti razionalistiche. «L’ordine storico costruito dalla civiltà antica», nella presente ora «notturna», che «porta con sé i segni della barbarie [...] è stato invaso dalle forze del caos» 327, ed egli è «profondamente convinto che non ci possa essere ritorno né al modo di pensare né alla forma di vita che erano dominanti prima della guerra mondiale, della rivoluzione [russa] e degli sconvolgimenti che hanno interessato non solo la Russia, ma anche l’Europa e il mondo intero» 328. Il mondo moderno attraversa una «gigantesca rivoluzione dello spirito», che è ben altro della «putredine reazionaria del vecchio mondo» della rivoluzione comunista 329. Questa più profonda rivoluzione epocale e spirituale si appella a «un rinnovamento totale della coscienza» 330, ed è anzitutto semantica, e riguarda le stesse nozioni di «progresso» e di «regresso», di «reazione» e di «rivoluzione», di «destra» e di «sinistra» di fronte agli «autentici fondamenti dell’esistenza» 331. Il ritorno al passato non è proponibile nei termini di un «ritorno ai principi moderni... che ora si dissolvono», ma «si può tornare a ciò che, nel passato, è eterno» 332. Fossilizzare i princìpi della modernità: ecco una «reazione», nel senso peggiore del termine, e un ostacolo sul cammino della creatività. Il vecchio mondo che si disfa, e al quale non si può tornare, è proprio quello della storia moderna, con il suo illuminismo razionalista, il suo individualismo e il suo umanesimo, il suo liberalismo e le sue teorie democratiche, le sue brillanti monarchie nazionali e le sue politiche imperialistiche, il suo mostruoso sistema economico industriale e capitalistico, gli apparati della sua immensa tecnica, le sue conquiste esterne e i suoi successi pratici, la concupiscenza sfrenata e smisurata della sua vita pubblica, il suo ateismo e il suo sovrano disprezzo dell’anima, la sua brutale lotta di classe e, per finire, il suo socialismo,


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coronamento di tutta la storia contemporanea 333.

Il valore dominante della modernità, della «autoaffermazione umanista», che ha costituito «un momento essenziale nei destini dello spirito umano», è stato «l’esperienza della libertà propria del mondo moderno, con tutte le conquiste di cui le siamo debitori nell’ordine della coscienza e con il grande affinamento dell’anima che ha prodotto» 334. La natura discorsiva dell’argomentazione di Berdjaev non consente sempre una ponderata disamina delle affermazioni contenute nelle sue spesso fulminanti affermazioni, ma certo è che le intuizioni sono vivide e sagaci, a volte illuminanti e rivelatrici di un sotterraneo profondo travaglio di pensiero. Una di queste «verità» riportate da Berdjaev è che «non esiste neutralità religiosa, pura assenza di religione», ma l’assenza di Dio lascia l’adito alla religione del Diavolo, a quella di Cristo, l’Anticristo, secondo una tipica movenza dostoevskijana 335, ma resa più drammatica da una analisi che vuole prendere non solo a pretesto la storia europea, bensì disvelarla nei suoi intrinseci motivi di decadenza. La modernità segna la crisi dell’umanesimo anche sullo stretto terreno religioso, in quanto viene meno l’ipotesi di una medietà agnostica tra l’affermazione e la negazione di Dio, come pure l’istanza privatistica della fede affermata dai «sistemi di indipendenza e di laicità dei tempi moderni», che hanno condotto al comunismo, il quale, esigendo «una società sacrale, una sottomissione di tutti gli aspetti della vita alla religione del Diavolo, alla religione dell’Anticristo», costituisce «la prova» della necessità di una scelta pascaliana pro o contra Dio. In questo pari, Berdjaev vede il segno dello «immenso significato del comunismo», che «supera i limiti della storia moderna e inaugura un sistema completamente diverso», di tipo «medievale», dove si scatenerà «una lotta religiosa» estrema 336. Si farebbe un torto non solo a Berdjaev ma alla intelligenza storica se si volesse relegare nella storia teologica il significato di queste profonde affermazioni filosofiche, le quali, sia pure in un linguaggio spesso figurato e pittoresco, proprio di chi come russo partecipa alla distanza alla nemesi della decadenza europea, chiariscono il senso della totalità coinvolta nella lotta politica contemporanea; una totalità che, in quanto tale, è appunto religiosa. Quando afferma che «la Russia non è mai


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interamente uscita dal Medioevo, epoca del sacro, e ha compiuto, per così dire, un salto senza transizione dalle vestigia del vecchio Medioevo, dalla vecchia teocrazia, al nuovo Medioevo, alla satanocrazia» 337, Berdjaev non enuncia aforisticamente intuizioni sapienziali, legate a una sfera di valori e credenze non razionalmente oppugnabili, ma riduce ad immagini allegoriche, quasi icone filosofiche, il senso di un processo storico attraverso il quale il filosofo coglie l’origine ideale e il sociologo della storia le ricadute istituzionali, e senza il quale, di contro, non si spiegherebbero i termini essenziali di quella totalità propria della ideologia e della realtà socio-politica dei totalitarismi. Termini che per l’appunto non possono che essere il portato di una dimensione religiosa della vita che la modernità aveva cercato di ridurre o svalutare o privatizzare, e che invece, come forza intestina e sotterranea a una civilizzazione elitaria, erompono travolgendo le fragili barriere intellettuali che per secoli avevano circondato lo spirito europeo, a esclusione di quelle masse democratizzate e nazionalizzate protagoniste, prima della scena militare e ora della scena politica del mondo. L’intelligenza storica di Berdjaev si palesa nell’atteggiamento – similare a quello di un altro critico eccellente della decadenza europea, Ortega y Gasset – di conservazione dell’esperienza del moderno all’interno di una linea interpretativa che possiamo chiamare di teofania secolarizzata, la quale riportando la questione religiosa a chiave ermeneutica della storia moderna e contemporanea, attualizza una visione cristologica dell’esperienza umana altrimenti consegnata alla pura fede, e quindi alla visione apologetica e alla relativa damnatio temporis. Berdjaev, novello Bossuet dell’Ortodossia, diversamente da un De Maistre, pure apprezzato, o da un De Bonald, non si ferma allo stigma della modernità degenerata, ristando su un suo punto di osservazione interno, ma, da russo non occidentale e periferico, coglie le movenze della storia dell’Europa moderna con il distacco dell’escluso e con la sensibilità dell’osservatore moralmente partecipe, quasi come un immedesimato antropologo che registri i termini del percorso ideale di una civiltà ormai all’apogeo della sua stessa decadenza. E dalla sua analisi emerge inequivocabilmente il senso stesso della possibilità della sua partecipazione morale, legata alla comune appartenenza – del critico e della civiltà in decomposizione – alla spiritualità cristiana, la quale


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pertanto fa da sfondo categoriale, e quindi da orizzonte ermeneuticoculturale, alla fenomenologia di quella decadenza epocale. La visione cristiana di Berdjaev ripropone, con la lettura della crisi dell’Europa moderna, anche il relativo valore assiologico che funga da parametro della decadenza e da tensione teleologica verso il suo superamento dopo il nuovo Medioevo conseguito alla civiltà umanistica come un tempo era conseguito alla civiltà classica. In questa prospettiva cristiana, la decadenza resta confinata alla dimensione naturalistica e umanistica di un’esperienza storica lontana dalla redenzione cristologica, e non necessariamente consustanziale alla vita umana in quanto tale. Pertanto, nonostante il peccato d’origine dell’uomo, la sua salvezza dalla decadenza è possibile all’interno di una prospettiva non confinata alla storia naturalisticamente intesa, cioè ai rapporti politici ed economici, ma sacralizzata dalla presenza divina e perciò trasvalutata nella dimensione spirituale trascendente quella della storia stessa. L’ateismo, l’immanenza e l’umanesimo naturalistico – da cui il materialismo e il collettivismo comunistici – sono derivazioni logiche, prima che sociologiche, della definizione di una antropologia che non considera l’evento salvifico del Cristo come discrimine eterno tra l’essere finito e l’essere spirituale. Solo nella dimensione spirituale è possibile infatti superare la finitezza della dimensione naturalistica e inserirsi nell’orizzonte infinito della storia della salvezza. Solo l’uomo spirituale può essere protagonista di una storia non soggetta a decadenza irrimediabile come quella degli istituti storici, ma solo di una eclissi dei valori che può però, diversamente dai prodotti dell’uomo meramente sociale, essere suprata per riaprirsi alla speranza della rinascenza. In questo preciso significato, la rinascenza spirituale diventa l’unico possibile riscatto della decadenza storica, altrimenti fatale e irrimediabile se pensata come ripristino di antiche forme di civiltà erose dallo sviluppo della loro stessa storia. La crisi della cultura moderna, che si è consumata nel sec. XX, non deriva dalla mancata unificazione giuridica o scientifica, anzi queste sono conquiste della civiltà di cui «il XIX secolo è andato orgoglioso». Quello che «i tempi moderni non hanno saputo realizzare è un’effettiva unità interiore» 338 dello spirito, lacerato dall’individualismo e dall’atomismo, che hanno corroso le società moderne in lotte intestine


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di «uomo contro uomo, classe contro classe» 339. La libertà, intesa come autonomia individuale e di «ogni sfera culturale», è il frutto della «secolarizzazione della società» 340 e della «emancipazione dalle vecchie teocrazie autoritarie, dalla vecchia nozione di dipendenza», ma essa non si fonda su un presupposto ontologico e imperituro, ma ritiene di basarsi su se stessa e quindi su «un vuoto totale». Infatti, «non si può liberare l’uomo in nome della libertà umana, poiché l’uomo non può essere il fine dell’uomo». Da qui la «riforma negativa» dell’individualismo liberale moderno, che fa apparire la libertà umana come «una semplice formula priva di consistenza» 341 ideale, cioè di un fine trascendente. L’esito di questo processo è «l’abbassamento e la morte della personalità», il «livellamento» e la «mediocrità» operati dal «movimento egalitario, che cancella ogni differenza tra gli individui», ridotti ad «atomi sociali», il cui «amalgama meccanico» è il socialismo, «fase inversa della scomposizione» atomistica dell’individualismo, il quale «sradica la personalità dal suo terreno essenziale e la condanna ad essere in preda ai venti del caso». Perciò, se la fine della personalità universale, che «può esistere solo là dove esiste Dio e il divino», ha segnato la fine del Medioevo, «la fine dello spirito individualista è la fine della storia moderna» 342. Il liberalismo, la democrazia, il parlamentarismo, il costituzionalismo, il formalismo giuridico, la filosofia razionalista ed empirica – tutti prodotti dello spirito individualista e dell’autoaffermazione umanista – hanno fatto il loro tempo e perso il loro significato originario: tutto ciò rappresenta il declino del giorno che si è chiamato storia moderna [...]. L’individualismo aveva incatenato l’uomo a se stesso, attraverso figure che separavano l’uomo dagli altri uomini e dall’insieme del mondo. Queste catene ora si spezzano, queste figure si eclissano [...]. L’uomo ha cessato di credere di potersi salvaguardare e di essere autosufficiente solo perché possiede il pensiero razionalista, la morale laica, il diritto, il liberalismo, la democrazia e il parlamento. Tutte queste forme, al contrario, non fanno che indicare il grave dissenso che travaglia l’umanità, l’assenza di spirito unitario. Vediamo che si tratta di forme per legalizzare la disunione, per lasciarsi mutualmente isolati e in pace, e per restare indifferenti di fronte alla scelta della verità. [Esse, infatti] sono altrettante forme di pensiero e di vita le quali hanno per fondamento l’ipotesi che la Verità è inconoscibile e che forse non esiste. Vale a dire che non vogliono conoscere la Verità 343.


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Arriviamo al centro del discorso critico, allo stigma dell’abdicazione della civiltà umanistica dalla ricerca e dalla conoscenza della verità, rispetto alla quale «incapacità di vivere nella Verità», i rimedi istituzionali non sono che palliativi inconsistenti e precari. Ma anche contraddittori, dal momento che «nella verità è compresa la libertà». Ma cos’altro è la democrazia umanista, se non la proclamazione del diritto all’errore e alla menzogna, un relativismo politico, una sofistica, un modo di affidare il destino della Verità alla maggioranza dei voti? E cos’altro è la filosofia razionalista, se non la fiducia piena nella ragione individuale, caduta dal trono della Verità e separata dalle sorgenti dell’essere, se non ancora l’affermazione del diritto, per il pensiero, di non desiderare la Verità né di attendere dalla Verità il potere della conoscenza? Che altro è il parlamento, se non la legislatura del dissenso, il predominio dell’«opinione» sul «sapere» (nel senso platonico), l’incapacità di vivere nella Verità? 344.

La Verità, con la maiuscola, è quella cristiana, la quale, nondimeno, non va imposta ma scelta responsabilmente, laddove la libertà moderna, «tutta teorica», sceglie di non scegliere, «non vuole fare la propria scelta, ed è per questo che ha costruito dei tipi di pensiero e di vita fondati non sulla Verità, ma sul diritto di scegliersi qualunque verità o menzogna, vale a dire di creare una cultura senza oggetto, una società senza oggetto, di cui non si sa in nome di che cosa esse esistano» 345. Ogni attività, ogni «energia», è stata indirizzata «verso l’esterno», cioè verso l’oggettivazione della vita spirituale, uccidendo la «simbologia sacra della Kultur» e limitandosi alla superficialità della Zivilisation, in cui «non è più la Chiesa ma la Borsa la forza che domina e regola la vita», con «il centro di gravità dell’esistenza [che] passa dalla sfera spirituale alla sfera materiale, dalla vita interiore alla vita esteriore» e con uomini che «si considerano liberati dalla follia del sacro [...]. La guerra mondiale, con tutto il suo incredibile orrore, è il frutto di questo sistema», che ha liberato i popoli europei dalla «ipnosi del sistema industriale» 346. Berdjaev riteneva finito il capitalismo, considerandolo l’espressione apicale dell’età moderna, e credeva nell’inizio di un nuovo medioevo, caratterizzato da «una cultura materiale più semplificata ed elementare,


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e [da] una cultura spirituale più complessa» 347. Infatti, la Guerra mondiale ha portato in evidenza estrema il nazionalismo nato dalla Riforma protestante, la quale, disgregando l’universalismo cattolico, ha fatto trionfare, coll’individualismo, il nazionalismo, il classismo, il partitismo la filosofia del nominalismo sul realismo medievale, provocando la «retrocessione dal monoteismo cristiano al politeismo pagano». E pertanto, con lo sviluppo del nazionalismo, «la fede nel Dio vivente si andava spegnendo, e si è cominciato a credere in un dio menzognero, nella nazione come idolo, mentre altri credevano nel peggiore degli idoli, l’internazionalismo» 348, che è «la caricatura abietta dell’universalismo» 349. Il popolo russo, secondo Berdjaev, è lo spirito «il più universalista» tra quelli cristiani, e la sua «vocazione» «deve essere quella di lavorare all’unificazione mondiale, alla formazione di un unico cosmo spirituale» 350. Nondimeno, esso è però esposto alla duplice tentazione: «l’internazionalismo esclusivo, che distrugge la Russia, e il nazionalismo, non meno esclusivo, che separa la Russia dall’Europa» 351. Occorre superare le «tentazioni peggiori» al fine di «superare i blocchi nazionali e di creare l’unificazione mondiale segnando la fine della storia moderna» e inaugurando «il nuovo Medioevo», del quale «l’internazionalismo comunista è già un fenomeno», al pari delle tendenze ecumeniche presenti nel mondo cristiano 352. La nuova spiritualità universalistica passa attraverso la Chiesa, che sarà, come nel Medioevo, «il centro spirituale, nel prossimo avvenire». Infatti, afferma Berdjaev, «la crisi della cultura» consiste proprio nella sua indecisione tra «civiltà atea e anticristiana» e una «trasfigurazione cristiana della vita», improntata a una «cultura sacra, animata dalla Chiesa» 353. Berdjaev sottolinea di continuo che il nuovo Medioevo non ha niente dell’antico, se non la tensione verso la trascendenza, cioè la dimensione religiosa della vita, andata smarrita nell’attuale «epoca di decadenza», nella quale «tutte le attività autonome della civiltà e della vita sociale sono pervenute al vuoto e al nulla», esauritosi «il pathos della creatività indipendente e secolarizzata», per cui la nuova epoca succeduta a quella moderna avrebbe tutti i tratti di un «ricorso» vichiano della prima epoca medievale, caratterizzato da un «ritorno a un tipo religioso più elevato», di «collettività religiosa», arricchito della esperienza della libertà propria della cultura moderna. Questa, indicata come il «regno


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dell’umanesimo», si è divisa in due parti essenziali, «un comunismo estremo, antiumanista e ateo» e «la Chiesa di Cristo chiamata ad accogliere in sé ogni essere autentico» 354, in nome di una «libertà nella religione», ovvero di una «libera teonomia, distinta tanto dall’autonomia [dello spirito laico dalla religione] quanto dall’eteronomia [delle antiche teocrazie]» 355. Quello che Berdjaev propone non è, insomma, «l’autonomia dello Stato e della società di fronte alla religione, ma il fondamento e il consolidamento dello Stato e della società nella religione», che deve riporre Dio «al centro di tutta la nostra vita», così che la «sete di una libertà senza limiti ha bisogno di comprendersi come un conflitto con il mondo, non con Dio» 356. Le catastrofi militari, così come le rivoluzioni, dice Berdjaev, non sono che il segno esteriore della «crisi interiore della civiltà» moderna, che ha distrutto il «simbolismo della cultura [sacra], in cui si incarnavano la sua grandezza e la sua bellezza», per mezzo di una «civiltà realista» imbevuta di «vita e di potenza», che ha cercato di «trasfigurare la cultura in realtà ontologica», provocandone appunto la «crisi», cioè «un abbassamento delle forme secolarizzate della cultura, dell’arte, della filosofia ecc.» 357. La stessa religione, che modernamente «era diventata, anch’essa, una parte distinta della cultura [...] deve diventare di nuovo una totalità, una forza capace di trasfigurare e illuminare dall’interno tutta la vita». Da qui il ruolo anticipatore degli intellettuali, che «esattamente come al tempo dei grandi dottori della Chiesa», avranno il compito di «ritornare alla fede», dalla quale si è invece allontanato il popolo, «sedotto dall’insegnamento ateo e dal socialismo» 358. Un ruolo d’avanguardia, che si distinguerà dalle fruste pratiche intellettuali dell’accademia ufficiale, che la nuova realtà che preme ha ormai messo «ai margini della vita», al pari della «politica parlamentare» 359. Il pensatore russo è cosciente della posizione arretrata della cultura cristiana e, per quanto confidente nelle possibilità non del tutto esaurite della sua antropologia e cosmologia, si fa fautore di una conversione dei valori dominanti, non in senso tradizionalista – e qui risiede la sua originalità rispetto a posizioni passatistiche alla de Maistre – ma in senso trascendente. Non prende posizione a favore delle tesi in competizione, tra legittimismo e democratismo, entrambi ritenuti «in fondo idee individualiste [...] dell’autoaffermazione umanista», ma


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propone una legittimazione del potere sulla base dei doveri, anziché dei diritti, non avendo «lo zar o la nobiltà... maggiore diritto umano al potere», la cui «bramosia» è comunque «un peccato», mentre, viceversa, esso «è giusto solo se viene rivendicato non in nome proprio, o della propria parte, ma esclusivamente in nome di Dio, in nome della Verità» 360. Negli stessi termini, deve ripristinarsi il principio gerarchico, ripudiato dalla storia moderna «su tutti i piani» 361, e la spontaneità politica «delle personalità e dei gruppi», che dovranno avere la meglio sui vecchi partiti politici e i parlamenti, che «devono scomparire definitivamente, con la loro attività fittizia e vampiresca, con le loro escrescenze costruite sul corpo del popolo, incapaci come sono di svolgere alcuna funzione organica» 362. L’organicità della funzione dirigente andrebbe dunque trasferita dalla classe politica, che vive del consenso estorto alle masse, ai nuovi mediatori sociali religiosi, secondo un indubbio schema platonico già ereditato dai chierici medievali. Quanto all’avversione verso gli istituti della libertà moderna, è legata alla loro denunciata complessità, che ha creato caste e classi che vi hanno fatto la loro fortuna sociale e che sarebbe ora di rimpiazzare con nuovi «gruppi professionali di lavoratori spirituali e materiali» espressivi del «ritorno a procedimenti più elementari nella lotta per l’esistenza», alle «fonti primitive» e «meno artificiali» della vita sociale 363 . Gioca, com’è evidente, in questi rimedi semplicistici alla crisi del sistema liberale la difficoltà propria di un intellettuale russo legato a una società primitiva e semplice, tendente a vedere e riscontrare nella realtà umana gli elementi più essenziali, e reso indifferente dalla mancanza verso quelle dinamiche tipiche di una società complessa e frastagliata come quella occidentale. Ma gli stessi suggerimenti, comuni a tanta parte del pensiero anti-moderno europeo, sia tradizionalista che rivoluzionario, sia comunista che fascista, restano indizii di una diffusa visione ideologica fortemente avversa alle élites tipicamente moderne, e segnatamente di quelle laiche e irreligiose sorte dalla rivoluzione industriale. Non è casuale l’accenno al «ruolo preponderante» riservato ai contadini russi e in genere alle masse popolari, ritenute «indifferenti alla politica» o costitutivamente ostili alle democrazie in quanto queste sarebbero «inseparabili dal dominio delle classi borghesi e dal sistema industriale capitalista» 364, che rivela posizioni pregiudiziali alla


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modernizzazione delle società pre-industriali, nel timore, condiviso in genere dai cattolici più consapevoli, che essa portasse seco i noti e detestati fenomeni di secolarizzazione. Per questo riguardo, gli accenti altamente aristocratici di Berdjaev troveranno eco nelle posizioni populistiche dei demagoghi ostili alle plutocrazie occidentali, a partire da Mussolini e da Lenin, fautori di un novus ordo europeo, certo lontano dalle suggestioni cristiane di Berdjaev ma a quelle accomunato da vocazioni totalitarie tipicamente anti-moderne. Non è un caso che egli torni in più occasioni a riflettere sulla rivoluzione russa e il comunismo. Il comunismo, sostiene Berdjaev, «inteso non tanto come sistema sociale quanto come religione [...] aspira all’integralità, vuole abbraccare e dominare tutta la vita [...] pretende di rispondere alle esigenze religiose dell’anima umana e di dare un senso all’esistenza [...] e perciò non intende riferirsi a questo o a quell’altro aspetto sociale» 365. Da qui il conflitto «inevitabile» con altre professioni religiose e la sua natura di dottrina «intollerante e fanatica», che ha scaturigini nella psicologia religiosa russa 366. Il discorso di Berdjaev suggerisce una questione religiosa importante, tendente a presentare il marxismo nella versione russa appunto come una religione, ma, soprattutto, come la risposta eretica a una crisi di valori dell’ortodossia, che, nonostante la crisi di valori, fa salvo comunque il profondo spirito religioso russo. Berdjaev dichiara di non credere nella possibilità di un’alterazione antropologica della natura religiosa dell’uomo, per cui la stessa professione di ateismo da parte di Lenin non costituisce per lui un particolare motivo di rincrescimento. «L’uomo, egli afferma, è un animale religioso» 367, per cui la rivoluzione messa in atto da Lenin tenta, non tanto una cancellazione della dimensione religiosa, alla maniera nichilista e ateista occidentale, quanto piuttosto un trasferimento di energie spirituali dal campo della religione tradizionale, ritenuta oppressiva per le masse, al campo nuovo della socialità comunista, finalizzata a liberare quelle energie in senso progressivo. Quello che lo spirito russo accoglie del marxismo come un retaggio del cristianesimo è la sua tensione messianica, mentre tutto ciò che suona come un’inserzione ateistica entro il marxismo-leninismo viene avvertita come influenza dello «spirito illuministico borghese del


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Settecento»368, ovvero come la giustapposizione di motivi razionalistici a una dimensione spirituale fondamentalmente religiosa, perché integrale. Anche di fronte alla strenua lotta anti-cristiana del comunismo, Berdjaev non perde di vista l’aspetto ereticale rinvenuto nell’esperienza rivoluzionaria, procurandogli non poche diffidenze o aperte accuse di filo-comunismo in ambito della stessa diaspora russa in Europa. Ma sarebbe superficiale una liquidazione in senso filonazionalistico degli argomenti di Berdjaev, laddove a nostro avviso andrebbe sottolineata piuttosto l’insistenza del filosofo sulla natura religiosa del comunismo al fine di dimostrare l’impraticabilità del processo rivoluzionario come traduzione del trascendente nel mondano. Significative le sue parole allorquando afferma che il tentativo di Marx fu quello di «mirare a convertire la teologia in un’antropologia», cercando di portare sul sociale «la sfera trascendente che appartiene all’aldilà» ribadendo l’idea di Lenin che il cristianesimo non sia riformabile, e che, anzi, «il riformismo nella Chiesa è ancora più pernicioso del movimento delle centurie nere» 369, il gruppo più reazionario della Russia pre-rivoluzionaria. Il marxismo avrebbe dunque due vantaggi rispetto al nichilismo occidentale: anzitutto l’afflato messianico e integralistico proprio di una religiosa; e secondariamente la sua missione rivoluzionaria, tendendo alla rinascita spirituale della società, sconfesserebbe le tendenze occidentali dell’individualismo edonistico di origine rinascimentale, propense, come abbiamo veduto, ad esaltare il profilo naturalistico dell’uomo a scapito della sua natura divina. L’autentica minaccia per l’uomo religioso non è la pur violenta eresia del comunismo russo, ma l’edificazione di una società, quale quella occidentale, che non contempla tra i suoi valori fondanti la dimensione del sacro, comunque la si definisca. Il comunismo ribadisce quei valori religiosi nell’atto stesso che intende confutarli, poiché la sua visione integralistica confermerebbe la tensione, tipicamente escatologica, di una redenzione dal male, sia pure inteso in senso unicamente sociale. Diversamente da questa tensione escatologica, la società atea occidentale avrebbe esautorato la problematica del male a favore di una mondanizzazione anch’essa integrale, ma di segno a-religioso, della esistenza umana, ridotta alla sua unica dimensione produttivistica ed economicistica. Se, in altri termini, la contro-rivoluzione comunista può essere fronteggiata da una antropologia religiosa autenticamente fedele alla sua natura


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divino-umana, l’eliminazione della dimensione del sacro dalla vita individuale e sociale non offrirebbe alla resistenza cristiana le stesse possibilità di lotta per l’affermazione delle sue ragioni trascendenti. E poiché l’evoluzione del cristianesimo occidentale ha condotto a questi esiti nichilistici, sarebbe suicida pensare a una rinascita cristiana sotto il segno del cattolicesimo o del protestantesimo. Al contrario, proprio l’esperimento rivoluzionario russo, pur con le sue drammatiche aberrazioni, confermerebbe la vitalità dell’Ortodossia. Il carattere fatale, o per meglio dire provvidenziale, della rivoluzione russa viene ribadito allorquando si dichiarano irrealizzabili i tentativi di imbrigliare politicamente la rivoluzione attraverso metodi costituzionali e moderati, umanitari e liberali, nel tentativo di trasformare un moto irrazionale e inevitabile come «un’epidemia», in un fenomeno razionale, quale il bolscevismo, indicato come «una follia razionalista, una mania di regolazione definitiva della vita, che si appoggia sull’elemento irrazionale popolare». Infatti, «la politica teorica e razionalista non ci lascia sentire alcuna base organica, essendo priva di ogni forza elementare, di ogni radice profonda. In una rivoluzione, invece, agisce la forza di un elemento nazionale, snaturato e malato». Ma il bolscevismo fu anche «un’incarnazione, snaturata e rovesciata, dell’idea russa», altrimenti non avrebbe trionfato 370. Essa è stata «l’espiazione di un peccato», quello della «decomposizione dell’ancien régime» 371, e come una «tragedia» nazionale va sopportata, «illuminandola con la luce del sentimento religioso» e aiutandola ad evolvere in senso contrario e positivo, «verso un’autentica creazione» 372 . Anche Berdjaev, considerando la rivoluzione una forza della natura di un popolo, accoglie l’idea della sua realtà irrazionale, senza peraltro attribuirla a una degenerazione politico-costituzionale, ma assumendola come l’inevitabile conseguenza della «fonte del male» che si annida in ognuno di noi e il cui «sbocco» è possibile non attraverso correttivi politici ma solo in virtù delle «formazioni molecolari della vita interiore del popolo, spirituali e materiali». È la rivoluzione stessa che «per una sorta di processo patologico che si compie nell’organismo, produce nel proprio seno le forze che finiranno per liberarla dai suoi demoni» 373. Cosa c’è da aspettarsi dalla rivoluzione? Niente di prevedibile né


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necessariamente di buono. Ciò che occorre, dice Berdjaev, è far prevalere «l’amore per la terra russa» sull’odio rivoluzionario. Infatti, «il più grande problema che si pone davanti alla Russia, come davanti al mondo intero, è di trovare una via d’uscita dal cerchio sanguinoso delle rivoluzioni e delle reazioni, per accedere a un nuovo ordine sociale». È questa trasformazione della forza negativa della rivoluzione in forze costruttive il «dovere spirituale dei cristiani» 374. Ancora una volta, Berdjaev cerca di dissuadere da ogni ipotesi di restaurazione prerivoluzionaria, ritenendo «insensato voler restaurare ciò che ha portato a una rivoluzione», accogliendo di contro i «vantaggi vitali» dei moti dello sconvolgimento russo come prodromi di una più grande trasformazione epocale, di carattere spirituale, convinto che «la via d’uscita non può venire da un movimento a destra o a sinistra [ma] può essere trovata solo da un movimento in alto e in profondità» 375. Inutile, ci pare, sottolineare la mancanza di ogni referente politico utile a realizzare gli auspici di Berdjaev, né questi si chiede se lo sbocco rivoluzionario non sia stato provocato dalla persistente estraneazione dalla vita sociale russa, oltre ogni ragionevole tolleranza, di nuove élites che si sentivano escluse da ogni possibile partecipazione alla guida nazionale. Berdjaev sposta deliberatamente il riferimento dalla dimensione empirica, cioè politico-istituzionale, a quella spirituale e culturale, ma il rischio evidente di una analisi siffatta è quella di abbandonare al caso (o alla Provvidenza) gli stessi propositi di edificazione di un ordine nuovo, che inevitabilmente darebbe stato anche politico e sociale. Il bolscevismo come «espiazione» di una colpa personale, sia pure collettiva, indicata come «l’unica maniera [ispirata dalla religione] di vivere e di concepire una rivoluzione» 376, rimanda a una condizione esistenziale nella quale, non già un indirizzo politico concreto e storico viene ritenuto improponibile, ma dove la stessa dimensione politica viene rimossa come inadeguata ai bisogni individuali e collettivi 377. Spostare sul piano delle responsabilità morali le carenze di un regime storico e di una tradizione, non significa soltanto ridurre a una formula sommariamente liquidatoria le responsabilità politiche, per cui «tutti sono responsabili per tutti», ma equivale ad ammettere la risposta rivoluzionaria alla stregua di un fatto naturalistico, inevitabile e quindi non superabile dall’accortezza umana. Questa condizione di impotenza sociologica serve a giustificare


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l’affidamento dei proprii destini spirituali alla Chiesa; ma in quale misura può affidare a essa la stessa soluzione della questione politica, pure immanente alla vita sociale, Berdjaev non spiega. E non lo spiega non già per una dimenticanza clamorosa, ma in quanto non crede nella soluzione politica, cioè nella razionalizzazione dei rapporti sociali imboccata dalla civiltà occidentale. Questo punto è fondamentale per comprendere la stessa critica che egli muove la bolscevismo quale espressione della crisi religiosa del popolo russo 378. Il bolscevismo, in quanto rivoluzione, è dunque la risposta metafisica al male di vivere del popolo russo, alla sua perdita dei valori tradizionali, quasi il contrappasso della sua affievolita ortodossia. L’utorità del potere – afferma Berdjaev, – si appoggia sempre su credenze religiose. Quando queste credenze vengono scosse, l’autorità del potere vacilla e frana. È ciò che è accaduto in Russia. Le credenze religiose del popolo avevano subito un cambiamento. Una sorta di «illuminismo» – e in Russia i «lumi» prendono sempre la forma del nichilismo – aveva cominciato a penetrare nel popolo. Ora, solo i bolscevichi hanno saputo organizzare un potere che fosse in rapporto con le nuove credenze del popolo e con l’elemento sanguinario della guerra [per cui] in tali condizioni, il potere monarchico poteva essere sostituito solo dal potere dei soviet [mentre] un potere che avesse cercato di esprimere maggiore cultura non avrebbe potuto esistere, non sarebbe stato in rapporto con le condizioni del popolo 379.

La contraddizione dell’argomentazione di Berdjaev è palese. Da un lato, egli afferma, «il potere è sempre costituito dalla forza» 380, per cui sa ebbe la tradizione zarista a legittimare lo status quo pre-rivoluzionario; ma dall’altro egli sostiene che l’azione della nuova intelligentzja cristiana neo-medievale dovrebbe adoperarsi a riportare il popolo alla visione cristiana della vita, dando per assodato che esso ne fosse distante e che quindi che avesse tralignato dalla sua originaria dimensione religiosa. Il ruolo dei bolscevichi, ubbidendo a una condizione meramente politica, si definisce sulla base delle condizioni spirituali attuali del popolo, delle sue «credenze», costituendo pertanto il tramite funzionale al passaggio dal vecchio regime in dissoluzione al nuovo condendo. La rivoluzione diventa dunque, nella prospettiva del Nostro, una «provvida sventura», la mano del Signore che porta all’estrema e


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cruenta maturazione un processo di decomposizione socio-politica che è approdato a una «fusione semplificatrice» delle originarie differenze sociali, annullando le storiche difformità qualitative della società russa tradizionale 381. Dio ha trasmesso – se così posso dire – il potere ai bolscevichi al fine di infliggere un castigo al popolo. Ed è per questa ragione che tale potere dispone di una forza misteriosa, incomprensibile per gli stessi bolscevichi. Non è degno di nota il fatto che non vi siano avversari in lotta che non siano partiti attivi, nella rivoluzione russa? È questo che la differenzia profondamente dalla rivoluzione francese. Quando un montagnardo o un girondino francese saliva sul patibolo, lo faceva come cittadino provvisoriamente sconfitto nella mischia. Nella rivoluzione russa, invece, il sentimento civico non esiste. Da noi si va alla fucilazione, ma ci si va con ben altro sentimento nel cuore, obbedendo a un potere fatale e tirannico 382.

Ma non era lo stesso sentimento di fatalità che faceva obbedire lo zar e partecipare alle sue guerre? Sarebbe lo stesso stato d’animo anche dei due opposti poteri nazionali?, ovvero essi si somiglirebbero a tal punto da costituire l’uno l’immagine aggiornata dell’altro? Il ragionamento di Berdjaev vacilla, conducendolo al cul de sac della apparente identificazione del bolscevismo con l’anima del popolo russo, che egli respinge con non poco imbarazzo, spostando «negli abissi della società russa, nel sottuosuolo di quella cultura» i fermenti che poco prima aveva attribuito al nichilismo, movimento sicuramente elitario. Come conciliare questa tesi con l’affermazione della distanza abissale del popolo dai ceti colti e nobiliari anche per il rispetto religioso e insieme con l’asserzione che «tutto è determinato dalle credenze religiose del popolo [le quali] avevano reso possibile l’esistenza della monarchia assoluta?» 383. Nel solo modo possibile, e cioè attribuire alle condizioni spirituali del popolo il vizio originario da cui discenderebbe l’attuale male esistenziale e metafisico della rivoluzione, da sanare attraverso l’intervento di forze ideali, non politiche. Se le credenze del popolo sono menzognere e nefaste, io devo consacrare i miei sforzi innanzitutto a dirigere il mio popolo verso credenze vere e benefiche. Lo spirito morale ha sempre la priorità sulla politica. Questa verità deve essere riconosciuta, oggi più che mai. Oggi il problema russo è


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innanzitutto un problema spirituale. Non vi è salvezza per la Russia al di fuori di una rigenerazione spirituale [...]. Il bolscevismo deve essere vinto innanzitutto dall’interno, vale a dire spiritualmente, e solo in seguito con la politica. Bisogna trovare un nuovo principio spirituale per organizzare il potere e la cultura 384.

La feroce ostilità nei confronti della società moderna e borghese giunge fino a vedere nella rivoluzione fascista «un carattere che non è distruttivo» come quello sovietico, ma «creativo», vedendo in Mussolini l’«unico innovatore tra gli uomini di Stato europei, che ha saputo piegare all’idea nazionale e a se stesso gli istinti violenti e guerrieri della gioventù, aprendo una prospettiva alla loro energia» 385. Al suo cospetto, il bolscevismo diventa una malattia morale, da cui guarire 386. L’idea del fascismo quale «reazione» alla cultura politica che aveva originato la democrazia e il capitalismo, «contro i fondamenti della storia moderna, contro un liberalismo senza sostanza, contro l’individualismo, contro il formalismo giuridico» 387, è in Berdjaev chiaramente espressa. Ma nell’accezione reazionaria del Russo si contempla una considerazione che va ben al di là del fenomeno politico, e che riguarda le dinamiche stesse della realtà sociale sogguardate da una visuale metafisica, segnatamente cristiana, in cui acquistano senso e valore trascendente 388. «Le rivoluzioni», egli dice, «non sono soltanto diaboliche», come voleva de Maistre, «sono anche provvidenziali: vengono scatenate sui popoli a causa dei loro peccati, sono un’espiazione delle loro colpe» 389. Con accenni quasi manzoniani, Berdjaev ritrae una situazione storica come «cifra» di un disegno provvidenziale trascendente la fenomenologia degli avvenimenti rivoluzionarii, i quali per questo vengono da lui acquisiti con ponderata considerazione, senza l’enfasi riservata solitamente alle catastrofi politiche. Il referente letterario di Berdjaev è, dichiaratamente, Dostoevskij, il quale «ha anticipato, in modo profetico, la dialettica» delle idee rivoluzionarie e «ha compreso che il socialismo in Russia era una questione religiosa – la questione dell’ateismo – e che la preoccupazione dell’intelligencija rivoluzionaria non era la politica, ma la salvezza dell’umanità senza Dio» 390. L’analisi trans-politica della


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rivoluzione russa offre l’occasione per formulare un’interpretazione storico-filosofica più generale, relativa allo «scopo... di scoprire i fenomeni spirituali essenziali, i fenomeni originari [attraverso i quali] si deve cercare di penetrare il senso degli eventi storici», che, nel caso della rivoluzione, sia quella francese che quella russa, è il «fenomeno spirituale essenziale dell’umanesimo e della sua dialettica interna» 391. La rivoluzione russa va dunque interpretata a partire dalla condizione religiosa del popolo russo, legato all’ortodossia, la quale «lo ha educato» a distaccarsi dalle cose terrene, dagli aspetti istituzionali – siano lo Stato o la famiglia –, ai suoi diritti e al decoro della vita esteriore, per propendere verso i soli valori ritenuti essenziali, quelli non legati appunto alla vita terrena ma che «aspirano al cielo». Il popolo russo, dunque, sostiene Berdjaev, «per la sua formazione spirituale, è un popolo apolitico, che aspira alla fine della storia, alla realizzazione del Regno di Dio» in terra, «dove essere fratelli in Cristo; oppure essere compagni nell’Anticristo, nel regno del principe di questo mondo» 392. Un popolo religioso, quello russo, che non aspira a realizzare determinate forme politiche, non ubbidisce a consegne ideologiche, ma tende a secondare una sua profonda vocazione religiosa di dar corpo a una società mistica, a una comunità religiosamente ispirata, che soddisfi le sue attese escatologiche. Questa interpretazione, se da un canto pone il marxismo come mero pretesto mondano o formula politico-ideologica di mobilitazione, escludendo quindi il movente occidentalistico nella determinazione rivoluzionaria, dall’altro canto assurge il fenomeno rivoluzionario a paradigma nazionale russo, legato alla condizione religiosa ortodossa, e per ciò stesso non esportabile in quanto tale in un contesto universale. È per questo suo limite intrinseco che la scaturigine rivoluzionaria, o per meglio dire, i suoi effetti involontarii e provvidenziali, non possono essere governati dal popolo e dalla chiesa russi, ma abbisognano, come i giudici post-rivoluzionari di de Maistre, di essere guidati da entità esterne al fenomeno rivoluzionario, nel caso di specie, dalla Chiesa cattolica. Paradossalmente, i custodi dell’Ortodossia medievale, che hanno esonerato il popolo russo dalle nefaste influenze della modernità occidentale, sono i referenti ideali e morali della rivoluzione russa, intesa come risposta anti-moderna al nichilismo strisciante proveniente dall’umanesimo occidentale; mentre il cattolicesimo, dal cui seno si è


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sviluppata la cultura umanistica e secolaristica moderna, diventa la risorsa provvidenziale della post-rivoluzione, che dovrebbe guidare le sorti di un’umanità entrante in nuovo Medio Evo, post-moderno e postborghese. Berdjaev è chiaro su questo punto: Non si può opporre il borghese europeo al comunista russa. A causa della formazione spirituale del popolo russo, dell’uomo russo, il comunismo non potrà essere sconfitto in nome delle idee borghesi e da un regime borghese. Questa è la Russia, questa è la vocazione del popolo russo nel mondo. Chomjakov e Leont’ëv, Dostoevskij e Lev Tolstoj, Vladimir Solov’ëv e Nikolaj Fedorov sono nemici del regime borghese, non meno dei rivoluzionari russi, dei socialisti e dei comunisti. Questa è, infatti, l’idea russa. E i patrioti russi devono averne coscienza. Il credente russo è convinto che, davanti a Dio, il borghese europeo non vale più del comunista russo. E l’uomo russo non può desiderare che il borghese europeo venga a prendere il posto del comunista. Non vuole sostituire i vizi comunisti con le virtù borghesi, poiché disprezza queste virtù. La cultura secolare, una civiltà corretta e ben consolidata non attirano l’uomo russo, il credente russo. Ecco perché da noi anche il socialismo ha un carattere sacro, e perché abbiamo una pseudo-Chiesa e una pseudoteocrazia. I russi si sono sempre opposti spiritualmente al dominio della civiltà borghese del XIX secolo: non l’amavano, vedevano in essa un decadimento dello spirito. Su questo punto, il rivoluzionario Herzen e il reazionario Leont’ëv erano d’accordo 393.

L’aspetto forse più rilevante, tra i tanti di questo eccezionale brano, è la confusione esplicita tra «russo» e «credente», che denota una imprescindibile caratterizzazione nazionalistica della fede cristiana, e con essa la denuncia dei limiti del suo impossibile universalismo. La Russia viene infatti considerata come una comunità di credenti, di cristiani legati da un vincolo mistico che unifica ogni corrente spirituale ed intellettuale interna e che Berdjaev chiama «l’idea russa», la quale si traduce nel linguaggio del mondo come identità alternativa a quella borghese uscita dalla modernità, e che ha reagito alla modernizzazione strisciante oppugnandole la rivoluzione. Ora le nebbie del garbuglio retorico di Berdjaev sembrano diradarsi. In altri termini, l’Ortodossia ha avuto la missione di preservare la cristianità dalla deriva occidentalistica della modernità secolaristica, e non già di opporsi al


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cattolicesimo per mero orgoglio tradizionalistico. Il suo compito, dopo la rivoluzione, sarebbe dunque terminato, schiudendo un’epoca nuova, un Nuovo Medioevo, di riconciliazione ecumenica in nome della comune identità cristiana e della comune avversione all’imborghesimento del mondo. Si noti che, mutatis mutandis, Berdjaev propone una sorta di internazionale cristiana anti-borghese non diversa da quella comunistica sovietica se non per il profilo sacroteologico e non profano-ideologico della sua vocazione cristiana. In questo senso, la transizione comunista verso la fine dello Stato si accomuna alla attesa del regno della libertà dei cristiani, in contrapposizione alla «tentazione» di costruire la città dell’uomo, la società politica. Il paradigma antropologico russo è di tipo religioso, e il tipo di società a esso relativo non può che essere un tipo religioso. La rivoluzione, in questa prospettiva messianica, costituisce la presa definitiva di distanza dal modello di sviluppo occidentale, dal modello umanistico e secolarizzato, statalistico ed economicistico, legalistico e militaristico. Non c’è più un Cesare da servire, per i Russi, dopo l’esautorazione definitiva degli zar, per cui ogni nostalgia passatistica sarebbe un ritorno all’anti-modello della civiltà aristocratica, distante dal sentimento profondo del popolo russo. Gli emarginati dalla storia, gli «uomini del sottosuolo», irrompono con cruda veemenza alla superficie e distruggono i falsi idoli della storia moderna, secondo un inverso processo di liberazione spirituale rispetto al mito platonico della caverna, depositaria dell’oscurità, e non, come suggerisce Berdjaev, dei valori preservati dalla decadenza occidentalistica della modernità. Il sacro furore anti-moderno ripropone, in termini aggiornati, la lotta religiosa combattuta entro la cristianità occidentale agli albori dell’evo moderno, riportando, sia pure in termini aggiornati, la questione della scelta tra una prospettiva sacrale e una invece desacralizzata. La rivoluzione russa offre la possibilità di rivincita al cristianesimo sopraffatto dallo scisma d’Occidente, riportando in forze le riserve morali della cristianità orientale nell’alveo della comune battaglia contro i fautori della città dell’uomo. Ma l’Ortodossia non rappresenta, nella prospettiva di Berdjaev, la custodia dei valori intatti della cristianità non corrosa dalla decadenza moderna; essa rappresenta anche l’anti-modello della integralità cristiana rispetto al paradigma


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occidentale della frantumata società secolarizzata. L’integralità proposta dall’Ortodossia è una spiritualità che non ammette alcuno sviluppo nel senso della storia profana, che sarebbe una deviazione eretica rispetto alla stabilità del regno sacrale. «Solo la penitenza» asserisce Berdjaev, «è in grado di liberare dalla tirannia di un oscuro passato, dall’oppressione dei suoi fantasmi» 394, non già, dunque, il travaglio critico del pensiero raziocinante, ma l’interiorizzazione della colpa scaturita dalla libertà ai fini della sua domata riconduzione al telos trascendente. La rivoluzione stessa è da accogliere come una collettiva penitenza morale, patita per il peccato di modernità. La diabolizzazione della cultura moderna ritrova in queste tristi pagine un’assonanza presaga con le lugubri giaculatorie pagane del nazismo imperante, anch’esso messianicamente predisposto a sgomberare la storia dall’ingombro, questa volta, delle radici ebraico-cristiane della civiltà europea. La lotta della spiritualizzata Gemeinschaft religiosa contro la moderna e infermale Gesellschaft laico-borghese attraversa le pagine di Berdjaev con un crescendo di aperta acrimonia verso la civiltà occidentale di sapore chiaramente gnostico. Termini quali «falsità», «marciume», «sifilide», «infamie», «vita peccaminosa», tutti riferiti all’ancien règime, sono epiteti di una violenta requisitoria contro la civiltà occidentale che avrebbe insidiato col tempo l’eternità dello spirito russo, e dalla cui salutare reazione rivoluzionaria sarebbe sortito l’uomo nuovo sovietico, «un tipo antropologico nuovo» 395, la nuova bestia russa nata dalla guerra e biologicamente più forte, che in comunanza d’intenti coi suoi simili avrebbe occupato i ranghi del nuovo potere sociale. Quest’angelo sterminatore partorito dalla rivoluzione costituisce «la figura più sinistra in Russia», sotto le cui imprese criminali «forse l’anima russa, la vocazione del popolo russo, andranno alla perdizione», potendo egli «rovesciare il comunismo e trasformarlo in fascismo russo» 396. Quel fascismo sopra salutato come una rivoluzione giovanilistica, viene ora assunto come un modello negativo, temibile, degenerativo dello stesso sovietismo. Perché? Ma perché il fascismo, nonostante la sua vocazione anti-moderna, restava pur sempre inscritto nell’evoluzione della civiltà occidentale, laddove l’uomo nuovo sovietico costituiva l’altra faccia dell’umanità cristiana, che


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avrebbe negli auspici di Berdjaev rappresentato l’ideal-tipo nuovo uscito dall’ecatombe del moderno diluvio universale, espressione della «Russia eterna, la Russia qualitativa, la Russia spirituale, chiamata a dire la propria parola alla fine della storia» 397. Criticando la democrazia e la sua falsa organicità formale, Berdjaev asserisce che «la volontà organica del popolo non può essere determinata con l’aritmetica, né manifestarsi attraverso alcuna addizione di voti». Anzi, la democrazia interviene a seguito della dissoluzione dell’unità organica dei popoli, cioè a seguito della fine della comunità in atomi disgregati, da raccogliere quindi nella «somma meccanica della maggioranza e della minoranza». Di contro, «questa volontà [organica] si rivela nella vita storica di un popolo, nelle forme della sua cultura; e, prima di tutto e sopra di tutto, essa trova espressione nella vita religiosa del popolo. Al di fuori del terreno organico della religione, al di fuori dell’unità delle credenze religiose, non esiste volontà popolare che sia una e comune» 398. Ma, a definire l’identità morale del popolo non è la Russia dell’intelligentzjia, né quella dei sapienti gnostici di cui parla Dostoevskij dei Demoni, che pretendono di liberare definitivamente l’uomo, quella che avanzerà a dire la sua dopo la fine della storia (moderna), ma la Russia dei santi, dei martiri, dei testimoni della fede, «umiliata e calpestata esteriormente, ma interiormente elevata e diventata più grande [dimostrando] che la sua unità organica, la sua luce interiore e le sue fondamenta mistiche restano indistruttibili, anche dopo che la sua direzione ecclesiastica e la sua struttura esteriore sono state sconvolte» dalle rappresaglie rivoluzionarie. Infatti, «l’asprezza e la gravità della vita, la prossimità della morte, la caduta di tutte le illusioni terrene e la perdita degli oggetti materiali che asserviscono lo spirito umano – tutto questo avvicina a Dio e alla vita spirituale» 399. Ciò, non di meno, che resta inspiegabile secondo questa analisi, è la genesi di una rivoluzione di popolo che si opponga a tutto ciò che lo stesso popolo non ha mai avuto, e non avendolo avuto avrebbe dovuto costituirlo depositario di quella morale cristiana che invece la rivoluzione ha sconvolto. Ecco che emerge dal discorso il dramma autentico per uno spirito religioso, di una ecatombe che si abbatte sugli innocenti, che diventano il capro espiatorio del male da altri commesso, l’agnello sacrificale delle nefandezze di una aristocrazia per definizione ed


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ammissione la più distante, anche religiosamente, dal popolo. Anche in questo caso, senza una illuminata teologia della kénosi divina, la lettura provvidenzialistica della storia contemporanea, avverte Berdjaev, può spingere verso l’ateismo, anziché avvicinare al sacro 400. Il coinvolgimento dell’uomo nella costruzione del tempio di Dio in terra è infatti diverso se inteso come sostituzione della Sua volontà, ovvero come attesa della redenzione 401. L’attivismo messianico, sia pure ammantato dei segni della sacralità dell’impresa, in quanto prodotto umano, è destinato al naufragio. Non solo l’umanesimo laico, non solo il comunismo marxista, ma lo stesso cristianesimo sociale è destinato ad incorrere in questo inevitabile epilogo di disfatta. Questo l’insegnamento delle vicende del cattolicesimo prima, del protestantesimo poi e infine dell’ortodossia. L’incarnazione del divino vive se resta un mistero eterno, muore se si traduce in speranza storica. Nel caso di Berdjaev, in speranza nazionale proiettata su scala universale, dove si contraddice e si deforma, perdendo le sue caratteristiche essenziali. I suoi commenti sulla vita sotto i sovietici alternano speranza a rammarico. Ma la perdita della dimensione storica a favore di una presuntiva più originaria, etnica e spirituale insieme, nella quale la religione è vista come un motivo di alterità anziché di consustanzialità antropologica, falsa la prospettiva non solo razionale ma anche religiosa, proponendo con la mistica del sangue russo una sublimazione delle sofferenze umane e carnali di un popolo chiamato a redimersi attraverso un regime che lo imputa di colpe modernizzatrici mai commesse. Affermare, come fa Berdjaev, che «la vita in Russia è un supplizio, è sacrificio, martirio, umiliazione. Ma attraverso questo supplizio, questo sacrificio e questo martirio, la Russia si salverà» 402, equivale, per chi vi si sia sottratto con l’esilio in Occidente, a esporre il martirio degli innocenti russi come esempio di redenzione dal male, sostituendo al battesimo del Cristo il lavacro cruento di generazioni il cui solo torto è di essere nate russe. Posizione moralmente inaccettabile e in sé contraddittoria, che abbandona alle fauci del Leviatano le «anime morte» del popolo russo, uccise dal comunismo sedicente liberatore, e non dal potere zarista. Per l’ospite assistito e omaggiato, l’asserzione che «non si può attendere la salvezza dall’Europa, che non ha niente a che fare con noi e che è, essa stessa,


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agonizzante» 403, suona falsamente grottesca; e non già perché l’Europa liberale non fosse effettivamente sull’orlo del collasso fascista, ma in quanto vorrebbe privare lo spirito occidentale di ogni risorsa irenica, confinata invece nelle viscere di una civiltà che non aveva saputo difendere se stessa dai barbari bolscevichi ben più di quanto non l’avesse fatto l’agonizzante Europa. Se il comunismo ateo era figlio della Russia, era quella la minaccia allo spirito, non certo le libertà dell’Occidente, delle quali quella religiosa è parte essenziale e insopprimibile. Ma la lotta che Berdjaev conduce in nome della Verità trova presto risonanza anche nella società sovietica, nella «satanocrazia» che pone lo Stato senza guida spirituale a «despota assoluto, più temibile degli antichi despoti assiri o persiani» 404, società abissalmente malata di umanesimo ateo, sia pure di tipo reattivo a quello moderno individualistico. Di questo l’autocrazia del socialismo rappresenta «la nemesi», che intende avere dell’uomo la sua intierezza, anche quindi l’anima, oltre al corpo, secondo un’assoluta e teocratica disponibilità della coscienza umana simile a quella della Chiesa medievale, di cui rappresenta la «parodia» post-moderna 405. Il «potere di ordine sacro» creato dal socialismo russo si contrappone radicalmente allo spazio politico laico come l’ordine della verità all’ordine formale del relativismo liberaldemocratico. Il socialismo ha ragione quando colloca l’oggetto sostanziale della volontà popolare al di sopra della volontà popolare stessa, al di sopra dell’espressione formale della volontà. Se una qualsiasi sostanza qualitativa della volontà popolare esiste, e se esiste un qualsiasi fine superiore nella vita di un popolo, allora questa sostanza e questo fine devono essere collocati al di sopra della stessa volontà del popolo, considerata nella sua semplice espressione formale. Così il relativismo viene sconfitto, così un fine valido viene proposto [e] collocato al di sopra della volontà popolare stessa, e la vita sociale gli deve essere assoggettata. Ma solo la vita spirituale può essere un fine per la vita, e solo la realtà divina può essere la realtà della vita. Di conseguenza i fini spirituali della religione devono essere posti al principio delle società umane, e collocati al di sopra di ogni autoaffermazione della volontà umana. E la libertà dell’uomo, la libertà dello spirito, può essere salvaguardata solo se si ricnoscono questi fini spirituali della religione e se ci si sottomette alla volontà divina, poiché la licenza e l’arbitrio umani distruggono la libertà dell’uomo 406.


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Il percorso salvifico tracciato da Berdjav è insomma l’opposto di quella che è stata l’esperienza della coscienza cristiana moderna dell’Europa, che ha preferito alla società utopica «una società meno “perfetta” e più libera» 407. Il relativismo culturale, quale indifferenza alla Verità, disattiva i processi costitutivi delle oligarchie detentrici della interpretazione veritiera e custodi della sua realtà ideale. Nel socialismo non è infatti il proletariato empirico il custode dell’idea socialista, ma l’élite bolscevica, la «minoranza eletta dallo spirito della storia, il gruppo dei più coscienti, i quali conoscono la verità [e] hanno la missione di salvaguardarla», e perciò costituiscono a loro modo una aristocrazia che non ha niente di democratico 408 e che non lascia alcuna libertà ai propri avversari che la pensano diversamente, «obbligato a rifiutare la libertà di coscienza», come il Grande Inquisitore, che «vuole decidere il destino della società umana negando la libertà dello spirito» 409. Da qui il carattere «messianico» del socialismo e della sua classe eletta, «il nuovo Israele» chiamato ad essere «il liberatore e il salvatore dell’umanità», a «realizzare il Regno di Dio in terra», secondo l’antico millenarismo ebraico rinato in forme secolaristiche 410. La nuova volontà del proletariato, che si oppone alla volontà democratica del popolo, è quella del nuovo Messia laico e profano, che soppianta l’antico in nome di una volontà tutta mondana, che dell’antica conserva però la forza propria di una verità religiosamente sentita. Da qui la sua persistenza nell’illusione umanisistica di poter fare le veci di Dio 411. Berdjaev, come sempre ogni grande provinciale che si ponga in una prospettiva d’insieme impedita a chi viva il tempo nella centralità protagonistica, era consapevole della grave crisi identitaria e morale dell’Europa del tempo 412, ritenendo «disperata» ogni tensione restauratrice dell’ordine teocratico crollato 413. La risorsa era per lui ancora il cristianesimo, «allo stato in cui era prima di Costantino» 414, prima cioè della commistione col potere temporale, nella quale era stata implicata anche la Chiesa ortodossa, per cui «nessun nuovo simulacro di Stato cristiano otterrà realizzazioni autentiche». Né è possibile credere a una qualche ipotesi di «utopia di Stato sociale quasi perfetto», dal momento che «nessuno, in coscienza, crede più ad alcuna forma politica né ad alcuna ideologia sociale», per cui «il crollo delle illusioni


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esteriori riconduce alla vita interiore» 415. La forza del comunismo, che resiste a questa verità, è «demoniaca», non volendo considerare che oggi «il problema della democrazia ha cessato di essere un problema politico per diventare un problema spirituale e culturale: il problema della rigenerazione spirituale delle società e della rieducazione delle masse», abituate alla libertà ma non ancora indirizzate verso la libertà della verità 416. Berdjaev era convinto anche del crollo del capitalismo, «piegato dai veleni mortali che esso stesso ha prodotto», ma non credeva nella sua sostituzione da parte del «sistema socialista», dal momento che era stata infranta «la disciplina del lavoro che dominava nella società capitalista», che il socialismo contraddittoriamente «divinizza» e indica alla distruzione a opera della classe operaia, non rendendosi conto che lo stesso socialismo è destinato a crollare, dopo il capitalismo, «non solo a causa della sua incapacità economica, ma anche a causa della sua depravazione spirituale» 417, che consiste nel «dominio della vita sociale esteriore e della politica esteriore» 418. Il baricentro spirituale del mondo si è spostato: dalla realtà delle liberaldemocrazie occidentali a quella della Russia, la cui tradizione di pensiero, da Dostoevskij a Solov’ëv, aveva compreso per tempo l’attuale crollo della civiltà. Ed è su questo vuoto di civiltà, vuoto anzitutto morale e quindi politico, che si è insediato il comunismo organizzato, il quale «rappresenta una specie di setta atea, una setta d’impostazione religiosa ma con finalità atee» 419. Ad opporre una strenua e invincibile resistenza al comunismo, la cui Costituzione internazionale ne stabilisce la militanza antireligiosa, è la tradizione religiosa popolare, essendo «le credenze religiose tuttora vive nel popolo e più radicate in esso di quanto non siano le varie dottrine ispirate alla vita politica ed economica» 420. Lo Stato ideocratico comunista, come quello medievale cristiano, come il Terzo Reich di Hitler e come «ogni governo che aspiri al totalitarismo», stabilisce una linea di demarcazione tra ortodossia ed eresia che «consiste in una differenza religiosa e teologica anziché filosofica e politica», per cui esso «può ben essere riguardato quale una Chiesa» molto gelosa della sua concezione del mondo e più dogmatica della teologia cristiana 421. Ma il comunismo, nel suo odio feroce contro il cristianesimo, racchiude una contraddizione profonda, che i comunisti, ignoranti di religione, solitamente ignorano, la quale consiste nella verità che il modello


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antropologico comunistico «è possibile solamente in conseguenza dell’eredità dell’educazione cristiana delle anime, in seguito alla trasformazione compiutasi nella natura dell’uomo che lo spirito cristiano ha plasmato nei secoli», per cui la lotta contro lo spirito religioso nega in radice la stessa possibilità d’essere di una umanità votata alla causa ideale del comunismo 422. Il momento di verità del comunismo è riposto nella sua purificazione dei «peccati dei cristiani e delle varie Chiese nel corso della storia [per] avere contravvenuto ai precetti del Cristo e l’essersi serviti della Chiesa cristiana come di uno strumento e d’un sostegno in favore delle classi dirigenti [provocando] l’allontanamento dal cristianesimo di coloro che sono ora costretti a soffrire a causa della loro trasgressione a [i suoi] precetti e dello stravolgimento patito dal cristianesimo» 423. Ma se rimane coerente la visione del contrappasso propugnata da Berdjaev, per cui il comunismo va inteso «anche come un appello lanciato al mondo cristiano, nel senso che in esso si racchiude una sentenza suprema emessa contro l’inadempienza dei doveri essenziali» 424, meno spiegabile è la ragione della violenta reazione rivoluzionaria, interna al cristianesimo, da parte di masse condiscendenti e a un tempo vittime, le quali, da un lato sono ritenute legate alla fede e dall’altra soggiogate da una minoranza ateistica. In altre parole: perché la «ineluttabilità della rivoluzione» 425, cioè della risposta sociale e non religiosa, come nel Medioevo, alle incongruenze storiche della Chiesa istituzionale, che «dai tempi di Costantino, più che esserne impadronita, si è consegnata al regno di Cesare?» 426. Nel caso della Russia, la facile imputazione alle responsabilità della cultura moderna, sarebbe del tutto fuori luogo. Una plausibile risposta va dunque cercata all’interno della società russa, della sua cultura, anche e soprattutto di quella religiosa. E tale risposta non può prescindere dalla considerazione della impermeabilità della cultura russa alla traduzione dei valori della persona sul piano dell’organizzazione sociale, al «riconoscimento del valore indubitabile di ogni persona umana, in quanto fatta a immagine e somiglianza di Dio» 427 sul piano dei rapporti politici. È sicuramente vero che «la persona umana, che è sempre individuale e irripetibile, è per il cristianesimo una realtà più essenziale e profonda della società», ma proprio per questo è indispensabile che


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tale realtà ontologica sia riconosciuta, affermata e difesa a livello istituzionale, quello proprio nel quale si è dimostrata più carente la sensibilità cristiana orientale, mentre viceversa è stato il terreno di coltura del cristianesimo liberale occidentale. A questo proposito, il pensiero di Berdjaev tradisce tutta la sua limitata portata, confinando la persona umana a «una categoria spirituale e religiosa [la quale] non può essere parte di alcunché: non solo della società, ma nemmeno del mondo», per la ragione che «essa è un tutto [che] appartiene al mondo spirituale, non al mondo naturale» 428. Ma, ci chiediamo, come potrebbe una totalità escludere dalla sua realtà l’esistenza storica, e quindi la sua dimensione fisico-sociale? Non è stata questa volontaria rinuncia al mondo il limite di una considerazione antropologica che espungendo dall’esistenza umana la sua dimensione sociale ne delega la funzione regolativa a un ente politico insensibile ai valori spirituali? Esattamente questo è avvenuto in Russia, dove il connubio cesaropapista dell’Ortodossia ha provocato la più radicale reazione anti-religiosa e ateistica in ambito cristiano. L’assenza di cultura liberale, cioè del pensiero della distinzione della sfera spirituale da quella sociale, fa propendere per la estrema scelta a favore di una oppure dell’altra dimensione esistenziale, a danno di quella esclusa, che, venendo negata e repressa, reagisce, in quanto insopprimibile, a rivendicare le sue ragioni di esistenza. In questo senso, il liberalismo non è che la ricerca della coesistenza delle distinte ragioni esistenziali dell’uomo teoretico e di quello pratico, l’uno volto ai valori, l’altro alle ragioni della sopravvivenza biologica. Affermare le solitarie ed esclusive ragioni spirituali, equivale a negare alla parte sociale le sue legittime istanze, anch’esse volute dal Creatore della natura umana e quindi indenegabili. Quando Berdjaev afferma di essere fautore di un «aristocratismo spirituale» in una «società senza classi» e perciò egli stesso «non lontano dal comunismo» 429, mostra di non comprendere l’essenza ideale della criticata modernità, che nella ricerca di una libertà possibile, condivisibile, multiforme e persino contraddittoria, ha riposto l’intera speranza nella redenzione umanistico-cristiana dalle tenebre della fatalità pagana. E ricade nell’errore opposto e inevitabile della speculare assolutizzazione dell’emisfero sociale. Il rischio immanente alla «incarnazione collettiva» della «Divino-umanità» propria dell’essenza umana è, infatti, proprio la perdita della misura


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personalistica dell’esistenza, a favore di una sconsiderata generalizzazione universalistica della sua socialità, contraria alla sua duplice dimensione ontologica. È perciò inesatto affermare, come pure fa Berdjaev, che «l’idea teandrica [e cristologica], quale essenza del cristianesimo, si sia svelata scarsamente al pensiero cristiano occidentale, mentre sarebbe un frutto originale del pensiero cristiano russo» 430. Basti pensare al solo Hegel, al travaglio della sua filosofia dialettica. Ma anche ai diversi indirizzi di pensiero della filosofia empiristica, o di quella kantiana e neo-kantiana, che hanno sempre tenuto presenti le ragioni teologiche della tradizione cristiana. Sarebbe probabilmente più corretto e significativo imputare alla decadenza culturale dell’Occidente lo smarrimento dell’originaria ispirazione teologica, anziché ignorarne i travagli e i tralignamenti per sottolineare solamente la sua deriva finale. Se infatti si everge da un centro, questo doveva pur essere, anche inconsapevolmente, presunto. Lo sviluppo del cristianesimo occidentale quel centro lo ha progressivamente smarrito mano a mano che l’ha assimilato in un pensiero razionale, dogmaticamente emancipato, fedele al dubbio della sua verificabilità logica ed empirica, e perciò progressivamente distante dalla vigilanza ecclesiastica, ritenuta vieppiù ingiustificabile e inopportuna alla ricerca del senso della vita, fattasi col tempo troppo complessa per appagarsi ormai delle formule mistico-esoteriche di un sacro sinedrio. Si potrebbe per tanto dire, con una ragionevole plausibilità e approssimazione al vero, che il cristianesimo occidentale moderno sia stato, diversamente da quello medievale, un cristianesimo sempre più fuori della Chiesa. Un cristianesimo, appunto, secolarizzato: ma pur sempre di cristianesimo si è trattato. Fuorviante è dunque l’odio per gli istituti moderni della società occidentale, in primis il capitalismo, definito «più anticristiano» del comunismo 431, senza però chiedersi donde ne sia sortito e i presupposti della sua genesi spirituale e storico-istituzionale. Le invettive di Berdjaev contro la disumanizzazione del sistema capitalistico costituiscono la parte più caduca ed equivoca del suo argomentare, che non vale riprendere. Quello che invece merita sottolineare è appunto l’equivoca predilezione verso l’economia collettivistica e comunitaristica propugnata dal comunismo, che


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discende conseguentemente dal pregiudizio ostile alla moderna Gesellschaft, ritenuta, per la sua struttura razionalistica, il regno satanico che ha prodotto lo Stato borghese 432. Il comunismo russo, infatti, non era affatto la forma originale di «una nuova organizzazione della società» 433. Al contrario, esso è stata l’espressione (anti) moderna della più antica ed originaria organizzazione sociale dell’umanità, quella appunto comunitaria, rappresentandone una riedizione in chiave polemica contro la troppo accelerata razionalizzazione sociale intervenuta a seguito dell’industrializzazione europea. Quanto, infine, al «socialismo personalistico» auspicato da Berdjaev 434, esso ha trovato realtà politica in Occidente con le socialdemocrazie fautrici dello Stato sociale, non certamente nelle realtà politiche dove ha attecchito il comunismo.


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Note 1. Ci riferiamo ai tre saggi Verità e menzogna del comunismo; Psicologia del nichilismo e dell’ateismo russi; “La linea generale” della filosofia sovietica, raccolti sotto il titolo Il problema del comunismo, Brescia, 1937. 2. N. BERDJAEV, Autobiografia spirituale (1949), trad. it., Milano, 2006, pag. 243. 3. Ivi, pag. 244. E più oltre: «Mi resi conto che era assolutamente inevitabile che la Russia passasse attraverso l’esperienza del bolscevismo. Era un momento del destino interiore del popolo russo, la sua dialettica esistenziale»: Ivi, pag. 247. 4. Ivi, pag. 249. 5. Ivi, pag. 250. 6. N. BERDJAEV, Verità e menzogna del comunismo, in Il problema del Comunismo, cit., pag. 10. 7. Ivi, pagg. 10-11. 8. Ivi, pag. 11. 9. N. BERDJAEV, Autobiografia spirituale, cit., pag. 251. 10. N. BERDJAEV, Verità e menzogna, cit., pagg. 12 e 13. 11. Ivi, pag. 13. 12. Ivi, ag. 14. 13. Ivi, pag. 15. 14. Autobiografia spirituale, cit., pag. 268. 15. Ivi, pag. 268. 16. Ibidem. 17. Ved. D. DEL BO, Persona e società nella filosofia di N. Berdiaeff, Padova, 1944, pagg. 17-20. 18. Verità e menzogna, cit., pag. 16. 19. Ivi, pag. 17. 20. Ivi, pag. 18. 21. Ivi, pagg. 17-18. 22. Ivi, pag. 19. 23. Ivi, pag. 23. 24. Ivi, pag. 24. 25. Ivi, pag. 25. 26. Ivi, pag. 29.


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27. Ivi, pagg. 29-30. 28. Ivi, pagg. 33-34. 29. «Quando si divide la storia in tre periodi e nell’ultimo si scorge l’avvento di uno stato perfetto, v’è qui l’espressione di un messianismo secolarizzato. La storia non ha ancora raggiunto il suo termine ultimo: noi ci troviamo in pieno processo storico, e la conoscenza scientifica del futuro è impossibile. Ora il senso della storia non può essere scoperto senza questa conoscenza. Solo la luce emanante dall’avvenire invisibile permette di afferrare il senso della storia; ma questa luce è profetica e messianica. Sulla base della filosofia greca, una filosofia della storia era impossibile; essa è possibile solo nell’orbita del pensiero giudeocristiano, benché questo fatto possa rimanere inconscio e inconfessato»: N. BERDJAEV, Regno dello spirito e regno di Cesare (1948), trad. it., Milano, 1954, pag. 112. 30. N. BERDJAEV, Psicologia del nichilismo e dell’ateismo russi, in Il problema dell’ateismo, cit., pag. 59. 31. Ivi, pag. 61. 32. Ivi, pag. 62. 33. Ibidem. 34. Ivi, pagg. 63-64. 35. Ivi, pag. 65. 36. Ivi, pag. 65. 37. Verità e menzogna, cit., pagg. 36-37. 38. Ivi, pag. 39. 39. Ved. N. BERDJAEV, Regno dello spirito e regno di Cesare, cit., pagg. 111 e sgg. 40. d. groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa (1961), trad. it., Torino, 1980, pag. 17. 41. Cit. da C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., pag. 114. 42. «Il russo è contraddistinto – al pari dell’ebreo precristiano – dall’accostamento di religione di storia; il lui spirito e azione, idea e politica cercano di compenetrarsi [...]. Il senso messianico della vita, soprattutto il messianismo politico, è condiviso dal russo con altri slavi [...]. Quanto più profonda la sofferenza dell’uomo, tanto meno egli è disposto ad accordarsi col proprio ambiente, tanto più brama di esserne liberato, anziché di trovarvi riparo. Nasce dunque nel purgatorio dei tormenti il concetto messianico!»: W. SCHUBART, L’Europa e l’anima dell’Oriente, trad. it., Milano, 1947, pagg. 90-91. Sulla «psiche decisamente chiesastica» di Berdjaev, per il quale «una Chiesa solo


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invisibile» sarebbe «un concetto impensabile», ved. C. PFLEGER, In lotta per Cristo, trad. it., Brescia, 1936, pag. 375. 43. N. BERDJAEV, Regno dello spirito e regno di Cesare, cit., pag. 117. 44. Ivi, pag. 118. 45. Ivi, pag. 142. 46. Ivi, pag. 143. 47. Ivi, pag. 141. 48. Ivi, pag. 143. 49. Ivi, pag. 144. 50. Ibidem. 51. Ivi, pag. 145. 52. Ivi, pag. 145. Sulla possibilità di un «Prometeo cristiano», interprete moderno della «rivolta contro il destino», ved. H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo (1943), trad. it., Milano, 1992, pagg. 338 sgg. 53. Ivi, pag. 112. 54. Ivi, pag. 117. 55. Ivi, pag. 118. 56. Ivi, pag. 119. 57. Ivi, pag. 119. 58. Ibidem. La differenza tra «il profetismo laico di Marx e quello dei profeti ebrei» è nella perdita della «linea verticale» o «trascendente» nei gruppi rivoluzionari, i quali, una volta al potere, «non hanno applicato contro di sé la loro critica» per mancanza di referente assoluto. Da qui «la tragedia del movimento rivoluzionario che, pur avendo liberato un’intera classe sociale, si è risolto in una nuova schiavitù, la schiavitù totalitaria [...]»: P. TILLICH, Umanesimo cristiano nel XIX e XX secolo (1963), trad. it., Roma, 1969, pag. 191. 59. Ivi, pag. 120. 60. Ivi, pag. 116. 61. Ivi, pag. 122. 62. Ivi, pag. 110. 63. Ivi, pag. 151. 64. Ivi, pag. 152. 65. Ivi, pagg. 152-153. 66. N. BERDJAEV, Verità e menzogna del comunismo, cit., pag. 39.


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67. N. BERDJAEV, Regno dello spirito e regno di Cesare, cit., pag. 154. 68. Ibidem 69. Ivi, pag. 155. 70. Ivi, pag. 156. 71. Ivi, pag. 156. 72. Ivi, pag. 157. 73. Ivi, pagg. 157-158. 74. Ivi, pag. 159. 75. Ivi, pag. 160. 76. N. BERDJAEV, Verità e menzogna del comunismo, cit., pag. 49. 77. Ivi, pag. 50. 78. Ivi, pag. 51. 79. Ivi, pag. 52. 80. N. BERDJAEV, Regno dello spirito e regno di Cesare, cit., pag. 103. 81. N. BERDJAEV, Verità e menzogna del Comunismo, cit., pagg. 5253. 82. «La caratteristica fondamentale delle realtà cosiddette collettive è ch’esse sono prive di centro esistenziale, della facoltà di soffrire o d’essere felici. Ora la capacità di soffrire è il segno fondamentale di una realtà prima ed autentica»: N. BERDJAEV, Regno dello spirito e regno di Cesare, cit., pag. 101. 83. «Di fronte a ogni società, di fronte a ogni popolo, è un problema religioso che si pone innanzitutto. L’illuminazione e la trasfigurazione della volontà, infatti, il fatto di orientarla verso oggetti divini, è un problema di religione e non di politica sociale. E tutti i problemi sociali e politici devono essere subordinati a questo problema religioso»: N. BERDJAEV, Nuovo Medioevo, (1923) trad. it., Milano, 2004, pag. 179. 84. DINO DEL BO, Persona e società, cit. pagg. 35-36. 85. L’umanesimo annida una «contraddizione profonda»: per un verso, «colloca l’uomo al centro dell’universo», liberandolo «dalla rassegnazione che l’affliggeva nel medioevo», indirizzandolo «sulle libere strade dell’autoaffermazione e della creatività»; per l’altro verso lo umilia, trasferendo «il baricentro della personalità umana dall’interno alla periferia», staccando «l’uomo naturale dall’uomo spirituale», accordando lo sviluppo creativo al solo uomo naturale, negando che «l’uomo è un riflesso dell’essere divino» e affermando «che la natura umana è immagine e somiglianza non della natura divina ma della natura mondana, che


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l’uomo è un essere naturale, un figlio del mondo [anziché] un essere di origine superiore divina [rigettando così] il principio posto nello spirito cristiano, che eleva l’uomo e lo proclama immagine e somiglianza di Dio, figlio di Dio, essere che Dio ha fatto suo figlio. Nell’umanesimo si dischiude così la dialettica che porta alla sua autodistruzione»: N. BERDJAEV, Il senso della storia (1923), trad. it., Milano, 19772, pagg. 117-118. 86. «Ogni razionalizzazione della libertà uccide la libertà. Il problema religioso e spirituale della libertà non può essere identificato con la questione del libero arbitrio. La libertà è radicata non nella volontà, ma nello spirito; e l’uomo si libera non per lo sforzo della volontà astratta, ma per lo sforzo della coscienza integrale [...]. C’era bisogno del libero arbitrio al fine di affermare la responsabilità morale dell’uomo [, ma] l’interesse che si portava al libero arbitrio era pedagogico e utilitario, non era essenzialmente spirituale»: N. BERDJAEV, Spirito e libertà (1927), trad. it., Milano, 1947, pag. 178. 87. N. BERDJAEV, Autobiografia spirituale, cit., pag. 269. 88. La coscienza della difficoltà a commisurare sul piano spirituale un fenomeno propriamente ideologico e politico-sociale, spinge a cercare di emularne la carica profetica, contrapponendo alla sua prospettiva ideologica un’altra di segno conforme ai propri postulati di partenza, non accorgendosi che la formula ibrida che inevitabilmente ne nasce contribuisce a rafforzare il valore dell’originale, che comunque funge da modello teorico. Nella Prefazione alla II ed. di Christianisme et réalité sociale (1934), Berdjaev afferma che «per me il sistema sociale più conforme alla coscienza cristiana è quello ch’io intitolerei socialismo personalista o “personalismo sociale” e che io opporrei al marxismo» (cit. da D. DEL BO, Op. cit., pag. 86). Inutile aggiungere che è l’elemento socialistico a caratterizzare, aggettivandolo, il personalismo, privandolo perciò della sua possibile originalità teorica, insinuando l’idea che la possibile riforma cristiana in senso socialistico fosse stata ispirata dal marxismo, che quindi tanto anti-cristiano in fin dei conti non doveva essere. Del cristianesimo come «religione sociale per eccellenza» ha trattato uno dei principali moralisti cattolici francesi dei primi decenni del ’900, A.D. SERTILLANGES, che in una sua opera del 1921, Socialismo e Cristianesimo, afferma, ben prima di Maritain, che «il cattolicesimo, nella sua sostanza, non è altro che l’umanità organizzata religiosamente in vista del suo avvenire integrale, cioè, non solo in vista del cielo, ma anche in vista della terra, retto secondo la legge d’amore e di giustizia; non solo in


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vista dell’eternità, ma anche in vista del tempo che la inizia e che la prepara»: trad. it., Milano, 1922, pag. 72. Lo stesso A., sulla base del tomismo, asseriva che «tanto il credente quanto il non credente possono oggi far parte di uno stesso gruppo politico funzionante pacificamente»: id., Il Cristianesimo e le filosofie, trad. it., Brescia, 1956, vol. I, pag. 227. Sulla stessa base teologica j. maritain aveva concepito la possibilità per credenti e non di «formulare assieme principî comuni di azione»: L’uomo e lo Stato, trad. it., Milano, 1953, pag. 92. Su questa equivoca teoria politica si giustificò la tolleranza verso il marxismo socialista, contro cui polemizzò sempre invece il pensiero liberale più consapevole. Per le analisi di r. aron, ved. i saggi raccolti in Machiavel et les tyrannies modernes, Paris, 1993, di prossima trad. it., a cura di C. Marco. Per J. ORTEGA Y GASSET, ved. La ribellione delle masse (1930), trad. it., in Scritti politici, Torino, 1979, in cui si collega il totalitarismo fascista con lo Stato burocratico dell’Impero romano, pagg. 894-895. 89. Cit. da A. KOLOSOV, L’apocalisse nella storia, nota introduttiva a N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo (1937) trad. it., Milano, 1976, pag. 9. 90. N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 53. 91. Ivi, pag. 53. 92. Ivi, pag. 35. 93. Ivi, pag. 44. 94. Ibidem. 95. Ivi, pag. 50. In verità, circa la forza rivoluzionaria del popolo, Marx e Bakunin avevano idee radicalmente diverse, confidando, il tedesco, sul proletariato urbano delle città industriali, e il russo sul contadiname, specificamente russo. Ved. E.H. CARR, Bakunin (1975), trad. it., Milano, 2002, pagg. 172 sgg. 96. N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 42. Si ricordi l’influenza esercitata da de Maistre su Chaadaev e da questi su de Custine, autore della famosa opera in 4 voll. La russie en 1839, (Bruxelles, 1844), in cui attraverso la critica della Russia si criticava «la cattiva civiltà dell’Europa» e dove si preconizzava il ruolo provvidenzialmente punitivo della Russia nel caso in cui essa non ritrovasse la sua unità religiosa. Ved. D. GROH, Op. cit., pagg. 222 sgg. 97. Ved. A. WALICKI, Una utopia conservatrice. Storia degli slavofili (1964), trad. it., Torino, 1973, pagg. 94 sgg. Testo fondamentale per comprendere sia il clima culturale cui fa riferimento Berdjaev, sia i


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singoli esponenti della intelligencija russa, non solo slavofila, del sec. XIX. 98. N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 61. 99. Ivi, pag. 62. 100. Ivi, pag. 65. 101. Ivi, pag. 68. 102. Ivi, pag. 69. 103. Ivi, pagg. 69 sgg. 104. Ivi, pag. 72. 105. Ivi, pag. 73. 106. Ivi, pag. 74. 107. Ivi, pagg. 76-77. 108. Ivi, pag. 105. 109. Ivi, pag. 104. 110. Ibidem. 111. Ivi, pagg. 26-27. 112. Sia detto per inciso che il carattere religioso, nel senso chiarito, della letteratura russa del sec. XIX offrì la possibilità a una tradizione estetica giovane, rispetto a quella di altre nazioni europee, di costruire un modello artisticamente universale, espressivo di una visione del mondo antropologicamente essenziale, moralmente integrale, culturalmente non frantumata e intellettualmente parziale come quella occidentale. Una visione religiosa, appunto, e come tale in grado di suggerire modelli ideali universali e positivi. La medesima tensione religiosa, trasportata sul terreno pratico, ideologico e politico, non costruisce più totalità artistiche o filosofiche, cioè realtà teoretiche, ma organismi sociali e regimi di potere totalizzanti. Quella che è virtuosa coerenza ideale e morale sul piano teoretico, diventa struttura totalitaria sul piano pratico, e ciò che nel primo caso rende all’uomo la libertà di coscienza, nell’altro caso la nega. Per cui, se l’arte e la religione, in proporzione al loro carattere universale, esaltano la libertà dell’uomo, il carattere totalizzante della politica la mortifica, secondo un rapporto inversamente proporzionale tra espansione della sfera pratica e possibilità della libertà ideale. Ma è, altresì, questo rapporto differenziale a fare del messaggio religioso un’espressione spirituale potenzialmente eversiva dell’ordine sociale stabilito. In altri termini, era la natura propria dello


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spirito religioso della cultura russa a rendere i suoi prodotti ideali politicamente rivoluzionarii. 113. «La contesa tra slavofili e occidentalisti era in effetti una reale battaglia per un tipo di civiltà, per un tipo di struttura sociale globale, che abbracciasse tutto il complesso della vita della nazione. Un altro merito dei due termini era il fatto che essi esprimessero [...] il superamento ed il distacco, portati ormai in profondità, di tutt’e due le ideologie rispetto alla realtà sociale dell’epoca, la loro comune estraneità e, almeno potenziale, ostilità a quella Russia di Nicola I che non era né “veramente slava” né “europea” (nel senso convenzionale dato a questa parola dai rappresentanti delle due correnti in lotta)»: A. WALICKI, Una utopia conservatrice, cit., pag. 390. 114. N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 113. 115. «Il “popolo” appariva alla “intelligenzija” come una forza misteriosa, estranea ed attraente a un tempo. Nel popolo si cela il segreto della vita vera, il lui c’è una verità particolare, in lui c’è Dio, perduto dalla classe colta. La “intellighenzija” non si sentiva una parte organica della vita russa, aveva perduto la sua unità, s’era staccata dalle radici. L’unità s’era mantenuta nel “popolo”: il popolo vive una vita organica, conosce una verità immediata della vita»: N. BERDJAEV, La concezione di Dostojevskij (1921), trad. it., Torino, 1945, pag. 162. 116. Ivi, pag. 114. 117. Ivi, pag. 117. 118. Ibidem. 119. Ivi, pag. 118. 120. Come scrive Berdjaev, «nella Russia dell’ultimo Ottocento si rafforzano le tendenze apocalittiche, tingendosi dei colori del pessimismo. Di là da questa sensazione della fine del mondo ormai prossima e dell’avvento del regno dell’anticristo è dato avvertire il sentimento della prossima fine di tutta un’epoca storica, e dunque della distruzione del vecchio mondo»: Ivi, pag. 120. 121. Ivi, pag. 120. 122. Ved. P. ZWEIG, L’eresia dell’amore di sé. Storia dell’individualismo sovversivo nella cultura occidentale (1968), trad. it., Milano, 1984, pag. 98. 123. «In Solov’ev non meno che in Leont’ev le tendenze apocalittiche e il sentimento della fine ormai prossima stanno a significare


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non già la fine del mondo che si avvicina ma la fine d’un’epoca storica, il presentimento di catastrofi imminenti»: N. BERDJAEV, Op. cit., pag. 121. 124. M. MERLEAU-PONTY, Umanismo e terrore (1947), trad. it., Milano, 1978, pag. 59. 125. Ivi, pag. 124. 126. N. BOBBIO, Persona e società nella filosofia dell’esistenza, in “Archivio di studi filosofici”, 1941, fasc. III, pag. 323. 127. E. PACI, Esistenzialismo e storicismo, Milano, 1950, pag. 11. 128. A. LOMBARDI, Psicologia dell’esistenzialismo, in l. pelloux (a cura), L’esistenzialismo. Saggi e studi, Roma, 1943, pag. 52. 129. C. FABRO, Esistenzialismo e pensiero cristiano, in Tra Kierkegaard e Marx, Firenze, 1952, pag. 209. 130. «L’uomo che ha abusato della cultura non è l’uomo di un rinascimento, bensì di una decadenza [...] curvo sotto il peso di una storia divenuta troppo complicata in seguito allo smarrimento del suo centro religioso. L’uomo non può sopportare l’isolamento in cui l’ha precipitato l’epoca umanistica. A causa di questa solitudine si sente crollare, inventa simulacri di comunione e di legami spirituali, crea false chiese»: n. berdjaev, Un nuovo medioevo, cit., pag. 26. 131. C. FABRO, Loc. cit., pag. 214. 132. Ivi, pag. 215. 133. A. WALICKI, Op. cit., pag. 553. 134. Ivi, pag. 557. 135. Ivi, pag. 558. 136. Ivi, pagg. 564-565. 137. Ivi, pag. 568. 138. Ivi, pag. 569. 139. «La vita religiosa in tutte le sue forme è un perdere il mondo e un ritrovarlo (...). Di fronte al mondo che crolla, che non ha più nessuna forma, egli allora si trova perduto, la religione lo obbliga a cercare il perché della vita, il perché del mondo, al di là del mondo»: E. PACI, Op. cit., pag. 280. 140. Ivi, pag. 281. 141. Ivi, pagg. 286-287. 142. Dostoevskij rappresenta per Solov’ëv l’umanesimo universalistico proprio della cultura russa, quella «ortodossia universale» che non coincide né col cristianesimo ritualizzato né con quello


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interiorizzato, ma con quello «dell’amore, del libero accordo, dell’unione fraterna». Ved. V. SOLOV’ËV, Dostoevskij, Milano, 1981, pagg. 60 sgg. 143. F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, trad. it., di A. Polledro, Milano, 1974, vol. I, pag. 271. 144. R. GUARDINI, Dostojevskij. Il mondo religioso (1930), trad. it., Brescia, 1995, pag. 127. 145. Ivi, pag. 130. Scrive Berdjaev: «Una verità divina, che colpisse con la sua potenza, che trionfasse nel mondo e con la sua forza s’impadronisse delle anime umane, non richiederebbe la libertà per essere accettata. Per questo il segreto del Golgota è il segreto della libertà. Il Figlio di Dio doveva essere croficisso dalle forze di questo mondo, perché la libertà dello spirito umano fosse affermata. L’atto di fede è un atto di libertà, di libera scoperta del mondo delle cose invisibili [...]. In ciò si nasconde il segreto del cristianesimo. Ogni qualvolta nella storia cristiana ci si è sforzati di tramutare la verità crocefissa, rivolta alla libertà dello spirito, in verità autoritaria, che forza lo spirito, si è tradito il mistero fondamentale del cristianesimo. Il principio d’autorità nella vita religiosa è contrario al mistero del Golgota, la mistero della Crocefissione, e vuol mutare la Crocefissione in una forza costrittiva di questo mondo. Su questa via la chiesa assume sempre la veste dello Stato, e accetta la spada dei Cesari [...]. La legalizzazione e razionalizzazione della verità di Cristo è un passaggio dalla libertà alla costrizione»: ID., La concezione di Dostojevskij, cit., pagg. 196-197. 146. R. GUARDINI, Op. cit., pag. 134. 147. Se l’incarnazione del nuovo Adamo costituisce il rinnovato rapporto tra il mondo del Padre e quello della nuova creazione del Verbo, «il Cristo del Grande Inquisitore... è un Cristo distaccato. Un Cristo che esiste solo per sé [, che] non ama il mondo così com’esso è fatto [, e] non sta in alcun rapporto essenziale al Padre Creatore. Non può farci credere di essere il Verbo in cui il mondo è stato creato e la cui incarnazione dovrà ora rigenerarlo trasformandolo. Questo Cristo non sta col mondo reale in quel santo rapporto d’amore che lo purifica e lo rinnova; la Sua è soltanto compassione che invita a uscire dal mondo»: R. GUARDINI, Op. cit., pag. 136. 148. N. BERDJAEV, La concezione di Dostojevkij, cit., pag. 188. 149. Ivi, pag. 199. 150. «Il socialismo è qui inteso come “nuova religione”, e non quale sistema di riforme sociali, non come di un’organizzazione economica, in cui può esservi la sua parte di vero»: Ivi, pag. 199. 151. Ivi, pag. 189.


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152. Ivi, pag. 208. «Dostojevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore dà il colpo di grazia alla falsa idea teocratica del paradiso terrestre, quale degenerazione dell’idea teocratica»: Ibidem. 153. Ivi, pag. 190. In una nota di diario datata 23 dic. 1872, Dostoevskij scriveva che «l’ateismo è una malattia aristocratica, una malattia dell’educazione e dello sviluppo superiori, dunque, dev’essere ostica al popolo»: ID., Quaderni e tacquini, cit., VI, 1872-1875, pag. 166. 154. Ivi, pag. 191. 155. Ivi, pag. 192. 156. Ivi, pagg. 192-193. 157. L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa (1967), Torino, 1993, pag. 106. 158. Ivi, pag. 118. 159. Ivi, pag. 119. 160. «Da un lato dunque la scelta del male annulla il bene ma annulla anche la libertà; dall’altro l’imposizione del bene annulla la libertà ma annulla anche il bene»: Ivi, pag. 119. 161. Ivi, pag. 120. 162. N. BERDJAEV, La concezione di Dostoejevskij, cit., pag. 92. 163. Ibidem. 164. L. PAREYSON, Op. cit., pag. 125. 165. Ibidem. 166. Ivi, pag. 127. 167. Come asserisce Hegel, «l’unificazione degli opposti è presente solo nel concetto: è stata fatta una legge; se l’opposto è stato distrutto, rimane il concetto, la legge; ma in tal caso questa esprime solo ciò che manca, la lacuna, poiché in realtà il suo contenuto è stato tolto; ed allora la legge si chiama legge penale». id., Scritti teologici giovanili, trad. it., Napoli, 1972, pag. 390. Esattamente questa «legalizzazione» e riduzione alla punizione penale, attraverso la «razionalizzazione» della colpa, viene rigettata da Dostoevskij. 168. In Op. cit., pag. 20. 169. La crisi metafisica, che in Occidente era espressa col nichilismo, che a partire da Jakobi aveva assunto una accezione puramente filosofica, in Russia servì a designare il movimento rivoluzionario. Ved. V. STRADA, Il superuomo e il rivoluzionario nella prospettiva di Dostoevskij, in S. GRACIOTTI e V. STRADA (a cura), Dostoevskij e la crisi dell’uomo, Firenze, 1991, pag. 168.


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170. W.G. HEGEL, Saggi teologici giovanili, cit., pagg. 444-445. 171. N. BERDJAEV, La concezione di Dostojevskij, cit., pagg. 133-134. 172. «Nel socialismo si trovano le scheggioline, nel cristianesimo c’è lo sviluppo in grado estremo della persona e della libertà personale [...]. I socialisti non vanno in là del ventre [...]. Tutto il futuro fondamento e la norma del formicaio sociale che il socialismo mette come scopo è nel ventre sazio, e, a tal fine, in associazioni incondizionate di formiche, e la sua suprema morale a questo riguardo, il massimo incoraggiamento offerto all’umanità consiste nel convincere e nell’assicurare ai proseliti che questi doveri sono dolci, perché saranno compiuti per se stessi, nel proprio interesse, travail, per così dire, attroyant»: F. DOSTOEVSKIJ, Socialismo e cristianesimo, in Dostoevskij inedito. Quaderni e tacquini 1860-1881, IV 1864-1865, Firenze, 1981, pagg. 124, 125 e 126. 173. Ivi, pagg. 136 e 135. 174. Ivi, pag. 138. 175. Il sottosuolo «è la sfera della coscienza nella sua intimità libera e irrazionale, necessariamente in urto con le leggi del mondo esterno in cui domina l’intelletto astratto. Il sottosuolo è non solo coscienza, ma, per così dire, coscienza illecita, inconfessabile e inconfessata, di cui la coscienza dell’uomo normale immerso nell’azione e nella routine sociale, è una riduzione impoverita e depotenziata [...]. Nel sottosuolo, ch’è la sfera psichica in cui l’uomo si rinchiude in se stesso, la sfera in cui “io sono uno solo, e loro sono tutti”, ribolle il risentimento contro la logica spersonalizzante dell’uomo dell’esistenza banale, che aspira a una sicurezza oggettiva e che toglie alla vita l’asprezza dei suoi problemi, e, in ultima analisi, il suo amaro fascino. Sottosuolo significa coscienza di una disarmonia radicale tra ciò che è intimo e informe e ciò che ha smercio sociale, e questa disarmonia alimenta una perpetua e morbosa irritabilità, un costante senso di risentimento e di irrequietezza. Nel sottosuolo v’è il gusto della propria libera abiezione, perché è la sfera premorale in cui l’uomo non accetta nulla di obbiettivo e di valido, la sfera prelogica dell’antinomia, della contraddizione non risolta e non inquadrata in nessuna legge, dell’ambivalenza, della incandescenza non ancora cristallizzata in una forma. Il sottosuolo è il senso capriccioso, arbitrario della libertà [in cui] l’uomo non vuole essere legato a nulla tranne che al proprio arbitrio e alla propria fantasia e respinge perfino l’idea della propria coerenza. Il sottosuolo è l’assenza di ogni legge o convenienza imposta dalla società o dal prossimo o perfino da quei vincoli interiori che spesso la personalità si crea; è l’irrazionale, l’informe con tutta la sua


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caotica, incontrollata, cinica, risentita spontaneità»: R. CANTONI, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Milano, 1948, pag. 60. 176. «Se osserviamo i personaggi dostoevskiani più tipici, ci accorgiamo che essi sono tutti personaggi dialettici, in continuo movimento e superamento; né il superamento significa sempre un incremento di piacere, di possesso e di verità. La dialettica di Dostoevskij non è lineare ma ciclica e comprende in sé, come polarità insopprimibile, il momento negativo, la rottura della logica intellettualistica»: R. CANTONI, Crisi dell’uomo. cit., pag. 58. 177. N. BERDJAEV, La concezione di Dostojevskij, cit., pag. 140. 178. Ivi, pag. 141. «Per Dostojevskij il cattolicismo è stato il veicolo dell’idea dell’universalismo costrittivo di Roma, dell’unione costrittiva universale di tutti gli uomini e di un ordinamento forzato della loro vita terrena. L’idea romana dell’universalismo forzato si trova pure nei fondamenti del socialismo. Sia in una concezione che nell’altra si nega la libertà dello spirito umano» in nome dell’eudemonismo sociale: Ibidem. 179. In Europa «il cristianesimo non è morto di colpo, ma lentamente, lasciando delle tracce. Perché anche ora ci sono là dei cristiani, anche se purtroppo con una concezione del cristianesimo molto sfigurata»: F. DOSTEVSKIJ, Quaderni e tacquini, cit., XI 1880-1881, pag. 409.] 180. «Perché il singolo realizzi pienamente il proprio se-stesso non basta che si inserisca nella società, dove si identifica con un’idea, ma è necessario anche che mantenga la propria indipendenza che nella società può annullarsi. L’individuo, quando si isola, cade nel nulla, così quando si perde nella generalità dell’oggettività e della soggettività sociale»: K. JASPERS, Filosofia (1932), II, trad. it., Milano, 1978, pag. 331. 181. N. BERDJAEV, Cinq méditations sur l’existence, Paris, 1936, pag. 194. 182. Ivi, pag. 119. 183. Ivi, pag. 97. 184. «Quando l’io s’immerge nelle cose, si dissolve come persona e si oggettiva nelle istituzioni sociali; quando si trascende verso l’altro ritrova l’essenza personale e si pone come soggetto nella comunione. Oggettivazione e personalità, rapporto io-cosa e rapporto iotu, insomma società e comunione sono per il Berdjaev i due termini del contrasto esistenziale»: N. BOBBIO, Persona e società nella filosofia dell’esistenza, cit., pag. 332.


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185. Op. cit., pag. 127. 186. Ivi, pag. 208. 187. Ivi, pag. 200. 188. N. BOBBIO, Loc. cit., pag. 334. 189. Ibidem. 190. Ibidem. 191. G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, Milano, 1969, pagg. 45-46. 192. Ivi, pag. 44. 193. Ivi, pag. 132. 194. «L’uomo diventa io a contatto con il tu [...]. Chi dice la parola Dio e intende realmente il Tu, qualsiasi sia l’illusione di cui è prigioniero, dice il vero tu della sua vita, che non tollera di essere limitato da nessun altro e con cui è in una relazione tale da includere tutte le altre»: M. BUBER, Io e tu (1923), trad. it., in Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo, 1993, pagg. 79 e 112. 195. Ivi, pag. 135. 196. E. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale (1932), trad. it., Brescia (1947), 1983, pag. 44. 197. Col. 2,9. 198. Ved. P.N. EVDOKÌMOV, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale (1966), Roma, 1983, pagg. 112-113. La tensione tra l’Occidente più sensibile al potere, e l’Oriente più sensibile alla gloria divina, si riassume, in tutto il Medio Evo, nella lotta tra Pietro e Paolo, «fra le chiavi della conoscenza, che alla fine prevalsero nella Riforma, e le chiavi del potere che sempre prevalsero nella Chiesa romana»: P. TILLICH, Storia del pensiero cristiano, cit., pag. 107. 199. N. BERDJAEV, Filosofia dello spirito libero. Problematica e apologia del cristianesimo (1927-1928), trad. it., Cinisello Balsamo, 1997, pagg. 136 e 137. 200. E. MOUNIER, Le personalisme (1949), in Oeuvres, vol. III 19441950, Paris, 1962, pag. 431. 201. E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo? (1936), trad. it., Torino, 1948, pag. 55. 202. La nuova dimensione personalista, per il riconoscimento della centralità dell’atto volontario della scelta-decisione, era tesa a superare la stessa dimensione del Cogito cartesiano in una fenomenolgoia della volontà che evidenziava, all’interno dell’unità della persona, quella che Ricoeur definisce la “faille existentielle”, la rottura della coscienza, che prelude alla duplice lettura modale (in senso creativo e in senso


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conservativo di valori acquisiti) della libertà come scelta del nuovo o come interruzione del processo deliberativo. Si trattava insomma di una prospettiva teoretica per cui «l’io deve rinunciare ad una pretesa segretamente nascosta di ogni coscienza, abbandonare il suo desiderio di auto-posizione, per accogliere una spontaneità feconda e come una sorta di ispirazione che rompe il cerchio sterile che l’io forma con se stesso». Ved. P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. La volontaire et l’involontaire, Paris, 1949, pag. 17. Attraverso questo tracciato infine si sarebbe giunti, attraverso la critica del trascendentalismo di Husserl, all’ermeneutica del linguaggio. Ved. G. GRAMPA, Ideologia e poetica. Marxismo e ermeneutica per il linguaggio religioso, Milano, 1979, pagg. 144-215. 203. E. MOUNIER, La crisi del secolo XX, in Che cos’è il personalismo?, cit., pag. 54. 204. E. MOUNIER, Responsabilités de la pensée chrétienne (19391940), in Oeuvres, vol. II, cit., pag. 585. 205. K. MARX-F. ENGELS, L’ideologia tedesca (1846), trad. it., Roma, 1958, pag. 25. 206. E. MOUNIER, Op. cit., pag. 588. 207. Ibidem. 208. Ivi, pag. 589. 209. Ibidem. 210. Ibidem. 211. Ivi, pag. 590. 212. Ibidem. 213. Ivi, pag. 592. 214. Ivi, pag. 592. 215. Ivi, pag. 593. 216. Ivi, pagg. 593-4. 217. E. MOUNIER, Christianisme et communisme (1947), in Oeuvres, vol. III, cit., pag. 613. Si noti la diversa considerazione tipologica tra la univoca e definita “concezione del mondo” borghese, e l’ideologia comunista, assunta come un corpo dottrinario in evoluzione. Tale discrasia è dovuta alla assunzione della mentalità borghesia come un oggettivo “sistema di vita”, mentre l’ideologia comunista come una esperienza di vita individuale, simile a quella religione, senza caratterizzarla però come una «rappresentazione collettiva» (Durkheim) esercitante una pressione costrittiva sul gruppo, che «pense, sent, agit tout autrement que ne feraient


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ses membres, s’ils étaient isolés» (E. DURKHEIM, Les règles de la méthode sociologique (1908), Paris, 1983, pag. 103), e quindi oggettivarla. Per i concetti di “concezione del mondo” come «insieme di contesti di esperienza strutturalmente interconnessi, che costituisce la base comune per una molteplicità di individui a partire dalla quale essi fanno esperienza», e di “sistema di vita” inteso come «coerenza interna di segmenti di esperienza individuali», ved. K. MANNHEIM, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale (1922), in Le strutture del pensiero, trad. it., Roma-Bari, 2000, pagg. 70-71. 218. E. MOUNIER, Cristianisme et communisme, cit., pag. 614. 219. Ivi, pagg. 614-615. 220. Ivi, pag. 616. 221. Ivi, pag. 617. 222. Ivi, pag. 618. 223. Ibidem. 224. Ivi, pag. 619. 225. Ivi, pag. 619. 226. N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 126. 227. Ivi, pag. 127. 228. Ivi, pag. 133. 229. Ivi, pagg. 135-137. 230. N. BERDJAEV, Loc. cit., pagg. 138-140. 231. «La division du monde en deux domaines comprenant, l’un tout ce qui est sacré, l’autre tout ce qui est profane, tel est le trait distinctif de la pensée religieuse [...]. Mais, par choses sacrées, il ne faut pas entendre simplement ces Etres personnels que l’on s’appelle des dieux, ou des esprit [...]; une chose quelconque peut etre sacrée». e. durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), Paris, 1968, pagg. 50-51. 232. J.G. FRAZER, Il ramo d’oro (1922), trad. it., Torino, vol. I, pag. 83. 233. Ibidem. 234. In questo senso, «religioso» era l’attualismo di Gentile, che distingueva l’atto dalla natura astratta del pensato, ma non lo storicismo assoluto di Croce che, almeno strutturalmente, conservava le distinzioni tra sfera teoretica e sfera pratica come realtà entrambe spirituali. Mentre in Gentile, com’è noto, la prassi economica si identificava con la stessa moralità, in Croce l’etica fu considerata un valore universale rispetto a quello economico dell’azione utile. Ed è proprio l’identità o la


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corrispondenza tra teoria e prassi a richiedere la mediazione storica dell’istituzione (Chiesa, Stato o Partito che sia) depositaria della legalità. Non a caso Gentile stabiliva una equazione tra «il cattolicismo», (e non già il protestantesimo), definito «la religione più perfetta», e «la filosofia europea moderna», cioè l’idealismo, che a suo dire era «la più perfetta filosofia»: ID., Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909), in La religione, Firenze, 1965, pag. 44. È solo con l’opera del 1938 sulla Storia come pensiero e come azione che Croce disegna una visione religiosa della storia, assegnando all’etica un valore di equilibrio entro le distinte forze categoriali, concepite come organicamente funzionali alla conservazione della struttura teoretica dello spirito. È questa visione armonica della storia ideale che proietta sulla realtà effettuale la necessità pratica di conservarla, e di conservarla attraverso la politica. Ciò che era semplicemente la realtà del negativo, diventa in ultimo per Croce lo spirito rivoluzionario della vitalità, che opera in senso contrario alla politica di conservazione dell’ordine strutturale, cioè come forza eversiva o, religiosamente, maligna. Il male viene dunque a coincidere con il contrario del bene, presi in sé, stabilendo quella contrapposizione religiosa tra bene e male, sacro e profano che conosciamo. È il male-fascismo a provocare la risposta benigna della difesa del bene-liberalismo, entrambi concepiti non come entità empiriche, ma come entità morali e meta-storiche in lotta irriducibile, religiosamente. Un caso evidente di risoluzione della filosofia nella storia speculare a quella gentiliana della storia nella filosofia. Ved. a riguardo M. VISENTIN, Attualismo e filosofia della storia, in Il neoparmenidismo italiano. Vol. I Le premesse storiche e filosofiche: Croce e Gentile, Napoli, 2005, pagg. 401-440. 235. N. BERDJAEV, Le fonti, cit., pagg. 133. 236. Ivi, pagg. 141. 237. Ibidem. 238. Ibidem. 239. Ibidem. Per la concezione marxista della persona umana, questa è opera della società quale espressione dei rapporti sociali. Non dunque autonoma dalla società, ma suo prodotto, per cui «l’uomo sociale non dipende da alcun fattore sovrumano, cioè non ha niente a che vedere con la tesi inerente alla vita autonoma dell’individuo nell’interpretazione personalista o esistenzialista [ma anzi] contraddice quella tesi»: A. SCHAFF, Il marxismo e la persona umana (1965), trad. it., Milano, 19732, pag. 148.


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240. 241.

E. MOUNIER,

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Cristianisme et communisme, cit., pag. 618. , Rivoluzione protestante, Torino, 1925, pagg. 11-

G. GANGALE

12. 242. Ivi, pag. 13. 243. Ivi, pag. 38. 244. Ivi, pag. 39. 245. Ivi, pag. 7. 246. Ivi, pag. 89. 247. M. Adler, riprendendo un concetto di Cohn sulla qualità categoriale delle religioni monoteiste, ricorda che «il monoteismo è la rappresentazione religiosa della moralità, mentre il politeismo è la forma cosmologica della religiosità»: ID., Il cristianesimo primitivo di Karl Kautsky (1908-1909), trad. it., in Filosofia della religione, Firenze, 1992, pag. 136. 248. N. BERDJAEV, Le fonti, cit., pag. 144. La lotta tra marxisti ortodossi o totalitarii, e marxisti critici ed eclettici, lasciò in Russia il posto a un nuovo movimento ideale che cercò «di dare al socialismo un fondamento etico e ideologico. Ciò costituiva un indubbio superamento delle tradizioni del nichilismo russo, delle teorie utopistiche, del materialismo e del positivismo, ed ebbe come risultato che la ricerca della “integralità” e della “totalità” fu volta, anziché alla rivoluzione, alla religione [...]. Nel suo insieme, il movimento può essere caratterizzato come un romanticismo russo sui generis [e] un passaggio al realismo religioso [...]. Ma l’interesse per le questioni sociali si era affievolito e i creatori di questo movimento di rinascita spirituale non esercitarono alcuna influenza sui fermenti sociali e rivoluzionari contemporanei; essi vivevano in una sorta di isolamento sociale e formavano un’élite circoscritta a inaccessibile»: Ivi, pagg. 143-144. 249. Ivi, pagg. 145-146. 250. Ivi, pag. 147. 251. Ivi, pag. 149. 252. L. PELLICANI, I rivoluzionari di professione, cit., pag. 153. 253. G. MOSCA, Elementi di scienza politica (1896), in Scritti politici, vol. II, Torino, 1982, pag. 628. 254. J.J. ROUSSEAU, Contratto sociale, libro III, cap. IV: H. ARENDT, Sulla rivoluzione (1963), trad. it., Torino, 1999, pagg. 208 sgg. 255. «Il problema del potere è sempre stato fondamentale per Lenin e presso tutti coloro che si schierarono con lui [...]. Non la conoscenza o il pensiero, ma la volontà rivoluzionaria disposta a tutto è ciò


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che ribadisce la verità assoluta [...]. Il marxismo totalitario, il materialismo dialettico: ecco la verità assoluta. Questa verità assoluta è l’arma della rivoluzione e dell’organizzazine della dittatura [...]. Ma un insegnamento che contenga in sé una dottrina totalitaria, una dottrina intesa ad abracciare tutto il complesso della vita – non solo la politica e l’economia, ma anche il pensiero, anche la coscienza, anche la creazione intellettuale – un tale insegnamento non può essere altro che oggetto di fede»: N. BERDJAEV, Le fonti, cit., pag. 159. 256. «Lenin esige l’organizzazione dall’alto e non dal basso; un’organizzazine, in altri termini, di tipo non democratico ma dittatoriale»: N. BERDJAEV, Loc. cit., pag. 158. 257. «La rivoluzione comunista russa è stata determinata in gran parte dalla guerra [...] [e] proprio i comunisti trassero dalla guerra i maggiori benefici, al punto che senza di essa non sarebbero perveuti alla vittoria [...]. L’insuccesso della guerra creò le condizioni più favorevoli in vista della vittoria dei bolscevichi [...]. Solo l’atmosfera della guerra seppe creare nel nostro paese il tipo del bolscevismo foriero di vittoria [...]. Proprio la guerra, con le sue esperienze e con i suoi metodi favorì la rigenerazione del modello dell’intelligencija russa. I metodi della guerra vennero trapiantati nell’interno del paese»: Ivi, pag. 178-179. 258. «Non c’è nulla di più orrendo di una guerra che precipita verso l’irreparabile, di un esercito che si sfalda irrimediabilmente: di un esercito, per giunta, colossale, composto da parecchi milioni di armati»: Ivi, pag. 180. 259. «Una netta opposizione contro la supremazia della società borghese si sviluppò nei paesi occidentali per l’influsso della Russia, dove [agli inizi del sec. XIX] crebbe una vera e propria coscienza di missione e redenzione religiosa di fronte all’occidente. Ma questa opposizione si fece veramente sentire molto più tardi, nel XX secolo, proprio quando già lo spirito scientifico-naturalistico ed economico aveva ottenuto anche in Russia un’enorme ed esteriormente completa vittoria, sotto la forma della rivoluzione marxistica»: P. TILLICH, Lo spirito borghese e il kairòs (1925), trad. it., di A. Banfi, Roma, 1929, pag. 29. 260. N. BERDJAEV, Op. cit., pag. 181. 261. Ivi, pag. 178. 262. Ivi, pag. 179. 263. Ivi, pag. 172.


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264. Ivi, pag. 168. 265. Ivi, pag. 169. 266. Ved. le sue Considerazioni sulla Francia (1796). 267. N. BERDJAEV, Op. cit., pagg. 170-171. 268. Ivi, pag. 196. 269. Ivi, pag. 175. 270. Ved. E. NOLTE, Il Fascismo nella sua epoca, cit., e La crisi dei regimi liberali, cit. 271. Come si espresse O. Bauer, «l’intero movimento rivoluzionario provocato dalla grande guerra è dovunque attraversato dalla lotta della classe operaia contro la democrazia puramente parlamentare», cioè quella dominata dalla borghesia. Ved. id., Die Oesterreichische Revolution, Wien, 1923, pag. 187. 272. N. BERDJAEV, Op. cit., pagg. 196-197. La totale socializzazione coincide, per l’uomo, nella «uccisione dell’individualità», ovvero «della persona morale», che rende poi possibile «l’annientamento della persona giuridica»: H. ARENDT, Le origini del totalitarismo (1951), trad. it., Torino, 1999, pag. 623. 273. Ivi, pag. 197. 274. Ibidem. 275. Ibidem. 276. Ved. G. BATAILLE, La structure psycologique du fascisme (1933), in Oeuvres, vol. II, Paris, 1970. 277. L’accezione testuale di storicismo è diversa da quella usata da Popper in Miseria dello storicismo e ne La società aperta e i suoi nemici, dove storicismo sta per profezia storica, filosofia della storia e scienza delle leggi dello sviluppo storico. Anche il razionalismo da Popper è inteso come il pensiero critico contrario a quello del mito. 278. N. BERDJAEV, Nuovo Medioevo (Berlino, 1923), trad. it., Milano, 2004, pag. 3. 279. Ivi, pag. 4. 280. Ivi, pag. 5. 281. Ivi, pag. 6. 282. K. JASPERS, La situazione spirituale del tempo (1946), trad. it., Roma, 1982, pag. 168. 283. Ivi, pag. 166. 284. Ibidem. 285. Ivi, pag. 167. 286. N. BERDJAEV, Nuovo Medioevo, cit., pag. 8.


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287. Ivi, pag. 9. 288. «Il Medioevo aveva salvaguardato le forze creative dell’uomo e aveva preparato la meravigliosa fioritura del Rinasciento. L’uomo entrò nel Rinascimento con l’esperienza medievale, con la preparazione medievale. E tutto ciò che vi fu di autenticamente grande nel Rinascimento aveva un legame con il Medioevo cristiano»: Ivi, pag. 16. 289. Ivi, pag. 13. «L’ascetismo del mondo cattolico medievale era un’ottima preparazione a operare [...] una scuola straordinaria [che] gli forniva una tempra sublime. E l’uomo europeo, durante tutta la storia moderna, ha vissuto di ciò che aveva spiritualmente acquisito a questa scuola. Al cristianesimo egli deve tutto. Nessun’altra scuola spirituale ha più potuto soggiogarlo e disciplinarlo»: ivi, pag. 18. 290. Ivi, pag. 14. «Il Rinascimento portava in sé il seme della morte. Alla sua base stava, infatti, la distruttiva contraddizione dell’umanesimo, di quell’umanesimo che, da un lato, elevava l’uomo e gli attribuiva forze illimitate e, dall’altro, vedeva nell’uomo solo un essere finito e dipendente, ignorante della libertà spirituale. Per elevare l’uomo, l’umenesimo lo privò della somiglianza divina e lo sottomise alla necessità naturale. Il Rinascimento, fondato sull’umenesimo, ha scoperto le forze creative dell’uomo in quanto essere naturale e non spirituale. Ma l’uomo naturale, separato dall’uomo spirituale, non possiede fonti inesauribili per la sua creazione: è destinato a inaridirsi, a ridursi alla superficie dell’esistenza. Lo dimostrano gli ultimi frutti della storia moderna [...]. Lungo tutta la storia moderna, si rivela e si aggrava l’antinomia fondamentale dell’umanesimo»: ivi, pag. 15. 291. Ivi, pag. 19. 292. Ibidem. 293. Ivi, pag. 22. «Bisogna ammettere questa legge: che l’uomo, nella sua esistenza terrena, limitata e relativa, può creare cose belle e preziose solo quando crede in un’altra esistenza, illimitata, assoluta, immortale [...] Soltanto l’uomo spirituale può essere un autentico creatore, che affonda le proprie radici nella vita infinita ed eterna»: ivi, pag. 24. 294. Ivi, pagg. 24-25. «Senza le correnti di ascetismo religioso, che operano le distinzioni, che segnano la dstanza, che sottomettono l’inferiore al superiore, è impossibile che la personalità sussista. Ma la storia moderna è stata costruita proprio su questa illusione: che la


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personalità potesse svilupparsi senza l’aiuto delle grandi correnti di ascetismo religioso»: ivi, pag. 25. 295. Ivi, pag. 25. 296. Ivi, pag. 23. 297. Ivi, pag. 25. 298. Ivi, pag. 26. 299. Ivi, pag. 27. 300. Ivi, pag. 28. 301. Ibidem. 302. Ivi, pag. 29. 303. Ivi, pag. 30. 304. «Il Rinascimento era fondato sulla disuguaglianza ed era possibile solo in virtù di questa. La sete di uguaglianza che si è impadronita dell’uomo contemporaneo ha segnato la fine del Rinascimento. È l’entropia nella vita sociale»: ivi, pag. 30. 305. Ivi, pag. 31. 306. Ivi, pag. 32. 307. Ibidem. 308. Ivi, pag. 33. «La dialettica immanente delle relazioni che il Rinascimento stabilisce con la natura porta alla negazione di queste relazioni. La fine del Rinascimento uccide la natura, così come uccide l’uomo: è questa la tragedia della storia moderna, attraverso la quale siamo costretti a passare. La macchina, elaborata dal Rinascimento, ha ucciso il Rinascimento, ha distrutto la bellezza dell’esistenza, prodotta dalla pienezza creativa delle energie umane»: ibidem. 309. Ivi, pag. 41. 310. Con il socialismo «cessa il libero gioco dell’esuberanza creativa dell’uomo moderno. Le forze umane sono legate l’un l’altra e necessariamente dipendono da un centro; questo centro, non essendo più religioso, diventa sociale [e] l’individualità dell’uomo viene subordinata alla collettività, alle masse»: Ivi, pag. 41. 311. Ivi, pag. 42. Il rapporto tra il «principio antropologico» dell’auto-affermazione dell’uomo con il «principio egoistico» che fa perdere al socialismo il «proprio significato universale», è chiarito da uno dei maestri di Berdjaev, V. SOLOV’ËV ne La crisi della filosofia occidentale (1874), trad. it., Milano, 1989, pagg. 120-121. 312. Ivi, pag. 43. 313. Ivi, pag. 44.


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314. Ivi, pag. 45. Sull’ultimo punto, Berdjaev riecheggia alcune delle analisi di Scheler contenute in Vom Umsturz der Werte, che è del 1915, probabilmente conosciute durante la sua residenza in Germania, che è appunto del periodo della composizione del presente saggio, uscito, com’è noto, a Berlino nel 1923. 315. Ivi, pag. 46. «Che l’umanesimo si sia rivoltato contro l’uomo: è questa la tragedia dei tempi moderni»: ivi, pag. 52. 316. Ibidem. 317. Ivi, pag. 18. 318. Ivi, pag. 47. 319. Ibidem. 320. Ibidem. 321. Ivi, pagg. 48-49. Per Berdjaev, il fascismo, così come il comunismo, appartengono al Medioevo. Il fascismo è una «forza biologica e non di diritto... assolutamente contrario all’idea di legittimità, che nemmeno riconosce», sostituita «con il principio della forza», passando «dalle forme giuridiche alla vita stessa», quello che è «proprio di un nuovo Medioevo»: Nuovo Medioevo, cit., pag. 79. Ved. anche pag. 131. Ortega, in un articolo del 1925, indica i caratteri fondamentali del fascismo ne «la violenza e l’illegittimità», che ne caratterizzano il suo tratto, «completamente nuovo» rispetto ai precedenti due secoli di «costituzionalismo», e cioè di «legittimismo»: ID., Sul fascismo, in Scritti politici, cit., pagg. 647-649. Notevoli le affinità interpretative con l’analisi di Ortega, il quale pensava alla «barbarie» come «tendenza alla dissociazione» dell’unità sociale, della convivenza politica, attraverso la violenza, assurta a prima ratio, anzi a «unica ragione [che] propone l’annullamento d’ogni norma, che sopprime ogni azione intermedia fra il nostro proposito e la sua imposizione». In questo senso la violenza è «la Charta Magna della barbarie»: id., La ribellione delle mani, cit., pag. 858. Il Croce maturo, in uno scritto del 1942 sulla «religiosità», afferma che questa coincide con l’«armonia», propria dell’«aristocrazia», mentre propria del popolo è la disarmonia. «Il volgo – egli dice – è disarmonico, immerso nella sua angusta e unilaterale individualità»: id., Etica e politica, Bari, 19432, pag. 208. Il dominio del volgo, delle masse, è dunque per lui il regno della disarmonia spirituale. 322. Ivi, pag. 53. 323. Ivi, pag. 59.


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324. Ivi, pag. 64. 325. Ivi, pag. 60. 326. Ibidem. 327. Ivi, pag. 63. 328. Ivi, pag. 64. E continua: «Tutte le consuetudini mentali e le maniere di vivere degli uomini più “avanzati”, più “progressivi”, perfino più “rivoluzionari” del XIX e del XX secolo sono invecchiate senza speranza e hanno perso ogni significato per il presente e, soprattutto, per il futuro. Tutti i termini, tutte le parole, tutte le nozioni devono essere impiegati, per così dire, con un significato nuovo, più profondo, più ontologico»: ibidem. 329. Ivi, pag. 69. 330. Ivi, pag. 69. 331. Ivi, pag. 65. 332. Ivi, pag. 67. 333. Ivi, pagg. 67-68. 334. Ivi, pag. 68. 335. Questo tema dostoevskijano è ben evidenziato da h. de lubac ne Il dramma dell’umanesimo ateo (19453), trad. it., Milano, 1992, pagg. 253-281. 336. Ivi, pag. 70. 337. Ivi, pag. 71. 338. Ivi, pag. 73. 339. Ibidem. 340. Il capitalismo, afferma Berdjaev, «poteva espandersi solo in una società che aveva deliberatamente rinunciato all’ascetismo cristiano, voltando le spalle al cielo per dedicarsi esclusivamente alle soddisfazioni terrene. È evidente che il capitalismo è impensabile come economia del sacro. Esso è il risultato della secolarizzazione della vita economica [...]. Il socialismo altro non è che uno sviluppo più conseguente del sistema industriale-capitalista, il trionfo definitivo dei suoi princìpi latenti e la loro piena diffusione [...]. Tanto il capitalismo quanto il socialismo recano con sé il crollo e l’estinzione delle creazini spirituali, una mortificazione dello spirito nella società umana»: Ivi, pag. 82. 341. Ivi, pag. 74. 342. Ivi, pag. 75. 343. Ivi, pag. 76. 344. Ivi, pag. 77. 345. Ibidem. 346. Ivi, pag. 83. 347. Ivi, pag. 84.


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348. Ivi, pag. 86. 349. Ivi, pag. 88. 350. Ibidem. 351. Ivi, pag. 89. 352. Ibidem. 353. Ivi, pag. 96. 354. Ivi, pag. 92. 355. Ivi, pag. 93. La «tragedia della storia moderna» è vista da Berdjaev come «il passaggio dall’eteronomia all’autonomia», che lo ha condotto all’autodistruzione, perché se «una società fondata sull’eteronomia non può esistere in eterno», è anche vero che «l’autonomia deve essere solo una tappa verso la teonomia, verso uno stato d’animo superiore, verso la libera accettazione della volontà di Dio, verso la libera subordinazione a questa volontà»: ivi, pag. 182. 356. Ivi, pag. 94. «Il vero Stato cristiano non sarà già più uno Stato. Quel che bisogna fare non è proiettare tutto all’esterno, non è rendere manifesta una vita interiore, bensì immergere davvero tutto nella vita spirituale, ritornare alla patria dello spirito. È questa una rivoluzione più profonda di tutte quelle che i rivoluzionari puramente esteriori possono realizzare»: ivi, pag. 184. 357. Ivi, pag. 95. 358. Ivi, pag. 97. 359. Ivi, pag. 96. 360. Ivi, pag. 99. «La modernità concepiva il potere come un diritto e si occupava di limitare i diritti del potere. Il nuovo Medioevo deve concepire il potere come un dovere. E tutta la vita politica, fondata sulla lotta per il potere, deve essere considerata una vita irreale, fittizia, vampiresca. Non vi è, in essa, alcunché di ontologico. La politica per nove decimi, è sempre menzogna, inganno, finzione. E solo un decimo della politica racchiude in sé un elemento di realtà: l’organizzazione del potere indispensabile all’esistenza del mondo, vale a dire del potere di Dio»: ivi, pagg. 99-100. 361. Ivi, pag. 98. Questa tesi viene ribadita a proposito della moderna concezione popolare del potere, ritenuta falsa in quanto il potere ha una «natura» e una «struttura gerarchica» non mutabile, per cui «il potere non è mai appartenuto né mai apparterrà al gran numero», così che nelle democrazie, diversamente da quanto si sotiene, «non è certo il popolo


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che governa, bensì un’infima minoranza di capi di partito, di banchieri, di giornalisti ecc.». Così, nella nuova realtà sociale auspicata da Berdjaev, «sono i bisogni materiali e materiali delle masse che chiederanno di essere soddisfatti, e non le loro aspirazioni al potere»: ivi, pag. 102. 362. Ivi, pag. 100. 363. Ibidem. 364. Ivi, pag. 101. 365. N. BERDJAEV, Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 202. 366. Ivi, pag. 203. 367. Ivi, pag. 205. 368. Ivi, pag. 207. 369. Ivi, pag. 206. 370. N. BERDJAEV, Nuovo Medioevo, cit., pag. 115. 371. Ivi, pag. 118. 372. Ivi, pag. 116. 373. Ivi, pag. 117. 374. Ivi, pag. 120. 376. Ivi, pag. 121. 376. Ivi, pag. 122. 377. «Se il socialismo ha assunto tanta importanza nella nostra epoca, è perché i fini della vita umana si sono oscurati e sono stati definitivamente sostituiti dai mezzi della vita [...]. Non vi è sostanza spirituale né nel socialismo né nella democrazia. E in verità, la sostanza e lo scopo della vita possono essere ricercati solo nella realtà spirituale, nella cultura spirituale», e la «sostanza della vita può essere solo una sostanza religiosa»: ivi, pagg. 177 e 179. 378. «Il bolscevismo non è un fenomeno estrinseco al popolo russo, bensì intrinseco: è la grave malattia morale, il male organico del popolo russo [...], un riflesso del vizio interiore che vive in noi [...], un’allucinazione dello spirito popolare malato [che] corrisponde allo stato morale del popolo russo [ossia] la sua crisi morale interna, l’abbandono della fede, la crisi della religione, la profonda demoralizzazione del popolo»: Ivi, pag. 123. 379. Ivi, pagg. 124-125. È notevole la similarità delle tesi sostenute nello stesso periodo da G. FERRERO, Potere (1942), n. ed., Lungro di Cosenza, 2005. 380. Ivi, pag. 124. 382. Ivi, pag. 125.


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382. Ivi, pagg. 125-126. 383. Ivi, pag. 127. E inoltre: «Da noi l’effettiva distanza tra la classe superiore e la classe inferiore è sempre stata così grande che non ne esiste l’uguale tra i popoli dell’Occidente»: Ibidem. 384. Ivi, pagg. 127-128. 385. Ivi, pag. 129. 386. «L’enorme massa del popolo russo non sopporta i bolscevichi, ma si trova in uno stato di bolscevismo, in piena menzogna [...]. il popolo russo deve essere liberato dal suo stato di bolscevismo, vincere il bolscevismo che porta dentro di sé»: ivi, pag. 130. 387. Ivi, pag. 131. 388. «La democrazia possiede un carattere secolare, e si oppone a ogni società sacrale, poiché essa è formalista, priva di sostanza e scettica. La verità è di natura sacrale, e una società fondata sulla verità non può essere una società esclusivamente secolare. La democrazia secolarizzata rappresenta la separazione dalle basi ontologiche della società, la scissione tra la società umana e la Verità. Essa vuole organizzare la società umana in modo esclusivamente politico, come se una Verità non esistesse. È questo il presupposto essenziale della democrazia pura. E sta in ciò la menzogna originaria della democrazia. Alla base dell’idea democratica sta l’autoaffermazione umanistica dell’uomo»: Ivi, pag. 159. 389. Ivi, pag. 132. «Il socialismo non è un’utopia o un sogno: è una reale minaccia e un avvertimento ai popoli cristiani, per ricordare loro con rigore che essi non hanno rispettato il testamento di Cristo, ma lo hanno rinnegato»: ivi, pag. 176. 390. Ivi, pag. 136. Per Berdjaev, «Dostojevskij ricerca e rivela le pene della coscienza e il pentimento in profondità tali, in cui sinora non era stato possibile seguirli, e scopre la volontà criminosa nelle profondità estreme dell’uomo, nelle sue più segrete intenzioni»: ID., La concezione di Dostojevjkij (1921), trad. it., Torino, 1977, pag. 101. 391. Ivi, pag. 137. 392. Ivi, pag. 137. 393. Ivi, pag. 139. 394. Ivi, pag. 141. 395. Ivi, pag. 144. 396. Ivi, pag. 145. 397. Ivi, pag. 148. 398. Ivi, pag. 162.


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399. Ivi, pagg. 150-151. 400. «Si può interpretare questo abbandono divino come prova della libertà umana. L’uomo rinuncia facilmente alla libertà. Le forme più temibili di ateismo non si manifestano nell’opposizione militante e appassionata all’idea di Dio e a Dio stesso, ma in una specie di ateismo esistenziale e pratico; un ateismo che si esprime attraverso l’indifferenza e la disgregazione interiore. Questo tipo di ateismo è a livello inconscio molto diffuso tra chi è nominalmente cristiano. La rivolta tormentata e appassionata e la lotta contro Dio possono al contrario condurre all’illuminazione e portare a una coscienza religiosa di ordine più elevato. E anche l’ateismo può divenire una purificazione e liberarci dalle idee servili di Dio, deformate dal sociomorfismo. L’indignazione di certi cristiani contro gli atei [...], poggia spesso su basi sbagliate e si rivela nociva. Questo tipo di ateismo è provocato proprio dalla concezione snaturata di Dio assunta da questi cristiani, dalla loro vita estranea a ogni presenza divina»: ID., Verità e rivelazione (ed. fr., 1954), trad. it., Torino, 1996, pagg. 110-111. 401. «La ragione euclidea, che si rifiuta di comprendere il mistero irrazionale della vita universale, pretende di costruire un mondo migliore di quello creato da Dio, un mondo in cui non vi siano né male né sofferenza, un mondo perfettaente razionale [...]. Ma questo buon mondo umano, quello dello spirito euclideo, si distinguerebbe dal cattivo mondo divino per l’assenza di ogni libertà»: ID., Filosofia dello spirito libero (ed. russa, 1927-1928), trad. it., Cinisello Balsamo, 1997, pag. 233. 402. Ivi, pag. 153. 403. Ivi, pag. 154. 404. Ivi, pag. 174. 405. Ivi, pag. 172. «Solo la Chiesa, infatti, pretende di avere potere sull’anima umana e di guidarele anime [...] lo Stato laico, lo Stato secolarizzato non poteva esigerlo. Ma lo esigeva lo Stato teocratico, il quale avanzava pretese universali e si considerava investito dei privilegi sacri della Chiesa»: ibidem. 406. Ivi, pag. 173. 407. Ivi, pag. 171. «Ecco un contrasto essenziale tra lo Stato socialista e lo Stato liberaldemocratico. Il socialismo nega la libertà di coscienza, così come la negava la teocrazia cattolica nel Medioevo. Vuole costringere alla verità e alla virtù, senza lasciare agli individui la libertà di elezione, di scelta, che richiede la democrazia liberale. La fallace pretesa dell’antica idea teocratica e imperialista è passata nel socialismo, l’idea


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cioè dell’unione forzata ed esteriore dell’umanità, l’idea dell’universalismo quantitativo. Le utopie socialiste, che a troppa gente sembrano sogni dorati, non hanno mai promesso alcuna libertà»: ivi, pag. 170. 408. Ivi, pag. 168. 409. Ivi, pag. 169. 410. Ivi, pag. 167. 411. «Il socialismo è incapace di risolvere i problemi fondamentali dell’esistenza umana. Dopo la realizzazione della verità elementare del socialismo, i problemi più profondi dell’uomo e la tragedia della vita umana assumeranno una particolare intensità. Le mete della vita umana sono spirituali, non sociali; gli obiettivi sociali servono soltanto come mezzi»: Regno dello spirito e regno di Cesare, trad. it., Milano, 1954, pag. 52. 412. «Attraversiamo una crisi mondiale, di tutte le ideologie e di tutte le forme politiche e sociali. Tutto sembra essere ormai esaurito: nella vita esteriore non vi è più niente che possa ispirare i popoli civilizzati. Tutte le vecchie formule politiche diventano desuete»: Nuovo Medioevo, cit., pag. 184. 413. «La rivolta dell’uomo contemporaneo contro la coazione nelle questioni di fede e di religione, contro l’identificazione della vita spirituale con la vita dello Stato, è una rivolta giustificata. Questa rivolta può generare e genera conseguenze funeste e fatali, può indicare un distacco dalla fede, ma c’è in essa un momento interiore di verità, che è la verità della libertà [...]. È impossibile edificare per costrizione il Regno di Dio; questo non può essere creato senza la libertà. La coazione fece crollare tutte le teocrazie storiche, e la loro caduta fu provvidenziale»: ID., Spirito e Libertà, Milano, 1947, pag. 223. 414. Ivi, pagg. 184-185. 415. Ivi, pag. 185. «La nozione della salvezza obbligatoria, che ebbe conseguenze così fatali nella storia, è una falsa identificazione del Regno di Dio col regno di Cesare; si riporta il mondo spirituale al livello del mondo naturale. Nel Regno di Cesare predominano la costrizione e il servaggio. Il mondo spirituale, il Regno di Dio, è l’ordine della libertà. La storia del cristianesimo abbonda di violenze, ma non appartiene al mondo spirituale, non è legata alla storia interiore del cristianesimo, appartiene invece all’azione sociale dell’umanità, è determinata dallo stato dell’uomo


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naturale [...]. Ciò che generalmente si rimprovera alla Chiesa cattolica dovrebbe essere imutato alla crudeltà della natura umana. Ma la questione della libertà religiosa non è una questione storica, è la questione dell’essenza stessa della fede cristiana»: ID., Spirito e Libertà, cit., pag. 222. 416. Ivi, pag. 186. 417. Ivi, pag. 187. 418. Ivi, pag. 189. 419. ID., Le fonti e il significato del comunismo russo, cit., pag. 212. «Ci troviamo dunque di fronte a una ideocrazia, a una pseudomorfosi, per così dire, della teocrazia, a una delle trasformazioni cui può dar luogo l’utopia platonica. Ciò che inevitabilmente ne consegue è la negazione della libertà di coscienza e di pensiero; l’intolleranza e le persecuzioni religiose ne sono il corollario»: ivi, pag. 214. 420. Ivi, pag. 209. 421. Ivi, pagg. 214-215. 422. Ivi, pag. 216. 423. Ivi, pag. 217. 424. Ivi, pag. 219. 425. Ivi, pag. 224. 426. Ivi, pagg. 221-222. 427. Ivi, pag. 225. 428. Ivi, pag. 226. 429. Ibidem. 430. Ivi, pagg. 227-228. 431. «Lo spirito del comunismo, la religione del comunismo, la filosofia del comunismo son anticristiani e antiumanitari. Ma nel sistema socio-economico del comunismo c’è una parte notevole di verità che si concilia col cristianesimo; in ogni caso più di quanta non ve ne sia nel sistema capitalistico, che è il più anticristiano»: Ivi, pag. 233. 432. Ivi, pag. 234 passim. 433. Ivi, pag. 235. 434. Ivi, pag. 236.


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