Coscienza Storica n.4

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso marcoeditore@tiscali.it

In copertina: Max Ferdinand Scheler


Coscienza Storica Nuova Serie 4/2021

La parola e il verbo. L’orizzonte escatologico dello storicismo cristiano

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LA PAROLA E IL VERBO L’ORIZZONTE ESCATOLOGICO DELLO STORICISMO CRISTIANO

«Le vie dell’origine sono – considerate a partire dall’ente – calcolate storiograficamente – sempre delle vie traverse; vale a dire che coloro che riflettono sulla fondazione della verità dell’essere devono presagire la deviazione nella predominanza dell’ente e – imparare a sopportarla – non devono tirarsi indietro di fronte a essa, ma devono come minimo osare di incamminarsi in direzione di questa sulla via del pensare e del poetare.» (M. HEIDEGGER) «Quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbogli è uito tramite l’amore. E poiché ama la conoscenza e conosce l’amore, il verbo è nell’amore e l’amore è nel verbo e tutti e due nello spirito he ama e dice il verbo » (S. AGOSTINO) «Anche la più originaria filosofia dell’esistenza umana, quella che si fonde su sé stessa ed è la più trascendentale, viene sempre elaborata solo in seno all’esperienza storica» (K. RANHER)

Introduzione. Dai tempi del Rinascimento la presenza culturale italiana in Europa aveva dovuto cedere il passo a movimenti quali l’Illuminismo e il Romanticismo, che erano fioriti e si erano sviluppati con successo, come movimenti universalistici, fuori dell’Italia. Dopo l’unificazione nazionale, con la nuova posizione politica che l’Italia aveva acquistato, poteva tornare a pensarsi la possibilità di un «primato» ideale della cultura italiana proprio a opera del neo-idealismo, che in Croce e in Gentile si proponeva di portare alla sintesi del loro più maturo compimento le maggiori correnti di pensiero moderne. Nondimeno, per quanto l’inveramento idealistico del razionalismo moderno ne correggesse il carattere astrattamente anti-religioso, era inevitabile che la sua essenza critica privilegiasse la natura anti-dogmatica del pensiero della metafisica tradizionale, anche se rimaneva difficile per un’impostazione teoretica dichiaratamente storicistica rimuovere dalla tradizione italiana il peso e la persistente presenza, non solo istituzionale ma latamente culturale, della Chiesa e della sua tradizione teologica. Al fine di delineare un processo ideale che coniugasse l’origine comune moderna, che appunto nel Rinascimento trovava i suoi più significativi referenti intellettuali, con l’originalità nazionale di un pensiero che si definiva anch’esso moderno ma non era assimilabile alla pretta tradizione razionalistica di marca illuministico-positivistica, la 6


ricostruzione neo-idealistica della cultura moderna europea doveva far leva sul doppio registro di una versione critica che si contrapponeva più o meno consapevolmente alla versione comune, nella quale si faceva rientrare la tradizione teologico-dogmatica patrocinata dalla Chiesa cattolica. Ma questa impostazione dualistica della cultura presentava delle difficoltà, o palesi contraddizioni che, con il corso sempre più politicizzato della storia intellettuale europea, finirono per rivelarsi inestricabili. Infatti, la cultura critica moderna si era scientemente posta in alternativa al tradizionale pensiero dogmatico, ma l’idea di un superamento della sintesi classico-cristiana, rappresentata dalla teologia cristiana medievale, si scontrava con la realtà di una persistente vocazione religiosa della cultura moderna europea che i massivi movimenti ideologici contemporanei portavano in allarmante evidenza. Tanto che l’accezione «moderna» della nuova cultura post-teologica tendeva a identificare il pensiero «critico» esattamente con la sua frattura dal pensiero popolare, che la tradizione cristiana aveva portato a sintesi con quello colto. Tale frattura, se da un lato liberava la ricerca scientifica da ogni vincolo dogmatico, dall’altro rilasciava al pensiero ritenuto tradizionalmente a-critico l’orizzonte vastissimo dell’esperienza religiosa, che della cultura antropologica dei popoli costituiva l’essenza spirituale per definizione. Ed è su questo terreno religioso tralasciato dalla scienza razionalistica moderna che germogliano le piante possenti e radicate delle ideologie politiche, le quali rappresentarono per le vaste masse politicizzate d’Europa il loro precipuo viatico neo-religioso verso la (loro) modernità. La ricostruzione razionalistica della cultura europea come doppio movimento ideale, caratterizza ogni forma di pensiero moderno, che, da Cartesio a Husserl, intende rappresentare il processo di auto-anamnesi della ragione in termini di distinzione tra un mondo di realtà ontologiche e uno di apparenze sensibili. Questa dicotomia, che filosoficamente risale a Platone, è però l’essenza stessa di ogni rappresentazione religiosa del mondo, che proprio nella distinzione tra realtà sacra e realtà profana stabilisce le gerarchie cosmiche e deontologiche. Ciò vuol dire che il processo di emancipazione della ragione moderna dalla pregressa dipendenza dalla struttura teologicometafisica cristiana conserva di quella struttura il fondamento della sua costituzione ontologica, ossia la fede che qualcosa sia (sacro, o vero) anziché non. La verità dell’Essere come fede non aggiunge alla sua moderna qualifica di «razionale» alcuna determinazione che non sia originariamente religiosa, ossia fondata sulla credenza in quella essenziale distinzione, la quale, proprio sulla base di quella stessa fede, si stabilisce come «razionale», cioè vera secondo ragione. Ciò vuol dire 7


che il razionalismo, che attribuisce valore di verità ai fondamenti di ragione, è essenzialmente una fede religiosa, una religione che crede nella verità della ragione, un dato di coscienza originario extra-logico, fattuale, e quindi doxastico e pre-giudiziale, cioè dogmatico. Il iudicium univestitatis è un giudizio di fatto, dogmatico, dal quale deve muovere la ragione, una scelta che esclude altre. Rispetto alla religione tradizionale, di natura personale, la nuova fede razionalistica crede in una entità oggettiva, la Ragione appunto, che, diversamente dal Dio biblico, presiede la struttura del mondo non in termini volitivi e arbitrarii, ma oggettivi e, per così dire, legislativi, immanenti a ogni realtà, umana quanto naturale. L’esigenza di costituirsi come valore oggettivo, dà alla scienza moderna un carattere fondamentalmente monistico che induce anche le teorie più sensibili alla valorizzazione dell’aspetto spirituale su quello naturalistico dell’esperienza umana, come lo storicismo di Dilthey, a superare ogni distinzione tra spirito e natura a favore di una visione scientificamente unitaria dell’Essere. Il motivo scientifico del sapere moderno, rispetto alla pregressa visione religiosa del mondo, non differisce sul piano della fede nel valore della verità, ma sul postulato che tale verità sia nient’altro che Ragione, cioè scienza. Questo comporta che l’originaria dicotomia religiosa tra realtà sacra e realtà profana non costituisca la struttura ontologica dell’Essere cosmico, ma solo la sua versione storicamente distorta, legata alla insufficiente coscienza umana, cioè alla scarsa incidenza della ragione sulle cose umane, le quali perciò devono correggersi in senso razionalistico per allinearsi al corretto processo universale del mondo. In questa prospettiva razionalistica, la credenza religiosa nella struttura tradizionalmente dicotomica dell’Essere diventa una superstizione preo in-razionale, dalla quale la visione scientifica del mondo deve emendarsi a favore dell’umanità. L’idea di una progressiva ascensione della coscienza umana verso la piena consapevolezza del valore, viene sostituita dall’idea di una complessiva «rivoluzione» che determini un nuovo e definitivo corso mondiale dell’umanità, allineato alla verità della nuova fede razionalistica. E’ questo «desiderio di costruire un mondo che non sia soltanto un po’ migliore e più razionale del nostro, ma che sia assolutamente esente da ogni imperfezione», che Popper chiama «estetismo», consistente nell’ipotesi che sia realizzabile un nuovo corso umano informato a principii di assoluta razionalità, facendo dunque dell’uomo un creatore molto più sagace e lungimirante dello stesso Dio, che aveva lasciato nell’uomo disdicevoli tracce di imperfezione. Ma in cosa consiste idealmente questa «rivoluzione» scientifica del mondo umano? Essa consiste, come ormai è chiaro per chi ha seguito il 8


nostro discorso, sulla definitiva e totale trasformazione del mondo profano in mondo sacro, superando l’antica distinzione, creduta superstiziosamente dalle menti religiose e pre-scientifiche di un tempo, tra il regno di Cesare e quello di Dio. Infatti, realizzando universalmente quel «passaggio» finora circoscritto ai momenti canonizzati del rito religioso, si può definitivamente eliminare l’errore dal mondo, il male che ha rinchiuso l’uomo nella caverna dei suoi pregiudizi religiosi, e inaugurare un nuovo corso di libertà e di felicità per il genere umano. Naturalmente, questa totale transvalutazione del sacro deve comportare l’abbandono di ogni ambito circoscritto di religiosità, tale che il nuovo senso religioso del mondo debba pervadere l’intera esperienza umana, ogni suo ambito di vita, individuale come collettiva, esistenziale come sociale. E’ questa fede nel «rispecchiamento» dell’ideale nel reale e nella sua assoluta e definitiva convertibilità a costituire la religione moderna dell’uomo nuovo, liberatosi finalmente dal fardello oppiaceo delle tradizionali superstizioni dicotomiche. La nuova fede scientifica è dichiaratamente monistica, e perciò moralistica e politicamente assolutistica, non ammettendo la realtà di nessun residuo irrazionale del mondo. Questa nuova fede scientista si rendeva in qualche modo moralmente auspicabile e logicamente sostenibile sul presupposto della fondamentale stabilità degli equilibri politici tradizionali, il cui rivoluzionamento verticale a opera dei sommovimenti intellettuali, che interessavano le sparute élites colte europee, non avrebbe presumibilmente compromesso l’assetto fondamentale della struttura sociale, basato sulla distinzione tra classi dirigenti e classi governate. Ma la logica monistica non poteva essere arrestata nemmeno sul terreno sociale, per cui anche sulle forme istituzionali l’unità universale produsse le sue teorie egalitarie. Proprio in quanto fede religiosa nella ragione, il razionalismo aveva potenzialmente una portata universalistica ben più incisiva delle fedi tradizionali, perché, diversamente da queste, aveva scientemente rinunciato a salvare l’uomo per mezzo di una sua soggettiva conversione spirituale, intendendo invece salvare l’umanità intervenendo, non già sulle sempre labili e incerte disposizioni personali delle singole anime, ma sulle strutture collettive e sulle forme istituzionali della convivenza umana, ossia sugli stessi rapporti sociali, alla base dei quali si trovava il valore fondamentale della vita, intesa come sopravvivenza biologica. La sacralizzazione del mondo si rivelò sotto forma di apoteosi della profanità spirituale, al fondo della quale non c’era più, come essenza vitale dello spirito umano, l’anima, ma la forza nei rapporti sociali e la possibilità della sopravvivenza, ossia la politica ridotta ad economia, a bio-politica. 9


Non ci si avvide, in altri termini, che la frattura tra cultura critica e tradizione religiosa non passava sul solo crinale alle masse inattingibile della metafisica e della teologia, ma poteva raggiungere, come in effetto raggiunse con la Rivoluzione francese, le stesse fondamenta morali che stavano alla base della legittimità delle strutture istituzionali della società, provocandone la dissoluzione. In questo senso, la questione filosofica assunse col razionalismo un risvolto morale legato, non solo ai temi teorici della stabilità istituzionale, ma ai processi reali della crisi delle forme giuridico-politiche della società tradizionale, per cui la frattura culturale del mondo moderno dal tradizionale si tradusse in una crisi che coinvolse entrambe le sue polarità, producendo, nei termini programmatici di una necessaria ricomposizione, quanto sembrava originariamente una conquista di libertà d’azione e di pensiero. L’Illuminismo, rimasto nell’Italia meridionale, più tradizionalista e meno esposta alle vicende napoleoniche, soprattutto anelito di giustizia sociale e aspirazione puramente intellettualistico a un cambiamento della realtà storica, senza diventare supporto morale della prassi politica e concreta istanza di razionalizzazione della struttura istituzionale della società, si volse, a clima culturale mutato, in positivismo e in culto della scienza, ossia, come abbiamo visto, in una nuova forma di religiosità e di moralismo, che esasperò le contrapposizioni intellettuali e la reattività ideologica degli ambienti più colti e sensibili alla modernizzazione culturale, senza però quasi mai tradursi in concreta risoluzione politica, sicché la differenza tra aspirazioni razionalistiche e realtà culturale tradizionale si misurava a partire dalla distanza tra istanze morali di razionalizzazione sociale e concreta prassi di governo, ossia dalla incomunicabilità tra cultura e politica. La stessa reazione intellettuale alla cultura razionalistica da parte delle correnti neo-idealistiche, non opponendosi a realtà istituzionali ma solo a indirizzi di pensiero, risultava alquanto astratta e libresca, avendo per oggetto non il piano reale della concreta società nazionale ma il piano ideale della storia universale. La concretezza, o meglio il realismo, delle concezioni positivistiche e scientistiche della realtà sociale veniva dal neo-idealismo meridionale acquisito sotto la formula complessiva di uno storicismo spiritualistico che in Hegel trovava il suo esplicito referente teoretico, e nella sua metodologia dialettica l’alternativa polemica alla metafisica naturalistica e materialistica. L’esito di questo innesto filosofico fu duplice. Infatti, da un lato il pensiero di Croce cercò perennemente nel dialogo con Hegel il punto di equilibrio più avanzato di un pensiero che potesse conciliare nella sintesi storicistica sia il motivo universalistico del razionalismo moderno che l’insopprimibile istanza realistica dello scientismo positivistico, al fine di confutare a posteriori le ragioni teoretiche che 10


avevano originato la scissione tra una sinistra materialista e una destra spiritualista, entrambe hegeliane. Dall’altro lato, la lettura gentiliana di Hegel tese invece a depurare il metodo dialettico da ogni persistenza di realismo metafisico, portando alle estreme conseguenze idealistiche il soggettivismo moderno, che nella coscienza riflessiva concepiva l’unica vera realtà dell’Essere come atto di pensiero. Le conseguenze pratiche di queste rispettive posizioni teoretiche furono anch’esse diversificate. In Croce il radicalismo delle posizioni culturali non trovava riscontro nelle concrete scelte politiche, dettate da più immediati interessi sociali e da posizioni ideologiche di retroguardia, legate a un progetto di contenimento delle forme spirituali della storia moderna entro la cornice istituzionale dello Stato liberale, per cui le sue posizioni ideali, nell’orizzonte storico dello scenario etico-politico italiano, risultarono del tutto dissociate nella prassi dalle premesse asserite in sede teorica, e al caparbio rigorismo critico, sostenuto soprattutto in campo estetico, faceva riscontro un bonario lassismo politico, tutto volto a giustificare in sede storiografica posizioni ideologiche di parte difficilmente asseribili come sintesi del processo storico universale. Tale dissociazione tra teoria e prassi, sia pure trasformata nei termini di un complesso sistema razionalistico dello spirito, rappresentava una riedizione aggiornata della «doppia verità» della tradizionale morale cattolica, che nella limpida pagina crociana assumeva toni di ponderato realismo storico, fortemente critico di ogni anelito astrattamente rivoluzionario e palingenetico. Se appena consideriamo la ristrettezza ideologica della visuale crociana, che riusciva a trovare il suo focus politico nazionale nella mediocre figura di Giovanni Giolitti, la cui insensibilità istituzionale riuscì a dilapidare, con una prassi di governo che Salvemini definì «malavitosa», il residuo patrimonio morale del Risorgimento, ispirando la reazione congiunta socialista, cattolica, democratica e nazionalistica, che infine spianò la strada al fascismo; se pensiamo dunque all’angolatura ristretta del perimetro ideologico crociano, ci rendiamo conto della sperequazione tra la pretesa teoretica del suo storicismo assoluto, e l’effettiva portata appena nazionale della sua incidenza intellettuale, la cui risonanza internazionale fu ben inferiore non solo ai maggiori scrittori italiani moderni, quali Machiavelli, Galileo e Vico, e ai filosofi europei suoi contemporanei, ma agli stessi più noti scrittori italiani del suo tempo, che hanno lasciato una traccia culturale ben più durevole di quella crociana sia all’interno del nostrano scenario intellettuale che a livello internazionale, europeo o mondiale. Una persistente traccia culturale, nondimeno, ha lasciato in Italia la filosofia crociana nel campo più strettamente storiografico, dove la 11


teoria soggettivistica della «contemporaneità» ha stabilito un paradigma di storia etico-politica che, a partire dalla Storia d’Italia, ha sostituito alle forme istituzionali degli impersonali processi sociali e collettivi canoni soggettivi di interpretazione ideologica della realtà, ripensata alla luce della personale posizione della coscienza nella società. Diversamente dalle ricostruzioni realistiche dei processi storici della politica, quale attività umana avente ad oggetto il potere sociale, che, secondo la lezione del Machiavelli, è una funzione oggettiva indipendente dalle concrete determinazioni morali dei soggetti coinvolti, la storia politica crociana rapporta romanticamente la realtà esterna al soggetto pensante, alla soggettività della sua posizione nel mondo, secondando una vocazione squisitamente estetizzante cara a scrittori moderni come Rousseau e Chateaubriand e risalente al modello agostiniano. Croce corresse la sua originaria collocazione di codesta storiografia «sotto il concetto generale dell’arte», ritenendo che la sua caratteristica distintiva dai rècit fantastici fosse la loro fedeltà al «principio di realtà», ossia a quei «fatti» tanto esaltati dalla sociologia positivistica quanto esecrati dalla gnoseologia idealistica. In realtà, anche i «fatti» fenomenicamente accertati e veritieri, filologicamente documentabili nella loro fedele sequenza cronologica, una volta assunti nel loro valore significativo in quanto oggetto del pensiero attuale dello storico, rimettono la loro oggettività storica, temporalmente condizionata dal loro contesto istituzionale, a favore del referente categoriale che soggettivamente le pensa come atti del pensiero attuale, che trasforma la loro fattualità temporale in oggetto pensato in una eterna attualità. La soggettivazione romantica della storia, decentrando la realtà dalle forme sociali a quelle ideali, opera nello stesso senso estetizzante del razionalismo moderno, concependo però la metabasi del genere sacro a quello profano come operazione puramente ideale, in interiore homine, sulla falsariga del coscienzialismo cristiano. Questa eredità teologica del razionalismo critico e idealistico moderno costituisce il principale fattore di continuità culturale con la tradizionale antropologia religiosa, che verrà a perdersi a seguito della concezione del «passaggio» dal sacro al profano nei termini di una definitiva de-sacralizzazione del mondo. In termini assoluti, ogni monismo si equivale, determinandosi praticamente come violenza rivoluzionaria e teoreticamente come errore logico, ma, nondimeno, sul piano storico-effettuale, la differenza dell’impostazione soggettivistico-idealistica su quella oggettivisticorealistica consiste nella rispettiva direzione opposta del «passaggio» ontologico: la prima, vòlta a riportare la molteplice realtà profana del mondo all’unità soggettiva del pensiero sacro, indicato come il luogo dell’unica verità; la seconda, a riportare la unità dell’universo sacro 12


nella molteplicità della realtà profana, le cui manifestazioni, essendo tutte desacralizzate, sono tutte rivestite di pari sacralità, facendo del mondo fenomenico, e non più del pensiero soggettivo ed esclusivo, il luogo della uniformità. L’uni-versalismo è appunto la condizione caratteristica del mondo disincantato del razionalismo moderno, così come il mono-teismo è la caratteristica della fede religiosa pensata come verità di ragione. Se in Croce l’istanza teoretica monistica del razionalismo moderno si coniugava – sia pure sincretisticamente – con la coscienza della irriducibile differenza ontologica tra la sfera del pensiero (sacro o vero) e quella della prassi (molteplice e profana), alimentando la ricerca di una (in-) possibile sintesi nell’ambito della poiesi spirituale del soggetto trascendentale, dando rilievo alla storicità dei prodotti fattuali del pensiero, anziché alla intemporalità degli atti della coscienza, in Gentile la medesima istanza monistica si tradusse per l'appunto in una teoresi coscienzialistica, la cui attività spirituale consisteva nella trasformazione di ogni dato «naturale», cioè esterno alla coscienza attuale, in oggetto di quel pensiero attuale, secondo un moto ideale eternamente attualizzante del soggetto teoretico. Gentile porta alle estreme conseguenze logiche il razionalismo coscienzialistico di origine cartesiana, designando come unica realtà dell’Essere l’autoctisi del pensiero che lo pensa come suo oggetto attuale. Tenendo presente il movimento fondamentale del razionalismo moderno, consistente come sappiamo nel «passaggio» universale del mondo sacro in quello profano, è Gentile a pensare in termini idealisticamente più radicali tale metabasi, costituendo sul piano coscienzialistico del sacro ciò che Marx pensò sul piano prassistico profano. In questo senso, Gentile fu un teorico della rivoluzione non inferiore a Marx, essendo la rivoluzione la realtà storica di quella teorica possibilità del «passaggio» ontologico universale. Vi è da aggiungere che la tensione religiosa alla «conversione» (metànoia) è una aspirazione tradizionalmente propiziata dalla grazia divina alle singole anime bendisposte. Il razionalismo, assumendola mondanamente come processo metodico universale della Ragione che spiritualizza la Natura, la emancipa da ogni finalismo teologico, storicizzandola, per così dire, nei termini di una emancipazione della coscienza dai limiti del determinismo cosmico e naturale. Il regno della Ragione come «altro mondo», quello umanizzato e artificiale dello spirito, diventa il programma universalistico di una religione secolare fondativa di una socialità de-sacralizzata, ovvero mondanamente profana. Il luogo della mediazione in cui si attua il «passaggio» ontologico era tradizionalmente la Chiesa coi suoi riti di passaggio canonizzati, aboliti dalla Riforma e consegnati individualmente alla 13


coscienza e collettivamente alla libera comunità confessionale. La secolarizzazione del motivo religioso, mondanizzando il fine escatologico in redenzione storico-sociale, ha fatto del potere politico il luogo reale della metabasi spirituale e del demiurgo legislatore sociale il surrogato mondano della volontà divina. Il rapporto emancipato della ragione dalla teologia farebbe della filosofia, cioè del pensiero razionale, la guida metodologica della prassi politica secolaristicamente razionalizzata. Ma, avendo già la stessa filosofia mostrato la possibilità dello svincolamento della ragione dal suo fondamento epistemico, la pretesa di prenderne il posto in rapporto alla strumentalità della politica divenne una profana illusione coltivata dai filosofi, ma non avallata dai politici. Nel moderno contesto secolarizzato, le ragioni del mondo rimanevano mondane e non ideali, per cui alla filosofia, per sopravvivere come scienza mondana, non restava che socializzarsi, cioè diventare ragione politica, ideologia. Il trapasso della filosofia da ragione del mondo a scienza delle ragioni mondane è breve, almeno quanto quello della conversione della filosofia della storia a metodologia della storiografia, ossia, in altri termini, a scienza della politica e a sociologia. Il carattere scientifico della ragione emancipata dai suoi fondamenti teologici è legato alla auto-fondazione della conoscenza razionale, ovvero dalla assolutezza dei suoi presupposti epistemologici, sicché la tradizionale differenza rispetto alla mera opinione (dòxa) viene a cadere insieme alla pretesa della scienza di sostituirsi alla verità. La scienza moderna è solo una opinione metodicamente corretta, destinata anch’essa a essere smentita da altre opinioni provvisoriamente confutative. L’ideale platonico dello Stato filosofico si reggeva su quella pretesa, caduta la quale anche la filosofia diventava un orpello superfluo e un intralcio metodico alla piena libertà d’azione del demiurgo. Il suo esito come tecnica della politica era dunque segnato, sicché la differenza tra il servire Dio e il servire Cesare si rivelò fatalmente iniqua per chi coltivasse ambizioni sacerdotali. Le vicende del neo-idealismo italiano restano in tal senso paradigmatiche, poiché se Croce volle essere la coscienza storica dello Stato liberale, Gentile coltivò il ruolo di coscienza ideale dello Stato fascista, inteso come compimento etico-politico della rivoluzione risorgimentale, ossia come lo stesso regno della ragione socializzata. L’attività critica di Croce fu quella di un «papa laico», che presiede alla custodia dei sacri testi, rassegnato dalla consapevolezza dei limiti umani all’infinita correzione magistrale. L’opera di Gentile fu invece quella di un «profeta», vocazionalmente dedito alla formazione pedagogica delle coscienze, per cui se quella di Croce era una «religione», quella 14


gentiliana era una «fede», svincolata creativamente da quel metodo che costituiva la forza morale della chiesa crociana. Il suo insistente richiamo non solo terminologico a una «riforma» filosofica, assumeva consapevolmente il programma di una rinascita spirituale della vita nazionale alla quale lo Stato era chiamato ai suoi compiti etici. Come Durkheim per la Francia dell’altro secolo, anche il filosofo italiano concepì una forma di socialità che rispondesse ai bisogni spirituali del suo tempo. Le due vicende intellettuali, pur culturalmente ben distinte, tuttavia hanno in comune il presupposto religioso di un destino metafisico dell’uomo, sia pure declinato nei termini opposti della socialità e della coscienzialità, il quale presupposto celava a sua volta l’ancestrale paura antropologica dell’insopprimibile lato oscuro dell’animo umano, che la ragione emancipata dalle formule semplificatrici e consolatorie della rivelazione era chiamata ad illuminare. Ragione e rivoluzione erano endiadi che esprimevano la stessa esigenza umanistica di conoscere e di dominare il mondo dopo il sacrilego parricidio teologico, che a suo modo, profano e secolaristico, realizzava il regno dell’età del Figlio. A seconda della prospettiva, coscienzialistico-soggettivistica ovvero sociologico-politica, in cui si poneva il razionalismo, la rivoluzione veniva concepita rispettivamente come trasformazione della natura in ente di pensiero o del pensiero in legge di natura. L’ipotesi idealistica che, in ogni caso, anche quello di natura fosse il concetto camuffato di materia, non considerava che la differenza tra la realtà nel senso del pensiero e la realtà naturale non consisteva nella formula del concetto, che era la stessa in entrambi i casi, ma bensì nei rispettivi contenuti concettuali, i quali, nel caso del pensiero, erano tutti interni al pensiero stesso come sue creazioni ideali che, al di là di ogni riscontro empirico conservavano un loro valore spirituale assoluto, teoretico; nel caso, invece, della realtà naturale, i presunti contenuti erano in realtà il contenente, poiché in questo caso era la coscienza soggettiva a doversi uniformare alle leggi universali ed oggettive del cosmo. Nella prospettiva idealistica, in cui si poneva la filosofia soggettivistica moderna, il pensiero è il creatore del suo essere, del suo oggetto ideale. Viceversa, nella prospettiva del realismo oggettivistico, in cui si poneva la scienza moderna come la teologia tradizionale, è il pensiero adattivo e partecipativo all’Essere cosmico, perciò la tensione tra scienza e filosofia verteva sostanzialmente nella questione se la libertà dell’uomo fosse la premessa di ogni considerazione razionale del mondo, ovvero fosse una deviazione irrazionalistica delle leggi cosmiche dovute alla umana natura lapsa. Il valore universale, insomma, di una virtù morale del genere umano, ovvero il segno della sua imperfezione antropologica rispetto alla compiutezza ideale della Natura. Senza più l’autorità 15


divina, quale forza morale poteva sostenere, a seconda della prospettiva, le ragioni dello spirito individuale ovvero quelle collettive della società, se non lo Stato? Lo Stato razionale moderno doveva dunque essere la realtà spirituale della rinnovata socialità umana, l’autentica comunità dello spirito razionale che prendeva il posto dell’antica Chiesa della fede teologica. Ma di quale razionalità si trattava? 1. La riduzione razionalistica della Storia della salvezza cristiana a scienza della storia comprendeva due questioni essenziali e complementari: 1) la pensabilità dell’ente non più in senso metafisico di prodotto creaturale ma come prodotto del suo divenire temporale (Geschöpf der Zeit), cioè come ente storico (geschichtliches Wesen), e 2) l’oggettivazione dell’uomo entro la condizione naturale della sua socialità (mitsein), ossia la conoscenza del suo essere spirituale ma estraniato dalla sua destinazione soteriologica di carattere misticoreligioso. La soluzione di queste due essenziali condizioni epistemologiche avrebbe consentito la definizione di una metodica gnoseologica finalizzata alla costituzione di uno spiritualismo scientifico, ovvero di una «scienza dello spirito». Dal punto di vista antropologico, tale riduzione si poneva all’interno di una revisione del concetto greco di uomo razionale, e quindi intrinseca alla Weltanschhauung metafisico-idealistica, ma con un movimento teoretico opposto, consistente nel liberare questa volta l’ente da ogni proiezione idealistica trascendente per assumerlo nel suo puro divenire fenomenico-temporale, ossia nella sua storicità, intesa come la sua essenza ontologica. Torna qui la «fede» idealistica, ma rovesciata nel senso dell’ente, secondo la nota dialettica del Lògos. La dimensione della storicità così intesa, cioè liberata dal tempo profetico dell’evento escatologico, andava a coincidere con la condizione stessa della finitudine, in cui si incontrano sia la temporalità che l’oggettività dell’ente.1 E pertanto la trascendente «libertà» cristiana dal mondo si rovesciava in tensione immanente di liberazione nel mondo, inteso come divenire storico. La liberazione cristiana dell’uomo pneumatico dalla necessità del mondo, viene circoscritta dallo storicismo secolaristico non più come anelito trascendente, ma come oggettivazione teoretica della sua situazione storica, che Platone chiamava  e Dilthey Weltanschauung. Come il ό greco, così il Welt dello storicismo è intimamente legato dal principio unitario del ό, che è la condizione stessa e l’oggetto del ἶ, che nel nostro caso è appunto la comprensione storica (verstehen) dell’esperienza 1

Ved. W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt Geisteswissenschaften (1910), tr. it., Torino, 1954, pagg. 234-237.

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vissuta (Erlebnis). L’orizzonte storico in senso cristiano, in cui si dispiega l’evento profetico del ό eterno, nel senso profano viene ad assumere il valore categoriale di una forma trascendentale e auto-noma, la storicità, che è la trascrizione razionalistica della Rivelazione cristiana il cui «vissuto» esistenziale dell’uomo, astratto dal έ soteriologico, diventa impersonale, e perciò oggettivo e riconducibile alla sua storia, insieme unitaria e unica. Unitaria, perché riferita al contesto della umana socialità, e unica perché inerente alla sua singolare esperienza esistenziale. Il ripiego intimistico nella verità interiore in senso spiritualistico agostiniano viene nello storicismo individualizzato in termini di esperienza esistenziale dell’uomo nel mondo della vita sociale (Lebenswelt), che costituisce appunto l’orizzonte esistenziale della storicità. Si noti come il contesto fenomenologico della storicità in senso storicistico riserva sempre al dato fattuale concreto un movente trascendentale che soprassiede alla dinamica del divenire e gli rende quella stabilità ideale o universalità che consente il suo collegamento spirituale nel tempo con il verstehen dell’interprete. Ma in che cosa consiste l’interpretazione dei fenomeni della vita storica? L’uso tecnico del lògos, ossia la fruizione razionale della parola, in una cultura orale, consiste nella dialettica, attraverso la quale il parlante ricerca il senso riposto delle cose, e cioè quella stabilità ideale che consente agli interlocutori di riferirsi allo stesso oggetto dia-logico, astratto dal suo divenire fenomenico e temporale. In realtà, pertanto, chi dialoga nomina non già le cose, ma l’idea di esse, che non diviene con esse ma persiste nel suo essere, facendo sì che anche le cose in qualche modo siano. Stabilire il modo di essere delle cose, e cioè conoscere l’idea che le rende persistenti oltre il loro divenire temporale, è l’atto del filosofare. La filosofia, dunque, è l’interpretazione del Lògos propria a una cultura orale, tendente a oggettivare il senso ideale di un ente, ossia la sua essenza, attraverso la sua definizione. Essa venne chiamata da Socrate arte maieutica. L’equivalente della maieutica filosofica in una cultura letteraria è l’ermeneutica, che è la scienza che rende significativo il senso ideale del pensiero contenuto nella scrittura umana. Conoscere il senso ideale di una cosa equivale a coglierne il valore universale, ciò che l’ente «è» in senso logico, e quindi a trascenderne la finitezza esistenziale e temporale. Poiché, però, tale valore «universale» insito nel lògos – orale o scritto che sia – è la sua logicità, la conoscenza ermeneutica, come già quella filosofica, inerisce all’essenza del Lògos, ossia, ancora una volta, all’Idea, e non all’Essere come fondamento ontologico, che rimane sconosciuto. 17


La logicità dell’ente è la sua «fatticità» (Faktizität), ossia la ragione della sua condizione di esistenza, e questa ragione è la stessa del mondo valoriale (Weltanschauung) in cui l’ente è inserito, cioè riconosciuto come ente. Esattamente il riconoscimento ideale del mondo contestuale, che storicamente è quello sociale, costituisce la condizione d’essere dell’ente, la sua fatticità ideale, che consiste dunque nella ragione sociale della vita storica. Storicità e socialità sono pertanto sinonimi, per cui il valore peculiare e residuo dell’ente umano, dell’uomo, nel suo rapporto con il contesto storico del suo essere temporale, deve necessariamente trascendere quella finitezza che pure era stata posta alla radice dell’esistenza. È questa tensione trascendente a fare della fatticità del factum spirituale una presenza simbolica, che riporta l’esistenza umana a una dimensione ultronea, inesplicata ma da esplicare ai fini della conoscenza del suo senso autentico. Ed è a questo punto che la Geistwissenschaft storicistica diventa scienza ermeneutica, e quindi, con Heidegger, «ascolto dell’Essere» come «linguaggio» (Sprache). Il passaggio dallo storicismo all’ermeneutica segna l’esito filosofico del tentativo di circoscrivere la coscienza dell’Essere dal presupposto ontologico fondamentale per ogni ordine razionale, al metodo ordinamentale della ragione, tale che la costituzione dell’ordine razionale sia il prodotto metodico della stessa ragione ordinatrice, anziché lo sviluppo razionale del presupposto ontologico fondamentale. Ciò che Heidegger chiama l’ «oblio dell’Essere», esprime esattamente l’istanza razionalistica della rimozione del fondamento a favore dell’auto-costituzione del pensiero come creatore poietico del (senso del) mondo (significativo). L’enorme rilievo assegnato sin dagli inizi dalla filosofia al Lògos deriva appunto dalla consapevolezza che il linguaggio sia non solo lo strumento di comunicazione che trascende empiricamente la finitezza singolare degli esseri umani, ma anche la chiave di accesso a una dimensione trascendente lo stesso piano d’esistenza dell’uomo in quanto essere riflessivo, cosciente di sé, cioè appunto razionale. La stretta affinità dell’animal rationalis con l’animal ermeuticus è dunque nella connessione della sua finitezza a ciò che la trascende, e che rivela la radice ontologica della stessa condizione finita dell’uomo. In tal senso, ogni ermeneutica è auto-comprensione dell’uomo nel suo contesto valoriale storico, che è sensus communis2 della verità

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Sulla prospettiva teologica del termine in senso monistico ved. R. GarigouLagrange, Le sens commun La philosophie de l’être et les formules dogmatiques (1909), tr. it., Roma, 2013. Per lo sviluppo storico dell’idea di “sensus communis”

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socializzata, anteriore rispetto a ogni successiva formalizzazione concettuale, e fondativa della stessa umana ί socialitaria, che è poi l’orizzonte di senso del Mito, del cui linguaggio ogni interpretazione razionale è una rielaborazione filosofica. Tutto ciò che è pre- costituito e pre- giudiziale, rientra nell’archetipo della visione del mondo da cui origina ogni sua forma elaborata razionalmente, ossia ogni forma comunicativa, che viene abbracciata nel suo orizzonte di senso simbolico. Il Mito fondativo di senso della civiltà cristiana è la Storia di Cristo come paradigma della salvezza spirituale dell’universa umanità. Ma il Logos cristiano, assumendo la Storia di Cristo come la forma di esplicazione di senso della stessa salvezza di Dio (cristologia), si costituisce verso il Mito biblico come la sua trascrizione filosofica, come la sua rielaborazione razionale, metodologicamente omologa alla rielaborazione filosofica platonica della tradizione mitica greca. La rielaborazione razionale della Parola di Dio nel senso della verità storica, è appunto l’ermeneutica. Il limite di ogni interpretazione è quello stesso del giudizio logico, ossia la dipendenza dell’atto noetico dall’oggetto dell’analisi. Ma se liberarsi dell’oggetto equivale a privare il processo ermeneutico del suo contenuto, effettuale o teoretico, anche l’assunzione della soggettività al controllo fenomenologico delle sue modalità di accesso all’oggetto può causare una auto-comprensione del tutto referente a se stessa, a cui sfuggirebbe la relazione soggetto-oggetto, per cui la rappresentazione (Darstellung) di una realtà fattuale che intenda costituirsi come una comprensione della sua realtà spirituale deve potersi definire come «interpretazione dotata di senso» (sinnvolle Deutung), e pertanto occorre risalire a quel fondamento, che non è principio meramente unitivo (ί), socio-logico e probabilistico, caro alla sociologia comprendente, ma appunto fondativo di senso, e perciò pre-logico e pre-concettuale, in una parola intuitivo. Ma «intuire» il mondo, non significa «risolvere problemi attraverso congetture e confutazioni»,3 ma fondare onto-pre-logicamente le risposte, suscitate dalla meraviglia (ά) dell’esistenza, dalle quali sorgono le culture umane. Il fondamento onto-pre-logico dell’Essere è una scelta dettata dalla coscienza metafisica dell’uomo di carattere fideistico: è un atto di fede nell’Essere, e non di convincimento razionale conseguente al processo dialettico del lògos. Un atto che è fondamentale perché pre-logico e pre-giudiziale a ogni conseguente

in H.G Gadamer, Wahrheit und Methode, (1960), tr. it., Milano, 1986 3, pagg. 42 sgg. Da ora WuM. 3 D. Antiseri, Teoria unificata del metodo, Padova, pag. 222.

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discorso metodologico, e in tal senso è un’ ή e non una ί, e sul fondamento intuitivo del quale è possibile alla coscienza umana di rispondere alle sollecitazioni che gli provengono dalla Parola, ossia dalla voce di Dio. Se la Parola divina è universale, udibile cioè dall’uomo in quanto essere-di-coscienza, le risposte umane sono sempre culturali, relative cioè a determinate intuizioni del mondo, le Weltanschauungen.4 Queste possono variare di molto da cultura a cultura, ma sono essenzialmente di due tipi, quelle di tipo formale, il cui fondamento di fede è prodotto dal metodo procedurale, ossia dallo stesso pensiero che istituisce il procedimento, e perciò la loro fede è del tutto convenzionale e discrezionale; e quelle il cui fondamento di fede è stabilito da una intuizione mistica di carattere cosmogonico, concepita da personaggi elettivi e affidata a suoi custodi iniziatici, da cui discende la concezione antropologica che funge da modello deontologico dell’identità culturale dell’uomo, che costituiscono il tipo sacrale. Le visioni del mondo di tipo formale pongono la verità al termine del procedimento di conoscenza del mondo, come suo scopo e obiettivo, mentre le Weltanschauungen di tipo sacrale assumono la verità di fede all’inizio di ogni processo di conoscenza del mondo, che a quell’inizio deve conformarsi per essere accreditata come razionalmente plausibile. Nelle visioni del primo tipo (formale), la verità è una incognita da svelare; in quelle del secondo tipo (sacrale), la verità è un mistero da contemplare. Le formali, sono essenzialmente essoteriche, potendo pervenire alla verità qualunque persona che acquisisca il metodo razionale di approccio cognitivo del mondo. Le sacrali, invece, sono essenzialmente esoteriche, poiché concepiscono la verità non come un atto di conoscenza ma come un moto di sentimento intuitivo, che può comunicarsi imperfettamente solo per cifre simboliche, le quali richiedono, per una trascrizione di senso compiuto, l’opera di iniziati esegeti, custodi sacerdotali dell’inesplicabile Mistero. Dal punto di vista della tipologia delle visioni del mondo, la filosofia, e precipuamente l’idealismo platonico che ne è l’espressione prototipica, rappresenta il passaggio culturale della civiltà greca dal tipo misterico al tipo formale di pensiero cosmologico. Il cristianesimo, sorto all’interno dell’universo di senso religioso giudaico e divenuto religione imperiale con Costantino, costituisce il tentativo sincretistico di rendere

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Sulle Weltangschaungen, ved. W. Dilthey, Gesammelte Schriftenm, vol. VIII, tr. it, La dottrina delle visioni del mondo. Trattati per la filosofia della filosofia, Napoli, 1998.

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universale la forma di pensiero misterico, propria della visione del mondo giudaica, per mezzo teoretico del procedimento filosofico mutuato dalla cultura teoretica ellenistica, e per mezzo pratico della forza istituzionale del potere politico, a partire da quello dell’Impero di Roma. Prendendo a fondamento di verità una determinata visione del mondo, storica, e universalizzandola attraverso il procedimento metodico di un’altra visione del mondo, filosofica, la teo-logia cristiana ha operato il più cospicuo tentativo di fusione universale delle civiltà storiche dell’uomo attraverso l’unificazione globale del pensiero umano. Questo sforzo unitario ecumenico poteva rendersi possibile solo attraverso l’elaborazione di un linguaggio universale che fosse espressivo di un comune orizzonte ermeneutico cattolico. Il limite insuperabile di questo progetto universalistico risiede nell’intento di universalizzare la «fede», la quale, in senso cristiano, è «personale», non oggettivabile in «opere», che, in senso religioso, sono manifestazioni della Legge prive di partecipazione intima. È Paolo a stabilire la differenza tra la Giustizia ottenuta «per fede» e quella ottenuta «per opere» quando si chiede perché «Israele che ricercava una legge di giustizia, non ha raggiunto questa legge», risponde «perché l’ha ricercata non per fede, ma per opere» (Rm., 9, 31-32), intendendo per esse i prodotti formali scaturiti dalla lettera dei comandamenti. Egli non intende asserire che le opere conseguenti all’ossequio della Legge mosaica non siano benigne, ma che in quanto prodotti umani sono legati inevitabilmente alla finitezza delle possibilità degli uomini che le realizzano. Viceversa, la fede è l’animus personale di chi crede, il cui valore agli occhi di Dio non si misura sulla capacità di produzione conseguente, legata alle concrete possibilità del credente, ma sull’intensità del sentimento di partecipazione alla volontà divina. In questo senso, chi ha fede è colui che ha mutato visione interiore del mondo, nella coscienza è intervenuta la ά che ha trascritto in termini spirituali ciò che prima leggeva con occhi naturalistici. E pertanto, la «fede» personale non può oggettivarsi in prodotto formale, ossia il legge universale valevole erga omnes, ma resta un rapporto esclusivo tra Dio e la coscienza individuale. La versione protestantica della sola fide paolina ha concepito il sentimento credente come opposto rispetto alle opere, per cui l’uno doveva escludere l’altro. Ma questa dialettizzazione dei due momenti costitutivi dell’atteggiamento religioso ha prodotto quella moderna civiltà delle opere che è il capitalismo, che rappresenta il rovesciamento dialettico della «fede» assolutizzata e astratta da ogni rapporto con le opere. La corretta interpretazione dei due momenti deve invece includerli nel concreto atteggiamento religioso come esperienza vissuta, come personale esistenza. E dunque la «comprensione» di tale 21


atteggiamento concreto non può riferirsi ai soli segni esteriori, ma anche allo stato d’animo interiore che li ha posti in essere, e che non è oggettivabile. Ciò significa che la comprensione spirituale degli atteggiamenti umani non può riguardare le sole azioni storiche (historischen), il cui significato oggettivo è rapportabile all’universo di senso culturale della sua significazione sociale, ma deve inerire allo stato d’animo interiore che le ha prodotte esteriormente. E questo stato d’animo, fuori della concretezza del vissuto esistenziale dell’uomo, ossia della sua storia spirituale (geschichtlich), non può essere rappresentato in termini formali e universali, proprio per la sua natura personale. Se noi chiamiamo «verità» la conoscenza oggettiva, ossia il rapporto razionalmente coerente tra segni e significati, sacrifichiamo proprio ciò che nella prospettiva cristiana è rilevante, ossia la «fede» interiore dell’uomo spirituale, che rimane oscurata dall’analisi del sapere. Se per «verità» intendiamo invece il processo interiore che anima ogni esistenza spirituale, allora dobbiamo prescindere dai dati oggettivi della sua manifestazione e concentrare l’attenzione sulla fede personale che li motiva. La prima accezione di «verità» è del tipo razionale, ed è propria di quelle visioni del mondo di tipo formale che attribuiscono valore cognitivo alla interpretazione delle forme simboliche delle civiltà umane, la cui conoscenza del rapporto oggettivo, ossia appunto formale, tra significato e significante esaurisce l’intero processo ermeneutico. L’altra accezione di «verità» è del tipo trascendentale, propria invece delle visioni del mondo di tipo sacrale che attribuiscono valore di conoscenza ai moventi spirituali che animano il comportamento soggettivo dell’uomo verso gli altri uomini. Nell’universo di senso trascendentale la rilevanza cognitiva non inerisce al quantum ma all’animus dell’agente, le cui azioni vengono giudicate non già sulla base dei prodotti reali (res gesta), ma sul valore spirituale del loro senso intenzionale (historia rerum gestarum). Il valore «spirituale» di un atteggiamento va dunque inteso in senso non meramente psicologico di movente razionale di un’azione determinata a uno scopo, ma di partecipazione morale alla situazione esistenziale del suo destinatario, costituita anche da azioni finalisticamente non razionali e del tutto gratuite. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a due diversi livelli di coscienza. Nel caso della coscienza formale, l’atto cognitivo si stabilisce sugli esiti pratici delle azioni umane ( ά), per cui la interpretazione del loro connessione causale è il punto di partenza della loro finale rappresentazione storica di senso logico (ί). La ίè la rappresentazione di una sequenza 22


avvenimenziale determinata per causas avente una coerenza narrativa stabilita in termini formalmente razionali, cioè metodologicamente coerenti, valevoli per ogni situazione analoga. La forma razionale della storia pragmatica è costituita dal nesso logicamente consequenziale delle azioni umane oggettivate e astratte dal loro referente teleologico di senso morale, attraverso la sostituzione di un modello di azione ideale, di valore universale, al loro concreto contesto esistenziale, di valore personale. Qui, la verità è interpretata come corrispondenza analogica del factum col suo astratto modello ideale, ossia come rapporto di similitudine del singolare con l’universale. Nel caso, invece, della coscienza morale, la comprensione delle azioni umane si stabilisce intuitivamente sulla qualità dei loro rispettivi atteggiamenti, che possono divergere anche notevolmente dalle forme oggettive di manifestazione. Si prenda il caso dell’atteggiamento di Gesù nei confronti di Pietro. Cristo sa che l’Apostolo lo tradirà, ma la Sua consapevolezza non lo induce a mutare l’atteggiamento verso il discepolo. E questo perché a Lui non interessa il nesso causale tra il diniego della conoscenza del Maestro e le possibili conseguenze politiche, che è stato tenuto invece presente da Pietro per celare la propria identità alla folla. A Gesù interessa infatti la relazione morale che Pietro stabilisce tra la sua coscienza cristiana di homo spiritualis e la sua coscienza sociale di homo politicus. Questa relazione, tra la dedizione a Dio e la dedizione a Sé, non si può moralmente valutare in termini di immediati nessi causali tra azioni ed eventi consequenziali, ma nei termini propri al tempo escatologico, in cui il rapporto tra azioni ed eventi non è causale ma simbolico, ovvero legato non al significato formale, interno all’universo di senso razionale, ma al significato esistenziale, interno all’universo di senso spirituale. Il valore morale del pentimento di Pietro sopravanza di gran lunga il suo tradimento formale, che perciò non può essere interpretato alla stregua di un fenomeno giuridico. La sua misconoscenza verbale di Cristo non può essere valutata come i rabbini valutano le parole di Gesù al Sinedrio, ossia attribuendo all’espressione verbale un senso che non appartiene all’autore ma agli interpreti. Qui l’Einfühlung consiste nella risoluzione dell’oggetto al soggetto ermeneutico, e cioè alla tipica operazione discriminativa della logica dialettica, che assume come valido il solo dato compatibile col proprio modello normativo ideale. Verso Pietro, invece, Gesù usa la stessa pietas caritatevole che userà coi suoi carnefici al Golgota, prendendo in considerazione l’effettivo sapere dell’autore rispetto all’inconsapevole azione da lui messa in atto, e non già, come convenzionalmente nella causalità razionalistica, il sapere supposto con l’azione oggettiva. Il costrutto gnoseo-logico della 23


rappresentazione razionalistica deve logicamente supporre sempre la consapevolezza dell’azione da parte dell’autore, ossia quella responsabilità personale che, nata all’interno dell’universo di senso spirituale, è stata trascritta nel senso giuridico che non le appartiene. Infatti, il soggetto giuridico è sempre un soggetto formale, cioè un’ipostasi ideale, e mai un soggetto concreto posto nel suo contesto esistenziale. E il giudizio di diritto agisce sempre sul soggetto ideale, ossia su azioni e conseguenze formali, necessarie. La conversione di Saulo sulla via di Damasco non è interpretabile in senso formale, poiché non si può stabilire alcun nesso razionale tra l’evento naturale dell’accecamento e la sua ά spirituale. In tal senso, egli non ha tradito la Legge farisaica, ma l’ha «compiuta» convertendosi al richiamo della Parola di Cristo al suo spirito. La «parola» va dunque inserita nel suo proprio orizzonte di senso, distinguendo il senso formale di ciò che Pareyson chiamava «pensiero espressivo», di carattere logico, dalla verità del «pensiero rivelativo», che ha un carattere ontologico. 5 Se a stabilire il valore razionale della parola è il suo senso logico, a stabilirne il senso spirituale è il suo senso morale. La logica e la morale si muovono su due piani paralleli, che sono rispettivamente quello della Giustizia e quello della Carità. La logica della Giustizia è razionalmente consequenziale, e tende a ristabilire l’ordine sistemico dopo ogni infrazione; mentre la morale della Carità è inconseguente, tendente al riconoscimento del senso di ogni atteggiamento umano entro il valore personale di ordine trascendente (l’ordo amoris della fede cristiana). L’interpretazione logica dei sistemi formali tende a stabilire l’insieme a partire dalla parte, ovvero, nel caso dell’opera scritturale, esaminando le parole che la compongono per rinvenirne il senso complessivo (organon). Questo tentativo non è altro dal riportare il Molteplice all’Uno, intendendo l’unità di senso come il suo valore universale. L’esigenza unitaria non è solo metodologica ma nasce dalla necessità di riportare i singoli contenuti della relazione di senso razionale a un fondamento ontologico che costituisca il pre-supposto stesso dell’unità dei singoli riferimenti particolari. Ora, questo fondamento (Grund) unitario è necessariamente extra-sistemico, in quanto, a differenza di ogni inferenza congetturale che pre-ordini l’oggettività di ogni costrutto razionale, rendendolo scientificamente ipotetico, le possibili revisioni logiche del sistema di relazioni strutturali non possono intaccarlo senza mancare l’oggetto stesso delle determinazioni variabili che lo riguardano. Oggetto che, essendo pre-disposto, non può essere pro-

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L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano, 1971, pag. 53.

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dotto del pensiero logico quale suo oggetto di pensiero, ma è originario a ogni pensiero, di natura ontologica: esso è l’Essere stesso. L’Essere, in senso ontologico, non si può comprendere in un concetto che sia più comprensivo della sua unità, e quindi non è oggettivabile in senso logico, ma soltanto conoscibile, cioè aperto alla possibilità di essere conosciuto per ciò che è, ovvero così come appare. La coscienza ermeneutica della apparenza (Erscheinung) dell’Essere non implica la sua conoscenza, ossia la comprensione di ciò che trascende il fenomeno, ma rimanda incessantemente a ciò che non-è conosciuto, e che la critica filo-logica esclude come elemento incongruo al sistema. Se la conoscenza storica (historisch) fosse realmente la storia (Geschichte) dell’Essere, e non la rievocazione delle sue possibilità d’essere ciò-cheè (stato), l’Essere (unitario) coinciderebbe col suo stesso divenire (molteplice), sarebbe cioè logicamente contraddittorio. Ma se l’Essere ha una natura logicamente contraddittoria, non può identificarsi col ό, ossia col principio (ί) di non contraddizione. La confusione nasce dall’assunzione dell’unità logica del Molteplice come unità ontologica, la quale si stabilisce, come sappiamo, attraverso la distinzione delle parti che sono in contraddizione dialettica con la sua positività, e che vengono esclude dall’essere come negativo non-essere. Tale unità logica è appunto ideale, cioè conforme al modello razionale di Essere, stabilito dal sistema di relazioni strutturali tra i molteplici enti interni al suo orizzonte di senso (logico). Ma tale unità ideale, sia pure reale all’interno del suo livello di coscienza, non è ancora reale in senso concretamente esistenziale, come non lo erano i famosi talleri di Kant. Perché dalla astratta realtà ideali si passi alla concreta realtà esistenziale, occorre che il principio di realtà sia anch’esso esistenziale, e non ideale, ossia ontologico e non logico. Orbene, il principio di realtà ontologico, non essendo pertanto il ό, cioè l’unità logica del molteplice, ossia l’Idea, è l’Essere originario da cui ogni essere molteplice deriva come sua emanazione creativa, ossia è Dio. La cristologia ellenistica, assumendo la coscienza ideale come il luogo metafisico dell’unità del molteplice, concepì tale coscienza come un Soggetto avente in sé tanto la unitaria natura ontologica che le molteplici determinazioni logiche degli enti fenomenici, e lo identificò ipostaticamente con la Persona di Cristo, pensato come l’Immagine reale di Dio, così come l’ente è l’immagine reale dell’Idea. Nasce il όdi Cristo, e con esso la teoria universalistica dell’uomo come imago Dei, a un tempo essere «storico» in quanto finito, e «divino» in quanto creatura di Dio. La tensione tra una visione del mondo formale e una visione del mondo sacrale caratterizzò la vita storica della civiltà cristiana, quella stessa del sistema liberale europeo, caratterizzata dalla pretesa totalizzante 25


della religione rivelata e dalla resistenza a tale pretesa da parte delle molteplici sfere della esperienza vitale, anelanti ognuna a una sua autonomia razionale, per cui «la religione dovette, attraverso molti conflitti, avere una spiegazione con la vita profana, con la [sua] espressione nella poesia e nella letteratura, e con la scienza in via di crescita», ossia con «le grandi forme della vita spirituale» che pure «scaturiscono in larga misura dalla religione» ma che «appena, però, sono giunte alla maturità, seguono leggi proprie, e ciascuna vuole esprimere per sé sola, indipendentemente dalle altre, la natura delle cose». 6 2. Secondo la dottrina scolastica, segnatamente quella di S. Tommaso, ogni corpo fisico corrisponde un’unità sostanziale detta «anima», di natura intellettiva.7 Il personalismo cristiano fa della «persona» l’unità mistica e individuale di anima e corpo, di cui le molteplici «facoltà» sono strumenti operativi. Da questa teoria discendono le varie identità collettive, quali il «corpo sociale», l’ «anima nazionale», etc., che estendono il principio unitario originario relativo alle singole persone esistenziali a ogni soggetto ideale, comprese le «persone giuridiche», il cui «corpo istituzionale» è formato anch’esso di una «anima» o principio ideale informatore. In ogni caso, ciò che qui rileva è che il principio unitario o «anima» è consustanziale al soggetto morale in quanto persona spirituale, e non individuo materiale. Ed è tale principio spirituale a costituire la persona soggettiva unica e distinta da ogni altra, mentre i «corpo» fisico è il tramite materiale che lega il soggetto morale alla natura esterna entro cui esso vive la sua esistenza finita. In questo senso, il corpo fisico della persona è tanto soggettivo che collettivo; tanto intimo all’anima cosciente quanto alla natura incosciente, per cui l’apparto sensoriale è il confine personale tanto interno dell’anima che esterno della natura impersonale. Ed è il corpo pertanto a essere destinatario tanto delle pulsioni volitive della coscienza che di quelle naturali inconsce, ossia il luogo di mediazione della libertà della coscienza interna e della «Allora comincia la lotta metodica e disciplinata della vita mondana, dell’arte, della letteratura e della poesia, della scienza e della filosofia contro la religione e la sua organizzazione nelle comunità religiose. Esse si presentano, divenute mature e maggiorenni, come autonome forze storiche e pretendono di avere un loro proprio posto nella vita della nazione. E questo è già un motivo per dover entrare in conflitto con la religione»: W. Dilthey, Das Problem der Religion (1911), tr. it. a cura di G. Morra, Milano, 1992, pagg. 116-117. 7 Ved. A.D. Sertillanges, La philosophie de S. Thamas D’Aquin (1957), tr. it., Roma, 1957, pagg. 415-430. 6

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necessità della vita biologica dell’esistenza umana. Il dato corporeo dell’essere umano, dunque, è strutturale e non accidentale in riferimento all’esistenza della persona, e diventa accidentale solo in riferimento all’attività della coscienza spirituale, astratta dall’esistenza concreta della persona storica. Conseguentemente, quando si dice «persona» si indica una soggettività esistenziale unitaria che, in virtù della sua peculiare struttura fisico-spirituale, è anche unica, e tale in quanto il suo universo di coscienza gli appartiene strutturalmente. I fenomeni spirituali, ossia i prodotti culturali aventi un significato simbolico, hanno alla loro base l’esperienza del linguaggio, il cui archetipo simbolico è il Mito, che fonda ontologicamente l’universo di senso razionale della relativa cultura antropologica. Come sappiamo, i fondamenti mitici costituiscono l’oggetto della rielaborazione dei loro contenuti significativi, inerente appunto alla loro oggettivazione razionale. I mitemi sono gli elementi strutturali del giudizio di realtà, costitutivi dei «valori» culturali storici, per cui la «struttura» del Mito è l’origine della «struttura» del pensiero. Il Mito è dunque la «struttura» del linguaggio significativo che sta alla base della lingua, intesa come «struttura» delle forme simboliche significative di un universo di senso culturale. La «parola» dei linguisti semiotici (positivisti) è la «azione» dei filosofi fenomenisti, ossia una astratta unità originaria slegata dal suo contesto significativo, e cioè astratta dal suo universo di senso razionale simbolico. Non esiste un Mito senza un relativo pensiero mitico, senza una mitologia.8 Il Mito è il «modello archetipo» del pensiero mitico. «Modello» equivale a «struttura significativa», e quindi a universo di senso, generatore di ogni significato razionalmente possibile. L’universo di senso è pertanto l’orizzonte della coscienza razionale dell’uomo spirituale, di cui la «anima» è il «livello di senso» intellettivo relativo alla singola persona. Ogni «anima» personale è inscritta in un relativo universo di senso razionale che costituisce l’orizzonte spirituale della sua coscienza morale. L’universo di senso della cultura spiritualistica cristiana ha come fondamento mitico il ό del Cristo, il cui senso simbolico fonda la possibilità di ogni rappresentazione razionale della Storia spirituale dell’uomo (ó). La vicenda esistenziale di Gesù è il paradigma

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«Il mito ha una vita e una virtù propria [sicché] non è privo né di verità né di movimento intellettuale. [...] Il contenuto del mito è assai più ricco di tutte le simbolizzazioni parziali che ne sono derivate»: E. Voeglin, Order and History, vol. I (1956), tr. it. Milano, 2009, pag. 111.

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simbolico di ogni possibile vicenda umana di senso spirituale. Tra il modello mitico e l’esistenza concreta di ogni persona, la relazione interna all’universo di senso spirituale comune è costituita dalla charitas, la quale è il terminus medius tra la Storia eponima di Cristo e la vicenda umana particolare. Una mediazione che è molto diversa da quella che sussiste tra il valore ideale e l’azione temporale dell’uomo, tra l’astratto e il concreto o l’universale e il singolare, che è di tipo logico dialettico. L’amore cristiano, infatti, rappresenta una relazione altra dalla mediazione dialettica che la dimensione politica della socialità realizza attraverso l’istituzione giuridica e la norma di legge. L’amore cristiano opera come relazione alternativa a quella istituzionale, e creatrice a suo modo di un ordine socialitario che non è quello politico, ma è il paolino ordo amoris. Tra il modello eterno e l’esperienza temporale non c’è una mediazione dialettica, poiché il Dòkema non è l’immagine di un’Idea che platonicamente sta fuori del mondo umano, come l’ ἰώ degli alessandrini,9 ma è la «immagine di Dio» (2 Cor., 4, 4; Col.,1, 15), ovvero una realtà spirituale che è intrinseca all’esistenza stessa della persona creaturale, la quale non partecipa logicamente dell’essenza divina ma esistenzialmente, non quindi idealmente ma ontologicamente; non formalmente, quindi, ma simbolicamente. L’atto di giudizio del Dòkema non è il concetto logico, che definisce il giudizio di realtà dialetticamente derivato, ma il dokimàzein, ossia il discernimento etico ispirato dalla carità del prossimo. La differenza è radicale, in quanto la partecipazione logica si realizza attraverso un processo di universalizzazione dell’esperienza storica, laddove nella relazione simbolica l’analogia si realizza attraverso un processo di personalizzazione del modello divino. Universalizzare significa portare il Molteplice in sé dell’esperienza esistenziale storica all’unità logica del per sé, convertendo il divenire in Essere. Questo processo di trasmutazione (transfiguratio, Verwandlung, ώ) è insito nel farsi dell’Idea, cioè nella sua Storia ideale, la cui fenomenologia è quella appunto della universalizzazione ideale del reale. La rappresentazione idealistica della Storia umana nasce dal presupposto monistico per cui, secondo le parole di Tommaso, «se uno

Clemente, mutuando la nota teoria platonica dell’arte come imitazione indiretta del modello ideale, chiama Zeus Olimpio una (falsa) “immagine di immagine” (όἰώ), distinta dalla (vera) “immagine di Dio” ( ἰώύ) che è “immagine del Logos” ( ό di cui “l’uomo vero” (ἄό) è a sua volta “immagine” ( ἰώ) : Protrepticus X, 98, 3-4. 9

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è l’intelletto in tutti, quello che è conosciuto da uno dovrebbe essere conosciuto anche dagli altri» (De Anima, art. 3); ossia nasce dalla credenza nel fondamento razionalistico dello Spirito dell’uomo, e quindi da una relativa costituzione antropologica. Tale presupposto antropologico afferma la sua verità ideale negando il Molteplice, ossia la varietà individuale delle coscienze personali, che va condotto ad Unità ideale, a sistema, appunto universalizzando il modello ideale, distinguendo dalla concreta esperienza esistenziale dell’uomo la sua singolarità personale unica e irripetibile. Razionalizzare significa dunque negare l’individualità personale, sicché universalizzare il valore ideale è il contrario che individualizzare il modello simbolico. Ma anche la relazione ontologica tra il vero e il falso Essere, rispetto a quella logica, non indica semplicemente l’altro dialetticamente opposto all’, il  ma la Morte rispetto alla Vita; morte che Clemente chiama significativamente «tiranna» (ύ),10 in quanto espressiva della necessità della condizione naturale rispetto alla possibilità inscritta nella Vita spirituale. La universalità è un portato teoretico del naturalismo greco, il quale poneva la Natura come modello ontologico della realtà, anche di quella umana. L’universalizzazione concettuale è una modalità di pensiero dell’Essere come realtà ontologica astratta dal divenire. L’identità di realtà logica e di realtà ontologica è l’essenza concettuale dell’idealismo filosofico. Ogni filosofia, come soleva ripetere Croce, è «idealistica». Ma la filosofia, e quindi l’idealismo, nascono dal naturalismo greco, e quindi allo stesso titolo si può asserire che ogni filosofia sia «materialistica». Per il naturalismo, le leggi fisiche sono «universali», ossia generali e immutabili, alle quali l’uomo deve razionalmente conformarsi secondo ragione naturale. L’estensione al mondo sociale delle leggi naturali era possibile in virtù del legame che attraverso la ragione universale univa tutta la realtà cosmica, ossia l’Essere. l’Essere dunque è la realtà pensata in universale, la realtà del Lògos, l’uni-verso logico. Non tutto l’Essere, ma soltanto quello oggetto del pensiero universale, della ragione logica, il cui metodo dialettico opera nel senso della distinzione dell’universale, che è, dal singolare, che non è logicamente necessario ed eterno, e perciò appartiene alla realtà accidentale e contingente. Il Lògos era per il naturalismo greco l’essenza stessa del reale. La scissione del cosmo naturalistico operata dallo spiritualismo cristiano, emancipa l’uomo dalla necessità naturale, destinandolo a un fine escatologico. Ma tale destinazione metafisica, se da un lato emancipa

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Clemente, Protrepticus, XI, 111, 2.

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l’uomo naturale dalla sua contingenza fisica di essere mortale, fa della sua spiritualità eterna anche un motivo di frattura ontologica con la sua realtà esistenziale. Gesù, infatti, chiede agli apostoli di abbandonare la loro vita quotidiana, con le sue incombenze naturali e pratiche, per dedicarsi alla vita spirituale. L’idea di metànoia è anch’essa una conversione ontologica, che trasmuta l’esistenza umana nel senso dell’eternità spirituale. Non è stato dunque difficile identificare l’essenza spirituale cristiana con l’universalità ideale del Lògos greco. La differenza essenziale era nella destinazione, del Lògos ideale, a una eternità finita, essendo l’Idea pur sempre l’essenza di un ente, e del Verbum spirituale a una eternità infinita, essendo lo Spirito l’essenza di Dio creatore del mondo. Nel primo caso, l’eternità degli enti finiti consiste nella loro proiezione universale, per cui non è l’ente a essere immortale ma la sua essenza ideale. Senza il passaggio dalla condizione esistenziale a quella ideale, e cioè universale, la singolarità empirica è destinata al ni-ente, al nonessere. Solo ciò che è emerge dal niente, e senza il pensiero del suo essere torna al niente. Come ricorda Platone, è il pensiero che crea l’Essere. ma poiché questo Essere è la realtà ideale di ciò-che-è, cioè dell’ente, la realtà ideale e quella esistenziale coincidono. Tale coincidenza implica la liberazione dell’ente dalla sua accidentalità finita, ossia dalla sua natura fenomenica, che è l’involucro naturale della sua fisicità. Il pensiero greco, distinguendo all’interno della dimensione naturalistica, l’elemento accidentale e finito da quello necessario ed eterno, porta il pòlemos dialettico all’interno dell’ orizzonte simbolico naturalistico, contendendo al Mito la rappresentazione universale del mondo. La filosofia si costituisce come il luogo della rappresentazione (dell’universalità) logica dell’Essere. Ma questa rappresentazione meta-fisica dell’Essere, non è il totalmente altro dalla realtà fisica, ma soltanto la sua proiezione ideale, tale che l’Idea sia l’essenza dell’ente, la sua astrazione universale, non un altro mondo. L’Idea del mondo insiste sulla stessa realtà mondana, quella della Natura, della quale l’Idea è la sua visione (éidos) universale, il suo Lògos. Il Verbum divino, il Dio ebraico, non è l’essenza del mondo, ma il suo Creatore, altro dal mondo creato. Perché si realizzi la coessenzialità delle due realtà, divina ed umana, occorre che il Verbum si finitizzi e s’incarni nell’uomo. A questo punto, allorquando cioè il Verbum caro factum est, l’originaria alterità ontologica diventa compartecipazione essenziale, la quale rende possibile l’analogia con la metafisica greca. Se, però, l’universalizzazione logica dell’ente naturalistico lo costituisce come ente-di-natura, partecipandolo del suo Essere appunto universale, l’universalizzazione dell’ente spiritualistico lo costituisce come ente-di30


spirito, partecipandolo dell’Essere divino. Le due distinte consustanzialità operano nello stesso senso universalizzante, tale però che, mentre l’ente naturale, fuori del suo Essere, persiste nella sua entità naturale, pur essendo un ni-ente logico, l’ente spirituale – cioè l’uomo -, fuori della sua essenza spirituale è un ente-di-natura, il cui status ontologico è altro da quello spirituale. Nel primo caso, il passaggio dall’ente all’Essere è un passaggio logico, nel secondo caso si tratta di un passaggio ontologico. Ciò vuol dire che la meta-fisica greca è pensiero dell’ente universale fisico, mentre la meta-fisica cristiana è pensiero dell’ente spirituale, antropologia spiritualistica, la cui universalità coincide, non con la sua essenza ideale, ma con la sua essenza divina. Ciò significa che la filosofia greca è una fisica pensata per enti universali, mentre la filosofia cristiana è una teologia pensata come antropologia. Mentre, cioè, il rapporto tra ente e Idea è un rapporto di pensiero, il rapporto tra uomo e Dio è una relazione esistenziale, dove la sostanza ideale è diventata esperienza di vita. Nel primo caso, il luogo in cui si realizza la relazione logica è il concetto; nel secondo caso, il luogo della relazione spirituale è l’esistenza. Da ciò consegue che il Logos idealistico, in quanto pensiero della Natura, è ragione del mondo, il Verbum spiritualistico, in quanto pensiero della divinità dell’uomo, è ragione di Dio. La ragione del mondo è quella esclusiva della logica, la dialettica; la ragione di Dio è quella inclusiva dell’amore, la charitas. Il concetto logico è principio regolativo ideale, cioè valido all’interno dell’universo di senso metafisico. L’atto caritativo è principio regolativo esistenziale, valido all’interno dell’esperienza umana del mondo-della-vita (Lebenswelt). Il dato ideale del pensiero concettuale è l’ente fisico, oggetto di studio ontico; il contenuto dell’esperienza spirituale della carità è il Dasein, che è il luogo esistenziale della domanda ontologica. Il niente metafisico, riferito all’ente fisico, è la materia; il niente spirituale, riferito al Dasein, è l’animalità. Solo in riferimento all’uomo l’essenza spirituale coincide con la sua costituzione esistenziale, tale che essenza ed esistenza coincidano inscindibilmente, cioè sostanzialmente, e quindi necessariamente. 11 E se nell’uomo l’essere di 11

«La connessione in cui è anima si trova col corpo non è una giustapposizione estrinseca, ma è coordinazione, collaborazione tanto intima da risultarne quel compositum speciale che è l’individuo vivente. In sostanza, il corpo per sé e l’anima per sé non possono essere considerati come res completae, in quanto, solo unendosi diventano efficienti: il corpo diviene capace di compiere le sue funzioni, assume e conserva la forma e la struttura che gli son proprie, solo nei limiti e nella misura in cui è, diciamo così, vivificato dall’anima; e d’altra parte l’anima può compiere il suo ufficio, solo nei limiti in cui viene aiutata e sorretta dal corpo»: F. De Sarlo,

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pensiero coincide necessariamente con l’ente esistenziale, ne consegue che l’Essere del Dasein non è un ente metafisico, non è un oggetto ideale, un prodotto del pensiero universale, ma una realtà personale concretamente sussistente e in sé intrascendibile, non universalizzabile alla stregua di un astratto ente naturale. L’uomo, perciò, non può essere pensato come un ente, e quindi non può pensarsi un’Idea dell’uomo. In questo senso, Cristo non è un’Idea, cioè una immagine universale, proiezione dell’uomo ideale (come invece credeva Feuerbach). La realtà dell’uomo, non essendo de-finibile idealmente in un concetto logico-naturalistico, di essa si può soltanto esperire la sua infinitezza spirituale, la sua libertà, per cui l’uomo è l’esperienza che se ne fa. L’esperienza del suo Mystero, che è la presenza stessa di Dio in lui. La verità abita, non più i cieli iperuranei, ma in interiore homine, incarnata nell’esperienza esistenziale dell’uomo. La diversa localizzazione simbolica della Verità spirituale rispetto a quella ideale segna, con la sua personalizzazione, la distanza dal concetto greco di conoscenza, e quindi esprime la fine della metafisica naturalistica, anzi della stessa filosofia, riflesso speculativo della «corruzione della carne» e della dimensione puramente sociologica dell’uomo. I destini della persona spirituale si svolgono all’interno della esperienza esistenziale dell’uomo, il cui universo di senso è rappresentato dalla Storia, che costituisce il processo irenico verso il finale éskaton preconizzato dalla rivelazione cristiana. La Storia rappresenta la realtà, parallela a quella della vita naturalistica, caratterizzata dalla dimensione escatologica, che è il terminus ad quem del suo processo fenomenologico. Il fine della Storia è anche la sua fine, e si pone all’inizio del tempo spirituale: la esistenza del Cristo, l’incarnazione di Dio. La Storia in senso cristiano è uno svolgimento profetico, che parte dalla fine dei tempi, dall’eternità che si fa tempo, come dal Tutto nasce l’Essere. La fede nell’éskaton è il fondamento arcaico della realtà ontologica della Storia, senza il quale l’esistenza umana è solo una realtà sociologica, determinata da leggi universali naturali. L’uomo cristiano non è uno zoòn politikòn, ma una persona, l’immagine antropomorfa di Dio. L’indeterminatezza dell’esperienza storica dell’uomo spirituale è legata alla sua natura personale, che lo rende unico. L’unicità dell’esperienza personale fa della Storia umana la vicenda esistenziale di ogni singolo uomo, ognuno portatore unico della verità comune ed eterna. Lo spostamento del nucleo tematico dalla realtà sociale del pensiero

Psicologia e filosofia, Firenze, 1918, vol, II, pag. 69; cfr. A. Zacchi, L’uomo, vol. I La natura, Roma, 1944, pag. 438.

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antico, alla esistenza personale del pensiero cristiano, delocalizza conformemente anche il tòpos teoretico dalla soggettività politica alla soggettività fideistica. Ora il rapporto non è più con la pòlis ma con Dio. E così, mentre la tendenza della filosofia pagana era verso la pubblicizzazione della verità privata del teoreta, la tendenza della fede cristiana sarà verso l’intimizzazione dell’esperienza del mondo nella coscienza personale, che diventa pertanto il luogo fenomenologico della verità, ossia del rapporto con Dio. In tale rapporto consiste l’esperienza della divinizzazione della persona spirituale, non dell’uomo politico quale animal rationale. Con la trasfigurazione spirituale, l’uomo non esiste più. Egli può essere per la cultura pagana un ente di ragione, oggetto del pensiero ontico, ma per la coscienza cristiana soltanto la persona realmente esiste. Della indefinita varietà delle rappresentazioni simbolico-culturali delle particolari costituzioni sociali della vita naturalistica dell’uomo nel tempo, la storiografia cristiana trascrive il solo processo spirituale eterno, secondo il modello della vita del Cristo, nella cui vicenda storica si compendia paradigmaticamente ogni possibile storia umana. Sicché, al di sotto della molteplicità fenomenica dei processi avvenimenziali singolari, ogni storia particolare ripropone la stessa Storia spirituale, le cui dinamiche non riflettono leggi logiche universali, dettate da una necessità naturalistica cosmica, ma confermano in guise sempre nuove e diverse una stessa eterna e inalterabile movenza ontologica, logicamente paradossale, per la quale la libertà dell’uomo di determinarla storicamente non riesce a eludere il percorso inevitabile della sua parabola escatologica, dettata ab aeterno nel vincolo della sua condizione creaturale. E così l’esistenza umana, astretta tra la necessità della vita fisica della sua condizione finta, e la condizionatezza della sua natura divina, si svolge entro la cognizione della fine naturale e la coscienza del fine spirituale. Da questa condizione nasce nell’uomo l’esigenza di ridefinire incessantemente i termini esistenziali del suo rapporto con Dio e con la Natura, rielaborando le ragioni eterne della sua fede in considerazione delle necessità contingenti della sua vita storica. La rielaborazione dei contenuti della fede in termini theo-logici è dunque una attività critica intrinseca all’universo di senso della coscienza razionale. Il Cristianesimo, acquisendo le forme metodiche della metafisica greca, opera un trasferimento di senso dell’antico naturalismo greco, facendo del lògos un legame mistico di tipo spirituale, per cui esso non designa più l’appartenenza dell’uomo alla Natura, ma all’essenza di Dio, la cui paternità creatrice consiste nell’imprimere alle sue creazioni la destinazione finale che manca alla vita pagana, paga di risolversi nella materna ripetizione delle scansioni biologiche dell’esistenza naturale. La vita spirituale continua oltre la morte, non già nella fama custodita 33


dalla memoria sociale, ma nell’eternità dell’essenza divina. Vivere per la fama e vivere per l’eternità, sono le diverse dimensioni del senso dell’esistenza, rispettivamente, pagana e cristiana. 12 La meta spiritualistica trasvaluta tutta l’esistenza umana in chiave escatologica, facendo della Storia ben più che lo scenario temporale della ragione sociale dei rapporti economici e politici. Essa infatti diventa il luogo visibile della realtà spirituale, lo scenario in cui si manifesta nel tempo l’eterno. Col cristianesimo il theorein perde di centralità rispetto al praxein in quanto viene appunto indicato nell’orizzonte dell’esistenza il luogo dove si esperisce la verità. L’esperienza della verità prende il posto della sua conoscenza, sicché la ricerca cristiana non è tesa alla sapienza della realtà universale con gli strumenti della tecnica dialogica, ma alla santità della condizione eterna con gli strumenti dell’azione caritatevole. Il giudizio logico della filosofia greca trasforma il contingente in necessario, affermando che la realtà esistentiva, partecipando della realtà essenziale, realizza l’Idea, ossia ciò che è necessario in quanto immutabile ed eterno. Nel giudizio logico, l’essenza e l’esistenza vengono a coincidere nello stesso Essere, per cui logicamente il contingente e il necessario si immedesimano come il tempo e l’eterno. L’Essere è dunque il luogo di tale manifestazione ontologica, la quale, costituendosi come realtà assoluta e universale, coincide con lo stesso Divenire cui si oppone. Questa coincidentia oppositorum viene assunta dal cristiano Hegel nel trascrivere il senso della Storia nei termini della fenomenologia dell’Essere, sicché concepire l’Essere come Storia, e nient’altro che Storia, diventa pensare la sintesi di sé stesso come Tutto. E da qui il panteismo umanistico, lo storicismo assoluto, il positivismo immanentistico e il materialismo (o l’idealismo) neo-eleatico: tutte conseguenze discese da quell’identità. L’universalismo storicistico procede negando realtà ideale alla contingenza dell’esistenza, giudicando l’essere del contingente come l’unica realtà necessaria. Il modello di tale procedimento di sintesi storica di temporale e di eterno è il Cristo, sinolo vivente di divino e di umano. La trascrizione secolaristica di tale sintesi è il panteismo storicistico, per cui tutto è Storia, entro la quale ogni ente fenomenico diventa necessario in quanto storico, e perciò reale in senso razionale. Necessario è ciò che ha in sé la propria ragion d’essere. Ma la necessità Paradigmatica “l’arte della morte” elaborata nel famoso monastero di Cluny, dove i monaci, seguendo il Sacramentario di Warmundo d’Ivrea (sec. XI) destinano ai laici la disperazione mortis causa, riservando ad essi “un ruolo regolatore del lutto e delle doglianze” mercé la ritualizzazione del cordoglio. Ved. G.M. Cantarella, I monaci di Cluny, Torino, 1993, pagg. 156 sgg. 12

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dell’ente storico è intesa in senso logico, alla maniera greca, non in senso escatologico, alla maniera cristiana, per cui idealisticamente l’elemento contingente viene trasferito nell’esistenza, il regno pratico della libertà (di essere-esistere, oppure non), dove qualcosa può esistere oppure non, ma se esiste è ciò che dev’essere secondo la necessità dei rapporti logici. Una volta pervenuti all’esistenza, gli enti storici restano impigliati nella necessità del loro processo ideale, nel regno della necessità della Storia ideale eterna, entro la quale non c’è libertà ma solo logica necessità, come necessaria è la sequenza del giudizio logico nel sillogismo. La Storia della libertà è il regno kantiano della Pratica, che p il riflesso fenomenico di quello teoretico del concetto logico, dove ogni oggetto di giudizio diventa ente necessario alla stessa realtà dell’Essere che è il suo stesso essere. La libertà in senso cristiano non è la libertà politica o economica, quella che interessa al volotà o l’agire politico, ma la libertas caritatis dell’Amore, coincidente coincidente con la la libertas caritatis della parola di Cristo. La libertà dei cristiani è di essere soggetti all verità divina, e non all ellegge dell’uomo, sia pure razionale e condivisa. «Conoscete al veritàe la verità vi farà liberi» (Gv. 8, 32): «Se il Figio vi farò liberi, voi sarete liberi» (Gv. 8, 36). Le verità non è un prodotto della dialettica, ma la Parola di Cristo, «Solus iustus est liber». 13 Giusto , cioè moralmente retto, santo. «La libera volontà sarà tanto piu libera quanto più sarà sana e tanto più sana quanto più sarà sottomessa all misericordia e alla grazia divina».14 Essere nella legge è operare in conformità ad essa, mentre eesere sotto la legge è essere constretto ad agire per costrizione imperativa e cogente. Nel primo caso, vi è l’adesione morale; nel secondo, mera costrizione. Solo chi opera nella legge è libero, l’altro invece è servo. Nella Verità si trascende il tempo, cioè l’edacità della finitezza naturale. Trascendere il tempo è amare. L’atto amorevolo è escatologico, l’eskaton è il trascendimento del tempo, l’eternizzarsi della libertas veritatis. Agostino, ritenendo che la volontà sia stata creata per volere il bene, sposta l’accento sulla possibilitò del volere, anzicchè sull’intenzione di bene. Ciò comporta che la perfezione della volontà sia l’obiettivo finale del pensiero, che intende reallizzarsi come corrispondente realtà effettuale, Da qui l’idea che la volontà imperfetta traduca un pensiero errato, e da qui consegue la teoria della conoscenza come condizione del retto vivere Ciò scarica sull’uomo l’intera responsabilitò del suo

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Agostino, Serm. 161, 9 Agostino, Ep, 167, 2, 8.

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arbitrio, equiparando la volonta all’intenzione. Se la intenzione è un atto soggettivo della coscienza, e come tale non conoscibile oggettivamente ma solo soggettivamente e per intuizione, la volontaè un atteggiamento sociale, imputabile all’attore a determinato da fattori indipendenti dalla sua soggettiva intenzione e oggetto di interpretazione fattuale. Se l’atto di volontà non esiste prima della sua fattualità, tale che la sua realtà coincida con la sua effettualità, l’intenzione permane nel suo essere indipendentemente dalla sua realizzazione, e in tal senso è libero, laddove l’atto di volontà dipenda dalle sue condizioni di realtà, e perciò non è mai propriamente libero. La libertà dell’intenzione è nel suo poter-non-essere, cioè nella possibilità, mentre tale possibilità, in relazione alla volontà, consiste nel suo solo poter-essere. La volontà che non può essere, non è una intenzione, non è in-esistente, ma è niente, l’opposto dell’essere. L’ente che dal niente passa all’essere, è appunto l’atto di volontà, che nel suo essere ciò che è, è presente nella coscienza come ente. L’intenzione, permanendo nel suo essere anche se in-esistente, è libera anche dal presente che è il tempo della volontà e del giudizio. Questa libertà è la condizione di beatitudine dei santi e dei poeti, che vivono nell’eternità, ossia entro l’orizzonte della coscienza intenzionale. La coscienza intenzionale è la coscienza della libertà. È quella con cui Dio ha creato il mondo e quella con cui l’uomo crea il liguaggio: l’atto libero dell’Amore che è poesia del Mondo. Il «peccato» è destinare la coscienza alla realtà della volontà, staccata dalla pienezza dell’intenzione, cioè la realtà dell’economia del potere emancipata dall’intuizione morale, la parte per il Tutto. Peccare è considerare la realtà voluta come l’unica realtà possibile, e perciò necessaria, eliminando la libertà della condizione originaria della coscienza morale, della libertà divina. Il luogo divino della lbertà è la coscienza morale, l’intuizione del Tutto, cioè della Differenza tra realtà finita e presente,e la realtà in-finita e trascendente, libera dal tempo. Il Bene non si può conseguire con la volotnà, ma perseguire con l’intenzione. Non è la realizzazione di un progetto,di una idea, di un programma di azione, ma è la permanenza della coscienza entro l’intuizione morale. In tal senso, la condizione morale non è vita activa ma vita creativa: creatrice di bene, vita beata.Questa vita beata, diventa storica con l'Incarnazione, è il modello santificato da Cristo di esistenza cristiana del mondo punto La narrazione di questa storia beata ha il linguaggio del Mito, non del Logos. Il linguaggio razionale ha per oggetto la volontà, le azioni umane socialmente significative, mentre il linguaggio mitico ha per 36


oggetto le intenzioni, gli atti della coscienza morale spiritualmente significativi. Scoprire la finitezza del mondo e privare di valore assoluto la volontà di potenza dell'uomo economico è la missione del Santo, la vita umana votata perseguire il bene. Il Bene vissuto la santità virgola che è come modello la vita di Cristo. Non si può «volere il bene», ma solo viverlo comecondizione di libertà, come orizzonte di totalità con cui ogni atto finito dell’uomo riporta simbolicamente a Dio, alla Sua creazione amorevole. Non si può «volere il Tutto», ma solo amarLo, avere fede nella sua verità. Si può non-volere il Male, escluderlo dalla possibilità d’essere. Questo ristare nella in-potenza, nella in.azione, e proprio della disposizione d’amore di cui non giudica l’intenzione dalle volontà manifeste, ma la considera con le ragioni del cuore. È l’atteggiamento caritatevole del perdono, di chi si arresta al mistero della coscienza intenzionale dell’uomo. Di fronte al Male, il santo si ritira per non restare coinvolto, e in questo ritirarsi nella in-potenza, egli testimonia che il Male non può tutto, che esso è costretto a fermarsi di fronte alla coscienza del Bene, di fronte alla libertà dell’uomo beato. Il limite opposto alla libertà del santo non può essere rimosso, perché non è materiale e manifesto; non è oggettivo e oppugnabile. È un limite trascendente che permane anche dopo il martirio della carne, oltre la morte fisica della passione naturale. Il pensiero cristiano, pur professando la teoria spiritualistica della persona umana, per cui l’anima e il corpo sono pensati come un’unità essenziale, concepisce l’anima e il corpo come due principii sostanziali incompiuti, che si completano a vicenda per costituire quel tutto perfetto, che si chiama uomo; come due principi i quali sussistono, non di sussistenza propria, ma comune. E poiché nel tutto risultante da due principii incompiuti e non sussistenti, che si completano a vicenda, si ha evidentemente un elemento potenziale ed uno attuale, un elemento perfettibile ed uno perfettivo, i seguaci della scolastica, applicano al composto umano la teoria aristotelica dello ilemorfismo, e affermano che l’anima sta al corpo come la forma alla materia.

Ma il limite di questa teoria aristotelica è che, applicata all’uomo, lo considera un ente di natura, per cui l’analogia stabilita tra la «forma sostanziale» () riferita alla «materia prima» () della metafisica naturalistica, e la «anima» cristiana come «forma sostanziale del corpo» umano, fa dell’anima un principio biologico, la «sorgente della vita», senza la quale né gli elementi, né le energie materiali del nostro organismo prenderebbero

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quella disposizione e quella direzione, che lo caratterizzano e lo distinguono da tutti gli altri organismi. [Per cui] il nostro organismo privo dell’anima non è più un essere vivente, ma un essere di natura del tutto diversa, un aggregato di sostanze morte. E come l’anima è in noi il principio dell’essere, così è il principio dell’operare, che dall’essere sgorga, e al’essere si conforma. Alla stessa guisa che dall’anima viene la vita, dall’anima vengono tutte le operazioni vitali, che ne sono la manifestazione. Per essa soltanto siamo in grado di nutrirci, di sentire, di muoverci e d’intendere.15

Questa teoria, però, non soltanto fa dell’anima uno strumento del corpo, non potendo sussistere senza di questo, rovesciando l’ipotesi speculare che sia il copro strumento dell’anima, da cui si originano rispettivamente il materialismo e lo spiritualismo, ma presuppone che la stessa incarnazione divina consegua alla incompiutezza di Dio, e non alla sua determinazione antropomorfa. In realtà, è il corpo a costituire la forma sostanziale dell’anima, la sua determinazione reale, la cui unità personale non costituisce un mero ente psico-fisico, una astratta individualità bio-psichica di uno specifico genere naturalistico, ma si costituisce come un’esperienza esistenziale, il cui senso spirituale risiede nel processo stesso della sua manifestazione fenomenologica. L’esistenza umana, dunque, è una fenomenologia che consegue la sua unità di senso spirituale nello svolgimento del processo esistenziale. L’esistenza umana non è un dato oggettivo di coscienza, in quanto non è un astratto ente di natura, ma un processo fenomenologico di cui è possibile conoscerne la storia. L’uomo pertanto consiste nella sua storia, e la storicità del suo essere personale è l’orizzonte esistenziale della sua fenomenologia. Una storia personale non può che essere singolare, la cui singolarità storica coincide con la esperienza esistenziale, la quale avviene nel tempo e nello spazio storici, ma il suo essere diviene soltanto nella sua realtà spirituale, coscienziale. Perciò la conoscenza della storia esistenziale dell’uomo non può concentrarsi nella sola dimensione sensibile della sua fatticità fenomenica, ma deve comprendere anche la dimensione spirituale personale, senza la cui considerazione il dato empirico della storicità fenomenica risulta astratto dalla sua connessione essenziale con la destinazione teleologica delle sue azioni, che sono sempre comportamenti esistenziali dotati di senso intenzonale, socialmente significativi, e quindi culturalmente simbolici. Quando i fenomeni umani vengono considerati astratti dalla loro relazione spirituale col proprio universo di senso, essi appaiono 15

A. Zacchi, L’uomo, vol. I cit., pagg. 443 e 445.

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muoversi nell’ambito della necessità insita nella dimensione della loro corporeità materica, la quale vive la sua individualità nella vita comune di tutta la natura. Per questa ragione il pensiero metafisico antico ha potuto rilevare dal sottofondo naturalistico la vicenda umana come produzione politica, senza però astrarla dal legame cosmico in cui è avvolta biologicamente, concependola solo come una sua propaggine sociologica. La realtà eidetica è la stessa realtà naturale sogguardata dalla dimensione razionalistica dell’homo politicus.Per essa il Lògos è la legge universale che regolamenta tanto la vita biologica che quella sociologica, per cui l’unità essenziale è quella della Natura, non quella umana, che nella prima si rispecchia. Nel caso dell’esistenza umana, l’anima vitale commista all’elemento corporeo è inconsutilmente spirito personale, e come realtà spirituale diviene come storia, cioè come vicenda dotata di senso razionale. Solo l’astratto ente naturale è, e tale che nel suo astratto essere possa assumersi come sola essenza (ipsum esse). La persona umana, invece, in quanto spirito, diviene, e nel suo divenire spirituale si determina come processo storico. L’errore dello spiritualismo idealistico è quello di pensare il processo fenomenologico personale o nei termini della empirica soggettività, rinchiudendolo pertanto nella coscienza interiore del singolo, ovvero nei termini della soggettività trascendentale. Per l’un punto di vista, l’altra prospettiva opposta appare logicamente astratta, ma perciò stesso razionalmente convertibile. Per evitare tale relatività, al pensiero non restava che rapportare, nell’atto della conoscenza, l’altro al proprio sé, «superando, come asseriva Gentile, l’alterità come tale».16 Questa assimilazione dell’altro al sé, impediva al pensiero di trascendere la propria coscienza, consentendo pertanto di riportare il reale all’interno della soggettività trascendentale, che aveva preso il posto creativo di Dio. Con le parole dello stesso Gentile, «per mezzo del pensiero non si può uscire fuori del pensiero»,17 e qualunque sforzo noi si faccia per pensare o immaginare altre cose e coscienze di là dalla nostra coscienza, queste cose e coscienze rimangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Questo fuori è sempre dentro. Niente c’è per noi, senza che noi ci se ne accorga, e cioè che si ammetta, comunque definito, dentro alla sfera del nostro soggetto , [sicché] la trascendenza assoluta allo spirito», ossia la distinzione dallo spirito umano, «non può affermarsi senza negarsi, [tanto

16 17

G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa, 1916, pag. 14. G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Pisa, 1916, pag. 23.

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che] lo stesso Dio non può essere tanto Dio che non sia lo stesso uomo. 18

Il giudizio storico, intervenendo a posteriori rispetto alla fenomenologia spirituale, deve presupporre la libertà, di cui esso è la ratio. La storia della libertà si pensa logicamente eliminando dalla fenomenologia pratica il contingente, ossia la possibilità in cui consiste la stessa libertà, assumendo l’elemento logico-universale della realtà come il solo necessario, perché eterno, e quindi reale. La storia ideale eterna è dunque solo quella logica e necessaria, quella ideale, pensata come Tutto: un cosmo logicamente unitario, astratto dal concreto molteplice. In altri termini, la storia della libertà, nell’atto di volersi costituire come rappresentazione logica della realtà, essa nega quella libertà di cui vuole definire l’essenza ideale, poiché la libertà consiste nella possibilità di essere ciò che logico non-è, e perciò pratico. Eliminando tale possibilità dalla realtà, il procedimento logico elimina l’essenza pratica dell’Essere, il suo divenire, appunto la sua libertà, rapportando l’alterità in cui consiste la libertà rispetto alla necessità logica, a questa necessità, per cui «conoscere è identificare»,19 ossia portare all’identico il diverso. Questo processo di trasformazione, condotto dal piano teoretico a quello pratico in conseguenza della convertibilità degli astratti opposti, ha stabilito quel «rovesciamento» marxiano dell’idealismo che ha segnato la preminenza del razionalismo pragmatico nell’età moderna, in cui il fine escatologico è diventato scopo infra-mondano, con la politica (scienza della società) al posto della teologia (sapere di Dio) e l’economia (tecnica dei mezzi) al posto della filosofia (tecnica del pensiero). Avendo in sé la ragione della propria esistenza, gli enti storici oggetto del giudizio logico, diventano necessari, e quindi necessariamente esistenti, ossia non più contingenti. Gli enti concreti della realtà pratica, avendo in sé la possibilità della libertà che li ha posti in essere, possono o non essere distinti secondo la loro essenza logica. Il giudizio di realtà logico rappresenta una storia priva di possibilità, dove il contingente lascia il posto al necessario. Ma la necessità che distingue la storia logica dalla concreta fenomenologia esistenziale, non è immanente alla realtà pratica, che è il regno della libertà possibile, per cui la trascrizione storiografica del divenire storico è la rappresentazione di una storia la cui unità di senso è derivata dalla sottrazione della possibilità di essere altro da ciò che logicamente è ossia libertà necessaria.

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G. Gentile, Teoria generale, cit., pagg. 29 e146. G. Gentile, Teoria generale, cit., pag. 14.

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Il giudizio logico, costituendosi principio di realtà, si determina negando la possibilità che l’ente sia altro da ciò che è, stabilendo che soltanto l’essere logico dell’ente lo determina come esistente. Il giudizio logico diventa pertanto principio ontologico, il quale, negando la possibilità insita nel principio mitico, ne confuta la originaria ragione simbolica, inclusiva della possibilità, affermandosi appunto come logica esclusiva della stessa possibilità, cioè della libertà. Identificando la realtà logica con quella ontologica, lo storicismo assoluto estende universalmente l’essenza logica della necessità, rendendo divina la stessa realtà empirica, come già S. Anselmo aveva fatto con la realtà ideale di Dio, rendendo necessaria la stessa esistenza divina, e Spinoza on la sua etica naturalistica. Distinguendo dalla realtà concreta il possibile dal necessario, la storiografia idealistica nega la condizione stessa della storicità, ossia quella libertà che contraddistingue il processo spirituale e che fa dell’esistenza umana una storia dotata di senso meta-razionale, ossia di un fine escatologico. Il processo ideale, privo com’è di ogni possibilità e quindi di libertà, non costituisce propriamente una storia, ma semplicemente è ciò che dev’essere: necessità. La storia ideale è dunque una storia sacra, priva di ogni divenire perché in sé perfetta ed eterna. Come doveva essere il mondo della creazione prima che l’uomo si emancipasse con la conoscenza. Conoscere il mondo voleva dire ri-farlo assimilandolo a sé e rubando il posto a Dio, Motore immobile e Causa prima increata. Divenuto a sua volta artefice del cosmo, il moderno demiurgo umano ne riscrive le leggi in senso storico, facendo del suo pensiero logico la ratio stessa del mondo. La nuova logica demiurgica procede all’identificazione del mondo eliminando da esso il caso e la possibilità, cioè la libertà delle passioni umane, distinguendole metodicamente dai valori ideali, costitutivi esclusivi della razionalità sistemica, quella che uni-forma la realtà molteplice dell’esistenza concreta all’Essere pensato come Idea. Il processo di uni-formità della realtà possibile in realtà necessaria, coincide con lo stesso movimento della razionalizzazione universale o idealizzazione del caos in cosmo, operato dalla civiltà dell’homo sapiens. I modi di tale razionalizzazione storica sono la religione e la filosofia, che in virtù della loro assunzione metodica universale, diventano la scienza, nella sfera teorica della cultura, e la politica, nella sfera della vita sociale: due tecniche di conversione del mondo funzionali al suo controllo, operata attraverso la reductio ad unum universalis. Il fallimento del progetto metafisico del razionalismo è inscritto nel suo stesso statuto epistemologico, che muta l’incontrovertibilità del fondamento epistemico dell’Essere in una credenza puramente ipotetica, 41


quella che suppone necessario il carattere logico della conoscenza della realtà in quanto pre-suppone ideale il suo fondamento ontologico. Ma l’ordine ideale, in base al quale si giudica la realtà come necessaria, è però, in verità, non necessario, ma appunto solo ipotetico, in quanto logica è la struttura del pensiero che conosce la realtà, ma non necessariamente la realtà stessa, la quale, divenendo, diviene ciò che non-è, e quindi non è necessaria. Se infatti divenisse ciò che è, la sua (unica) attualità sarebbe già nella sua (molteplice) potenzialità. Ma il più non può derivare dal meno, bensì solo stabilire con esso un rapporto di astratta eguaglianza, eliminando dal proprio essere complesso la stessa complessità, riducendosi così a realtà semplice. 20 Il carattere ipotetico di tale equazione (ottenuta riducendo la maggiorità a minorità e così eguagliando il più al meno) reintroduce nel necessario (la logica) il contingente (la possibilità), facendogli perdere il suo carattere assoluto. L’unica condizione che la necessità ha di accettare in sé la possibilità è di riconoscerne il carattere ipotetico, e quindi fideistico, tale che la credenza che la necessità (logica) sia (ontologica), a fare del suo Essere (necessario) una ipotesi esistenziale, e quindi della necessità ideale una necessità reale. Nella dimensione storicistica, dunque, lo strumento razionalizzatore del mondo, la scienza, contraddice il fine che dovrebbe servire, ossia la necessità, convertendola in possibilità, e perciò trasformando il suo astratto opposto in contrario reale. Ciò vuol dire che, storicizzandosi, l’esistenza divenuta realtà essenziale e necessaria, è una realtà astratta, perché ideale e non concreta, tale che il suo essere sia equivalente al suo astratto opposto divenire. Questa contraddittoria e astratta identificazione dell’unitario essere logico con il molteplice essere ontologico è ciò che gli idealisti considerano la spontanea «dialetticità del reale», che rimane, così inspiegata, la autentica «cosa in sé» dei loro sistemi razionalistici. L’universalizzazione logica dell’ente contingente, creando un astratto ente necessario, lo ha convertito nel suo astratto opposto reale. Questa conversione coincide con la trasformazione del sapere razionale in logica dialettica, in tecnica della distinzione, sicché mentre la filosofia originaria era la rielaborazione giustificatrice del Mito, la logica ne è la sua negazione appunto dialettica, puramente ideale, non ontologica. La filosofia, infatti, per sussistere come ragione del mondo, deve presupporne la realtà, ossia la sua esistenza extra mondana eterna, rappresentata dal Mito, di cui la filosofia è la giustificazione razionale del suo senso simbolico. La ragione del Mito è dunque una ragione

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Ved. E. Severino. Legge e caso, Milano, 1979.

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simbolica, non dialettica; un sapere significativo, non cognitivo. La conoscenza significativa presuppone la realtà significante, della quale si pone come sapere ri-cognitivo, mentre il sapere cognitivo pone il suo oggetto come suo prodotto di ragione, ponendosi come sapere creativo. In realtà, lo sarebbe se fosse atto originario, arcaico, e libero, mentre esso dipende da una intuizione originaria della coscienza, ca cui muove ogni ontologia.21 Negata la possibilità nella realtà, ossia rimossa la contingenza dal mondo concreto, e pertanto distinto l’elemento simbolico della rappresentazione mitica da quello logico, definito questo il solo reale, il sapere filosofico diventa scienza, ragione tecnica. Il mondo della ragione scientifica è quello che si fonda sui propri assiomi ipotetici idealistici, e non più sui fondamenti di fede ontologica mitici. L’ipotesi ontologica dell’idealismo assume che l’Essere sia un’Idea. La fede ontologica razionalistica importa che gli attributi ideali dell’Essere siano reali. Ma fuori dell’orizzonte di fede razionalistica, tale credenza appare una superstizione magica, e quindi il suo assunto a sua volta mitico. La supposta necessità dell’Essere ideale è relativa dunque al solo suo fondamento ipotetico, ma non ha un carattere di verità incontrovertibile e assoluta. Infatti la scienza ragiona sul «come», ma non chiarisce il «perché» qualcosa sia ovvero non sia. Gli enti logici hanno in sé la loro ragione, ma non quella della loro esistenza, che rimane un atto di fede, e pertanto possibile e non necessaria. E già questa condizionatezza confuta la loro pretesa necessità. Poiché ciò che esiste non ha in sé la necessità della sua esistenza, ma solo la sua possibilità, questa va giustificata sul piano della molteplice realtà esistenziale, mentre lo storicismo idealistico la giustifica sul piano logico della necessità ideale. Essendo quello ideale un piano di realtà ipotetico, non può in esso assumersi la necessità logica degli enti esistenti come necessità ideale se non ipoteticamente, ossia nei termini contraddittori di una necessità relativa Ialla sua esistenziale possibilità. La conversione di questa relatività in assolutezza onto-logica implica la previa negazione del piano esistenziale per quello ideale, per cui la realtà degli enti reali è posta come la sola realtà logica, astratta dalla loro possibilità e concretezza del loro divenire. Ma tale conversione è un’operazione fideistica, legata alla credenza razionalistica che solo ciò che è logico sia anche reale in senso esistenziale, e ciò che logico non-è, sia un ente in-esistente di non-ragione, un ni-ente.

Sull’argomento ved. C. Marco, Volontà e libertà, di prossima pubblicazione in Aa. Vv., Volontà, a cura di M. V. Masoni. 21

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La dialettica idealistica, assegnando a questo ni-ente una sua realtà altra da quella logica, indispensabile alla stessa affermazione positiva della realtà, ha relativizzato il negativo assumendolo entro la stessa realtà del giudizio, per cui il suo essere negativo con-siste allo stesso titolo assoluto dell’essere positivo, tale che l’Essere logico e il suo opposto non-Essere abbiano esistenzialmente la stessa realtà possibile, cioè la stessa possibilità di esistere. Rispetto alla possibilità dell’Essere alogico, quello logico è determinato; ma la sua determinazione logica, essendo astratta dalla sua concreta possibilità molteplice, è esistenzialmente instabile, in quanto convertibile nel suo opposto indeterminato, nella sua negazione dialettica. A sua volta, tale indeterminazione, avendo in sé la possibilità della sua determinazione logica, la include simbolicamente, richiamandola appunto come ideale possibilità, ma non mai come necessità. Ciò significa che l’Essere logico ha una necessità tutta interna al suo orizzonte di senso ideale, e non un necessario carattere esistenziale. Il rapporto scienza/filosofia rappresenta quello tra Molteplicità e Unità. La Molteplicità naturale è la realtà dei fenomeni finiti, la cui totalità empirica non giunge mai ad unità ideale ma soltanto a relazionalità determinata. La determinazione naturale è un movimento indipendente dalla volontà umana, la quale, a sua volta, è legata alla determinazione della sua relazione naturale, ossia dei suoi legami sociali. Ciò che è volontà per l’uomo, è forza per gli elementi naturali extraumani. Tale volontà è «libera» nell’uomo in quanto direzionabile secondo un processo intenzionale difforme da quello necessario e impersonale della natura. Tale processo intenzionale umano è la coscienza, che costituisce la forma di trascendenza della volontà umana dalla necessità naturale. Attraverso la coscienza l’uomo astrae la sua volontà dalle determinazioni naturali, costituendola come forza a sé, appunto come «volontà razionale» o «volizione morale». Attraverso la coscienza, ossia l’uso intenzionale della volontà, l’uomo stabilisce rapporti distinti da quelli naturali. Attraverso perciò la coscienza, l’uomo si emancipa dalla natura e dalla passività delle sue determinazioni, ma non dalle determinazioni stesse, le quali lo coinvolgono in quanto essere naturale. Al fine di una completa tendenziale emancipazione dalla natura, l’uomo perviene alla costituzione di una realtà spirituale in cui la volontà intenzionalmente diretta sostituisca la necessità della forza naturale che dirige impersonalmente il corso degli eventi fisici. La elaborazione razionale di questo universo di coscienza umana ed extra-naturale costituisce l’orizzonte di sapere entro il quale si sviluppano i distinti piani di coscienza religioso, filosofico e scientifico. Ogni distinto piano di coscienza opera, rispetto ai fenomeni della natura 44


e a quelli razionali della volontà umana, nel senso della unificazione della loro empirica molteplicità entro una forma di realtà logica, nella cui prospettiva unitaria i fenomeni molteplici vengono compresi in senso idealmente omogeneo. Tale unità logica non è dei fenomeni ma della coscienza ideale che li conosce; e li conosce astraendo dalla loro distinta particolarità empirica. L’unità di coscienza classifica i fenomeni secondo criteri ideali elaborati dalla ragione umana e variabili per tempo e luogo, e quindi relativi e storici. Ma l’unità di coscienza, quando inerisce ai fenomeni propriamente umani, ossia a quelli relativi alla volizione dei soggetti intenzionali, e come tali emancipati dalle determinazioni della comune vita naturale, opera su fenomeni spirituali. I fenomeni spirituali e propriamente umani sono quelli che attengono alla attività della coscienza intenzionale. Essi sono di due tipi: il primo tipo riguarda i fenomeni che con Scheler possiamo dire «emozionali», inerisconi ai rapporti che le singole coscienze intrattengono con la realtà della loro esperienza esistenziale, e costituiscono il campo, appunto, delle relazioni esistenziali, in cui la realtà viene considerata dal punto di visuale della coscienza soggettiva della persona morale. Il secondo tipo riguarda i fenomeni «fattuali», che riguardano le relazioni che la coscienza intenzionale intrattiene con la realtà che lo circonda al fine di conoscerla o di manipolarla. Tali relazioni sono di natura logica, e non emozionale, in quanto finalizzati al controllo della realtà e conseguente riduzione della sua molteplicità alla unità ideale di un mondo umanizzato dalla volontà. Nel primo caso, quello dei rapporti emozionali, la coscienza intenzionale – quella cioè che unifica la realtà molteplice in una soggettiva visione dl mondo– non intende assoggettare il mondo in una unità di controllo signorile su di esso, assimilando la molteplicità alla propria visione sintetica, ma riflette sulla propria coscienza la molteplicità come una condizione ontologicamente insuperabile, e tale per cui ogni attività umana volta a superarla sia destinata a un inevitabile fallimento. Per questa condizione ontologica, la coscienza emozionale avverte il senso del limite di ogni tensione umana verso l’unità del molteplice e l’assimilazione dell’altro al sé della coscienza. Tale sentimento doloroso costituisce il livello della coscienza religiosa della esistenza umana, l’ambito del sacro, in cui la ragione si rappresenta come strumento divino, dipendente dalla Sua superiore volontà. Nel secondo caso, quello dei rapporti fattuali, la coscienza razionale tende a distinguere ciò che essa immagina utile per il suo bene soggettivo da ciò che è necessario per il bene oggettivo di ogni coscienza, a prescindere dalle conseguenze emozionali di tale necessità, il cui valore etico risiede per la ragione umana nella possibilità di 45


sostituirsi alle impersonali necessità della natura. Qui la coscienza razionale tende a spogliarsi di ogni emozionalità per conseguire il fine supremo della emancipazione dalla natura, intesa come «passione» controllandone o piegandone la forza agli scopi umani. Non c’è sentimento religioso del limite dell’uomo, ma volontà di potenza della sua «libertà», che sfida, con la natura, la stessa disposizione eterna del volere di Dio. Questo livello di coscienza costituisce, entro l’orizzonte del sapere umano, l’ambito del profano, in cui la volontà umana astrae dalla sua condizione finita per rappresentarsi come potenza assoluta, priva di limiti ontologici. I due tipi sono ideali, e quindi frammisti storicamente nello stesso orizzonte di coscienza personale e comune, ma predominati per tempo e luogo nelle culture delle singole civiltà umane, che si orientano idealmente e si organizzano praticamente conformemente alla storica tendenza tipologica. Ciò comporta che essi convivono nella coscienza personale come elementi dialettici di una stessa realtà picologica, costituita dai due livelli di coscienza, i quali si determinano nella coscienza sociale come momenti culturalmente oppositivi e tendenti reciprocamente a negarsi. Da tale tensione socio-culturale, tendente ad assolutizzare il valore considerato idealmente più significativo, provoca la tendenziale instabilità storica di ogni assetto istituzionale in cui il consorzio umano, dalla famiglia allo Stato, si organizza per vivere. Dal confronto dei due essenziali piani di coscienza sono nate le due rispettive costituzioni sociali del potere religioso e del potere politico, riscontrabili in ogni società umana. Tali poteri sono venuti a reciproca coscienza nella cultura cristiana, la cui civiltà storica ha provveduto a distinguerli nelle rispettive costituzioni della Chiesa, quale luogo ideale del sacro potere divino, e dello Stato, quale luogo ideale della profana potenza della volontà umana. Si comprende come l’essenza razionale della coscienza umana consista nella esigenza spirituale di condurre ad unità ideale la molteplicità dei fenomeni empirici. Tale unità ideale è indicata come Essere. L’Essere del sapere emozionale è il Soggetto, creatore e gestore dell’universo simbolizzato, divinizzato dalla coscienza religiosa per la sua essenza trascendente, non riducibile ad alcun attributo umano e finito. La forma ideale del sapere emozionale è l’intuizione dell’Essere, che coglie l’essenza unitaria della soggettività della coscienza. L’Essere del sapere logico è l’Oggetto, prodotto e trasformato in elemento del mondo razionalizzato dalla coscienza in funzione del controllo della natura da parte dell’uomo. La forma ideale del sapere logico è il giudizio di realtà, che riconosce il suo oggetto reale distinguendolo dai fenomeni considerati ontologicamente irreali o immaginari. Questa attività distinguente, 46


applicata alla realtà sociale, costituisce l’oggetto proprio della politica quale esercizio del potere di controllo razionale della vita sociale. L’attività di controllo della vita sociale dell’uomo, propria del Potere, tende a piegare anche i valori emozionali agli scopi pratici della socialità, rendendoli immanenti al suo orizzonte di senso politico. L’attività razionale, svolta dalla coscienza sociale a rendere l’esperienza esistenziale dell’uomo il più possibile indipendente dalle necessità della natura, è l’economia, il cui relativo valore sociale si misura in termini correlativi alla potenza della volontà politica. La distinzione moderna tra società e politica è un portato del razionalismo, che ha trasformato un principio funzionale all’esercizio del Potere unitario, relativo alla sua interna divisione sociale del lavoro, in una astratta condizione giuridica di divisione dello stesso Potere in frazioni dialetticamente opposte, tenute in equilibrio instabile dalla loro particolare attività funzionale. L’attività del Potere, resa puramente formale nella moderna visione razionalistica dello Stato politico, non indica più una funzione sociale realmente unitaria, storicamente definita in conseguenza della sua stessa costituzione razionale di governo, ma indica invece una condizione giuridica, solo idealmente unitaria, dipendente dalla sua costituzione politicamente funzionale e contingente. Ciò ha determinato la sovrapposizione di un’istanza emozionale, legata alla rappresentazione unitaria del mondo in senso soggettivo, a un’istanza fattuale, di cui viene negato il costitutivo principio di realtà appunto sostituendolo con un’intuizione della società in senso politicamente unitario. La distinzione logica, per la sua natura dialettica, non può offrire della realtà una rappresentazione ontologicamente unitaria ma soltanto una sua astratta unità ideale, in virtù della quale il cosmo razionale viene emendato delle sue negatività logiche ed esistenzialmente garantito solo dalla credenza nella necessità della sua unità formale. Questa unità logica della realtà ontica cosctituisce il fondamento onto-logico della metafisica greca, compresa l’etica razionale. Di conseguenza, la relativa unità sociale della molteplice esperienza esistenziale umana non potrà essere garantita dall’attività politica, il cui esercizio è teso appunto a distinguere dell’Essere sociale ciò che è conforme alla sua (astratta) rappresentazione ideale, da ciò che non lo è. L’attività politica potrà dunque determinare soltanto il controllo sociale della volontà economicamente costituita in unità empirica particolare affinchè non diventi indipendente e perciò politicamente confliggente con altri concorrenti interessi sociali costituiti, ma non potrà mai condurre i molteplici interesi particolari a sintesi unitaria, essendo la loro ideale costituzione politica unitaria solo in ragione dell’unità del loro relativo interesse particolare conflittuale con quello di ogni altro 47


omologo interesse concorrente. Fuori di tale conflittuale interesse particolare, la stessa costituzione politica unitaria non sussisterebbe più come modello di ordine sociale. Ciò che il conflitto degli interesssi particolare nasconde dietro le «passioni» che muovono la volontà dei singoli operatori sociali è il movente intenzionale recondito, che la politica ingora ma che sussiste come elemento irriducibile della personalità singolare dell’uomo, che solo una fede comune può indirizzare spiritualmente. Solo integrando questa fede nelle istanze del potere può costituirsi un ordinamento politicototalitario, qual era la città antica e il moderno Stato ideologico. Solo una unità meta-politica, e perciò non di senso logico ma simbolico, e dunque meta-fisica, può conseguire quella costituzione sociale unitaria che sia nel contempo soggettivamente emozionale, e quindi libera di determinarsi in relazione alla realtà del mondo in termini idealmente religiosi, ed oggettivamente reale, e perciò soggetta alla comune obbligazione etica del vincolo sociale. Il Potere che interpreta l’esercizio della sua forza in relazione sintetica sia con il libero convincimento dei distinti membri sociali soggetti alla sua potestà, che con la necessità della loro costituzione politica unitaria, è quello del Governo, il quale non esprime la forza maggiore, cioè non esercita il potere più forte, ma tende a conseguire il bene comune, superiore a quello particolare e perciò non politicamente orientato. La politica del Governo utilizza la forza economica della società nel suo insieme, nella sua unità esistenziale, per conseguire il suo bene comune, che è valore etico, e non politico. Soltanto una volontà etica può unire le distinte volontà politiche particolari in una unità d’intenti, la cui bontà ideale è garantita dalla fede nei valori comunemente condivisi da tutti i membri sociali. Se lo Stato politico è un’astrazione razionalistica, la cui unità ideale è puramente formale, il Governo etico è la realtà esistenziale stessa dell’unità sociale storicamente costituita, e pertanto solo l’autorità del Governo può avere un valore etico, relativo al fondamento metafisico della coscienza simbolica condivisa, ontologicamente inclusivo di ogni particolarità sociale, e non mai può averlo la mera potestà amministrativa dello Stato, che è una costruzione artificiale della coscienza logica, di natura politica esclusiva. La astratta rappresentazione dell’Essere razionale è il mondo dell’idealismo, il quale pensa l’Essere come un’Idea, ossia pensando la realtà pensa l’Idea. L’Idea del mondo è il mondo. La corrispondenza tra Idea e mondo è possibile mercé la fede nell’identità di tale correlazione. Ma il mondo (ideale) è solo l’Idea che la coscienza razionale dell’uomo si fa dell’unità del Molteplice. È una rappresentazione ideale. Tale unità è il prodotto della coscienza razionale, senza il cui intervento 48


il Molteplice resterebbe tale e non sarebbe mondo. Ciò vuol dire che il mondo, in sé, non esiste ma è la rappresentazione di un’Idea. La corrispondenza formale tra essenza (prodotto ideale della coscienza razionale) ed esistenza (realtà fenomenica) è dunque un atto di fede. Il processo ideale di tale realtà esistenziale si svolge all’interno dell’orizzonte di senso della storicità, il cui ambito è costituito dai prodotti della coscienza razionale dell’uomo.

3. Secondo Duns Scoto, la natura razionale dell'uomo si manifesta per l'intelletto e la volontà. 22 La diversità di azioni implica una diversità di principi operativi, per cui le due facoltà (intelletto e volontà) non si identificano con l'anima, come fossero accidenti di una sostanza.23 Per Scoto, l'intelletto e la volontà sono nell'anima come due principi distinti, tra loro e da essa, ma congiunti all'anima («unitive»), allo stesso modo in cui l'Essere è in relazione con le sue proprietà trascendentali, in modo che ognuna di essa sia distinta ma congiunta alle altre. La distinzione, per Scoto, è «reale» quando due cose o qualità non si implicano reciprocamente, è invece «logica» quando dovuta solo alla attività conoscitiva dell'intelletto, ma non ha riscontro reale. La loro distinzione formale è legata alla loro irriducibilità concettuale, ma non alla loro estraneità esistenziale. Le distinzioni sono formali in quanto esistono nella coscienza conoscitiva, ma non sono reali. Sicché l'intelletto e la volontà sono formalmente distinte dall'anima, ma non realmente distinte da essa e tra loro in essa, in quanto, per Scoto, non potrebbero esistere indipendentemente dall'anima. La volontà è definita dunque da Scoto una facoltà dell'anima razionale: «appetitus rationalis» o «intellectivus», e come tale inclusiva di una doppia tendenza: una passiva, pertinente all'inclinazione naturale a completarsi nell'oggetto desiderato; l'altra attiva, consistente nell'atto volitivo libero in quanto tale. Ma questa distinzione è puramente formale, in quanto l'inclinazione passiva non è una vera volontà, che per definizione è libera.24 La natura della volontà è di persistere nel suo essere, e dunque la sua perfezione è intrinseca al suo appetito naturale di raggiungere la felicità o beatitudine conseguente alla realizzazione del suo fine particolare, distinto da quello universale, conseguibile solo per atto di conoscenza intellettuale, Potentiae perfectissimae naturae rationalis sunt intellectus et voluntas”: D. Scoto, Oxon. III, d. 17, q. un., n. 2. 23 Per le seguenti considerazioni ho tenuto presente il saggio di B. Bonansea, L'uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano, 1991 (I ed. americana, 1983), pagg. 59-102. 24 Sul concetto di libertà in relazione alla volontà, rimando al mio scritto Volontà e Libertà, di prossima uscita nel vol. collettaneo, curato da M.V. Masoni, Volontà. 22

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liberamente. L'atto di autentica volontà è dunque un potere libero, in grado cioè di autodeterminarsi in quanto avente il completo controllo dei suoi atti. Sarebbe contraddittorio per Scoto intendere la volontà come una facoltà costretta ad agire. Il controllo della volontà sui suoi atti, fa di questi degli effetti contingenti e non necessari. Come non c'è un atto che la volontà debba compiere necessariamente, così non c'è un effetto necessario che la volontà debba conseguire. Ciò che la volontà non può è volere e non volere allo stesso tempo, come pure odiare il Bene e desiderare il male, dal momento che essa tende naturalmente al Bene. Ma se la volontà è intesa come una facoltà razionale, il Bene cui essa tende non può che essere l'Essere, la totalità ontica che funge da scenario della volontà. Infatti, essendo la volontà l'attività della coscienza razionale, essa deve manifestare il suo contenuto appunto razionale, ovvero l'Essere del pensiero. Per cui, l'oggetto del pensiero è sia l'ente empirico che il suo essere. Infatti, Tommaso pensava la volontà come l'applicazione particolare della volontà generale, rivolta al fine universale che è il Bene. Dunque, il potere della volontà è la volontà di affermare l'Essere e tale affermazione dell'Essere, cioè del Bene, è un atto dell'intelletto che presiede alla volontà. Questa, non di meno, obietta Scoto, può anche distogliere l'intelletto dalla considerazione del Bene, ed è questo atto che si chiama libertà del volere. In realtà questa tesi è contraddittoria, in quanto contravviene alla tendenza naturale che ontologicamente è una necessità di affermare il Bene. Questo, infatti, se può essere eluso, non è necessario, ma se non è necessario non può essere una totalità, una realtà totale. Nella Physica, Aristotile stabilisce un parallelo tra il principio nelle cose speculative e il fine nelle cose pratiche, sicché, come l'intelletto aderisce ai principi primi, così la volontà aderisce necessariamente al suo fine ultimo, la felicità.25 Questa corrispondenza viene accolta da Tommaso,26 ma respinta da Scoto, il quale differenzia la facoltà naturale dell'intelletto, costretto a riconoscere necessariamente il suo oggetto, dal potere della volontà, che invece è libera di determinarsi verso il suo oggetto eudemonistico. L'oggetto formale della volontà è il Bene, che è il contenuto necessario della felicità, per cui – sostiene Tommaso – essa volontà tende necessariamente al suo fine formale, al pari di ogni altra facoltà. Scoto afferma, di contro, che la volontà può atteggiarsi conformemente al Bene (velle), oppure rifiutarlo (nolle), o ancora astenersene (non velle, non nolle), rifiutando di agire. Ma se la volontà può negarsi, vuol dire che non

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Aristotile, Metaphysica, II, 9; 206 a 21. Tommaso, Summa theologia, I, q. 82, art. 1.

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è volontà quella che si astiene. Infatti, delle tre possibilità di scelta, l'astensione è quella veramente libera: sia dalla decisione di manifestarsi, che di quella opposta di non farlo. L'astensione è una posizione terza che esclude la necessità che coinvolge le altre due opzioni, stando oltre l'essere e il non-essere del volere, oltre il velle e il nolle. Ciò che va oltre la volontà è semplicemente altro dalla volontà. Una facoltà che non è condizionata dalla conoscenza dell'intelletto, né dalla necessità di conseguire il suo fine; una condizione che non è opposta all'agire, all'attività positiva, quale attività negativa, ma le trascende entrambe, includendole nella sua libera possibilità. Questa facoltà non appartiene alla coscienza intellettiva, ma alla coscienza intuitiva, il cui atto spirituale non è la volontà, ma la intenzione. La coscienza intuitiva non vuole qualcosa ma neppure vuole niente: semplicemente contempla l'Essere nella sua relazione col Nulla come possibilità immanenti alla sua stessa attività. La coscienza intuitiva né vuole, poiché non è attività volitiva, e neppure non vuole. Essa si pone oltre l'Essere e il non-essere, nel luogo della Libertà, in cui tutto è possibile, essere come non essere. Questa Possibilità assoluta e totale è la totalità di Dio, che Agostino chiama Amore. L'atto intuitivo concerne dunque la totalità, che è Amore. Rispetto alla volontà, quale atto razionale dell'intelletto, il corrispettivo della coscienza intuitiva, cioè la intenzione, ha la possibilità di sussistere e di persistere nel suo stato pur non manifestandosi come volontà, in interiore, nella coscienza. Tale potestas servandi Anselmo la attribuisce alla Libertà, intendendola però come potere della volontà di controllare i propri atti.27 Scoto accoglie questa definizione di libertà. L'autodeterminazione della volontà è rispetto al Bene riconosciuto dall'intelletto, sicché lo stesso libero arbitrio appare una imperfezione della volontà umana, la quale dovrebbe sempre tendere al Bene, cioè all'Amore di Dio, legata com'è alla sua condizione di peccato. La libertà diventa dunque peccato contro l'Essere, ossia verso Dio, pensato come Essere «quo maius cogitari nequit».28 La libertà è dunque legata alla condizione umana peccaminosa, sospesa tra Dio e la Natura, cioè tra la perfezione, o libertà assoluta, e la necessità quale negazione della libertà. L'uomo partecipa delle due nature, divina e creaturale, senza identificarsi con una sola di esse. Se infatti gli angeli tendono spontaneamente a Dio e i gravi spontaneamente a cadere, l'uomo è chiamato a scegliere responsabilmente se amare Dio o la sua propria natura finita, prima di

“Potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem»: Anselmo, De libero arbitrio, cap. 3. Ved. B. Bonansea, Op. cit., pag. 71. 28 Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15, 235c. 27

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ogni cosa. La libertà consiste in questo travaglio della coscienza, la quale non fornisce un responso univoco e definitivo, ma per sua stessa costituzione è chiamata a una scelta continua, la cui storia è l'esistenza stessa dell'uomo, quale homo viator, narrata come racconto dell'anima. La condizione della libertà è dunque la contingenza, non la necessità; l'alea del fallimento legata al mistero di una condizione di autonomia dalle leggi della Natura. La libertà e la necessità non sono conciliabili per la semplice ragione che afferiscono a piani diversi, non solo di coscienza, ma di esistenza. Chi ricerca la necessità nella coscienza intuitiva sbaglia obiettivo quanto colui che ricerchi la libertà nella coscienza razionale. Solo in Dio libertà e necessità si confondono nella Sua totalità, mentre nell'uomo restano distinte e confliggenti. Se, come si è visto, per Tommaso la libertà è scelta, per Scoto la stessa scelta non è l'essenza della libertà ma la sua imperfezione. La libertà è di scegliere, che per Tommaso cessa nel caso della necessità di non poter scegliere. La libertà, per Tommaso, è contraddetta dunque solo dalla necessità. Per Scoto il principio di libertà è l'autodeterminazione della volontà, che però è condizionata dalla conoscenza intellettiva. Pietro Lombardo definì il «liberum arbitrium» come «facultas rationis et voluntatis»,29 dove l'arbitrium è il giudizio della ragione, mentre la qualifica di liberum è riferita alla volontà, quale facoltà della ragione ad essa collegata come atto di decisione. La decisione dunque è libera nel senso della manifestazione dei contenuti o fini della conoscenza razionale. La deliberazione che ne dipende. Ma se ne dipende, come può essere «libera»? Libera sarebbe eventualmente la decisione di non dipenderne, ignorando i dettami della ragione. Dunque la volontà sarebbe libera se irrazionale? Se la ragione è la causa prossima della libertà, la sua espressione pratica, la volontà appunto, non sarebbe mai causa sui, «liberum arbitrium», poiché la ragione delle cose è la loro necessità di essere ciò che sono e non altro. Solo aderendo alla necessità della ragione, col convincimento, si accetterebbero liberamente le sue conseguenze logiche, cioè che sia necessario il giudizio razionale (arbitrium): necessario che abbia effetto reale. Ossia che divenga altro da sé, un ente reale. L'attualità è la perfezione della ragione, volontà in atto. Per Tommaso, la causa della libertà è la ragione, mentre la radice della libertà è la volontà del soggetto.30 Per Scoto, invece, la radice della libertà è la volontà, intesa come potere di autodeterminazione anche di fronte al giudizio pratico della ragione. Come conciliare la libertà di volere con la

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P. Lombardo, Sent.,l. 2, d. 24 n. 5. Ved. B. Bonansea, Op. cit., pag. 75. “Radix libertatis est voluntas sicut subiectum; sed sicut causa, est ratio”: Summa Theol. I-II, q. 17, art. 1, ad. 2. 30

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necessità di ragione? La volontà deve pur essere consapevole delle sue decisioni, che non sono istintive, ma deliberate. La questione è se la deliberazione sia un atto razionale ovvero sia indipendente dalla ragione. E inoltre se l'indipendenza dalla ragione sia una conoscenza in-razionale o a-razionale. E dunque se la libera determinazione della volontà si opponga al dettato della ragione, oppure si appoggi ad altra conoscenza rispetto a quella razionale. In altri termini, libera è la volontà che viene determinata dalla ragione, ovvero quella che ne fa a meno? O assumere la causa razionale come atto libero della volontà, chiamando «libertà» la necessità, oppure accettare la cecità della volontà libera dalla necessità, cioè da ogni costretta determinazione? La soluzione di Scoto parte dalla essenziale identità dell'anima e dei suoi poteri, tale da dipendere reciprocamente tra loro e da distinguersi solo formalmente. L'ordine naturale è che la volontà sia preceduta sempre da un atto dell'intelletto: «nihil volitum quin praecognitum»31 La conoscenza condiziona (nel senso del velle o del nolle) la volontà. Ma non la determina. In ogni caso, il movente è esterno alla volontà. Scoto rigetta però questa tesi, sostenendo che uno stesso agente naturale (l'intelletto o il fantasma) non potrebbe essere causa di effetti contrari in uno stesso soggetto agente, producendo un solo effetto, laddove la volontà è invece libera di accettare o di respingere lo stesso oggetto, producendo atti contrari ad esso, che quindi non può essere la causa naturale della volizione. Come potrebbe infatti una stessa causa produrre il caldo e il freddo allo stesso tempo? E perché mai l'uno anziché l'altro? Due effetti opposti sono contraddittori, quindi, conclude Scoto, la volontà è la causa totale di se stessa, e non ha alcun'altra causa esterna.32 Non avendo cause esterne, la volizione non è atto passivo, non è cioè mossa da agenti esterni, ma ha come causa determinante («totalis») lo stesso atto di volontà. Ma questa posizione viene confutata dallo stesso Scoto, che nelle lezioni di Oxford pubblicate dal Balic33 sostiene che la causa sine qua non assolutamente necessaria per l'azione di un agente non sia autonoma rispetto alle quattro cause metafisiche riconosciute canoniche come atte a produrre tutti gli effetti, ma è riducibile a una di esse.34 Poiché un agente libero può agire solo su qualcosa previamente conosciuta, la conoscenza è la vera causa dell'atto di volontà. Quindi, la volizione procede da sé, dalla “Volitio est effectus posterior intellectione naturaliter”: Scoto, Oxon. II, d. 25, q. un., n. 19. 32 “Nihil aliud a voluntate est causa totalis volitionis in voluntate”: Scoto, Oxon. II, d. 25, q. un., n. 22. 33 P. Ch. Balic, Les commentaires de Jean Duns Scot sur les quatres livres des Sentences, Louvain, 1927, pagg. 277 sgg. 34 Ved. B. Bonansea, Op. cit., pag. 87. 31

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volontà, come causa attiva, e dall'oggetto come causa parziale, sicché la causa totale è data dall'intelletto, dalla volontà e dall'oggetto.35 La volizione, dunque, procede sia dalla volontà che dall'oggetto, che per Scoto sono concause in rapporto reciproco, non potendo l'una agire indipendentemente dall'altra, pur essendo ciascuna una causa perfetta e in sé indipendente a produrre effetti. Tuttavia, poiché l'atto è indubbiamente libero e la libertà appartiene alla volontà come potere che può agire o non agire, oltre che disporre delle altre cause per la produzione dell'effetto, la volontà deve essere classificata come la causa principale (causa principalior) della volizione.36

Nondimeno, è lo stesso Scoto a riconoscere che la volontà non può impedire l'atto originario della mente, la spontanea intellezione di un oggetto da parte della coscienza, anteriore a ogni riflessione su di esso.37 Scoto riconosce che in intellectu nostro habente naturaliter primam intellectionem – quae non est in potestate nostra – potest voluntas nostra complacere in illa intellectione iam posita, sed proprie loquendo non elicimus illam actionem volentes sed eam elicitam volumus esse.38

L'intuizione, e non la percezione, della realtà è pertanto la conoscenza prima della coscienza, e che questa sia razionale (l'intelletto) è una supposizione indebita, posteriore all'atto intuitivo, che trasforma l'intuizione in percezione dell'oggetto del giudizio razionale. La presa di coscienza «naturale», cioè spontanea e non riflessiva, è un atto originario, e come tale indipendente e non passivo, cioè determinato. La sua «libertà» non è della coscienza attiva, quella razionale, e neppure dell'oggetto esterno ad essa, quella «natura» idealmente astratta oggetto di giudizio, ma è propria della coscienza intuitiva, che si rappresenta i suoi contenuti liberi da ogni determinazione, interna (razionale) ed esterna (naturale), così come essi appaiono, lasciando che la realtà si mostri liberamente per come è. Questo essere originario dei fenomeni manifesta, nella sua assolutezza, la sua ontica finitezza. Questo atto intuitivo della coscienza, che lascia che le cose siano nel loro essere, è quello realmente libero (licito), perché non mediato da alcuna categoria a priori e dunque non passivo e trasformato in oggetto. L'intuizione contempla la realtà 35

Ivi, pag. 88. Ivi, pag. 89. 37 “Illa simplex intellectio obiecti, ad quam debet intellectus discurrere, non est in potestate voluntatis”: Oxon. II, d. 42, q. 4, n. 9. 38 Scoto, Ord. I, d. 6, q. un., n. 13. 36

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senza trasformarla in contenuto di giudizio, in oggetto estetico della ragione. Diventata riflessiva, la coscienza si rivela a se stessa, stabilendo un rapporto tra sé e il mondo. Essendo bipolare, la coscienza determina il rapporto sui due suoi elementi costitutivi, che sono sé stessa e la realtà esterna quale suo oggetto. Il rapporto che la coscienza riflessiva incentra sulla soggettività, fa della realtà esterna una alterità che va assimilata alla coscienza stessa, perché la sua esteriorità divenga puramente formale e non sia sostanziale e ontologica, come se la realtà facesse parte anch'essa dell'universo soggettivo della coscienza. Il movimento di assimilazione della alterità alla soggettività resta questa onnipotente e il mondo uno scenario magico ove opera la potenza creatrice della coscienza. L'ipotesi epistemologica idealistica per cui la realtà sia un prodotto della coscienza nasce da tale posizione teoretica, in base alla quale «Tutto è Io». Se è l'Io la fonte creatrice, la sua attività è la «volontà» della coscienza quale potere autodeterminante, autoctico. Da queste premesse nasce la teoria di Scoto, per la quale la volontà è totalmente responsabile dell'atto della volizione, come formalità distinta che la rende atto libero e procede da un principio che è formalmente distinto dall'intelletto. «Nihil aliud a voluntate potest esse totalis causa volitionis in voluntate secundum quod voluntas determinat se libere ad actum volendi causandum».39

La stessa volontà, che presiede a ogni volizione, diventa volontà «razionale» in concorso con l'intelletto, che coopera con essa come «causa secondaria». E' chiaro che ciò che Scoto intende per «volontà» (voluntas) è l'attività della coscienza assoluta, l'Io di Fichte e il Soggetto di Gentile. La volontà, che la per fine il Bene, lo identifica con la propria attività assimilatrice della realtà a sé. Il Bene pertanto è l'infinita potenza volitiva e assimilatrice della coscienza soggettiva. Che il Soggetto sia inteso, con Cartesio, come Cogito, ovvero, con Kant, come Soggetto trascendentale, non pregiudica la natura totalistica della sua potenza creatrice, che Hegel chiamerà Geist. E' chiaro che i due livelli di coscienza, quello intuitivo e quello razionale, sono interni e organici alla soggettività noetica, quali elementi formali della sua unitaria disposizione totale. D'altro canto, il rapporto che la coscienza incentra sulla oggettività della realtà esterna, assume questa realtà il modello normativo dell'attività della coscienza stessa, la quale intende il Bene tomisticamente come

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Addictiones magnae, del periodo parigino, a cura del Balic, cit. da B. Bonansea, loc. cit., pag. 91. Cfr. Ord. I, d. 3, n. 578.

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«adequatio rei et intellectus».40 Questa seconda declinazione della volontà fa di questa una attività bruta che va dirozzata per mezzo della ragione, guidata dalla fede. Ciò implica che l'estraneità della coscienza al mondo sia un limite della coscienza, e non già un difetto del mondo, per cui l'atteggiamento della volontà soggettiva verso il Bene è diametralmente opposto a quello assunto dal soggettivismo idealistico. Quanto veniva assunto dal soggettivismo come esperienza passiva, la datità del mondo, nella prospettiva oggettivistica o realistica viene inteso come scoperta produttiva di senso, e quindi come cifra simbolica del Bene. Il soggettivismo o idealismo non può ammettere una potenza superiore a quella della coscienza creatrice di senso, e averla per tempo attribuita a Dio ha costituito solo il rispecchiamento momentaneo della completa attribuzione alla coscienza trascendentale umana, la cui essenza già divina è stata surrogata da quella razionalista. Per come ciò sia potuto avvenire l'aspetto derimente è il concetto di volontà. Per Tommaso, l'intelletto è più vicino alla verità di quanto la volontà lo sia al Bene. Se infatti la comprensione intellettiva trasforma l'intelletto in oggetto della coscienza, in oggetto cioè conosciuto,41 la volontà tende all'oggetto qual è in sé stesso. In altri termini, per Tommaso, la verità coincide con la piena conoscenza dell'intelletto di sé stesso, suo oggetto. Scoto, di contro, ribadisce che la volontà sia superiore proprio perché il suo oggetto è il Bene in sé, mentre la verità è solo un prodotto dell'intelletto per partecipazione.42 Ma questo argomento presupporrebbe che il Vero e il Bene fossero realmente distinti fra loro, per cui solo la loro distinzione li porrebbe in competizione nel grado di perfezione delle rispettive facoltà. In realtà, sostiene Scoto, se è vero che il Bene sia l'oggetto della volontà, è del tutto errato che il Vero sia l'oggetto dell'intelletto, in quanto tanto l'oggetto dell'intelletto quanto quello della volontà non sono altro che lo stesso ente considerato sotto il riguardo, rispettivamente, della verità e della bontà.43 Ma ciò equivale a stabilire la loro identità ontologica, ma non a qualificare logicamente la natura della volontà, la sua essenza propria. 40

Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, I e II. “Nel verbo mentale si compie il lavoro dello spirito, in esso si realizza appieno, perché coscientemente, l'unità del conosciuto e del conoscente in quanto tali. Anche il verbo mentale è propriamente il conosciuto, sebbene non sia ciò che è conosciuto. Ciò che è conosciuto è il reale esteriore; ma ciò che ne è conosciuto è il contenuto del soggetto o, per meglio dire, il concetto stesso, in quanto rappresentativo della cosa”: A.D. Sertillanges, Op. cit., pag. 442. Cfr. Tommaso d'Aquino, De intellectu et intelligibili, imit.; IV C. Gentes, cap. XI. 42 Ved. B. Bonansea, loc. cit., pag. 93. 43 Scoto, Oxon. IV, d. 49, q. ex. Lat., nn. 10-12. Ved. B. Bonansea, loc. cit., pag. 94. 41

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Per l'aristotelico Tommaso, il fine della conoscenza è la sapienza. Per Scoto, il fine della volontà è l'Amore, che è superiore alla sapienza, come avevano insegnato Paolo e Agostino. Perché superiore? Per gli intellettualisti, la causa efficiente equivoca è più perfetta dei suoi effetti; la causa efficiente della volontà è l'intelletto, ergo l'intelletto è più perfetto della volontà. Scoto ammette la premessa del sillogismo, per cui la volontà dipende dall'intelletto per la conoscenza del suo oggetto; ma è anche vero che la volontà possa dirigere l'intelletto verso uno anziché altro oggetto, sicché è la volontà la causa efficiente equivoca dell'intelletto, cioè dei suoi atti, e pertanto non può essere l'intelletto la causa totale della volizione, né questa dell'intellezione, essendo ognuna responsabile dei suoi atti, esercitando una influenza solo parziale sugli atti dell'altra facoltà. Nessuna di esse è una causa totale, e nel caso una causa parziale potesse produrre effetti ottimali, questa causa sarebbe la volontà, che può comandare all'intelletto, mentre questo non può comandare la volontà.44 Ma, ribattono i critici di Scoto, se l'intelletto può fare a meno della volontà, questa dipende dall'intelletto necessariamente per i suoi atti. E poiché la dipendenza è imperfezione, l'intelletto è superiore alla volontà. Scoto a sua volta ribatte che dipendenza non è necessariamente sinonimo di imperfezione. Infatti, anche la forma dipende dalla materia e il fine dai mezzi. Così, la dipendenza della volontà dall'intelletto è in una condizione analoga. Con la differenza che il fine della volontà – il Bene – resta esterno alla volontà stessa, la quale dunque deve identificarsi col Bene per essere a sua volta superiore ai suoi mezzi usati per conseguirlo. Ma ciò è arbitrario quanto astrarre il valore dei mezzi dalla qualità del fine cui sono predisposti. Come isolare la volontà? Come l'intellezione? Quest'ultima sarebbe perfetta in sé, mentre la volontà soltanto una tendenza naturale come la gravità. La risposta di Scoto è dialettica. Piuù perfetto è ciò il cui opposto è male maggiore. Odiare Dio è male più grande che non conoscerlo, perciò l'Amore è più grande della conoscenza. Ciò che sfugge a Scoto, però, è la diversa natura dell'odio e dell'ignoranza. Infatti, odiare è atteggiamento positivo di ripulsa di qualcosa di preesistente all'atto d'odio, laddove l'ignoranza è invece uno stato di privazione d'essere, cioè una condizione negativa. Se l'insipienza è superiore all'errore (poiché odiare è peccare), vuol dire che il non-essere (il negativo) è superiore all'essere qualcosa anziché niente, per quanto imperfetta. Perché è superiore? Perché l'ignoranza non esclude la possibilità della conoscenza vera, mentre l'errore esclude tanto l'ignoranza che la vera conoscenza, e perciò ad entrambe inferiore. Se la sapienza

44

Ved. B. Bonansea, loc. cit., pag. 95.

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fosse perfetta, conterrebbe in sé non solo l'errore ma anche l'Amore. Invece, potendo contare sul solo intelletto, ed essendo questo fallace, dipendendo dalla volontà, la sapienza è di conseguenza imperfetta e a misura dell'uomo. L'Amore di Dio comprende invece ogni misura umana, compresa quella imperfetta, sicché esso è più comprensivo del sapere, che esclude l'ignoranza e l'errore. L'Amore quindi trascende l'orizzonte del pensiero, andando oltre ogni umano sapere, e contenendolo l'Amore è il vero Tutto. Trascendente è ciò che non può essere rappresentato come un dato, che è nel mondo, ma solo intuito come una presenza simbolica nella coscienza che richiama ciò che non-è. Il richiamo della presenza è il sentimento di incompiutezza che suscita la realtà del mondo quale realtà finita, quale cifra cioè della dimensione della finitezza ontologica. Il sentimento di incompiutezza è la nostalgia d'amore della totalità, della infinitezza che è Dio, non l'Essere. Il sentimento di mancanza (penìa) e di incompiutezza verso ciò che trascende la finitezza (poros), è l'Eros di Platone, riferito al piano ontologico delle idee. Per Horkheimer e Adorno, l'atteggiamento di assimilazione e non di dominio della natura è indicato, nella Dialettica dell'Illuminismo, come «Mimesis». L'atteggiamento mimetico è quello contrario allo scopo proprio della ragione strumentale, che ha per fine l'allontanamento dalla Natura e il suo dominio. Ma se l'Eros tende alla compiutezza della soggettività spirituale, come anelito della coscienza, e la Mimesis cerca di partecipare della realtà organica della Natura, l'Amore trascendente che viene da Dio, rende l'uomo divino, partecipe dell'eterno infinito. Se la volontà è dunque un appetito razionale, e la libertà il segno della razionalità necessaria, la ragione è il contenuto della verità, e questa l'oggetto di quella. Verità e ragione sono congiunte alla volontà e alla libertà. Perciò il suo oggetto e il suo fine coincidono, diversamente dalla volontà, che in sé non può trascendere il suo oggetto. Se infatti si può avere conoscenza del male senza praticarlo, non si può desiderare il male senza peccare.45 Ciò significa che il Bene è esterno alla facoltà volitiva. Come afferma Aristotile, è nelle cose esterne all'anima, mentre la verità è interna all'anima stessa.46 Ma la volontà, sostiene Scoto, consegue il suo fine nell'oggetto in sé, mentre l'atto intellettivo è interno alla coscienza e si unisce al suo oggetto solo nell'anima e non in sé stesso. Soltanto la conoscenza intuitiva coglie l'oggetto in sé, laddove quella astrattiva coglie l'oggetto qual è nella mente. In entrambi i casi la volontà è la stessa, sia pure diversamente tesa. Ciò vuol dire che sia la volizione che l'intellezione sono altro dall'oggetto in sé. Fin qui si ferma anche anche

45 46

Ved. B. Bonansea, Op. cit., pag. 96. Aristotile, Metaphysica, VI, 4; 1027 b, 25-29.

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Kant. Ma mentre la volontà può conseguire il suo oggetto nella realtà, l'intelletto consegue il suo solo nell'astratto pensiero. Da questa esigenza di realismo nasce la vexata quaestio delle categorie, che divise, com'è noto, la teologia medievale in realisti e nominalisti. Soprattutto in merito alla conoscenza del Male, inteso come privatio Boni, resta difficile astrarla dalla concreta esperienza del Bene, il quale, perché venga sminuito nel suo essere, presuppone la sua previa realtà. E poiché tale realtà non si può dare all'interno della mera esperienza umana, né tanto meno ridurlo a dato della coscienza razionale, quale suo oggetto, essendo la sua totalità trascendente, la sua privazione consiste nella stessa condizione della sua esperibilità entro i termini e i limiti umani. Come meglio vedremo oltre, la realtà del Bene non può essere commisurata ad alcun parametro umano, intellettivo o volitivo che sia, senza l'intervento divino della Grazia, ossia dell'Amore in cui consiste e si manifesta il Bene. In tal senso, la conoscenza e l'Amore non sono equiparabili. L'equivoco teoretico della posizione scotista è appunto nella identità di volontà e Amore. Come potrebbe la volontà umana servire l'intelletto – sia pure guidandolo – e insieme manifestare la volontà di Dio? Era stata la lunga e tormentata questione del rapporto tra Grazia e Libertà che aveva travagliato il pensiero di Agostino.47 La volontà può trascendere il bene finito, che è la conoscenza, per conseguire il fine ultimo perfetto, la beatitudine, il Bene lieto, cioè l'Amore, il Bene supremo che ne è l'oggetto. «Non si vuole per conoscere; si conosce invece per volere».48 La previa conoscenza utile al volere è atto di natura, non priorità di perfezione. La beatitudine formale ed essenziale è il raggiungimento del fine per mezzo di una priorità di perfezione, che consiste precisamente nel pieno e perfetto raggiungimento dell'oggetto come è in se stesso (ossia Dio) e non semplicemente dell'oggetto come è noto alla nostra mente. 49

Dunque l'oggetto dell'intelletto è soltanto una rappresentazione della realtà, ma non la realtà in sé. Non c'era bisogno di giungere a Kant per scoprirlo. L'obiezione razionalistica alla teoria della volontà di Scoto è stata formulata per primo da Tommaso. La volontà, afferma Tommaso, non può da sola conseguire il suo fine, ma solo può tendervi desiderandolo, oppure a godere del suo conseguimento. In entrambi i casi, la volontà o è antecedente al fine, oppure è posteriore, 47

Ved. A. Trapè, Introduzione alla dottrina della Grazia. II Grazia e Libertà, Roma, 1990. Da ora GeL. 48 Scoto, Oxon. IV, d. 49, q. 4, n. 4. 49 B. Bonansea, Loc. cit., pag. 99.

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ma non è mai attuale. L'atto che presenta il fine alla coscienza nella sua attualità è solo l'atto dell'intelletto.50 Tuttavia, obietta Scoto, desiderio (anteriore) e gioia (posteriore) non sono l'essenza della beatitudine, la quale è il risultato del conseguimento del Bene da parte della volontà, e di conseguenza non si può ridurre ad essi la stessa volontà. La beatitudine è l'atto per mezzo del quale la volontà viene in contatto con l'oggetto presentatole dall'intelletto e lo ama, soddisfacendo così pienamente il suo naturale desiderio di esso.51

Se la volontà può agire anche conoscendo imperfettamente il suo oggetto, a maggior ragione è in grado di conoscerlo perfettamente con l'ausilio dell'intelletto, sicché la volontà fruisce dell'intelletto per raggiungere il suo fine, che trascende la conoscenza, perché sussistente anche senza la chiarezza dell'intelletto; anzi, agente anche nei confronti di un oggetto sconosciuto e soltanto desiderato. Scoto distingue a proposito la fuitio, in cui consiste l'essenza della beatitudine, che è l'amore perfetto di Dio, dalla delectatio, che è l'amore di se stessi attraverso l'amore di Dio, che è meno perfetto e corrisponde all'amor concupiscientiae di retaggio agostiniano. La beatitudine, per Scoto, è nell'essenza dell'atto della volontà, anche se questa non può agire indipendentemente dall'intelletto, che opera a sua volta in posizione servile, come causa secondaria. Il servizio che l'intelletto presta alla volontà è dunque finalizzato al conseguimento del Bene. Ma cos'è il Bene? Se il Bene è l'intuizione dell'Amore, esso è inevitabile e certissimo se riferito a Dio, ma è incerto ed evitabile se riferito all'uomo, dotato di libero arbitrio. Infatti, Dio non può non amare l'uomo, mentre l'uomo può non amare Dio. In cosa consiste l'incertezza umana? Nell'evitare di imitare Dio nell'amore che Lui nutre verso il mondo, e di amare Dio stesso come Lui ama l'uomo. Cosa vuol dire «evitare di amare Dio»? Vuol dire misconoscere il Suo amore (pars negativa) e sostituirlo con l'amore del mondo (pars positiva). In che senso amare il mondo sostituirebbe l'amore verso Dio, essendo il mondo una creatura divina? Per rispondere a questa domanda, occorre porsene prima un'altra, ossia: quale mondo l'uomo ama? Il mondo naturale, così come è stato creato da Dio, ovvero il proprio mondo, la realtà cioè creata artificialmente dall'uomo? La questione è decisiva, poiché il mondo naturale, così com'è stato creato da Dio, non è la casa originaria dell'uomo, il quale perciò, per abitarvi, deve adattarlo ai suoi bisogni affinché divenga ospitale. Il peccato originale dell'uomo è codesta sua inappartenenza al mondo 50 51

Tommaso d'Aquino, Summa Theol., I-II, q. 3, art. 4 c. Scoto, Oxon. IV, d. 49, q. 4, nn. 5-9. Ved. B. Bonansea, Loc. cit., pag. 100.

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naturale e al mondo celestiale. L'uomo, perciò, non può amare la Natura che gli è avversa, senza trasformarla nel suo mondo, che non è per lui uno habitat come per le altre specie naturali. Il che senso la Natura avversa l'uomo? Nel senso che il fine dell'uomo non è quello naturalistico di affermare la propria esistenza nel mondo, ma di affermarla nonostante il mondo. Il mondo, infatti, ha come suo fine immanente di negare ogni libera determinazione della volontà di chi lo abita, così come è stata stabilita da Dio stesso che l'ha creato. Ogni creatura naturale è asservita necessariamente alla volontà divina, che costituisce la sua stessa legge di necessità: il divenire, che per l'uomo è la morte. L'uomo, di contro, opera per sottrarvisi, trasformando la forza mortifera della Natura in energia vitale, piegata alla vita umana. In tal senso, l'amore nutrito dall'uomo per la Natura non è indirizzato alla creatura divina, ma alla natura umanizzata e resa compatibile con gli scopi della esistenza umana, che sono fini vitalistici, che tutti si compendiano nell'Essere, il cui riscontro esistenziale è ciò che Heidegger chiama «esserci» (Dasein). In tal senso, la decisione per l'Essere anziché il Nulla costituisce la posizione ontologica ed etica dell'uomo che è chiamato a vivere nella Natura «matrigna», inospitale perché estranea e mortifera e negatrice della vita umana. Posizione paradossale, dal momento che la Natura è per tutti gli esseri viventi l'ambiente della vita. Ma il paradosso si scioglie nel momento in cui l'uomo realizza che la sua inappartenenza al mondo naturale implica il trascendimento del puro fine vitalistico dell'esistenza nel conseguimento di un fine ultroneo, appunto trascendente, di natura escatologica, volto a vincere la stessa legge di Natura, la finitudine, ossia la necessità di finire come tutto ciò che abita la finitezza mondana. La resistenza dell'uomo alla Necessità, quale legge della Natura, è il suo fine spirituale di vincere la propria morte naturalistica attraverso la persistenza nell'Essere, sia come «cura» (Sorge) del Dasein, che come destinazione escatologica. La cura mondana di sé è ciò che Agostino chiama concupiscientia, mentre il fine escatologico è di conseguire il Bene, che coincide con lo stesso amor Dei. Se Dio è Amore, è perché Dio crea la vita, sicché amare Dio significa confermare nell'Essere la vita donata da Lui. In che modo? Persistendo nell'Essere e resistendo al Nulla, in cui consiste la sommersione dell'individualità spirituale dell'uomo nel Divenire cosmico, in quella volontà naturale che si manifesta portando ogni cosa a omologarsi alla propria essenza diveniente, il Divenire quale realtà della finitezza e della durata, che sono gli elementi costitutivi della condizione naturale di Finitudine. Persistere nell'Essere non è semplicemente esistere e aver cura del mondo, ma persistere nell'Essere vincendo il divenire del mondo, ossia vincendo la Morte, quella morte che Cristo ha vinto con il martirio della croce. Ogni qualvolta si soccombe alla Natura, sottostando 61


alla sua necessità di morte, , si tradisce la consegna divina di amare. L'identificazione ontologica della metafisica dell'Essere con l'essenza di Dio assume la condizione condenda come situazione di fatto, rimuovendo, per un verso, la potenza nichilista che la Necessità esercita sull'esistenza umana, assumendola come legge razionale universale cui conformarsi; per altro verso, esautorando l'Amore di Dio come ausilio grazioso per conseguire il fine escatologico di superare la infirmitas della condizione umana peccaminosa. La persistenza nell'Essere è una decisione etica, non già una condizione di natura e quindi una situazione necessaria, sicché amare Dio implica l'accettazione del dono della vita naturale per trascenderla in vista del fine spirituale di pervenire al Bene, cioè a quella dimensione che porta l'uomo a vivere sicut Dii, secondo una coscienza d'amore. La metanoia che conforma la coscienza dell'uomo alla condizione di beatitudine, trascendendo la visione razionale del mondo della Natura, è la coscienza intuitiva. Rispetto alla ipotesi antropologica platonica o gnostica, la visione cristiana non assume la Natura come il luogo della prigionia dello spirito, ma bensì come il contesto occasionale della scelta responsabile e quindi come lo scenario della libertà spirituale, entro il quale si svolge la storia umana, quale destinazione consapevole della propria singolare finitezza. Le due possibili opzioni della libertà umana, per o contro Dio, non sono equivalenti; moralmente, in quanto, lontani da Dio, l'uomo tradisce la consegna escatologica dell'Amore divino; razionalmente, in quanto vivere in balia della morte significa rinunciare a ogni opera spirituale, durevole oltre ogni durata naturale. Limitarsi al rapporto con la Natura, riduce l'esistenza entro la dimensione della Finitudine, nella quale, come ha messo in evidenza Ricoeur, la coscienza soggettiva è dimidiata tra l'Io e l'Altro come idea dell'Io,52 che coltiva la «scientia certa» che «gonfia»53 l'orgoglio umano che sottomette la forza della Natura, ma non illumina per la salvezza. Infatti, come insegna Agostino, «la sapienza discende dall'alto»,54 ossia è un atto intuitivo della coscienza, cui l'uomo perviene per Grazia ricevuta. La Grazia è pertanto l'ispirazione divina che opera in interiore homine realizzando il «riscatto» dell'uomo di «esser soggetti alla Verità, che è il nostro stesso Dio, che ci limita dalla morte, cioè dalla

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P. Ricoeur, Philosophie de la volonté, vol. I, Le volontaire et l'involontaire (1950), tr. it., Genova, 1990, pagg. 15 sgg. 53 Paolo, 1 Cor., 8, 1. Come chiosa A. Trapè, “la “scientia certa” non è solo l'esclusione dall'errore (cioè la negazione dialettica), ma anche la fuga del dubbio, dell'incertezza, dell'esitazione; è la presenza della verità alla mente e l'adesione ferma della mente alla verità”: Op. cit., pag. 126. 54 Agostino, De gratia et libero arbitrio, 24, 46.

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soggezione al peccato».55 L'Amore è l'incontro nella coscienza della Verità di Dio in noi. Dio è dunque Verità, ma anche incontro, cioè relazione, e dunque Amore. Venendo per atto di Grazia, tale incontro d'amore è libero. Libertà, Verità e Amore sono in Agostino sinonimi. «Ecco perché», come egli scrive, quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbo gli è unito tramite l'amore. E poiché ama la conoscenza e conosce l'amore, il verbo è nell'amore e l'amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il verbo. 56

Nella Civitas Dei Agostino, rifacendosi a Paolo, parla di «ordo amoris»,57 che è la condizione di beatitudine in cui «lo spirito umano è così costituito che mai non si ricorda di sé, mai non s'intende, mai non si ama».58 Lo spirito che è sempre presente a sé, nella totalità del suo essere, non è la volontà, cioè la coscienza razionale,59 ma la coscienza intuitiva, ovvero la «coscienza amorosa»,60 alla quale partecipa non il solo intelletto, ma il cuore e la volontà, o per meglio dire la intenzione. Superata la ignorantia, che è la condizione di minorità intellettuale dell'uomo privo di sapienza, bisogna fare i conti con la infirmitas. L'Amore vince ogni ostacolo, perché è opera dello Spirito Santo. Ma di quale ostacoli si tratta? La naturale destinazione verso la morte li compendia tutti. L'ausilio divino che agisce nella coscienza suggerisce la via della salvezza (gratia suasiva la chiama Agostino), che è intrapresa coerentemente da chi raccoglie la Parola (gratia persuasiva). Tale azione persuasiva è lo stesso Amore che viene ricevuto e quindi donato: questo stato di grazia è sapienza amata, non solo rivelata in interiore ma manifestata come atto d'amore. In questo atto consiste la fede. La fede è amore sentito e vissuto. Essendo lo stesso Amore divino presente in noi, le «buone opere della pietà» sono in cooperazione con la Grazia di Dio.61 A cosa aiuta la Grazia di Dio se non a superare le necessità naturali? Cioè a vincere la morte. L'intuizione vince la conoscenza finita, così come l'Amore la condizione naturale, ossia trascende la necessità che tutto

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Agostino, De libero arbitrio, II, XIII, 37. Agostino, De Trinitate, 9, 10, 15. “Lo spirito umano è, pensa ed ama, indissolubilmente. Il verbo interiore secondo la bella definizione agostiniana altro non è che cum amore notitia”: A. Trapé, Loc. cit., pag. 139. 57 Agostino, Civitas Dei, 15, 22. 58 Agostino, De Trinitate, 14, 14, 18. 59 Ved. A. Trapè, Loc. cit., pag. 141. 60 Espressione felice di A. Trapè, Loc. cit., pag. 126. 61 A. Trapè, Loc. cit., pagg. 131-132. 56

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conduce alla Finitudine. «L'amore», sostiene un autorevole commentatore di Agostino, «essendo atto essenziale della volontà, non può essere mai contro la volontà: chi agisce amando, non agisce mai contro la sua volontà».62 Ma questa è una lettura fuorviante, poiché l'amore cristiano di cui parla Agostino, non è atto umano esteriore, cioè volizione che manifesta un pensiero, ma è condizione interiore di verità e di libertà, e come tale coscienza intuitiva, che non si realizza come azione volitiva, ma come azione simbolica, che spesso traspare contro l'esplicita volontà. L'intuizione è libera, e nella sua libertà realizza l'incontro con Dio. La volontà è sempre possibile, perché condizionata, e perciò contingente. L'Amore non deriva da una causa o da un percorso prevedibile, ma avviene come un mistero. E' una presenza non voluta né rimovibile. L'Amore sorge in noi per qualcuno, ma non da qualcuno. In quanto mistero, non ha oggetto definito, ma anela a una totalità che è Dio, da dove proviene. Amare Dio equivale dunque ad amare ogni Sua creatura, che partecipa dell'Amore della creazione. Soltanto la presenza di Dio non-è, pur essendo Amore. In tal senso, il non-essere divino dal quale proviene la creazione è la presenza di Dio come Amore. L'origine arcaica dell'Essere è l'Amore, che si identifica con la libertà:»ipse est enim vere et sana libertas».63 Agisce con la libertà chi agisce con amore: «liber facit qui libens facit».64 La legge dell'Amore è la legge della libertà: «lex caritatis lex libertatis».65 In tal senso, la condizione soave dello stato di grazia è nella libertà dell'Amore, «la soavità dell'amore che genera la libertà».66 L'atto libero divino è l'incontro della fede, la quale coincide con l'ascolto di Dio. Solo chi è in ascolto può udire la Sua parola. La fede stessa è un dono divino, precedente ogni merito, cioè non causabile: «ante omne meritum est gratia». La fede è la condizione perché l'Amore di Dio sia accolto dalla coscienza dell'uomo. La fede è la condizione spirituale dell'ascolto della Parola. Accogliere l'Amore significa indirizzare ad esso la volontà, come suo fine e come suo principio. Fine, in quanto scelta responsabile; principio, in quanto l'intuizione di Dio è la stessa coscienza del Tuo, del quale ogni agire e pensare fa parte. In tal senso, la rivelazione di Dio nella coscienza è la scoperta dell'appartenenza dell'uomo al Tutto, che non è l'Essere come universalità ontica, né un luogo iperuraneo come realtà ideale, ma è lo stesso stato di grazia dell'ordo amoris, come unico sentimento veramente

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A. Trapè, Loc. cit., pag. 143.

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Agostino, Enarratio in psalmos, 67, 13. De gratia Christi et de peccato Originale, 1, 13, 14. 65Agostino, Epistula 167, 6, 19. Ved. A. Trapè, Loc. cit., pag. 144. 66A. Trapè, Loc. cit., pag. 145. 64Agostino,

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totale. L'universalità è la dimensione propria del Logos immanente al finito. La totalità è la condizione propria alla realtà divina in cui opera Amore. Universale è propriamente il concetto che riporta l'ente all'Essere. Totale è il sentimento in cui versa la coscienza pervasa dall'Amore. L'intuizione di Dio è la presa di coscienza che solo l'Amore è totale, mentre il concetto è solo universale, e non può trascendere la realtà finita. La dimensione terranea della Finitudine giustifica anche simbolicamente l'appellativo celeste della dimensione trascendente. La rimozione di questa da parte del Logos assoluto ha fatto delle costruzioni empiriche della realtà fenomenica il riflesso reale dei concetti ideali, tali che la loro coincidenza logica abbia generato il «totalitarismo», cioè la pretesa che il giudizio razionale di realtà onto-logica fosse l'unico valore gnoseologico di conoscenza della realtà naturale e storica, del mondo spirituale dell'uomo. Nel mondo naturale vige la legge della Necessità, che è potenza degli elementi e volontà umana. Nel mondo spirituale l'ordine cosmico è dato dalla legge morale, che è il modo proprio della conoscenza intuitiva della Totalità. L'oggetto della intuizione morale consiste nella intuizione della Differenza tra realtà finita e disponibile alla ragione umana, e realtà trascendente e in-finita, pertinente a Dio. Il Medium tra la dimensione divina trascendente e quella naturale dell'esistenza storica è il Cristo, l'incarnazione di Dio nell'Uomo nel Quale l'Amore si fa Storia, summum exemplum gratiae67 esistenziale di verità vissuta, riconciliando Spirito e Natura, volontà divina e creazione. Cristo è l'Uomo quale creatura originaria di Dio emendata del peccato di Adamo e della sua progenie, che Agostino chiama «massa peccati».68 In Cristo la volontà coincide con l'intuizione morale; nell'uomo adamitico, la volontà è libera di determinarsi, ossia di peccare oppure di redimersi dal peccato. La volontà consiste dunque nella scelta di perseguire ovvero di ignorare il Bene, oggetto della intuizione morale, cioè di pensare e di agire in considerazione del Tutto, e non del solo valore finito, determinato questo dal giudizio razionale o concetto categoriale. Tale giudizio infatti afferisce alla realtà naturale, comune a tutti gli uomini, ma non può comprendere la realtà spirituale, dove regna Amore, la cui legge è la Grazia di Dio, che è attività libera da ogni determinazione di necessità. Confondere la libertà divina dell'Amore con l'onnipotenza della volontà del Logos-Christos è stato – come si vedrà in altra occasione69 - è stato determinante per la destinazione politica della theo-logia cattolica e al

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Agostino, De civitate Dei, 10, 29, 1. Agostino, De diversis questionibus ad Simplicianum, I, q. 2, 16. 69 C. Marco, Cristo e la sua Chiesa. Storia del Dokema cristologico (inedito). 68

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conseguente razionalismo della cultura occidentale fino al suo esito scientistico. Ma qual è il significato della Grazia? Agostino scrive che la Grazia sia «un dono divino», non dovuto.70 Se dunque l'uomo riceve la grazia di vivere, partecipa anch'egli alla realtà finita della Natura creata. La grazia di vivere è condivisa dall'uomo con tutti gli esseri naturali. Soltanto l'uomo, però, nasce per scelta d'amore, per atto spirituale di libertà, non necessario e pertanto estraneo al cosmo naturale, di cui l'uomo non fa parte organica e integrante, ma solo contingente. Senza l'uomo, infatti, la creazione sussisterebbe. «Difatti non fu l'uomo, che ancora non esisteva, a meritarsi l'esistenza», ma fu la Grazia a donargliela.71 L'esistenza umana fu atto d'amore spirituale in quanto Dio donò all'uomo la libertà, cioè la possibilità di unirsi a Lui partecipando della totalità del Suo amore, ovvero di vivere secondo natura inconsapevole, sotto la legge della Necessità. Questa libertà, che non è data agli altri esseri viventi, fa dell'uomo un sinolo divino-umano, sospeso tra la caduta nella Necessità e la redenzione nell'Amore. La caduta nella Necessità consiste nella volontà razionale di piegare le leggi naturali all'esistenza umana, cioè alla volontà di potenza dell'uomo, che per rendere abitabile il cosmo naturale deve umanizzarlo in funzione della vita di specie e individuale, trasformandolo in un mondo culturale. L'impegno di universale umanizzazione della Natura, pur asservendo le sue leggi ai propri scopi razionali, le assume come valore universale, assogettandovisi e conseguendo inconsapevolmente lo stesso fine immanente della Natura, la finitudine come reductio ad mortemdi tutto ciò che ha una durata provvisoria entro la sua sfera di dominio. Ciò che i filosofi indicano come Divenire non è altro che il processo naturale della vita tendente alla morte, tale che ciò che appare dal punto di vista della vita come passaggio progressivo dalla potenza all'atto, si può specularmente concepire come progressione fatale che dalla vita porta alla morte. Solo affidandosi all'intuizione dell'Amore divino l'uomo può liberarsi dalla universale Necessità naturalistica e riscattare la sua ontologica finitezza. La salvezza è Amore, che è l'orizzonte di coscienza in cui si muove la fede, l'intuizione della presenza di Dio e dunque della Differenza come condizione originaria pre-onto-logica, archetipa. Non tutti hanno la fede (2 Tess, 3, 2), anche se tutti possono averla (...). In conclusione, poter avere la fede, come poter avere la carità, appartiene alla grazia dei fedeli. Pertanto quella natura che ci dà la possibilità di avere la fede, non distingue uomo da uomo; la fede invece distingue il credente dal 70 71

Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 3, 9. Agostino, Sermones, 26, 4.

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non credente.72

E' la libertà la possibilità umana e solo umana di aver fede, cioè di trascendere la condizione finita naturale nell'Amore di Dio. L'atteggiamento umano coerente all'intuizione morale è la «giustizia di Dio», ovvero la Sua gloria. La gloria di Dio, gloriarsi di Lui, significa scegliere la via dell'Amore, riconoscendo il Cristo. La gloria di Dio non è necessaria, ma è un libero atto d'amore dell'uomo. La Libertà in senso cristiano è la gratuità del segno rivelatore di grazia. Non essendoci causa proxima, l'atto di grazia è appunto libero di manifestarsi nella coscienza come intuizione creatrice di senso. L'assoluta gratuità della Grazia è giustamente ribadita da Agostino contro il determinismo del merito dei seguaci di Pelagio.73 Non sono i meriti a procurare all'uomo la Grazia, ma è questa che fa ben operare gli uomini. Ciò comporta che l'atto di volontà, quando segue l'ispirazione benigna, è merito di Dio, mentre, quando si determina come ragione del mondo, è responsabilità umana. Quello che permane come sussistente e indipendente dalla volontà umana è la intuizione morale del Bene, il vero epi-steme originaria attraverso la quale la coscienza si apre al trascendente, cioè all'ascolto della parola di Dio nella fede. Agostino ribadisce altresì il principio teologico del «Cristo totale, modello e causa della salvezza degli uomini». Infatti, «Dio ha scelto gli uomini per la salvezza in unione a Cristo, anzi, in Lui, con Lui, per Lui, e con un solo volere, una sola scelta, un solo decreto», in quanto Cristo è Verbo incarnato, una sola persona: una persona in utroque natura.74

4. Il modello paradigmatico del processo avvenimenziale della coscienza razionale dell’uomo che compendia ogni possibile svolgimento storico è il Mito. Il Mito è la narrazione – ossia la Storia – essenziale di ogni possibile esperienza umana entro l’universo di senso della storicità. La storicità è pertanto l’ambito avvenimenziale di ogni possibile esperienza della coscienza razionale dell’uomo, ossia la possibilità stessa di ogni sua razionale narrazione di sé. Il Mito è la Storia ideale eterna dell’uomo che, attraverso la sua coscienza razionale, organizza il Molteplice empirico in senso idealmente unitario. Il Mito è l’unità ideale del mondo secondo la coscienza razionale dell’uomo. L’opposizione tra Mythos e Logos è in 72

Agostino, De praedestinatione sanctorum, 5, 10. A. Trapè, Op. cit., pagg. 164-171. 74 Ivi, pag. 171. 73

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realtà una rimozione del fondamento arcaico di ogni pensiero dotato di senso razionale. Consiste nella decisione onto-logica pe l’Essere, che è una decisione che fonda l’etica. Dipendendo l’unità del Molteplice dalla sua costituzione ideale, tale unità varia col variare della coscienza razionale dell’uomo. Tale la coscienza, tale il mondo. Il mutamento di paradigma della coscienza, che determina la diversità dei Miti, e quindi la diversa narrazione storica, è relativo ai contenuti ideali della coscienza razionale dell’uomo. I contenuti di coscienza, che definiscono il paradigma mitico di ogni possibile narrazione della realtà della coscienza razionale dell’uomo, non sono a loro volta originari, ma prodotto razionale derivato dai fondamenti primi della coscienza intuitiva, i quali non dipendono dalla volontà, ma la fanno da essi dipendere. I fondamenti indipendenti della coscienza, da cui dipendono i paradigmi mitici di ogni possibile narrazione della coscienza razionale dell’uomo tendente a unificare la Molteplicità in mondo ideale, sono a priori rispetto ogni determinazione razionale della coscienza, ossia rispetto a ogni possibile narrazione unitaria del mondo, ed essendo a-razionali, sono di natura fideistica, ossia postulati di fede. Il postulato di fede che fonda ogni possibile narrazione della coscienza razionale è l’identità dell’Essere con la sua Idea. Questa identità ideale viene assunta, in virtù dell’atto di fede che la sostiene, come una identità ontologica, tale che ogni determinazione logica della realtà dell’Essere ideale sia creduta reale, non solo in senso razionale, ma anche in senso esistenziale. La rappresentazione del mondo prodotta dalla coscienza razionale è una costruzione (Gestell) ideale derivata da una credenza fideistica originaria che fonda ogni possibile rappresentazione unitaria del mondo, ossia ogni storicità. Ciò vuol dire che ogni Mito storico è fondato su una fede ontologica originaria, la quale afferma la realtà della coscienza, ossia i suoi contenuti ideali, come esistenti. La fede ontologica è quella che afferma l’Essere, e pertanto che ciò-cheè sia la stessa realtà dell’Essere. Ciò che è, è il fenomeno, il dato oggettivo della coscienza razionale, creduto essere il dato originario del mondo esistenzialmente reale, mentre in realtà è solo il dato della coscienza ideale, ossia il prodotto della costruzione rappresentativa della coscienza unitaria del mondo. E ciò che è, e che viene creduto realtà esistentiva dell’Essere, è l’oggetto del giudizio logico, che distingue l’appartenenza dall’estraneità entro l’universo di senso della coscienza razionale. Il rispecchiamento sociale del giudizio logico della coscienza razionale è la decisione della coscienza politica, in virtù della quale il nemico 68


viene escluso dal proprio orizzonte di senso razionale. Al non-essere del giudizio logico, corrisponde il nemico del giudizio politico. La politica è il rispecchiamento sociale della forma etica della coscienza logica. La ragione etico-politica è la forma sociale della ragione ontologica, la cui validità razionale dipende dalla fede nel fondamento veritativo dell’Essere che sostiene il Mito idealistico. La perdita della fede idealistica nell’Essere comporta, con la fine del suo Mito, anche la caduta della narrazione politica del mondo. La fine del Mito idealistico dell’Essere determina la fine del Mito dello Stato quale unità politica della società umana. Ovvero, la fine della credenza ontologica nell’identità dell’ente reale all’Essere ideale, determina la fine del paradigma antropologico per cui l’uomo sia un essere politico. La fine della ontologia idealistica, comporta la fine anche della corrispondente ragione politica, determinando, con il compimento del razionalismo antico e della sua versione moderna, segnati dal Mito dell’Essere, anche il compimento dell’eone politico, segnato dal Mito dello Stato. La fine della mitologia idealistica, portando con sé la fine della relativa mitologia politicistica, conduce al superamento della storiografia politica come narrazione mitologica dell’ (esistenza dell’) Essere ideale. La ontologia idealistica fonda la metafisica razionalistica della volontà di potenza quale oggettivazione logica della realtà, astratta dalla sua costituzione molteplice. L’unità razionale ottenuta attraverso il giudizio logico di realtà rappresenta una unità cosmica, esclusiva di ogni significato simbolico, e quindi astratta. Tale astratta unità ideale, confutata la credenza ontologica su cui si poggiava, appare alla filosofia critica un Mito razionalmente non più credibile, la cui narrazione assume anch’essa le parvenze di una mitologia. La forma narrativa originata dal Mito idealistico è la storiografia etico-politica, la cui rappresentazione è stata costruita sulla dinamica dialettica degli opposti contenuti del superiore valore metafisico dei sacri principi religiosi, e della più o meno corrispondente prassi della concreta umanità nella vita sociale. La storiografia etico-politica è la narrazione delle vicende umane interne all’orizzonte di senso razionale stabilito dal Mito idealistico fondato sulla credenza ontologica dell’identità dell’Essere con l’Idea. Tale credenza fonda la legittimità razionale della distinzione logica tra i molteplici fenomeni storici, la cui proiezione sociale genera il corrispondente livello di coscienza politica. Alla logica delle distinzioni dialettiche corrisponde la logica delle decisioni politiche, che regola idealmente la vita dello Stato. La ragion di Stato è la stessa logica politica che presiede le sue decisioni razionali. La ragione politica è essenzialmente esclusiva, perché fondata sulla 69


distinzione logica di ciò che è reale secondo il fondamento ontologico idealistico, da ciò che non-è reale secondo quel fondamento. L’unità razionale ottenuta dalla distinzione logica, e l’unità sociale ottenuta in conseguenza della decisione politica, sono realtà puramente ideali, e quindi astratte dalla concreta realtà esistenziale, che è sempre onticamente molteplice. La contraddizione tra le costruzioni logico-politiche dell’unità idealistica e la concreta molteplice realtà esistenziale genera la insuperabile instabilità di ogni costruzione razionalistica della coscienza storica umana, sia essa inerente al giudizio di un concetto teoretico che alla costituzione politica di un assetto sociale. Per tale fondamentale ragione, sia i Miti che presiedono le culture umane e formano i paradigmi delle loro rappresentazioni narrative, che le civiltà storiche dell’uomo fondate sull’unità ideale della coscienza razionale, sono soggetti al divenire, e quindi a un irrefrenabile processo di mutamento. Questa condizione insuperabile in divenire ha portato a credere, dopo l’Esere, che il Mutamento fosse la legge ideale regolativa dei processi storici, ossia la forma ontologica costitutiva entro la quale inscrivere l’orizzonte di senso razionale della complessiva ed universale esperienza umana. In realtà, il Mutamento è un altro Mito, speculare a quello idealistico, di cui costituisce l’opposta astratta rappresentazione dello stesso Essere. La conversione degli astratti opposti ideali in concreti contrari reali, nasce dalla rappresentazione idealistica dell’Essere, che sta a fondamento della creduta corrispondenza reale di ogni essenza ideale. L’essenza di tale costituzione idealistica dell’Essere è tale che l’esito del distinguente giudizio logico, e della relativa esclusiva decisione politica, è la costituzione di una unità puramente formale, che lascia impregiudicata la costituzione molteplice dell’Essere concreto, la cui realtà molteplice risulta dunque incomprensibile e contraddittoria in riferimento alle astratte forme unitarie della coscienza razionalistica. Soltanto le forme della coscienza simbolica possono pervenire a una conoscenza unitaria ma non esclusivamente univoca dell’Essere, le cui rappresentazioni trovano la loro unità di senso non già escludendo dal Molteplice le differenze ontologiche e sociologiche, ma includendole in un ordine unitario gerarchico e non oppositivo, tale da costituire, non una astratta unità ideale di carattere logico-politico, ma una concreta e armonica unità solidale di carattere etico-spirituale, non meramente fisico-economica ma sentimental-esistenziale, che veda al centro delle sue considerazioni, non gli astratti e anonimi individui fisici, produttori e consumatori di beni materiali, ma le concrete esistenze personali, produttive e fruitive di valori spirituali. Proprio la coscienza simbolica può contenere entro il suo orizzonte di 70


senso tanto la essenza razionale della coscienza storica dell’uomo, con la sua tensione unitaria, che la condizione contingente della realtà molteplice dell’essere naturale, onde pervenire a una forma sintetica che governi la realtà del mondo, anziché dominarla con una superbiosa volontà di esclusiva potenza condotta con le armi della tecnica economicamente asservita alla politica. La politica è la volontà di potenza che dall’uomo passa alle organizzazioni collettive degli Stati, la cui costituzione ideale è fondata sulla capacità di predisporre la volontà collettiva a fronteggiare l’opposizione di altre volontà collettive, cioè di muovere guerra ad altri Stati. La guerra tra Stati è la forma politica estesa ai popoli. La volontà politica dell’ente collettivo Stato, rappresenta la proiezione astratta dell’unità della coscienza razionale soggettiva, che dal soggetto empirico viene ipostatizzata come propria al soggetto ideale. La legittimazione logica di tale correlazione, che attribuisce a un soggetto ideale (lo Stato) la volontà di molteplici soggetti reali, i cittadini, scaturisce dalla identità di principio affermata dall’idealismo tra l’Idea e la totalità dei molteplici fenomeni reali, per cui è possibile ridurre ad unità logica le molteplici volontà empiriche. Essendo tale identità una costruzione ideale della coscienza razionale dell’uomo, fondata su una credenza che la costituisce valida a priori, essa non corrisponde se non fideisticamente – cioè per presupposizione ontologica – alla realtà concreta, sulla cui realtà effettiva il presupposto ideale si afferma come la rappresentazione mitica dell’Essere idealmente unitario si afferma sulla contraddittoria fenomenologia della vita concreta. La rappresentazione mitica dell’unità ideale dei fenomeni molteplici è l’oggetto della narrazione idealistica dell’esperienza umana come Storia. La Storia ideale unitaria di una molteplice collettività umana coincide con la rappresentazione della sua possibile fenomenologia, la quale, se estesa al genere umano coincide con la stessa realtà ideale dell’Essere razionale. La possibilità ideale di estendere la corrispondenza logica di un dato unitario della coscienza a ogni empirica realtà molteplice, costituisce l’essenza metodologica del razionalismo, il quale concepisce la conoscenza della realtà come la progressiva capacità di generalizzare in senso astrattamente unitario, attraverso il procedimento dialettico della distinzione logica, la molteplice fenomenologia della realtà empirica. La riduzione razionalistica della molteplice realtà ad unità ideale, procede attraverso la progressiva astrazione dalla concreta esistenza degli elementi logicamente sussumibili entro il concetto ideale posto prioritariamente a principio di realtà. La sussunzione degli elementi giudicati logicamente reali comporta l’esclusione degli elementi 71


idealmente non-reali, i quali, considerati logicamente contraddittori, vengono esclusi dall’unità ideale del mondo, allo stesso modo di come vengono esclusi i nemici dall’unità politica della società ideale. L’astrazione razionalistica dalla concreta molteplicità della vita esistenziale dell’uomo è la forma ideale della esclusione della decisione politica nella concreta vita sociale. Sono operazioni correlative conformi al creduto rispecchiamento della realtà ideale alla realtà esistenziale. Tali operazioni, fondate sulla stessa fede ontologica, razionalmente si reggono e cadono insieme al loro comune principio di realtà. Il fondamento di fede ontologica consiste nella credenza che l’unità ideale della coscienza razionale dell’uomo sia la stessa realtà ontologica dell’oggetto del pensiero, per cui il mondo rappresentato dalla coscienza razionale dell’uomo sia l’unica realtà possibile. In questo senso, ogni rappresentazione razionale del mondo da parte della coscienza umana è una antropologia, ossia una narrazione della realtà pensata dalla coscienza umana, e quindi una storia ideale della coscienza razionale dell’uomo. Le forme ipostatiche dell’unità ideale dei fenomeni molteplici logicamente omogenei, che corrispondono ad altrettanti concetti ideali, sono le divinità, la cui identità corrisponde ai correlativi fenomeni della loro rappresentazione reale. Marte, ad es., è il dio della Guerra, la quale è un concetto ideale che esprime tutti i fenomeni bellici possibilmente rappresentabili nell’esperienza umana, cioè in tutte le possibili storie dell’uomo. L’identità di Marte con la Guerra esprime l’operazione logica di identificare l’unità ideale del molteplice. Questa unificazione, essendo una costruzione della coscienza razionale dell’uomo, che si suppone operi in ogni coscienza umana, ossia in ogni uomo. Tale supposizione, nondimeno, è un atto di fede, consistente appunto nella credenza che l’unità della coscienza razionali sia un prodotto universale dell’Idea dell’uomo razionale. Ma l’unità universale del genere umano è essa stessa una costruzione idealistica della coscienza razionale che la concepisce, e non è un dato di realtà esistenziale, ma solo ideale, fondato sulla fede nell’identità dell’Uomo ideale con gli uomini empiricamente esistenti. La fede ontologica nell’identità dell’essenza ideale con la realtà esistenziale nasce dall’esigenza umana di operare un controllo razionale della potenza della natura, allo scopo di difendersene e di dominarne la forza impersonale. A tal fine, la coscienza trascrive in termini umani la molteplicità di ciò che umano non è ma è appunto naturale. Il rapporto uomo-natura nasce dal bisogno di conoscere ciò che è riportabile all’uomo, compatibile dunque con la sua esistenza, distinguendolo da ciò che non vi è compatibile. La distinzione, come 72


metodo della coscienza logica, nasce pertanto come un’operazione esistenziale della coscienza razionale dell’uomo, cioè come un’operazione empirica, codificata in seguito dalla dicotomia ciò che è «sacro», e quindi di valore inviolabile, e di ciò che è invece «profano», e perciò disponibile alla volontà umana. Se empirica è la distinzione funzionale al riconoscimento del valore dal disvalore, in relazione al contesto delle condizioni umane di luogo e di tempo, empirica non è la generalizzazione dell’astrazione logica del concetto ideale del «sacro» e del relativo concetto ideale del «profano». Infatti, la sacertà e la profanità non sono espressivi di una realtà concretamente distinguibile nelle rispettive unità concettuali, ma sono entità logiche in sé sussistenti che costituiscono i paradigmi formali della realtà concreta oggetto della distinzione. L’originario rapporto di derivazione empirica è, nel caso dei paradigmi assiologici, idealmente rovesciato. Non è, infatti, l’esistenza empirica a determinare le distinzioni utili alla specie per sopravvivere difendendosi dalla minaccia della Natura, ma sono le forme ideali a distinguere nell’ambito della Natura il valore dal disvalore. Ora ciò che è valido per l’uomo è la qualità ideale della realtà, ossia non ciò-che-è sacro, ma la sacertà, cioè il potere di determinare ciò che è sacro. La differenza è radicale. Infatti, le cose sacre hanno una esistenza univoca, ossia sono sacre per tutti gli uomini, mentre il potere di determinarne la qualità sacra è riservato in esclusiva a pochi. Il Potere nasce come identificazione di un concetto ideale in un uomo reale. E questa identificazione non ha niente di empirico, ma è conseguenza di una astrazione logica. L’operazione logica consiste nel trasferire analogicamente nella realtà sociale l’unità ipostatica dei soggetti divini operata nella realtà naturale per riconoscere e controllarne i fenomeni impersonali. Riconoscere i fenomeni naturali significa stabilire con essi una relazione di forza, da cui scaturisce un rapporto di servizio umano alla forza preponderante acché consenta al riconoscimento dell’esistenza del gruppo. Tale originario rapporto tra i gruppi umani e la forza della natura costituisce il paradigma del rapporto politico che nella società umana si stabilisce tra forze particolari che chiedono il loro riconoscimento pubblico, e il Governo che deve concederlo. Il Governo sociale è ciò che la forza della natura rappresenta per i gruppi umani, analoga a quella operata logicamente dalla de-finizione. Riconoscere la forza preponderante da cui i gruppi umani dipendono, significa stabilirne i confini, e quindi controllarne la potenza a scopo difensivo. Distinguere Marte dagli altri dèi significa delimitare la sua potenza in un determinato ambito esistenziale, la Guerra. Ciò significa che il potere di Marte, per quanto preponderante su quello umano, è comunque circoscritto alla Guerra. Per altri ambiti egli non ha la forza 73


di opprimere l’uomo, e questi deve dunque rivolgersi ad altri dèi, che conviene riconoscere per stabilire con essi gli stessi rapporti intrattenuti con Marte in materia bellica. La personalizzazione del Potere comporta una sua riduzione di potenza. Ma la relazione con le potenze divine, per quanto distinta e circoscritta, resta in ogni caso stabilita a sfavore dell’uomo, la cui finitezza è insuperabile rispetto all’eternità divina. Nondimeno, vi è la possibilità per l’uomo di superare la frustrazione religiosa nei confronti della potenza naturale, attraverso la costruzione di una realtà artificiale in cui la forza corrispondente a quella degli dèi nella natura sia trasferita all’uomo sugli altri uomini, sottomettendoli alla sua volontà. L’uguaglianza originaria di ogni uomo verso il potere naturale, viene negata dai ruoli sociali, stabiliti in analogia concettuale con le potenze divine che governano il mondo extra-umano. La condizione di tale edificio artificiale è di distinguerlo dal regno naturale. La società politica, pur stabilita in analogia con il regno naturale governato dagli dèi, se ne differenzia per il carattere non naturalmente necessario, e quindi sacro e inviolabile, delle gerarchie sociali, che vengono giustificate per mezzo di un processo di ideale sacralizzazione, ove il potere di stabilire ciò che è socialmente sacro diventa prerogativa umana. La sacralizzazione del Potere delle oligarchie sociali è idealmente analogo al riconoscimento delle potenze divine della Natura, ma logicamente opposto, in quanto il riconoscimento del Potere sociale di alcuni uomini sugli altri, non è conseguente, come nel caso dei rapporti naturali, alla sua indipendente e soverchiante realtà esistenziale, ma logicamente prioritario, e fondato sulla stessa fede ontologica che fonda il Mito. Infatti, senza la fede nella superiorità del Potere sociale, la minoranza che lo esercita non potrebbe mai imporsi alla maggioranza che lo subisce, la quale, rispetto al rapporto con il potere della Natura, è a sua volta soverchiante. In altri termini, chi detiene il Potere non è potente in sé, ma la sua potenza deriva dalla credenza che vi ripongono i subalterni. Sfatata infatti tale credenza, il Potere passa ad altri detentori: situazione impossibile nel regno naturale, dove gli dèi detengono il loro sacro potere in eterno e dall’eternità. Il Potere sociale, per quanto esercitabile in guisa divina entro i rapporti umani, non è ontologicamente necessario, ma solo logicamente, ossia conseguente alla fede nell’identità del suo esercizio con determinati uomini legittimati a possederlo. Il Potere sociale dipende dunque dalla fede di chi lo subisce nella legittima superiorità di chi lo esercita. Tale legittimazione, per quanto avallata dalle religioni storiche, non è propriamente sacra, e cioè inviolabile, perché, in quanto creazione umana della coscienza razionale, come ogni umana creazione, è 74


perfettibile. La perfettibilità nell’esercizio della ragione è il campo della filosofia e della sua attività logicamente metodica. Se la religione è la custode dei valori pubblici, cioè delle credenze ideali socializzate, la filosofia è l’esercizio logico della loro critica razionale. I filosofi, detentori del metodo di invalidazione della legittimazione razionale del Potere, sono i custodi della verità privata, rivali potenziali dei custodi della verità riconosciuta, e perciò socialmente pubblica. Essendo il Potere sociale legato alla sua legittimazione di fede razionale, criticare la ragione del Potere equivale a minarne l’esercizio politico. Da qui la diatriba di Socrate contro i sofisti asserviti al Potere, anziché alla verità, e la successiva condanna da parte del Potere minacciato dalla logica filosofante. E da qui, inoltre, la polemica di Gesù contro i farisei, custodi della Legge, e successiva condanna da parte del Potere che essi servivano. La insuperabile debolezza di un Potere idealmente legittimato dalla coscienza razionale dell’uomo è che i suoi fondamenti ideali possono essere criticati dalla stessa logica in virtù della quale esso è potuto sorgere. E proprio perché non originariamente sacro, ma razionalmente artificiale, quello stesso Potere è soggetto a revisione logica e a negazione pratica. E per esso, l’intero assetto sociale e la stessa civiltà che l’ha espresso. Ciò significa che la fine della costituzione logica del mondo asservito alla politica viene determinata nell’uomo da una rinnovata coscienza ontologica, fondata su altri presupposti di fede, che non possono più essere logicamente artificiali, ma costituiti da un criterio originariamente vero e perciò sacro, rivelato all’intelligenza umana e non creato dalla sua attività razionale volta al controllo della Natura. Il razionalismo, a partire da Socrate, criticando i fondamenti della fede comune della società, ha introdotto il controllo razionale del Potere da arte di una logica superiore a quella della tradizione, avente per oggetto, non la coesione sociale, ma la coerenza logica dei fondamenti che sostengono l’autorità del Potere. Tale coerenza logica dei costrutti razionali, fondanti la legittimità del Potere sociale, era indicata dalla filosofia come la «verità». La verità antica era un ideale che costituiva il modello razionale della realtà. Il modello razionale di realtà, e cioè la rappresentazione del mondo ideale, costituiva il paradigma dell’Essere della coscienza razionale, ossia la forma logicamente perfetta di Mito. L’analisi della critica filosofica verteva sempre sulla rielaborazione logica del Mito, ossia della rappresentazione ideale del mondo costruito dalla coscienza razionale dell’uomo. La filosofia, quale critica logica del Mito, si costituiva come la rappresentazione logica della sua narrazione razionale. La filosofia, quale rielaborazione del Mito, si costituì come l’attività distinguente, all’interno della rappresentazione 75


mitologica, l’elemento simbolico da quello logico, tale che il contenuto di senso della realtà venisse astratto dalle sue forme rappresentative. La distinzione tra contenuto ideale e rappresentazione formale della realtà assegnò al pensiero logico, cioè alla filosofia, la sfera del significato del mondo, e l’annessa ricerca del senso razionale dell’esistenza umana, mentre assegnò alla politica la costituzione e il controllo delle strutture formali del mondo. Assegnando a sé il ruolo di garante della ragione del mondo, la filosofia, se garantì la politica del suo ruolo funzionale al mantenimento dell’ordine socio-logico, esautorò di contro la religione dal suo ruolo di garante dei fondamenti ontologici della realtà, in quanto la critica logica del Mito a un tempo li coinvolgeva e li dava per acquisiti. Il rapporto preferenziale della filosofia con la politica aveva per presupposto la credenza che la realtà fenomenica potesse rispecchiarsi nella costruzione logica del mondo, non considerando che tale credenza costituisse il fondamento ontologico sul quale il mondo ideale, così come il suo rispecchiamento sociale, si poggiavano. In altri termini, la filosofia non tenne in considerazione che la sua critica alla rappresentazione religiosa del Mito avrebbe coinvolto inevitabilmente tanto i suoi contenuti che le sue forme rappresentative, sicché l’intento di screditare le forme religiose rappresentative del Mito e di salvarne i contenuti ideali, si rivelò una distruttiva illusione metafisica, che trascinò con sé anche la legittimazione razionale del Potere. A questo punto il Potere, senza più fondamenti onto-teologici e metafisici, dovette affidarsi alla sua sola funzione strumentale assolutizzata, ossia alla stessa forza efficiente della politica, che trasformò il suo originario scopo di riconoscimento sociale del privato da parte del Governo pubblico, nel fine del suo autonomo conseguimento. La nascita della «scienza» politica coincise con la fine del suo fondamento ontologico-religioso che sosteneva lo stesso pensiero filosofico, e quindi con la fine della stessa filosofia come rielaborazione del Mito. La fine del Mito religioso, portò con sé, con la fine della sua critica metafisica, anche la fine del Potere che lo rispecchiava socialmente, ossia il Governo. Pertanto il trionfo della politica, come fine autonomo da ogni riconoscimento di Governo, segna l’apoteosi della volontà assoluta di potenza, quale risvolto sociologico dell’emancipazione della scienza da ogni finalità metafisica e da ogni vincolo religioso. Lo Stato politico moderno, quale realtà sociologica del trionfo della ragion logica sulla mitologia religiosa, costituisce la rappresentazione scientificamente deformata della repubblica filosofica immaginata da Platone, non più sorretta da un fondamento epistemico di verità, ma 76


dalla sola legittimazione della forza che lo sostiene. Al posto del filosofo platonico la moderna repubblica politica ha posto il principe machiavelliano, la quintessenza del demiurgo sofistico, che, come il Leviatano di Hobbes, garantisce la pace sociale attribuendo a sé il Potere esclusivo di definirla attraverso l’eliminazione di ogni rivale politico concorrente. Con la fine del Governo metafisico e l’apoteosi conseguente dello Stato politico, si perviene anche alla fine di ogni politica. Lo Stato assolutistico e totalitario coincide infatti con la fine di ogni politica, ossia con la fine stessa della società politica, che costituiva la ragione stessa dell’esistenza dello Stato. Il processo critico della filosofia, in sé idealistica, che pone la logica al servizio della verità intesa come Idea, astraendo con la sua rappresentazione unitaria della realtà ontica dalla concreta esistenza umana, non ha eliminato dalla molteplice realtà storica le sue reali contraddizioni, ma ha costruito un astratto mondo parallelo a quello concreto, la società razionale dello Stato politico, che è crollato all’urto della verifica esistenziale, smentito tragicamente nelle sue pretese assolute al pari della confutazione empirica di ogni astratta teoria scientifica da parte della concreta realtà fenomenica. La fine della metafisica idealistica, cioè del pensiero essenziale dell’Occidente, è storicamente ostacolata nelle sue concrete conseguenze sociologiche ed esistenziali, dalla sopravvivenza empirica dell’astratto modello residuale di società politica, quello della democrazia capitalistica. Il modello capitalistico è una specie del genere democratico, quella che ha trasferito la rappresentazione idealmente unitaria del mondo della coscienza razionale dell’homo sapiens classico, dallo Stato politico garante dell’unità logica della società, alle unità molteplici della società stessa, costituita secondo il modello personalistico cristiano, facendo di ogni singola volontà personale dei membri sociali la depositaria politica della coscienza razionale, chiamata sovranità. Ogni membro sociale è sovrano dell’ordine politico comune, e come tale titolare giuridico e depositario individuale della propria coscienza razionale del mondo, che ogni altro membro sociale è tenuto, a pari titolo, a riconoscere come legittima entro lo Stato di diritto. Sicché ogni persona sociale è il microcosmo della società ideale stessa, secondo il modello razionale di coscienza politica universale. Ed essendo ogni singola persona titolare degli stessi diritti sociali e della stessa sovranità politica, il Potere sociale ne è una derivazione rappresentativa plebiscitaria, decretata secondo formali modalità legali periodicamente verificate. La rappresentanza della sovranità dei suoi ideali detentori singolari da parte dei suoi reali esercenti minoritari, presuppone quella 77


corrispondenza logica tra realtà molteplice e unità ideale che sta alla base del Mito idealistico del mondo razionale. Presuppone, cioè, la credenza ontologica che l’Essere (sociale) sia un’Idea (politica). E su tale credenza fideistica si fonda il Mito della società democratica, di cui quella capitalistica è la versione rielaborata dal razionalismo personalistico cristiano.75 Per comprendere il rapporto tra cristianesimo e filosofia idealistica, bisogna partire dal rapporto tra fede e ragione. La fede è l’atteggiamento di conoscenza che può fondare il conoscere (fede religiosa) o può fondarsi sul conoscere (fede filosofica). Come ha ben affermato Fabro, la fede « ha per oggetto la convinzione del reale e il conoscere ha per oggetto il contenuto ovvero la struttura del reale nel suo presentarsi alle rispettive facoltà apprensive. Così, mentre l’oggetto della fede tocca la sfera esistenziale, l’oggetto del conoscere puro – senso o intelletto che

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Col superamento rivoluzionario, che si determina con la costituzione del 1791, della rappresentanza delle particolari libertates, il rappresentante non rappresenta più, come in passato, uno stato particolare, ma, attraverso l’elezione-autorizzazione, l’unità dello Stato nazionale, ossia la volontà generale dell’intero corpo politico della nazione. Il concetto politico moderno che tende a “rendere presente ciò che è, per sua natura, assente”, secondo l’efficace definizione di C. Schmitt, si riferisce alla natura ideale, e non empirica, della sovranità, e quindi obbedisce alla logica esclusivista che circoscrive l’agire rappresentativo solamente a chi esercita il potere, e non comprende la prassi di tutti coloro che nominalmente detengono la sovranità. Se il concetto di rappresentanza si legittima sul rispecchiamento dell’unità ideale nella molteplicità esistenziale, in realtà la teorica identità di comandante (che fa le leggi) e comandati (che ubbidiscono) non è altro che una ideologica e mistificante identificazione tra popolo sovrano e suoi rappresentanti. Con questa aporia, cade la pretesa di Hobbes di costituire una scienza politica basata sulla razionalità formale (Leviathan, capp. XVI e XVII). Sul tema, ved. G. Duso, La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Milano, 2003, che si rifà allo studio organico di H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Milano, 2007. In ultimo di D. Duso, Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 41, Milano, 2012, pagg. 947. E’ appena il caso di aggiungere che l’identità tra il sovrano rappresentante dell’ideale corpo collettivo e la moltitudine empirica di quest’ultimo, prende a modello la rappresentanza divina della Chiesa istituzionale, che fa coincidere l’unità del potere ecclesiastico col corpo mistico dei molteplici e varii fedeli, astratti dalla loro storia spirituale come i singoli cittadini dalla loro concreta realtà esistenziale. Su questo ved. C. Schmitt, Politische Theologie (1922), tr. it., in Le categorie del politico, Bologna, 1972.

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sia – appartiene alla sfera formale».76 Da ciò consegue che l’attività che conosce il reale deve presupporre la fede nella sua esistenza, ovvero che l’attività teoretica del pensiero filosofico è successiva alla credenza della esistenza della realtà, la cui fede ontologica dunque precede la definizione della sua essenza ideale. Il rapporto tra fede ontologica nella esistenza della realtà, ed elaborazione razionale della sua essenza ideale, è di indipendenza della fede dalla filosofia, e di dipendenza della filosofia dalla fede. L’universo di senso razionale che comprende i due momenti della fede e della conoscenza è costituito pertanto rispettivamente dalla coscienza religiosa, che afferma il reale, e dalla coscienza logica, che lo elabora idealmente. Il razionalismo, ossia la visione idealistica dell’Essere, assolutizza l’oggetto della coscienza logica, sostenendo che i suoi contenuti costituiscano la vera realtà, ovvero che reale sia esclusivamente l’oggetto della conoscenza logica. Il sapere logico, la filosofia, trascrivendo i contenuti di realtà oggetto della sua conoscenza, in termini razionalmente coerenti ai suoi fondamenti di sapere, elimina dal suo livello di coscienza teoretica gli elementi logicamente incoerenti, ricodificando l’unità razionale del mondo in una forma sistematica. Questa unità logica del mondo, rispetto alla molteplice e contraddittoria realtà esistenziale, viene affermata dalla filosofia come la vera realtà, la realtà ideale, rispetto a quella apparente della esistenza fenomenica. Le due realtà, quella vera della filosofia e quella apparente dell’esistenza comune, costituiscono la stessa realtà dell’universo di senso razionale, determinata da due distinti livelli di coscienza, rispettivamente quello ontologico e quello storico. Ciò vuol dire che la coscienza unitaria che considera le distinzioni interne allo stesso universo di senso non può costituirsi in ragione esclusiva di uno dei due livelli di coscienza, ma deve contemplarli entrambi da un punto di coscienza ad essi superiore. Questo livello di coscienza unitario, superiore e inclusivo dei due livelli di coscienza ontologico e storico, è il livello della coscienza intuitiva, la quale presiede l’universo di senso simbolico inclusivo dei due distinti livelli di coscienza religiosa e filosofica. Inoltre, vuol dire che ognuno dei distinti livelli di coscienza inclusi nell’universo simbolico, si implicano reciprocamente in senso dialettico, per cui ogni rispettivo elemento di coscienza che non-è coerente coi propri presupposti razionali, inerisce all’essere della coscienza dell’altro livello dell’unità simbolica dell’Essere, tale che l’orizzonte di coscienza simbolico sia costituito unitariamente e

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C. Fabro, Dall’essere all’esistente, Brescia, 1965 2, pag. 485.

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dialetticamente dall’essere dell’uno dei due livelli di coscienza, e dal non essere dell’altro livello, reciprocamente, tale da costituire una totalità. L’implicazione reciprocamente dialettica dei due momenti della unitaria coscienza simbolica comporta che ognuno dei due livelli di coscienza del comune universo di senso simbolico sia inclusivo dell’altro livello di coscienza dialettico, e non già esclusivo. Per cui ogni determinazione di coscienza costitutiva di un pensiero esclusivo dell’altro livello di coscienza, nega l’unitarietà del senso simbolico dell’Essere, per affermare una astratta unità di senso relativo, costituita da un pensiero che universalizza in senso esclusivo i dati di realtà di uno dei due possibili livelli di coscienza della concreta unità simbolica. L’universalizzazione dei dati di coscienza del livello fideistico genera un pensiero mito-logico, mentre, a sua volta, l’universalizzazione dei dati della coscienza razionale genera un pensiero ideo-logico. Una fede ontologica, priva di elaborazione razionale dei suoi contenuti simbolici, è mitologica. Parimenti, una coscienza razionale, priva di fondamenti ontologici, ossia della fede nell’esistenza dell’Essere, è una ideologia, quella appunto che nella storia della civiltà occidentale è stata il razionalismo nato dall’idealismo platonico. Sia la mitologia fideistica che l’ideologia razionalistica si costituiscono attraverso una interna logica esclusivistica, che trasforma il rispettivo livello di coscienza in un universo sistemico, strutturato secondo un logos dialettico che costituisce il proprio relativo dato di coscienza sottoforma di universale principio di realtà, la categoria, costitutiva di una astratta unità logica creduta essere di natura ontologica, e quindi oggetto di una erronea, cioè irrazionale, credenza di fede, ossia di superstizione metafisica. Asserire, per un verso, che il dato di esistenza sia lo stesso principio razionale della realtà, è credenza altrettanto superstiziosa di quella che asserisce, d’altro canto, che non il dato esistenziale, ma bensì quello ideale del pensiero logico sia l’unico razionale fondamento di realtà universale. E pertanto, sia il naturalismo greco che il deismo ebraico sono entrambi pensieri astratti rispetto alla coscienza simbolica dell’Essere. Tali astratti pensieri dell’Essere, per la loro rispettiva logica esclusiva, negano ciò che non affermano, ritenendo il non-essere sé, cioè l’altro, un niente. La loro relativa ontologia si fonda dunque sul Nulla, che costituisce lo sfondo originario indeterminato dal quale emerge la realtà del loro astratto essere determinato. Ma l’Essere indeterminato non è, come invece crede l’astratto pensiero della coscienza mitologica e ideologica, il Nulla, il Negativo rispetto alla determinazione e alla realtà dell’ente quale prodotto della determinazione logica. L’Essere in-determinato è il Tutto, rispetto al 80


quale ogni determinazione è negazione, che astrae dal Tutto la determinazione razionale, espressa nel giudizio logico, che forma l’ente. Il mondo onto-logico, ossia l’unità degli enti ottenuta attraverso la mediazione del giudizio logico, è una realtà astratta dal Tutto, rispetto al quale è Nulla. Il cosmo razionalistico è un cosmo negativo perché esclusivo di ciò che non-è razionale e che pur fa parte del Tutto. Ciò che non-è-razionale ma fa parte del Tutto è l’in-forme, ossia quanto non è compreso nel giudizio di realtà espresso dalla logica, l’incategoriale. L’in-categoriale è il negativo-relativo all’essere del giudizio logico-categoriale. L’essere logico-categoriale è l’essere dell’Idea, cioè l’essere razionale (essentia). L’ente determinato dal giudizio razionale è l’ente esistente (exstentia). L’opposizione tra essentia ed existentia è puramente logica, ma non è reale-concreta, in quanto l’essenza è la proiezione ideale dell’esistenza e l’esistenza la realtà fenomenica dell’essenza o Idea. La distinzione ideale, dunque, non ha alcun carattere di necessità fuori della sfera teoretica, ossia delle relazioni astratte dalla concretezza della complessa realtà fenomenica, rispetto alla cui complessità la realtà della rappresentazione logica costituisce una dimensione ontologicamente semplificata dell’Essere totale; una rappresentazione della realtà priva di contraddizioni, ossia dell’elemento dialetticamente negativo, che è invece parte costitutiva integrante della rappresentazione simbolica della realtà, che è quella del Mito. Per il suo carattere non necessario, ma semplicemente ideale, la distinzione logica, trasferita sul piano dei rapporti sociali, viene determinata imperativamente dalla volontà politica attraverso le istituzioni giuridiche. Ogni istituzione di governo sociale, così come ogni interpretazione logica convenzionale, costituisce una affermazione di senso razionale secondo la logica politica; è cioè un atto imperativo di volontà che si impone su altre volontà concorrenti. Tale affermazione di volontà, socialmente rilevante in quanto di valenza pubblica, è un atto politico di distinzione logica, tra ciò che della realtà complessa appartiene al sistema razionale logicamente costituito, e quanto gli è estraneo. Fuori del suo ambito pubblicistico, la convenzione ideale perde il suo carattere deontologico, e così la sua valenza assiologia, confermata politicamente e perciò socialmente custodita come interpretazione «vera». La filosofia si costituisce sulla critica di tale presunto carattere veritativo dell’opinione pubblica politicamente garantita, rispetto alla quale essa è opinione privata. Tale opinione filosofica, nell’atto di volersi costituire come opinione di valenza pubblica, deve assumere carattere di volontà politica, trasformandosi in ideologia, cioè in rappresentazione non più soltanto ideale ma anche 81


sociale del mondo. La socialità è la dimensione reale del politico, sicché ogni determinazione sociale dell’interpretazione logica deve rivestire un carattere politico, per il quale la distinzione del giudizio logico di realtà si trasforma in esclusione sociale del nemico politico. La coscienza razionale, assumendo il metodo logico-dialettico quale esclusivo criterio determinativo di senso della realtà, assume necessariamente anche la logica politica quale principio razionale di realtà sociale. Il regno di Cesare è dominato dalla logica politica in quanto strutturato sul fondamento di realtà logicamente pensato. Tale fondamento afferma che l’Essere è, ossia che il senso razionale del suo essere, ossia la sua essenza ideale, risieda nella sua stessa esistenza. L’esistenza dell’Essere costituisce pertanto il criterio ontologico incontrovertibile di verità dell’Essere ideale stesso, e su quel fondamento si origina ogni critica filosofica di senso logico. In tal senso, la logica filosofica che pensa l’Essere non può che avere per suo oggetto l’esistenza, e pertanto l’essenza razionale dell’esistenza non può che essere ideale, ossia la rappresentazione essenziale dell’esistenza non può che essere un’Idea dell’esistente, un’esistente (logicamente) idealizzato, esclusivo di ogni altra esistenza, cioè di ogni altro modo di pensare la realtà dell’Essere (che non sia quello logico). Il modo logico di pensare l’Essere sociale è quello politico, che ha per criterio razionale metodico l’esclusione del nemico, proiezione sociale del non-essere della distinzione logica. Il giudizio dialettico (il concetto) e il giudizio politico (la decisione) costituiscono le due modalità di pensiero e di azione razionali interne all’universo di senso logico della coscienza razionale dell’uomo secondo il modello antropologico idealistico. Poiché questo ideal-tipo idealistico d’uomo non è quello concreto della realtà esistenziale, ma è quello appunto ideale della visione antropologica razionalistica, esso va costruito secondo un criterio di selezione socio-culturale fondato su scelte politiche di indirizzo istituzionale prescrittive di senso assiologico pubblico. La coscienza razionale, adottando il metodo della logica dialettica, diventa razionalismo, ossia coscienza esclusiva di ogni altro piano di coscienza, e quindi uni-verso di coscienza assoluta. La coscienza razionale, universalizzando il proprio livello di coscienza a esclusione di ogni altro, assume la propria prospettiva logica come l’unica valida e vera, ossia come un universo ideale-reale auto-fondato e autogiustificato dalla propria possibilità d’essere ciò che si rappresenta. La potenza informatrice di realtà del pensiero idealistico sostituisce la conoscenza della realtà, facendo della coscienza razionale dell’uomo il luogo della formazione del mondo ideale, della potenza politica lo strumento razionale della formazione del mondo sociale, e della potenza 82


economica lo strumento razionale di dominio della Natura. La coscienza di sé dell’uomo razionale, è la coscienza logica, la quale si determina escludendo metodicamente dalla realtà ideale quella realtà esistenziale non razionalmente omologabile, o sopprimendola come negativo logico e nemico politico, o trasformandola e assimilandola al proprio Sé. Sul piano dei rapporti sociali, il razionalismo politico che adotta il metodo della logica, sopprime ogni alterità a vantaggio della sola realtà affermata dal giudizio. Il razionalismo che invece adotta il metodo del criterio omologante, non sopprime l’alterità logica, ma la trasforma in proprietà metodica, deprivandola di ogni significato simbolico e rendendola astratta realtà, priva di ogni intrinseco valore originario. Nel primo caso, il razionalismo politico produce il sistema democratico totalitario, in cui l’altro non ha diritto di esistenza in quanto negativo dell’essere idealmente pensato. Nel secondo caso, il razionalismo politico produce il sistema democratico liberale, in cui l’altro rispetto al modello ideale viene trasvalutato in realtà razionalmente compatibile, deprivandolo di ogni originario significato proprio. La riduzione razionalistica dell’uomo concreto in essere socialmente compatibile, è l’uomo economico, esclusivamente produttore e consumatore. L’uomo esistenziale è appunto l’essere biologico in lotta con la Natura per affermare la propria sussistenza, e in lotta con gli altri simili per affermare la propria esistenza sociale. In ogni caso, la realtà razionale di un tale uomo è quella di un essere in lotta per la sopravvivenza contro le opposte tendenze naturali e sociali. E’ la Guerra la dimensione esistenziale dell’uomo razionale pensato dall’idealismo: con la Natura, con gli altri uomini, con Dio. L’uomo razionalistico rappresenta l’essere possibile che lotta contro la realtà del Mito, più reale dell’Idea perché più originaria e comprensiva. A partire dal tempo. Il possibile e il reale non coincidono se non nell’attualità. Attuale è la realtà non solo possibile ma anche contingente. Contingente vuol dire non necessaria, per cui la realtà possibile è solo quella non necessaria, cioè quella realtà che potrebbe anche non essere ciò che attualmente è senza smettere di essere reale. La realtà possibile è quella che non si definisce con la sua attualità storica, ma rimane in-definita nella sua storicità. Possibilità e storicità sono i caratteri della realtà pensata dalla coscienza razionale dell’uomo. Dio è l’infinita possibilità, e quindi la possibile storicità, e non già il solo infinito attuale, come lo storicismo concepisce la Storia. La storicità è la storia possibile, non la storia attuale. La possibilità elimina dalla storia il concetto di necessità, ossia di determinazione causale, affermando la natura simbolica della realtà, comprensiva non soltanto dell’essere attuale ma anche dell’essere possibile, che rispetto al primo 83


non-è ma che tuttavia è come – e a volte più che - il primo, reale. La realtà possibile è la realtà altra. La possibilità richiama l’alterità, e questa l’eteronomia. La legge autonoma proviene dall’essere-che-è, determinandosi in virtù della sua relazione attuale, cioè causale. La legge eteronoma deriva dalla realtà possibile, la quale, in quanto indeterminata, è sempre riferibile all’altro da sé. L’altro indeterminato e infinitamente possibile è Dio, il quale, proprio per la sua natura infinitamente possibile, è mistero. Il mistero è la stessa possibilità non determinabile in compiuta e definita attualità, ossia in realtà storica. Il mistero è la infinita possibilità della storicità, ossia l’altro di ogni attualità storica. La realtà storica, escludendo l’altro, è imperfetta, ossia aperta alla possibilità. Ciò vuol dire che la realtà del creato, la creazione, solo in parte è compresa nella realtà storica, la quale pertanto è inficiata dalla mancanza di compiutezza, ossia dal Male. Il Male è ciò che manca alla realtà storica per essere la realtà possibile. Ciò che manca alla realtà attuale è l’altro, ossia la sua possibilità, che è la compiutezza del Bene. Da ciò la retta teoria agostiniana del Male quale privatio boni. La mancanza d’altro spinge la storia a divenire, a divenire appunto altro da ciò che è. L’insufficienza dell’attualità viene compensata dalla relazione, con la Natura, con gli altri uomini, con Dio. La natura relazionale dell’esistenza nell’uomo si manifesta nella sua socialità pratica e trascendenza teoretica. La relazione dell’uomo con la Natura determina i rapporti economici. La relazione dell’uomo con gli altri uomini determina i rapporti politici. La relazione dell’uomo con Dio determina i rapporti morali. Il fondamento ontologico unitario di ogni relazione intrattenuta dall’uomo costituisce l’intuizione mistica dell’Uno, da cui origina ogni molteplice alterità. La oggettivazione razionale della realtà molteplice costituisce il contenuto della conoscenza logica della realtà, che è quella delle scienze, le quali operano eliminando dall’esperienza reale ogni valore simbolico, ossia la essenza mitica, che ne determina il cambiamento, ossia ne costituisce il processo in divenire. Dalla esclusione dalla realtà del suo divenire, l’oggettivazione scientifica fa emergere il solo dato ideale, la cui rappresentazione è l’esistenza attuale destoricizzata, e quindi astratta dalla sua complessità concreta. Se l’Idea è il modello astratto di realtà esistenziale priva del suo divenire, cioè del negativo non-essere rispetto all’essere affermato come esclusivamente reale, il mondo propugnato dalla visione politica idealistica è una realtà non-esistente, ma astrattamente ideale, sicché tanto l’Idea che la sua proiezione mondana sono, rispetto alla concreta realtà dell’Essere, entità negative, le quali non esistono realmente, cioè come dati dell’esperienza fenomenica, ma sono modelli ideali di realtà, 84


proiezioni ideologiche mito-poietiche che assumono come vero modello di realtà ontologica una essenza ideale di realtà condenda, che non esiste se non logicamente. Il mondo ideale è una dimensione metafisica, e perciò meta-esistenziale, puramente ipotetica. Su questa ipotesi di realtà si fonda ogni teoria scientifica del mondo. Il presunto realismo moderno che ha eliminato la differenza tra essenza ed esistenza, in realtà ha unificato due realtà negative rispetto all’Essere totale, le quali in riferimento al Tutto sono originariamente possibili, e quindi uguali. Uguali, nel loro non-essere sé ma l’idea di sé, la loro rappresentazione razionale La razionalizzazione del mondo coincide con la nientificazione dell’Essere, col nichilismo razionalistico, che definisce l’infinito escludendovi l’in-categoriale, ciò che si oppone all’Idea. Poiché l’Idea è la forma astratta dell’ente idealizzato, ciò che si oppone all’Idea è il divenire reale dell’essere, ossia la Possibilità di essere dell’Essere totale. La razionalizzazione del mondo coincide dunque con l’eliminazione della Possibilità dell’Essere di essere anche ciò che nonè secondo la determinazione razionale. La razionalizzazione del mondo coincide inoltre con l’idealizzazione dell’Essere, ossia con l’esclusione del movimento della Possibilità dalla realtà determinata secondo ragione, cioè conformemente al modello ideale di ente fenomenico. Essendo la Possibilità la libertà dell’Essere totale di essere ciò che non è attuale secondo il giudizio razionale, l’idealizzazione della realtà coincide con l’esclusione della libertà dall’Essere. Il sistema di esclusione razionalizzata coincide con l’affermazione del Negativo come esclusiva realtà dell’essere. L’affermazione del Negativo a esclusione di ogni altra possibilità d’essere, è il totalitarismo nichilistico del razionalismo sistematico universale o scientismo. Il giudizio razionale, cioè la determinazione d’essere, distinguendo ciò che è da ciò che non-è razionale secondo l’Idea, introduce nel Tutto il movimento, con il quale, con la distinzione logica, astrae l’ideale dal concreto, negando in teoria quel divenire che invece afferma sul piano pratico, dove la decisione politica combatte la complessità della vita sociale concreta cercando di rimuovere da essa gli elementi irrazionali emergenti e giudicati sistemicamente allotrii. Il prodotto pratico del razionalismo idealistico è dunque specularmente opposto all’ideale teorico, confermando sul piano esistenziale la contraddittorietà dell’astratto pensiero razionalistico dell’Essere. Il movimento dell’Essere, come distinzione dell’Idea dall’in-categoriale o divenire, è tensione negativa. Il giudizio logico introduce pertanto nel Tutto il negativo della distinzione, che si oppone al distinto come l’essere determinato all’essere indeterminato. 85


L’essere indeterminato è il negativo dell’essere determinato, cioè il suo opposto logico, ma l’essere indeterminato non è il negativo dell’Essere totale. L’essere indeterminato è lo stesso Essere totale come Possibilità, ossia nel suo divenire. L’essere indeterminato è la Possibilità, o il divenire, dell’Essere totale, che il giudizio razionale ha escluso dall’Idea di realtà da esso determinata. Il giudizio logico, escludendo dalla Totalità la Possibilità o divenire, rappresenta dell’Essere la sua immagine astratta appunto dal divenire, indicandola come essenza razionale. Tale essenza, rispetto al Tutto e alla sua concretezza ontologica, è una rappresentazione dell’Essere negativa e astratta, ideale e non concreta, la quale, rispetto all’Essere totale unitario e indeterminato, è una rappresentazione umanisticamente finita, omologata al Sé della coscienza antropologica. La rappresentazione umanistica della realtà è una rappresentazione universalistica dell’Essere razionale, inteso come ordine categoriale eterno, privo di divenire e perciò ideale. La visione idealistica del mondo rappresenta una realtà umanisticamente esclusiva di ogni divenire, e cioè di ogni possibilità di sviluppo antropologico in senso non naturalistico. L’umanizzazione della realtà dell’Essere coincide con la volontà idealistica di costruire un cosmo razionale sottratto al divenire e conforme al modello mitico fondativo dell’antropologia razionalistica. Ma poiché il divenire è determinato dal giudizio razionale, la razionalizzazione del mondo coincide con l’opposizione dell’Idea a se stessa, alla sua stessa rappresentazione ideale. Sconfiggere il divenire rappresentando un mondo razionalmente ideale, e quindi eterno nella sua esclusione del divenire, equivale a negare la distinzione attraverso l’opposizione. Il destino del nichilismo idealistico è di negare se stesso attraverso l’affermazione del suo essere negativo. Quanto più il negativo si afferma sul Tutto, tanto più si afferma la sua essenza negativa, la sua astratta rappresentazione della realtà. La quale rappresentazione, proprio perché astratta dal Tutto, lo richiama come altro-da-sé, come il totalmente altro rispetto all’esistente, che è la realtà di Dio. L’opposizione dell’essere (ideale) e del non-essere (niente) è interna al concetto razionale, e quindi alla negazione dell’Essere totale. La supposta concretezza dell’essere reale secondo l’Idea, è in realtà la concretezza del negativo reale rispetto al negativo ideale. Tale concretezza del Negativo è la realtà del finito, la finitezza delimitata dallo spazio (natura) e dal tempo (storia). Inoltre, la stessa concretezza è la realtà umana astratta dal Tutto in cui è compresa, cioè astratta dall’Infinita realtà di Dio, che è l’unità originaria dell’Essere totale 86


anteriore a ogni umanistica distinzione razionalistica. La rappresentazione che Aristotele dà nel De anima del ς come il Niente che può diventare Tutto,77 caratterizza il Lògos del pensiero greco come realtà attuale esclusiva di ogni possibilità, ossia come Idea. La idealizzazione della realtà come processo universale di pensare l’Essere privo del divenire ha inizio col razionalismo greco, il quale pensa l’Essere come Idea, ossia come una immagine (ς) della realtà priva del divenire. Pensando l’Idea come Tutto, il pensiero razionalistico greco è essenzialmente un pensiero negativo, che consiste nella volontà di sostituire l’esserci dell’uomo all’esistenza concreta. In cosa consiste il progetto d’essere dell’esserci, la sua progettualità, la sua Possibilità? Progettarsi è inserirsi nel divenire come volontà razionalizzante. Il Divenire va inteso come il mutamento della forma dell’Essere a opera dell’uomo, in concorrenza o in opposizione alla volontà della Natura. La forma dell’Essere, conseguente all’intervento dell’uomo sulla materia informe, in quanto volontà che modifica la natura, come tale è caduca, transeunte. La materia è informe non in quanto, come fenomeno, non presenti delle fisionomie di forme somiglianti a qualcosa d’altro da sé, ma esse sono, appunto, fisionomie, somiglianze, non vere forme, prodotte da una volontà. La dynamis della Natura non è una vera volontà, perché essa agisce a caso e prevedibilmente secondo le sue necessarie premesse; vera volontà, libera di determinarsi secondo un progetto, è solo quella umana, che destina la materia a un progetto razionale, a un télos, che, trasformando la materia, la libera dalla sua eterna necessità di essere ciò che è. Proprio tale sua intima necessità destina la materia alla alterazione, anziché a un vero cambiamento, per cui in natura tutto si altera restando lo stesso. E poiché ciò che rimane è eterno, solo ciò che muta e si trasforma cade nel tempo. E ciò che muta è la forma dell’Essere naturalistico, non già l’Essere stesso, cioè la natura. La trasformazione dell’Essere nella forma ideale della volontà umana, inscrive l’Essere nel tempo, configurando la durata del prodotto umanizzato. E’ la forma che cambia e diviene. Il divenire non va inteso dunque come l’alterazione della materia naturale, ma come l’opposizione tra questa alterazione e le trasformazioni impresse dall’uomo alla materia. Qual è il senso delle trasformazioni della materia a opera dell’uomo? L’uomo attraverso la forma dell’Essere intende affermare la sua

“L’anima è in qualche maniera tutte le cose”: Aristotele, Dell’anima, III (), 8, 431 b, 21, tr. it. di R. Laurenti, in Opere, cit., vol. II, pag. 545. 77

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volontà. Tale volontà non persegue il disegno spontaneo della Natura come nelle altre specie viventi, ma lo modifica secondo un progetto razionale della coscienza immaginativa dell’uomo, dovuta alla sua antropologica incompiutezza o non specializzazione biologica. L’Essere eterno, ciò che non muta ma solo si modifica, per il pensiero naturalistico greco è la Materia. Ciò che si oppone all’unità indistinta dell’essere materiale o Natura, è il Lògos umano o Spirito. Lo spirito è ciò che informa l’Essere di un fine razionale, umanizzando la Natura. Le forme spirituali che si strutturano come volontà derivate intorno a una intuizione fondamentale della vita, costituiscono le culture umane nella Storia, intesa come processo razionale dell’esistenza umana interno al suo universo di senso mitico. Le forme apparenti dell’esperienza umana sono espressione del suo essere razionale, ossia dell’idea che progetta la sua esistenza mondana. Non esiste un fenomeno umano che non sia espressione di una volontà che lo pone in essere così come appare, per cui le forme in cui si realizza l’esperienza umana sono le manifestazioni della sua volontà d’essere ciò che è. Per il pensiero greco, la realtà pensata secondo il Lògos è il cosmo distinto dalla Natura, e quindi spiritualmente opposto al divenire naturale. Essendo la Natura una realtà intrascendibile nella sua finitezza, anche l’ordine della Natura coincide con l’ordine razionale dell’uomo, il quale, ricercandone le leggi, torna inconsapevolmente alla sua condizione naturale originaria. In cosa consiste allora la distinzione della esistenza umana rispetto al resto della Natura? Consiste nella coscienza che l’uomo ha del Lògos, e quindi della sua stessa condizione esistenziale, della sua ontologica finitezza. Il movimento operato all’interno della realtà idealisticamente pensata, è quello dell’esperienza umana nel tempo, la Storia, intesa come affermazione dell’essere-che-è entro l’Essere del Tutto o Natura. Il pensiero cristiano, pensando l’Essere come Spirito anziché come Natura, pone la realtà naturale come già spiritualizzata, in quanto realtà non originaria ma creata da Dio. Nella nuova prospettiva spiritualistica, la determinazione della realtà idealmente pensata equivale all’affermazione della distinta parte rispetto alla realtà eterna del Tutto. Il Tutto cristiano non è però la Natura, ma Dio, per cui il riduzionismo idealistico della cultura greca è una rappresentazione astratta e non veritiera dell’Essere, il quale, pensato come Natura anziché spiritualisticamente come Dio, è pensato come finito, come realtà immanente, ontica. La trascendenza dall’ente all’Idea, ossia dall’oggetto del pensiero al pensiero, è comunque interna alla realtà finita, che è intrascendibile e 88


solo modificabile. Il movimento che dall’ente passa all’Idea e viceversa è il movimento interno alla realtà finita, ossia all’essere negativo dell’astratto pensiero idealistico greco, che non pensa il Tutto ma soltanto l’astratta opposizione dell’Idea all’ente. Il pensiero greco non pensa l’infinità dell’Uno ma il divenire del Molteplice finito. Come ogni pensiero astratto, l’idealismo crede di pensare l’eterna immagine dell’Essere privo di divenire, e quindi Uno, e invece pensa la realtà del Molteplice, ossia la finitezza di quel divenire che l’Idea voleva eliminare dalla realtà umana. Solo all’interno della astratta realtà finita, la realtà dell’Idea (verum) si converte nella realtà dell’ente (factum), ma la loro identità è solo astratta, e quindi tautologica e interna al pensiero, che concepisce appunto la verità come corrispondenza dell’Idea col suo prodotto. Nella concreta realtà del Tutto, il prodotto ideale è soltanto l’espressione della volontà umana di distinguersi dal resto dell’Essere e di affermare tale realtà distinta come l’unica e vera realtà totale. L’umanizzazione idealistica dell’Essere è la sua trasformazione in cosmo razionale, in prodotto umano. All’antico idolo della Natura, l’idealismo moderno ha sostituito l’idolo dell’Uomo; al naturalismo, l’umanesimo. Ma i due idoli sono coincidenti quali diverse articolazioni mito-logiche dell’unico pensiero dialettico del finito. 5. Il fondamento teoretico-scientifico comune a tutte le scienze è metafisico, per cui anche il loro rapporto è originariamente e costitutivamente di carattere metafisico. Anzi la stessa «molteplicità delle scienze deve dedursi proprio da questo unico principio unitario, posto dalla metafisica», per cui anche il problema del loro rapporto »non è quello di un nesso e di una posizione accidentale di rapporti rispetto alla loro costituzione specifica, ma quello della loro unità derivante da un identico principio metafisico».78 L’indagine scientifica, per il suo carattere metafisico, coinvolge la scienza anche come attività umana, per cui essa è sempre un’indagine «sulla natura dell’uomo». Cogliere una scienza nel suo principio significa dunque non considerarla soltanto un «sistema» coerente di «affermazioni, in sé valide», ma, in quanto «proprietà specifica dell’essere umano», metterla in relazione con l’esistenza umana. Infatti, «una definizione teoretica dell’uomo è sempre necessariamente anche una decisione preliminare circa il modo in cui egli deve agire esistenzialmente». 79 In riferimento al discorso filosofico circa la rivelazione di Dio, non ci

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K. Rahner, Hoerer des Wortes (1941), tr. it., Brescia, 2006, pag. 31. Da ora HdW. Ivi, pag. 32.

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può essere alcuna giustificazione scientifica della parola di Dio, poiché «non si può provare la realtà, la necessità o l’intima natura della rivelazione di Dio partendo dall’uomo», e quindi la questione teoretica va circoscritta alla sola «capacità di ascolto di una eventuale rivelazione divina»80 da parte dell’uomo quale potenziale teologo. Ed è tale «idoneità» all’ascolto della parola divina a costituire il fondamento dell’essere umano e a sviluppare «in pieno la sua essenza». 81 La rivelazione di Dio, quale «fenomeno storico», ha una sua irripetibile avvenimenzialità che «non si può riscontrare a proprio piacere sempre e dovunque», mentre l’oggetto filosofico della religione è «meta-storico» e non relativo a nessuna determinazione temporale, in quanto la filosofia della religione che lo analizza è, come sappiamo, «una metafisica», ossia riguarda «il problema della natura dell’ente in quanto tale, il problema del significato dell’essere».82 La relazione tra l’evento teologico e l’evento dell’ascolto non è pertanto di natura temporale, ma anch’essa metafisica, in quanto l’evento dell’ascolto è legato all’eventualità dell’evento rivelativo, cioè alla sola possibilità della sua esistenza. Ciò fa della condizione divina una realtà libera di determinarsi come rivelazione all’uomo, e della condizione umana una realtà di attesa della parola, che fa dell’uomo «un essere essenzialmente storico, che deve stare in ascolto di un’eventuale rivelazione di Dio». 83 Una rivelazione «storica». La storicità come attesa dell’evento, è per l’uomo una condizione esistenziale aleatoria, segnata dal nascondimento di Dio, sul quale non si può fondare alcuna certezza della Sua assenza, né della Sua presenza. Una condizione negativa che, in relazione alla positività dell’eventuale evento rivelativo, fa della Storia il luogo della possibilità vuota di attualità. D’altro canto, la storicità positiva della rivelazione fa dell’evento la compiutezza dell’attesa, la sua negazione dialettica, che rende a posteriori l’attesa umana libera di votarsi al fine dell’ascolto. Questo doppio registro di una storia che è in attesa di farsi ascolto, e di una storia che nell’ascolto rende ragione dell’attesa, caratterizza il processo storico dell’esistenza umana come il luogo della sospesa temporalità, ossia della assoluta possibilità. Una possibilità che è «assoluta» non solo in quanto legata alla libertà di Dio di rivelarsi nell’evento storico, ma anche in quanto trascendente l’attualità del divenire-altro-da-sé proprio degli eventi mondani. Questa possibilità trascendente legata all’evento della rivelazione di Dio, 80

Ivi, pag. 35. Ivi, pag. 37. 82 Ivi, pagg. 39 e 61. 83 Ivi, pag. 41. 81

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trascende la storicità dell’attesa e si manifesta nell’attualità della storia compiuta, che perciò è evento di eternità. L’attesa, in tal senso, non è l’attesa dell’attualità del divenire presente di ciò che non lo era, in quanto possibile, ma è l’attesa di ciò che, rivelandosi all’uomo, trascende nella sua libertà ogni attesa e ogni attualità del divenire storico, per manifestarsi come evento assoluto ed eterno, storico in quanto evento temporale, e meta-storico perché libero da ogni contingenza esperienziale e da ogni necessità trascendentale. Dio non è vincolato alla parola, come invece l’uomo all’ascolto, per cui, Egli è libero di manifestarsi laddove l’uomo costituisce il suo essere nell’attesa della manifestazione, ossia nella necessità originaria dell’ascolto quale presupposto della conoscenza di Dio. Ciò vuol dire che la libertà divina è contingente ed esterna alla coscienza dell’uomo, cioè empirica, mentre la posizione di ascolto dell’uomo è una modalità di conoscenza trascendentale, la cui razionale sistematicità è però esistenzialmente condizionata dalla libera possibilità dell’esperienza dell’incontro col divino. E’ tale possibilità a rendere libero anche il rapporto, in quanto lo libera dalla sua stessa preventiva necessità trascendentale; ed è la stessa contingente libertà divina a creare i presupposti della moralità dell’ascolto, che è libero anche per l’uomo. Dio può nella Sua libertà scegliere il silenzio, ma anche l’uomo può decidere in libertà di non ascoltare la Sua parola. Senza questa reciproca libertà di scelta non potrebbe sussistere alcun rapporto d’amore tra uomo e Dio. In tal senso non è accoglibile la tesi di Rahner, secondo il quale «l’uomo deve lasciarsi condizionare sempre dalla possibilità di una rivelazione di Dio, in forza della quale egli diventa pienamente se stesso». Poiché, è vero che l’uomo, «in forza della sua essenza originaria, è orientato all’evento storico della rivelazione, qualora si verificasse», ma il dovere dell’uomo di raggiungere la «perfezione della sua esistenza spirituale e religiosa ascoltando il silenzio di Dio, se Dio nella sua libertà, invece di rivelarsi volesse chiudersi nel suo silenzio», 84 non è determinato che dalla sua scelta morale. In tal senso il dovere umano è sempre una possibilità morale, sulla quale si fonda la sua libertà spirituale, e lo stesso amore verso Dio. In questo libero rapporto d’amore si dispiega la storia spirituale dell’uomo, che nel libero rapporto con Dio acquista il suo valore di libertà. La Storia umana è pertanto il luogo spirituale della libertà, cioè della possibilità dell’ascolto, nella cui attesa vive la speranza dell’esaudizione, l’apparizione dell’evento di Dio. L’evento divino è Parola manifestata, la cui storicità però è legata inscindibilmente

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K. Rahner, HdW, pag. 42.

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all’ascolto dell’uomo, cioè alla fede, che può anche mancare, impedendo all’evento di compiersi, rimanendo quindi mera possibilità; di rimanere entro l’orizzonte della storicità, senza però diventare evento storicamente compiuto. La compiutezza dell’evento è l’incontro della libertà di Dio con la libertà dell’uomo nell’atto di amore reciproco. Amore, dunque, è compiutezza nella libertà di corrispondersi, di liberamente rispondersi reciprocamente. Ma questa compiutezza, nell’atto in cui compie l’evento d’amore, trascende la dimensione della storicità in cui avviene, rispettivamente, la manifestazione di Dio e l’ascolto dell’uomo. Trascende cioè la possibilità che l’evento si compia e divenga attuale, di una attualità eterna, meta-storica e non soggetta a divenire. L’unico evento che sia stato storico e insieme meta-storico è l’evento cristico del Dòkema, in cui la Parola di Dio (Verbum) è stata compiutamente accolta da Gesù, (caro) trasformandosi in evento (factum) storicamente presente (est) e quindi paradigmatico di ogni possibile storia umana (evangelium). L’Evento di Dio in Cristo, come realtà storica, divide temporalmente la storia umana in età dell’attesa ed età dell’ascolto. Nella fase dell’attesa, la pre-disposizione dell’uomo era legata alla sua personale ricerca di Dio come percorso sapienziale, in cui Dio si era mantenuto in «silenzio», manifestandosi solo attraverso la Sua creazione, e non come Parola. La fase dell’ascolto consegue alla manifestazione di Dio come Parola, resa meno estatica dall’immanenza del Dòkema, che rappresenta il compendio dell’intera esperienza umana, in sé e nell’incontro con Dio, tale che l’Amore, la Passione e la Morte di Gesù siano presenti alla coscienza dell’uomo come gli eventi costitutivi della sua stessa possibilità storica. Attraverso dunque l’esperienza di Gesù l’uomo perviene alla coscienza della sua stessa esperienza di vita, della quale la vità paradigmatica del Cristo costituisce la rappresentazione spirituale eterna, meta-storica. Come evento meta-storico, il Dòkema rappresenta il riferimento spirituale di ogni possibile attesa e di ogni possibile ascolto della parola di Dio da parte dell’uomo. E in quanto evento spirituale, il Dòkema trascende la temporalità storica, il divenire del processo temporale, per diventare rappresentazione paradigmatica della Storia spirituale, eterna, dell’intiera umanità, ossia il luogo della Parola, la Dòkesis del Verbum, del Lògos spirituale. La Storia spirituale dell’uomo è rappresentata dalla Dòkesis dell’evento compiuto, in cui l’ascolto diventa, da attesa della Parola, Parola esaudita, realtà assoluta e trascendente ogni attualità e ogni relativa possibilità storica. Proprio perché realtà compiuta, quella spirituale è una storia personale, coscienziale, dialogica, nella quale l’incontro con Dio, l’ascolto della sua Parola, porta i segni di un 92


percorso unico e irripetibile, storico, la cui intimità interiore rende il senso della sua libertà singolare. Questa rappresentazione della Storia spirituale è il paradigma ontologico della fede, rispetto al quale ogni trascrizione oggettiva di senso umano, a partire dai Vangeli, costituisce una interpretazione nel linguaggio finito della ragione. La ragione, dunque, è lo strumento della memoria dell’ascolto, della sua trascrizione per l’uomo, ma non è il linguaggio di Dio, la cui realtà, libera e infinita, si può solo intuire, annullando ogni distanza tra attesa ed ascolto dell’evento per compenetrarsi misticamente nella Sua trascendente infinitezza come essere spirituale. Questa compenetrazione nel linguaggio di Dio costituisce il «passaggio» dalla storia avvenimenziale alla Storia spirituale, ossia la conversione dalla realtà naturalmente finita dell’uomo a quella spiritualmente infinita di Dio. Convertirsi significa lasciare il luogo della attesa, cioè la storia esistenziale, similare a quella molteplice di ogni altra storia umana, e abitare il luogo della Parola, cioè la Storia spirituale, che nella sua paradigmaticità è unica ed eterna. Il luogo spirituale, che per tutti è mistico e per ognuno è storico, è la Storia di Cristo, narrata dai Vangeli e custodita umanamente dalla memoria della Chiesa. Dio è già apparso all’uomo, ma non come uomo, e soprattutto non ha vissuto la vita umana esperendone l’intero ciclo esistenziale, dalla nascita fisica alla sofferenza umana fino alla morte cruenta. Solo in Cristo, Dio ha fatto della sua Parola una storia, una vicenda esistenziale nel tempo, rappresentando nella vicenda di Gesù la Storia spirituale di ogni possibile vicenda umana, il mito dell’uomo. Rispetto alla compiutezza di questa Storia, ogni storia personale, di ogni uomo di ogni tempo, è solo il riflesso finito, che in essa può trovare il suo significato spirituale trascendente la sua finitezza. Ma anche ogni possibile rappresentazione delle vicende umane, rispetto a quella Storia eterna, non è che un suo commento infinitamente vario nelle sue articolazioni esistenziali e temporali. In questo senso, Cristo è l’uomo universale della Storia, e ogni uomo è storicamente l’immagine spirituale di Cristo.85 L’incontro con la Parola di Dio, e dunque con Cristo, che ne è l’evento storico, non è l’incontro immediato con Dio, così come rappresentato nell’Antico Testamento, ma è l’incontro nella dimensione propria del Nuovo Testamento, quella della storicità, in cui l’evento cristico si dispiega simbolicamente come manifestazione della Parola divina, ma esistenzialmente come evento umano, e quindi storico. Come già detto,

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B. Forte, Teologia della Storia, inisello Balsamo, 1991.

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l’evento, fin quando permane nella sua manifestazione simbolica della Parola divina, entra nella dimensione della storicità, ma non si compie come evento storico prima dell’ascolto umano. E’ tale ascolto – libero e responsabile, cioè morale – a costituirlo nella sua compiutezza storica, la quale richiede appunto l’amore dell’uomo verso Dio, il suo orientamento morale. In virtù di questo libero incontro dell’uomo con Dio nasce il problema della loro relazione, la quale, avvenendo nella dimensione della Parola, acquista il senso proprio al lògos della coscienza umana, divenendo logica. E’ Dio, dunque, che, manifestandosi come Verbo incarnato, ha scelto come luogo d’incontro quello della Parola, in cui l’uomo, antropologicamente, ritrova il valore della sua essenza razionale. Ciò implica che la Storia spirituale, cioè il percorso esistenziale dell’incontro dell’uomo con Dio, consista nel processo razionale di quella relazione. Non un incontro qualunque, e neppure un processo qualsiasi tra l’uomo e Dio, ma solo quello che rappresenta un percorso di ragione. In questo modo, la nuova spiritualità cristiana viene saldata alla sapienza pagana antica, facendo di questa la sua coscienza critica. Ma tale saldatura è spiritualmente impossibile, in quanto il lògos antico è naturalisticamente collegato a una visione sociologica dell’uomo quale zoòn politikòn, rispetto alla quale l’antropologia personalistica cristiana rappresenta una svolta radicale. In base a questa concezione, l’uomo è una realtà spirituale, distinta irriducibilmente da ogni realtà sociale o naturale. E che l’uomo sia una realtà spirituale vuol dire che egli, quale essere singolare-personale, è in se stesso una storia, anzi che non esiste altra storia che non sia quella della persona spirituale. Questo fa dell’esistenza umana, di ogni esistenza umana singolare, una assoluta realtà storica, tale che, fuori di essa, cioè fuori della personalità spirituale, non esiste alcuna storicità, sicché storicità e umanità sono spiritualmente sinonimi. La Storia dell’uomo, dunque, è essenzialmente storia spirituale, del tutto distinta da ogni altra rappresentazione, naturalistica, dell’esperienza umana. Ciò comporta che la storicità non sia il campo fenomenologico di ciò che è generalmente umano, ma costituisce il solo universo di senso spirituale, relativo cioè alla vicenda umana personale, incentrata sul possibile ascolto della eventuale Parola di Dio. E poiché tale eventualità si è compiuta storicamente come evento storico per cui il Verbo divino si è fatto uomo, la storia spirituale dell’uomo consiste nella ri-evocazione personale della relazione Dio-uomo compiuta nella vicenda paradigmatica della Storia di Gesù Cristo, di cui ogni storia personale è appunto una immagine rievocativa. Fuori della Storia spirituale dell’uomo, diviene l’esperienza molteplice e indefinita dell’uomo naturale e sociale, entro la quale il soggetto individuale non 94


ha alcuna rappresentazione distinta da quella comune e collettiva, perché solo in essa e per essa ogni realtà individuale è spiegabile e interpretabile razionalmente. La ratio spiritualistica è una logica del tutto differente da quella naturalistica del razionalismo greco, così come la Storia spirituale niente ha a che vedere con le vicende socio-politiche delle comunità umane in quanto tali, ossia come realtà naturali collettive, scientificamente conoscibili mercé la hegeliana «fatica del concetto». Essa, infatti, è una logica in cui è essenziale quanto è irrilevante sociologicamente, ossia l’insopprimibile elemento personale, da cui solitamente si astrae per definire razionalmente gli eventi umani collettivi naturali. In tal senso, se la Storia di Gesù venisse astratta dal divenire dei processi fenomenici del suo tempo storico, il loro senso trascendente non muterebbe. Se invece la stessa vicenda del Cristo venisse omessa dalla Storia spirituale dell’uomo, questa semplicemente non sussisterebbe. Non ci sarebbe alcuna storia spirituale dell’uomo senza la Storia di Gesù Cristo, che rappresenta l’evento compiuto dell’incontro del Verbo di Dio con la libertà dell’uomo. Nella conoscenza dei singoli enti l’uomo, prendendo coscienza dell’essere che è in loro, prende coscienza metafisica di sé, e anche quando dichiara quell’essere «privo d’importanza o assurdo», ovvero lo dichiara come «qualcosa di determinato», ne offre comunque una «risposta». Egli può d’altronde assolutizzarlo, «proclamandolo sempre il centro di ciò che lo circonda» e «consacrandogli senza residuo la propria esistenza», e nel dichiarare la sua «concezione dell’essere in genere e conseguentemente di se stesso» egli «fa della metafisica». 86 In ogni caso, sia che conosca o che agisca, l’uomo non si ferma agli aspetti particolari, ma «vuol sapere principalmente che cosa sia il tutto nella sua unità e nella sua originalità e cerca le cause ultime e la causa unica di ogni realtà», cioè un «principio univoco», senza il quale ogni risposta sarebbe equivalente e quindi inutile. Tale principio, che costituisce «il punto di partenza della metafisica è il problema del significato dell’essere di ciascuna realtà esistente, quale vien posto necessariamente dall’uomo». La sua necessità deriva dalla imprescindibilità per l’uomo ai fini della soluzione del problema ontologico che l’ha originato, per cui «non si può fare a meno della metafisica nel rispondere al problema dell’essere, perché questo è parte integrante e necessaria dell’esistenza umana».87 La verità di un giudizio o di una azione non è una mera «sintesi» concettuale, ma è il

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K. Rahener, HdW, pag. 62. Ivi, pag. 63.

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riferimento a una realtà esistente «in sé» a cui si collega l’affermazione predicativa, che da essa assume il suo valore. Ne deriva che «il pensiero umano suppone sempre una conoscenza implicita dell’essere per poter cogliere il singolo ente», sia nell’attività riflessa di pensiero che nell’agire, per cui il problema dell’essere è per l’uomo collegato necessariamente alla sua esistenza come «analisi dell’uomo». In tal senso, «il problema dell’essere e dell’uomo stesso che indaga costituiscono un’unità originaria e costantemente integrale».88 Rahner sottolinea opportunamente che la conoscenza scientifica della realtà presuppone comunque che «l’essere, di cui s’indaga tutta la problematicità, è sempre anche conosciuto […] giacché non si può porre il problema su qualcosa di assolutamente sconosciuto», per cui «ogni problema suppone già conosciuto il suo oggetto; ciò che è assolutamente inconoscibile non può essere conosciuto». Ciò significa che la conoscibilità dell’essere è «il primo problema metafisico» inerente agli enti, la cui «proprietà ontologica» è di essere conoscibili, sicché «ente e oggetto di una possibile conoscenza sono la stessa cosa».89 Rahner respinge ogni nozione del conoscere come «intenzionalità», che distinguerebbe il soggetto conoscente dall’oggetto conosciuto,90 affermando di contro che «l’essere dell’ente e il conoscere costituiscono una unità originaria», che sono «correlativi», in quanto il loro rapporto è «necessario», e non «casuale e di fatto».91 L’apparizione dell’essere coincide dunque con la sua conoscenza, ossia con la coscienza che l’essere ha di se stesso, ossia con la sua «coscienza di sé» o «autotrasparenza», che è anche il «possesso di sé» proprio della soggettività, che consente, con l’identità di soggetto e oggetto, la conversione di ens in verum, e quindi a Rahner di negare che la conoscibilità provenga all’essere «da di fuori», come pure che essa consista in un «rapporto estrinseco ad una conoscenza, che esso è per caso in grado di cogliere», e di ribadire che essa invece, dell’essere, «è parte intrinseca ed originaria della sua costituzione essenziale», e di conseguenza che la conoscibilità «fa parte della costituzione intima di ogni ente». E da qui, infine, con l’esclusione di ogni irrazionalismo metafisico, secondo il principio tomistico per cui «quidquid enim esse potest, intelligi potest»,92 la conferma dell’antico primato della logica nella conoscenza dell’essere. Rahner cerca di allontanare da sé ogni sospetto di panteismo e di 88

Ivi, pag. 65. Ivi, pag. 67. 90 Ved. C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Milano, 1974, pag. 63. 91 K. Rahner, HdW, pag. 68. 92 Ivi, pag. 69. 89

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idealismo, facendo appello alla dottrina tomista dei gradi di coscienza e stabilendo una precaria identità tra il concetto di «possesso dell’essere» con quello di «analogia entis», senza peraltro riuscire a superare l’intima problematicità della teoria dell’unità di essere e di conoscere, predisposta al fine di rendere razionalmente giustificabile «la possibilità di una rivelazione da parte di Dio […] a uno spirito finito» attraverso un discorso di verità, ritenendo che «solo se l’essere dell’ente è per sua natura logos, il Logos incarnato di Dio può dire mediante la parola ciò che è nascosto nelle profondità di Dio».93 Egli infatti, posta l’unità di essere e pensare, non chiarisce come l’essere dell’ente possa cogliersi oggettivamente, come esse o actus essendi, fuori del giudizio, che è la stessa realtà del soggetto in cui si manifesta l’attuarsi dell’essere. Infatti, la questione metafisica per Rahner non riguarda propriamente l’ente in quanto tale, ma l’essere dell’essente (Sein des Seienden), per cui «il compito della metafisica» non è la ricerca del fondamento, ma «è l’indagine delle condizioni trascendentali dell’apparire di ogni essere alla coscienza», condizione che rende «l’essenza dell’uomo» nei termini della sua «assoluta apertura per ogni essere», che l’A. chiama «spirito».94 E dunque, in quanto «aperto all’essere in genere […], l’uomo è spirituale», per cui l’analisi ontologica è sempre insieme un’analisi dell’esistenza umana, ossia una «antropologia metafisica».95 L’uomo, afferma Rahner, non solo si ritrova a vivere in un «ambiente» come un «oggetto buttato alla deriva», ma «ha un mondo, a cui si contrappone e da cui si distacca col pensiero e con l’azione» giudicandolo, e nel giudicarlo costituirlo appunto come «mondo». La conoscenza non consiste nell’immedesimazione con l’altro da sé, cioè nella confusione del soggetto con l’oggetto, come avviene nella conoscenza sensibile, ma in questa presa di distanza dalle cose, a cui consegue un ritorno del soggetto su se stesso, che prende così coscienza di sé, cioè della sua soggettività, attraverso quella contrapposizione dalle cose conosciute. Questa presa di coscienza della autonoma soggettività «si rivela in tutti i fenomeni veramente umani, in primo luogo nel giudizio», e viene indicata da Tommaso come «reditio completa subiecti in seipsum».96 In questa facoltà di giudizio sulle cose, che consente all’uomo di distinguersi dalla realtà esterna alla sua soggettività e quindi di essere autonomo rispetto all’oggetto conosciuto, consiste la sua «libertà», la quale pertanto «si può a priori pensare solo se l’agente ha uno stato 93Ivi,

pag. 82. C. Fabro, Loc. cit., pag. 48. 95 K. Rahner, HdW, pag. 83. 96 Ivi, pagg. 84-85. 94

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indipendente da quello di colui su cui agisce».97 In tal senso, il problema circa l’essere dell’ente contiene il giudizio che esso sia un ente, col quale si oggettiva un oggetto di pensiero o dell’agire umano, conseguendo l’autonomia della coscienza. 98 Giudicare in generale significa attribuire a un ente una certa proprietà, con la cui realtà il soggetto conoscente entra il relazione attraverso un concetto o forma universale. La conoscenza concettuale è l’attribuzione, espressa in una proposizione dal predicato, di appartenenza di un ente particolare alla realtà universale.99 Questa operazione, in cui la conoscenza «estrae» l’essenza (quidditas) illimitata della singola realtà finita in cui essa esiste concretamente, quale ci è presentata dai sensi, nella metafisica tomistica della conoscenza è indicata come «astrazione», la cui relativa facoltà, con la quale «si coglie l’universale nel particolare, nel singolo e si rende possibile il giudizio e quindi l’autonomia conoscitiva», è indicata come «intellectus agens».100 La percezione della limitatezza dell’oggetto sensibile viene colta all’atto stesso della conoscenza della illimitatezza della quiddità dell’ente, così che «si sperimenta un limite in quanto tale, quando lo si percepisce come ostacolo al suo trascendere se stesso», e ciò comporta che «l’atto, che percepisce i singoli oggetti sensibili, coglie già in antecedenza qualcosa che li trascende». Questa «percezione previa» dell’essere è quella «capacità» dello spirito umano di «protendersi dinamicamente verso l’illimitata vastità di tutti gli oggetti possibili», per cui, «in ogni conoscenza particolare, trascende sempre il singolo oggetto, cogliendolo non solo nella sua particolarità opaca e irrelata ma anche nella sua limitatezza e nel suo rapporto al complesso di tutti gli oggetti possibili», rendendo quindi «possibile il concetto universale e l’astrazione, che a sua volta permette l’oggettivazione del dato sensibile e quindi l’autonomia conoscitiva». In altri termini, «la percezione previa è la presa di coscienza dell’orizzonte, nell’ambito del quale l’uomo conosce il singolo oggetto».101 Essa è «un fatto di coscienza» che «rende possibile la conoscenza», ma in sé non è «un atto di conoscenza». In tal senso, il suo oggetto di conoscenza è l’essere, ossia la totalità degli oggetti conoscibili dall’uomo. 102 Tale totalità indica la stessa possibilità insita nell’Essere indeterminato, e come tale non costituito nel giudizio come ente di ragione, ossia 97

Ivi, pag. 85. Ivi, pag. 86. 99 Ivi, pag. 87. 100 Ivi, pag. 88. 101 Ivi, pagg. 89-90. 102 Ivi, pag. 91. 98

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indica l’universo di senso simbolico previamente percepito a ogni astraente oggettivazione razionale. Rahner interpreta la «percezione previa» non come l’orizzonte dell’indeterminato, ma come quello dell’illimitato, cioè come la «esperienza trascendentale del non». Il niente viene fatto coincidere con la stessa negazione, e questa con la «percezione previa dell’illimitato», sicché la «negazione del finito», percependo l’illimitato, condiziona la «possibilità della sua conoscenza», e «trascendendo il finito, ne rivela la finitezza», per cui è «la illimitatezza positiva dell’orizzonte trascendentale della conoscenza umana [che] dimostra da sé la finitezza di tutto ciò che non lo esaurisce». 103 Ciò significa, da un lato, che la negazione coincide con la «infinità dell’essere», e dall’altro che la negazione è resa possibile dalla «infinità dell’essere», la quale costituisce la condizione ontologica di ogni determinazione finita. La coincidenza implica che l’infinità sia una grandezza relativa al finito, mentre la condizione consente la sussistenza dell’illimitatezza dell’essere in quanto tale, «per cui in tal caso la percezione previa non aprirebbe un campo al di là di quello dell’intuizione sensibile nello spazio e nel tempo», che è «l’unica a poter realizzare» la «finitezza in quanto tale». La «contraddizione» tra l’ipotesi della condizione scelta da Rahner, e il suo «contenuto» consiste nel fatto che la percezione previa, non potendosi per definizione rapportarsi all’essere determinato, dovrebbe potersi rapportare all’essere illimitato, inteso, in opposizione al primo, come niente. La positività dell’essere illimitato, fa sì che abbiamo due esseri: quello della percezione previa, che rende possibile la conoscenza oggettiva, la quale però, per quanto condizione necessaria, «non presenta assolutamente nessun oggetto nella sua essenza» ; e l’essere oggettivo, percepito a posteriori, che, come ente reale, è in possesso del suo essere assoluto. Ciò implica che «l’affermazione della finitezza reale di un ente postula come condizione della sua possibilità l’affermazione dell’esistenza di un esse absolutum», cioè dell’essere infinito di Dio.104 E’ dunque nel giudizio positivo di realtà che, a posteriori, si desume l’esistenza di Dio come Essere, la cui infinità non può che costituirlo come Negazione assoluta, e quindi come Possibilità di rivelarsi positivamente. Il recettore della Sua rivelazione è l’uomo, che dunque come «possibile soggetto di una rivelazione», costituisce la condizione che ha l’Essere di rivelarsi nella sua «autotrasparenza», e in tal senso

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Ivi, pag. 93. Ivi, pag. 95.

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l’orizzonte della possibilità dell’essere coincide con l’orizzonte stesso della conoscenza umana, entro la quale l’uomo «può conservarsi autonomo, comportarsi liberamente nei suoi stessi riguardi e determinare il suo destino». Ed è tale «costituzione fondamentale» che si dice la sua «spiritualità», quale «tensione verso l’Assoluto» di una vita caratterizzata da una libera «apertura a Dio».105 La disposizione dell’uomo a «neutralizzare» o, al contrario, ad «accogliere» la parola di Dio, rende questa condizionata dalla ricettività umana, ossia dalla libertà di aprirsi o a chiudersi alla rivelazione. Questa condizione preliminare sposta inevitabilmente il discorso teologico della disponibilità alla rivelazione, al piano antropologico della disponibilità all’ascolto, sulla quale si definisce la sua natura spirituale. Senza tale apertura, è compromessa la sua possibilità di manifestare il suo spirito. Secondo Rahner, tale apertura è doverosa, cioè necessaria, in quanto l’uomo «manifesta il suo spirito solo in quanto si eleva all’essere in genere».106 Ma la disposizione d’animo all’apertura indica non soltanto una empatia, una Einfühlung, bensì anche e soprattutto una costituzione antropologica fondamentale, senza la quale viene a mancare la conoscenza dell’Essere. Si innestano, quindi, due processi identitari, l’uno riguardante la figura antropologica dell’uomo spirituale, e l’altro, per quanto implicito, inerente l’ideal-tipo dell’uomo non-spirituale, non dedito, cioè, alla conoscenza dell’essere. D’altro canto, sorge la questione parallela se «l’ente supremo» sia o non «aperto originariamente all’uomo», e lo sia «nella misura in cui questi è spirituale e diventa sempre più tale».107 Partendo dalla spiritualità dell’uomo, la rivelazione avrebbe una connotazione immanentistica in cui la natura umana verrebbe messa in risalto a detrimento della grazia divina, cioè della comunicazione di Dio all’uomo. Ma questo rischio è per Rahner superabile tenendo presente che la essenza della soggettività umana, essendo storica, può trascendere la sua storicità ma non disporre della sua apertura nell’esperienza trascendentale del limite né spiegarla materialmente, per cui «se l’uomo non la vuol sottoporre a un’indagine mitologica deve spiegarla solo partendo da Dio. Questa spiegazione fondamentale dello spirito umano a partire da Dio è costitutiva della sua essenza e per sé non implica nell’uomo alcuna esigenza metafisica all’autocomunicazione soprannaturale di Dio», il quale «potrebbe restare chiuso in se stesso e non rivelarsi all’uomo» senza che perciò 105 106 107

Ivi, pag. 97. Ivi, pag. 103. Ivi, pag. 105.

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venisse meno l’essenza della spiritualità umana e della sua trascendenza, la cui spiegazione «l’uomo non può dare a se stesso ma deve ricevere da Dio».108 La essenza creaturale dell’uomo stabilisce dunque un rapporto necessario con la libertà di Dio, da cui dipende. Ciò significa che l’uomo non può concepire se stesso e il suo essere indipendentemente da Dio, né può includere in questo suo concetto Dio come un elemento di cui può disporre. L’esperienza e l’affermazione della inesauribilità di Dio e della sua libertà fanno parte dell’autoaffermazione dell’uomo in quanto creatura. L’uomo perciò accetta la dipendenza creaturale che gli è propria, in quanto non si concepisce e s’interpreta come un essere che può disporre in maniera assoluta e definitiva di se stesso (quasi come «natura pura») ma attende da parte di Dio una spiegazione storica, che attui la sua dipendenza creaturale. 109

Eppure, l’intero processo storico-spirituale moderno attesta la possibilità che, nel silenzio di Dio, l’uomo possa allontanarsi dalla sua coscienza creaturale e disegnare un cosmo che assegni a quell’assenza un valore definitivo e quindi non essenziale ai fini di una definizione spirituale assolutamente antropologica. Come già in passato, prima del Dòkema, anche dopo la Sua apparizione l’uomo ha potuto assecondare il silenzio di Dio perdendo la memoria della Sua parola, sentendosi libero di soppiantarla con la propria. Ma la stessa rottura idolatrica del silenzio di Dio conferma comunque la impossibilità per l’uomo di sussistere storicamente in quel silenzio, di costruire una qualunque forma di civiltà umana che non poggi su un luogo sacralizzato, per quanto mitico e superstizioso, che configuri però un orizzonte di senso entro il quale inscrivere ogni futura determinazione razionale dell’Essere, e pertanto ogni possibile conoscenza. Questo luogo originario e ancora non limitato dalla determinazione della coscienza storica, è quello della storicità, in cui l’Essere si dispone come possibilità di essere ciò che eventualmente sarà nella sua compiutezza attuale di ente storico. Comunque verrà riempito il silenzio di Dio, esso non può essere sopportato dall’uomo, il cui sforzo di riempirlo e di fuggirlo attesta, con la sua finitezza, anche la dipendenza dalla propria natura creaturale. La ricerca umana è, in ogni caso, una ricerca di Dio, cioè di ciò che trascendE la propria insoffribile condizione finita. Ed è questa condizione antropologica a scartare la falsa possibilità dell’uomo di strutturare una sua qualche esistenza storica non-spirituale. Ciò implica che la volontà umana di rinchiudere la propria vita nel silenzio di Dio è

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Ivi, pag. 106 n. 3.

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Ivi, pag. 107.

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una tendenza culturale contro-natura, che si oppone cioè all’essenza stessa della condizione antropologica dell’essere umano, il cui senso esistenziale è di auto-comprendersi come essere spirituale, e come tale rappresentativo di una storia, cioè di un processo razionale che interpreti le sue particolari vicende all’interno di un «mondo». La ricerca di Dio è la ricerca del fondamento dal quale ha inizio la Storia dell’uomo, il principio a partire dal quale è possibile tracciare un itinerario di senso teleologico. Ciò che è prima della sua determinazione storica coincide con ciò che va oltre la condizione finita dell’uomo. E questa condizione in-finita è quella su cui poggia la stessa finitezza umana, il luogo sacro cioè della trascendenza che è nella storia e da cui si origina ogni storia: il luogo trascendentale della storicità, ovvero della possibilità e libertà dell’Essere, lo spazio aperto alla rivelazione della propria finitezza in cui è possibile percepire l’excessus dell’infinità misteriosa di Dio, «essere sconosciuto» all’uomo. Il bisogno di trascendere la finitezza umana coincide con il bisogno stesso di rompere il silenzio di Dio, per cui l’uomo non può permanere nell’excessus dello spirito finito solo intuendo l’infinità di Dio, ma ha bisogno della parola che definisca la sua esperienza esistenziale in termini razionali, di conoscenza. Conoscere la propria finitezza e conoscere la trascendenza di Dio sono lo stesso atto spirituale cosciente rivelativo di Dio, «l’infinito, che nella sua infinità è conosciuto dall’uomo solo quando questi nega e trascende ogni finitezza». Questo atto, che si rende possibile attraverso la rappresentazione di un oggetto sensibile, «condiziona la conoscenza oggettiva di ogni ente finito».110 La stessa condizione umana si costituisce nella sua insuperabile finitezza aprendosi all’indagine dell’Essere, la cui «indagabilità e trasparenza», pur nella esperita problematicità, è comunque confermata, sicché inevitabilmente «l’uomo si apre essenzialmente all’essere in genere quando accetta la sua esistenza umana».111 A partire dalla fattualità della «contingenza» di essere finito, che può esperire il limite della sua finitezza ma non può disporre della sua realtà. Questa limitazione e contingenza della sua condizione deve essere accettata coscientemente dall’uomo «perché sia esistenza umana» ponendosi necessariamente «di fronte alla trasparenza dell’essere», per cui, nella necessità dell’indagine, «prende coscienza della vera finitezza dell’essere solo chi accetta decisamente la propria finitezza».112 La necessità dell’indagine afferma però, con la «finitezza contingente»

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Ivi, pag. 115. Ivi, pag. 119. 112 Ivi, pag. 120. 111

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della sua esistenza, anche la sua assoluta indipendenza, «poiché l’affermazione della realtà contingente è ineluttabilmente necessaria, nella contingenza stessa si svela un’assolutezza», che ne impedisce la negazione. Questo significa che «l’uomo necessariamente si pone in un rapporto assoluto con la sua esistenza finita e contingente», e che nella necessità e coscienza di questo rapporto «egli trascende l’essere in genere che è per sé trasparente e affermato come tale».113 In realtà, la necessità di porsi nel rapporto con Dio per l’uomo sussiste solo in senso ontologico, al fine della sua auto-rappresentazione di essere creaturale finito, ma non in senso esistenziale, per cui solo un «atto di volizione» può coniugare l’esigenza metafisica con la sua reale determinazione esistenziale, sicché lo stesso «porre necessario e assoluto, che deve confermare la sua esistenza di fronte alla sua contingenza, è perciò volizione» di se stesso, quale «condizione intrinseca perché sia possibile e necessario il problema dell’essere e quindi la conoscenza dell’essere in genere».114 Rahner, nella oscillazione tra la necessità della finitezza e la libertà di trascendere la contingenza, pare non rendersi conto della insuperabile difficoltà di adattare la prospettiva spiritualistica dell’incontro dell’uomo con Dio alla logica naturalistica dell’adeguamento del finito all’infinito, caratteristico della prospettiva antropologica della cultura pagana, in cui ogni istanza deontologica aveva carattere di eticità, ossia di relazione logica tra il fondamento ideale e il comportamento concreto, nella cui necessità veniva inteso il grado di saggezza dell’uomo socializzato. Nella prospettiva cristiana, invece, non c’è alcuna necessità ontologica che non sia riferibile a un patto originario (ma non definitivo e che dunque sempre si rinnova per scelta responsabile) di conoscenza tra il Dio dell’amore, che offre se stesso, e la creatura amata che raccoglie l’invito. Solo in questo ambito di responsabilità può sussistere un dovere di consapevole adesione che conservi, nella sua ritenuta necessità spirituale (non, dunque, logica o etica), l’essenza della sua natura, di libera volizione. Rahner attribuisce all’uomo la necessità e la libera volontà a Dio, inteso come «il termine della percezione previa dello spirito umano» che «appare potenza libera di fronte al finito». Quando un essere finito lo conosce, questa conoscenza è sostenuta da un suo atto libero. Noi chiamiamo tale atto creazione ed originariamente una risposta a una parola libera, che l’assoluto stesso ha pronunciato e che come atto libero viene

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Ivi, pag. 121. Ivi, pagg. 121-122.

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implicitamente affermata, quando lo spirito finito in forza della sua trascendenza si coglie fondato sull’assoluto, a cui si riferisce. 115

«L’essenziale» del discorso di Rahner, a suo stesso dire, è che l’incontro dell’uomo, essere «intelligente», con «l’essere assoluto» di Dio, avviene con «una persona libera e padrona di se stessa», che non ha «sembianze umane» ma la cui «personalità» si esprime nella sua «autoapertura […] alla trascendenza umana», manifestandosi nella «interrogabilità di ogni essere da parte dell’uomo, che è insieme problematicità». Dio, infatti, «con un suo atto libero determina il suo personale rapporto» con l’uomo, facendone dipendere la conoscenza «dalla sua stessa decisione libera».116 La decisione libera di Dio di stare di fronte all’uomo è, in senso metafisico, la sua «rivelazione», la cui libertà consiste nella volontà di manifestare la sua essenza in modo «chiuso o aperto», cioè come possibilità o non di «parlare» e di rompere il suo «silenzio» di fronte allo «spirito finito» dell’uomo, il quale deve pertanto «prevedere la rivelazione» come qualcosa che sempre lo riguarda «necessariamente», proprio in quanto manifestazione «essenzialmente libera» di Dio, e non dipendente dalla natura umana. 117 Questa rappresentazione della rivelazione di Dio come atto di assoluta libertà divina, nasconde implicitamente, però, le condizioni della sua storica verificabilità, che sono legate insuperabilmente alla natura umana, e che quindi vincolano la stessa manifestazione di Dio nei termini della umana disponibilità ad accoglierla. Queste condizioni sono essenzialmente due, una di carattere oggettivo e una di carattere soggettivo, e consistono a) nella oggettiva necessità di manifestarsi nelle forme umanamente finite, e b) nella soggettiva disponibilità dell’uomo di aprirsi alla conoscenza trascendente la sua finitezza. La sussistenza di queste condizioni non essendo riferibile a Dio, consente di interpretare il Suo «silenzio», non come un’arbitraria volontà di isolare l’uomo dalla Sua infinitezza, ma come limite umano a riceverla. La soggettiva disponibilità o indisponibilità è la condizione spirituale della morale responsabilità dell’uomo, la cui libertà è originariamente affermata dalla sua stessa natura creaturale. 115

Ivi, pag. 124. Ibidem. «Solo attraverso l’interpretazione ebraico-cristiana dell’esistenza si è creato quell’orizzonte di esperienza e di vissuto in cui la libertà poteva- e dovevadiventare di fatto un problema» H. Jonas, Augustin und das paulinische Freiheitsproblem. Eine philosophische studie zum pelagianischen Streit (1965), tr. it., Brescia, 2007, pag. 37. Da ora Augustin. 117 Ivi, pag. 128. 116

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E’ questa libertà, comune a Dio e all’uomo, il segno della sua consustanzialità trascendente; così come la differenza tra la finitezza umana e l’infinitezza divina è il segno della storicità della condizione umana. Ed è precisamente questa storicità umana a costituire l’oggettiva necessità divina di manifestarsi all’uomo storicamente, cioè nelle forme proprie della umana comprensibilità. L’orizzonte storico, all’interno del quale Dio necessariamente deve manifestarsi se vuole rivelarsi all’uomo, rende comprensibile – e pertanto razionalmente giustificato – il silenzio di Dio, altrimenti enigmatico e non più misterioso, svelando la verità di quel silenzioso mistero. La necessità divina di rivelarsi nella dimensione della storicità, propria dell’uomo, trasforma la libertà di Dio in libertà dell’uomo di accoglierlo nel suo luogo, che è appunto storico, facendo della Sua manifestazione un atto d’amore, consistente nella kénosi della Sua libertà, e quindi della Sua potenza. Nell’atto in cui Dio liberamente si manifesta all’uomo, necessariamente deve farlo nei termini umani, se vuole rivelarsi. Questa rivelazione, che è la realtà positiva della generica manifestazione di Dio, avviene nella umana dimensione della storicità, e quindi in forma storica, cioè in termini finiti. La manifestazione finita di Dio, in quanto storica, è una rivelazione relativa all’uomo, alle sue storiche possibilità, e quindi necessariamente attuale e non più liberamente possibile. L’attualità di Dio, la Sua rivelazione, è la Sua libera decisione di ridurre la Sua potenza, e quindi la Sua libertà, alla necessità di manifestarsi in termini umanamente possibili, ossia storicamente. In questo senso, la rivelazione di Dio, che è divinamente libera di determinarsi, è necessariamente condizionata dalla finitezza umana. Soltanto se Dio non volesse umanarsi nei termini della storicità dell’uomo, potrebbe conservare il Suo misterioso silenzio, ma se volesse rivelarsi all’uomo e rompere il Suo silenzio, la sua libera scelta d’amore dovrebbe assumere su di Sé l’umana necessità della finitezza, ossia le forme della storicità proprie dell’esperienza esistenziale dell’uomo. Ed è ciò che Dio ha fatto rivelandosi storicamente all’uomo come il Verbo-Cristo nella forma della umana esistenza di Gesù. Consegnarsi alla storia umana significa per Dio ridursi in termini umani, ossia farsi uomo, essere finito e legato alla necessità della condizione naturale. Ma soprattutto, ricevere dall’uomo i limiti della sua condizione umana, anzitutto la sofferenza e la mortalità. In cambio, confidando nell’ascolto umano, Dio, entrando nella Storia, rinuncia alla sua infinita possibilità e libertà, consegnando all’uomo la libertà di disporre del suo ascolto. Abbiamo visto come l’uomo ha risposto all’appello divino, liberamente disponendosi per tempo ad accogliere la Parola, facendosene testimone, ovvero a negarla con la crocefissione. La rivelazione di Dio, in quanto libera, determina la libertà dell’uomo, 105


così come la finitezza dell’uomo, in quanto necessaria, determina la volontà di Dio. Questo inter-scambio di nature si realizza nella dimensione dello spirito, ossia dell’amore del Creatore verso le Sue creature e viceversa. Condizione che trascende le contrapposizioni storico-dialettiche del Sé e dell’altro-da-sé, e quindi la stessa storicità e finitezza dei rapporti umani. Entro la dimensione dello Spirito, non c’è una relazione di padronanza divina e di servizio umano, proprio in quanto tale dimensione è trascendente ogni relazione inter-umana. Il luogo della trascendenza, infatti, non è quello della storicità. Ciò vuol dire che la rivelazione, che avviene nel luogo della storicità, non esaurisce il rapporto di Dio con l’uomo, ma lo annuncia, ossia lo propone. E lo propone come altro modo, spirituale anziché naturale, della convivenza umana. Il senso della rivelazione divina è in questa proposta, in questo messaggio di salvezza, cioè di trascendenza della finitezza della natura umana. Il Dio che si fa uomo, essere storico, propone all’uomo di uscire dalla storia, dalle sue relazioni finite, rappresentando, nella vicenda di Gesù, il paradigma de la Storia umana, di ogni storia possibile. La Storia possibile all’uomo è la stessa affrontata da Gesù, e perciò la sua rappresentazione paradigmatica (o, secondo l’espressione di Rahner, «categoriale») la solleva dalla storicità e la rende escatologica; da finita, eterna; da storica, spirituale. In questo senso, spiritualizzare la esistenza umana significa coglierne i limiti della sua finitezza, e cioè ascoltare la Parola di Dio accogliendo il Suo invito all’incontro, la Sua presenza. Nella «conciliazione» (Versöhnung) delle due nature, divina e umana, si realizza la compiutezza della conoscenza e dell’esperienza dell’uomo, e con essa il superamento della contingenza storica dell’esistenza umana, per cui l’affermazione di Rahner circa l’essenza della conoscenza «perfetta» come «coscienza che ha l’ente del proprio essere», è del tutto antropocentrica e storicistica, trascurando la realtà della conciliazione con Dio come trascendimento della storicità nella .dimensione infinita dell’amore, e non già come «perfezionamento della propria essenza» in termini di «potere creativo che si ha anche nei riguardi di se stessi».118 Infatti, l’auto-trasparenza del soggetto «libero», che si afferma come oscurità per l’altro «diverso da lui», permane all’interno della condizione finita propria di una conoscenza razionalistica che non la trascende spiritualmente, e che dunque non consegue l’incontro con l’infinitezza spirituale di Dio, non superando la molteplicità delle distinte realtà storiche finite nell’unità meta-storica col Tutto. L’incontro tra enti di ragione è conoscenza, ma non è amore. Se è vero,

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Ivi, pag. 134.

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come afferma Rahner, che «il finito partecipa della trasparenza dell’essere perché e in quanto Dio lo ama», e che «in questo amore» l’oggetto finito »è elevato alla luce dell’essere», entro la «logica dell’amore» non si trova solo «la libertà dell’essere»,119 ma anche la libertà dell’uomo. L’amore come il «tendere ad una persona» non può essere un movimento unilaterale, da Dio all’uomo, ma anche corrispettivo, dall’uomo a Dio. Nell’amore reciproco, cioè nella conoscenza derivata dall’ascolto umano dell’appello divino, si realizza la condizione della reciproca libertà, che è trascendimento della condizione finita della storicità nella intuizione della Differenza. Questa trascendenza coinvolge anche Dio, che si è rivelato entro la storia e rivelandosi si è manifestato nella finitezza dell’uomo. L’amore, ossia «il trovarsi dell’uomo di fronte a Dio» e viceversa, non è, come vorrebbe platonicamente Rahner, la «condizione» della conoscenza, ma la modalità propria della conoscenza spirituale, che si perfeziona nella reciproca libertà della coscienza intuitiva. La reciprocità è la condizione modale della conoscenza spirituale o intuitiva, la cui perfezione si realizza nell’incontro d’Amore. Non vi è, dunque, un atto di liberalità da parte di Dio che si comunica all’uomo, il quale vi parteciperebbe passivamente, ma un reciproco donarsi del finito all’infinito e viceversa, che unisce indistintamente gli originari elementi che s’incontrano in un legame ontologico di unità spirituale. E’ questo a noi pare il senso profondo ed essenziale dell’incarnazione divina in Cristo e dell’esemplarità spirituale della Sua vicenda esistenziale. Il Verbum caro rappresenta l’exemplum storico di ogni possibile incontro di Dio con l’uomo della storia, e il trascendente modello spirituale di ogni imitatio della sua meta-storica eternità. La giusta definizione di Rahner circa la conoscenza quale «rapporto fondamentale unico e perennemente totale dell’essere unitario», proprio in quanto «si trasforma nell’altro e lo implica»,120 non può essere solo una decisione «dell’uomo», che «si eleva al bene assoluto, che è l’essere assoluto di Dio»,121 ma deve implicare, nell’unità dell’amore spirituale, anche la libertà di Dio, che, in quanto spirito storicamente rivelatosi, che ha volontariamente accettato le «condizioni per la necessaria apertura» all’uomo, è anch’Egli «soggetto a una necessità e in questo senso non è libero».122 Non è solo l’uomo che, nella decisione circa il bene, «dispone di se stesso», ma anche Dio, rivelandosi nella storicità «costituisce una legge di tutto il suo agire e di tutta la sua 119

Ivi, pag. 136. Ivi, pag. 138. 121 Ivi, pag. 139. 122 Ivi, pag. 140. 120

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vita»,123 compiendo la Storia sino al compimento della Sua vita umana in croce. L’amore, in quanto libero vincolo di relazione, segna il trascendimento delle relazioni finite dell’esistenza storica, e quindi con il superamento della condizione di dipendenza anche quello della relativa libertà, per cui il reciproco riconoscimento d’amore non avviene più nei termini di senso storico del rapporto politico servo-padrone, ma nel senso dell’unità spirituale che trascende ogni differenza e ogni distinta alterità. La «effettiva trascendenza» dell’uomo «concreto», sostiene suggestivamente Rahner, «nasconde sempre […] una decisione libera» che «determina» la conoscenza di Dio, secondo il «modo» concreto in cui la persona impegna se stessa nella relazione conoscitiva, per cui «ogni uomo ha il Dio che corrisponde al suo impegno e al tipo di questo impegno». 124 Con questa affermazione, egli intende assegnare alla relazione con Dio una realtà che chiama «concreta» ma che è più propriamente «storica», in quanto ogni conoscenza è caratterizzata da determinate modalità di relazione, relative alle forme umane di accesso alla trascendenza, che solitamente sono di tipo morale e religioso. 125 Se, pertanto, le «verità matematiche» sono universalmente ammesse «solo perché, appartenendo alla sfera più esteriore dell’uomo (il numero e lo spazio), non sono mai in antitesi con la concezione volontaria dell’essere […], la conoscenza metafisica può essere dimostrata con maggior rigidezza e impellenza, perché viene sempre, implicitamente e necessariamente, affermata nel fondo dell’esistenza [per cui] ciò che si afferma implicitamente potrà diventare oggetto di conoscenza riflessa solo nella misura in cui questa conoscenza può penetrare nella struttura dell’amore, che l’uomo esercita nella sua attività concreta».

Ne consegue per Rahner che la pratica ascetica di «analizzare il proprio amore e le proprie aspirazioni» costituisce «un momento interiore della filosofia concreta dell’uomo reale», e pertanto «filosofo può essere in definitiva solo chi abita con lo spirito nei templi e nei chiostri».126 Lo spostamento del baricentro della conoscenza dall’universo fisico delle relazioni matematiche all’universo interiore delle relazioni spirituali, costituisce una «conversione» ottica del modello cartesiano 123

Ivi, pag. 141. Ivi, pagg. 142-143. 125 Come giustamente afferma Rahner, “Dio può rivelare solo ciò che l’uomo può ascoltare”: Ivi, pag. 54. 126 Ivi, pag. 144. 124

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nel senso di una analisi teologico-metafisica fondata su certezze esistenziali, più radicali di quelle meramente fenomeniche ed «esterne». La questione dell’interiorità della conoscenza è di essenziale importanza in considerazione dell’individuazione del «luogo» di una possibile rivelazione di Dio, che Rahner giustamente indica nella storia. Afferma infatti Rahner che «il luogo della sua [dell’uomo] trascendenza è sempre storico. Perciò il ‘luogo’ di una possibile rivelazione è sempre e necessariamente la storia dell’uomo»127 della quale dà una definizione che implica alcune rilevanti considerazioni. Dopo aver ribadito la differenza tra Dio, quale «ente che ha il possesso assoluto dell’essere», e che «agisce liberamente e non ha ancora esaurito le possibilità della sua libertà», e l’uomo, «essere finito», Rahner aggiunge significativamente che «un agire libero ha però già essenzialmente un carattere storico», stabilendo che «in una accezione primigenia, universale e metafisica», la storia è da intendere come il luogo in cui «si ha» l’evento di «un fatto che non si può dedurre e prevedere partendo da un principio generale che lo preceda», e in quanto «libero e indeducibile» anche «sempre qualcosa di unico e d’irripetibile», che è «comprensibile solo in se stesso», opposto al «caso di una legge universale» e antitetico quindi non solo «a un fatto naturale», ma alla stessa rivelazione «come evento storico» e al «carattere storico di una storia umana».128 Parlando dunque della storicità della rivelazione, asserisce Rahner, non dobbiamo intenderla nel «senso universale e metafisico della storia in genere, ma in quello della storia umana»,129 intendendo per «umana» ciò che pertiene all’uomo in quanto «trascendenza all’essere in genere» e in quanto «spirito totalmente aperto all’essere in generale, e quindi anche all’essere assoluto», cioè a Dio.130 6. L’Essere, prima di essere un dato della coscienza, è la coscienza stessa oggettivata che diventa oggetto di se stessa. Infatti, afferma Rahner, «Essere è aver coscienza di sé», e conoscere significa non già «percepire in qualsiasi modo un oggetto», ma è cogliere «l’essere di un ente che è cosciente di sé, la capacità dell’essere di riflettere su se stesso, che compete a un ente nella misura in cui possiede l’essere ed è padrone di esso». 131 La conoscenza intesa come autocoscienza di sé, universalizzata, diventa 127

Ivi, pag. 155. Ibidem. 129 Ivi, pag. 156. 130 Ivi, pagg. 52 e 53. 131 Ivi, pagg. 157-158, 161. 128

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«autocoscienza dell’ente». Ma solo la presunzione dell’unità essenziale degli enti può consentire tale universalizzazione, ossia è il fondamento ontologico a sostenere logicamente la relativa teoria essenzialistica della conoscenza, tale che il «principio della conoscenza di un conoscente […] sembra […] debba essere sempre la propria essenza». Di conseguenza, essendo la conoscenza umana recettiva, «il soggetto è cosciente di sé solo quando nella conoscenza si protende verso un altro [ente]e lo incontra», il che significa che «l’essere di questo ente deve essere l’essere di un altro»,132 per cui la coscienza di sé coincide con la «coscienza dell’altro, di cui egli ‘possiede’ l’essere come proprio», e «presso cui già da sempre il conoscente esisteva ontologicamente e non solo per via della conoscenza in quanto tale». 133 Questo «altro», afferma Rahner, non è propriamente un «essere», in quanto altrimenti la sua «trasparenza» sarebbe già in possesso dell’ente, che sarebbe già «conosciuto», ma «qualcosa di reale», appunto diversa dall’essere attuale, il quale però non è neppure un ente, piichè la sua conoscenza sarebbe nel possesso attuale dell’essere. Esso è dunque un essere nella sua «semplice possibilità», «l’essere di una possibilità ontologica realmente diversa dall’essere» attuale, la cui indeterminatezza lo pone «in funzione di soggetto». Tale possibilità, costitutiva dell’essere dell’uomo, è ciò che «nella metafisica tomistica si chiama materia», la quale non è la «cosa» oggetto dell’osservazione scientifica, ma «un costitutivo metafisico dell’ente», il quale, in quanto «principio metafisico», non è rappresentabile fisicamente. 134 Pertanto, «l’essere dell’uomo [la sua «forma»] è l’essere di quella possibilità indeterminata e reale chiamata materia», la quale «già nel suo primo principio costitutivo» sussiste «essenzialmente in un altro».135 Ora, per scongiurare il soggettivismo delle gnoseologie idealistiche, il coscienzialismo cristiano deve salvaguardare l’oggettivismo della teoresi tomistica, concependo l’attività della coscienza umana non come una conoscenza creativa ma bensì «recettiva», per cui «la sua autocomprensione e la sua autonomia cosciente derivano sempre e fondamentalmente da un esodo nel mondo, dalla percezione di un estraneo, diverso da lui come oggetto primo della conoscenza umana in genere». Inoltre, in quanto «soggetto recettivo», ossia «essere che 132

Ivi, pag. 162. Ivi, pag. 163. 134 Ivi, pag. 164. 135 K. Rahner, HdW, pag. 165. Tomisticamente, l’affermazione per cui “anima humana est forma corporis”, significa che l’essere dell’uomo è quello di un ente la cui realtà è di essere una pura possibilità ontologica (forma) della materia (corpus), diversa da lui: Ivi, pag. 166. 133

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conosce in maniera recettiva», l’uomo è un «essere materiale» privo di autocoscienza. La conoscenza, in quanto tale, è nel suo essere l’essere di una possibilità ontologica, diversa da essa, reale, per sé assolutamente indeterminata, qual è la materia, quindi la conoscenza materiale [ossia quella recettiva] si chiama conoscenza sensibile .136

L’ipotesi di una realtà oggettiva, sensibile, oggetto di conoscenza passiva, è legata alla necessità di preservare, con l’oggettività della realtà creata, il senso stesso del mistero che avvolge il creato, e che rende l’uomo aperto alla conoscenza del mondo in quanto originariamente manchevole di sapere. La conoscenza si attiva in lui nell’occasione della manifestazione dell’Essere, non già prima e indipendentemente. Ovvero, come scrive Rahner, l’uomo, a priori, cioè in forza della sua essenza, non possiede conoscenza alcuna. L’acquista solo quando e in quanto un oggetto gli si mostra da se stesso [ per cui] egli prende coscienza di sé quando percepisce un altro oggetto diverso da lui, un oggetto che deve incontrarlo e presentarglisi da sé. Il ritorno in se stesso e la capacità di riflessione su se stesso, che costituisce l’essenza della conoscenza, è possibile all’uomo solo se egli si porta su un altro, diverso da lui. 137

Ciò vuol dire che, in conseguenza della «ricettività» della sua conoscenza, l’uomo non dispone di un sapere fondato completamente su se stesso, [e non può pertanto] liberarsi mai completamente dell’elemento da lui diverso, dal quale ha inizio la sua conoscenza e sarà di fatti presente in ogni suo atto, [sicché] ogni progresso della conoscenza […] è essenzialmente solo lo sviluppo del dato originario, [ossia] la struttura fondamentale della prima recezione e del primo oggetto recepito si conserverà anche in tutta la conoscenza successiva e determinerà la struttura della conoscenza umana in genere. [E sia la] facoltà conoscitiva [che] l’oggetto conosciuto, costituiscono un’intima unità [che è] originaria nell’essere in quanto tale, [per cui essi sono] correlativi, [nel senso che] una determinata conoscenza, nel nostro caso recettiva, deve avere una corrispondenza intrinseca con l’oggetto che la determina . 138

La dipendenza teoretica dall’oggetto, fa di questo il fondamento 136

Ivi, pag. 166. Ivi, pagg. 158 e 159. 138 Ivi, pag. 159. 137

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oggettivo non soltanto dell’atto di conoscenza attuale, ma di ogni possibile conoscenza in quanto ne determina, con il suo contenuto, anche la modalità, cioè la determinazione formale della conoscenza. Questo modus cognoscendi, stabilendo con il suo oggetto una intrinseca correlazione, esautora il soggetto da ogni ruolo attivo distinto dalla facoltà teoretica stessa, la quale, conoscendo il suo oggetto, conosce oggettivamente anche se stessa, completando, col processo gnoseologico, la stessa determinazione ontologica dell’ente. Da qui la definizione riportata dell’Essere come «conoscenza di sé». Se conoscere è l’autocoscienza di un ente, la struttura dell’essere di un soggetto conoscente è la legge a priori dei suoi possibili oggetti in quanto tali. La struttura di un ente che possiede l’essere in un determinato modo si può trasporre nella struttura della sua coscienza e quindi in quella del suo primo oggetto percepito in quanto tale. Se, infatti, l’essere è la coscienza di sé e conoscere è l’essere dell’ente come modo del suo «possesso dell’essere», il primo oggetto conosciuto è sempre l’essere proprio del conoscente stesso, sicché la struttura del conoscente in quanto ente è la struttura del conosciuto e viceversa. 139

Ne consegue che, essendo l’essere dell’ente conoscente l’essere della materia, anche l’essere conosciuto dovrà essere materiale, per cui «l’oggetto originario di una conoscenza recettiva può essere solo l’essere che sussiste nella materia come sua realtà». 140 La materia è intesa come «il supporto indeterminato», «il soggetto indifferente di diverse possibili quiddità», «il principio passivo, che con il suo vuoto, indifferente a determinate quiddità, offre la possibilità di far diventare la quiddità, per sé variamente predicabile, sussistente come forma particolare e determinata». «Quale termine del predicato e soggetto portante della quiddità stessa [cioè dell’universale o forma], la materia è così il principio per cui un ente, la cui essenza per sé è repetibile, diventa questo ente particolare. In tal senso la materia è il principium individuationis» di un ente quindi individuale, «le cui determinazioni essenziali, anche nella più complicata delle loro combinazioni, sono sempre fondamentalmente repetibili». In tal senso la materia è il principium individuationis, non di una «irrepetibilità essenziale», ma «del molteplice smembramento dell’identico». L’uomo è spirito, e per diventare spirito, entra ontologicamente nell’alterità della materia e quindi nel mondo. La sua spiritualità recettiva «ha bisogno di una facoltà sensibile» per tendere al suo fine, che è la percezione dell’essere in genere, per cui è «spiritualità sensibile». In tal modo lo spirito (anima intellectiva) entra nella materia e la informa (corpus 139 140

Ivi, pag. 167. Ivi, pag. 168.

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informans). Anima forma materiae.141 La materia non è soltanto il contenuto formale della conoscenza, ma è anche «principio della spazialità di un ente»,142 nel senso che la forma della materia può ripetersi in un identico elemento, numerandosi in più enti diversi e quindi diventando principio di quantità, «ripetizione quantitativa dell’identico». Quando la ripetizione dell’identico avviene nell’ambito di un singolo ente, - cioè la materia, che costituisce la quantitatività del singolo ente, si ripete diversificandosi all’interno dell’unità di un ente - abbiamo la sua spazialità, che è «la diversità reale dell’identico nell’ambito dell’unità di un ente», per cui si può dire che «un ente ha carattere spaziale quando […] ha la materia come suo principio interiore essenziale». Ma la stessa possibilità di determinazione della materia rispetto a un’entità costituisce l’altra sua fondamentale determinazione, che è «l’intrinseca temporalità».143 La singola determinazione della forma (quiddità) non esaurisce la vastità della materia, e ogni ente materiale, in virtù della vastità indeterminata della sua materia, «è sempre aperto a nuove determinazioni ontologiche», le cui possibilità non sono simultanee ma ogni determinazione della materia esclude le altre possibili realizzazioni, per cui «tutte le realizzazioni possibili di un ente materiale sono attuabili solo nella successione del suo dinamismo interno»; il che «significa che l’ente è immesso nel tempo», e ha un carattere «intrinsecamente temporale». Il tempo va inteso, non come «durata della realtà di un ente ma come l’estensione interna dell’ente stesso in tutta la realizzazione delle sue possibilità». Anzi, lo stesso uomo empirico, come singolo, uno fra tanti, essendo la sua essenza materiale, è situato nel tempo e nello spazio, e come entità identica a se stessa è «fondamentalmente ripetibile» come «individuo di una specie».144 In quanto essere materiale, l’uomo è ripetibile nella sua natura in una molteplicità di uomini, per cui le possibilità racchiuse nella sua materialità possono realmente manifestarsi solo in quella molteplicità. In questo senso, «l’uomo è reale solo in una umanità».145 Ma in quanto partecipe costitutivamente della sua realtà materiale, e quindi spaziale e temporale, l’uomo è un essere «storico nel senso concreto di una storia umana».146 La sua storicità non consiste solo nella sua apertura al 141

Ivi, pagg. 169-170. Ivi, pag. 171. 143 Ivi, pag. 172. 144 Ivi, pag. 173. 145 Ivi, pag. 174. 146 Ivi, pag. 175. 142

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rapporto libero con l’assoluto, cioè nella sua trascendenza verso Dio, «dove si riscontrano l’irripetibilità e l’imprevedibilità della libertà», ma anche «nel senso umano del termine», ossia nella pluralità dell’esperienza del mondo, «in cui gli atti intelligibili della libertà, per venire alla ribalta», e cioè per potersi realizzare come totalità del loro essere personale «in una comunità di persone uguali, […] devono estendersi nel tempo e nello spazio», e quindi «per poter esistere hanno bisogno del tempo e dello spazio».147 La teoria della conoscenza sensibile dell’Essere da parte dell’uomo, 148 condiziona la rappresentazione dello spirito umano, il quale, come una tabula rasa, per giungere alla piena sua essenza, deve «penetrare nella materia», e solo per tale via si apre all’Essere nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo, solo «uscendo nel mondo interiore ed esteriore, materiale e sociale», può giungere alla propria auto-coscienza e cogliere se stesso nella «sua concreta singolarità, venendo a contatto col suo mondo interiore ed esteriore». Sicché, gli «oggetti immediati di una conoscenza recettiva, che è quella di uno spirito», sono i dati dell’essere colti nella percezione previa. «Nella conoscenza recettiva il mondo appare nella sua propria essenza» e fa apparire l’essere, il quale è sempre più grande dell’entità del mondo, nell’essenza del mondo, per quanto ciò è possibile allo spirito umano finito, dato il suo carattere recettivo». 149 Nella prospettiva di Rahner, l’uomo è un «essere autonomo contrapposto a un mondo oggettivo interiore ed esteriore», da cui si «stacca» per tornare in se stesso in «un’autonomia cosciente», da cui «coglie gli oggetti attraverso i concetti sotto un punto di vista universale», consentitogli dalla condizione trascendentale della percezione previa dell’essere, che dunque costituisce la possibilità di tale autonomia150 e «l’orizzonte della recezione di un oggetto sensibile a posteriori», ossia la «forma», che è «la condizione a priori della conoscenza di un fenomeno a posteriori», in cui «viene colto l’essere nella sua vastità sempre maggiore», che è la «maniera specificamente umana» di conoscere il fenomeno sub ratione entis.151 Il fenomeno sensibile e la conoscenza dell’essere trovano sintesi solo nell’ente, per cui

147

Ivi, pag. 176. «L’uomo conosce l’essere in genere solo in quanto conosce in maniera sensibile»: Ivi, pag. 183. 149 Ivi, pagg. 184 e 185. 150 Ivi, pag. 186. 151 Ivi, pag. 187. 148

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noi cogliamo l’essere nella percezione previa solo attraverso il concetto di un singolo ente presentato sensibilmente. L’essere e l’ente non sono la stessa cosa (diastasi), perché l’essere è il termine ultimo dell’assoluta trascendenza dello spirito»,152 [ma l’essere] si rivela alla conoscenza finita e recettiva dell’uomo solo nella recezione di un oggetto sensibile […] in cui esso appare come ‘avente’ l’essere nella misura della sua essenzialità.

La «percezione previa» è la forma del fenomeno, l’orizzonte di senso entro il quale viene visto il fenomeno sensibile quale oggetto contrapposto all’autonomia dell’uomo, per cui «l’essere in genere è aperto all’uomo solo nel fenomeno». 153 Il presupposto dogmatico della teoria della storia di Rahner impedisce al suo discorso di costituirsi nel senso di una autentica apertura dell’uomo a Dio come incontro di libertà. Soprattutto la sua teoria della conoscenza come ricezione sensibile del mondo esterno, e che fa dell’anima umana una aristotelica «tabula rasa», contrasta con la più veridica ipotesi cristiana della responsabile partecipazione umana al compimento terreno del mistero divino, che pone come medium della conoscenza dell’altro – ossia del mondo – non già la materia, di cui è sostanziato il soggetto empirico dell’esperienza storica, ma lo spirito, che per definizione è attività caratteristica del soggetto trascendente e della sua esperienza d’amore. Lo stesso fondamento materiale della storia umana, legato com’è alla ripetibilità delle possibili forme spazio-temporali, rappresenta una polarità dialettica rispetto alla unicità e irripetibilità dell’evento della storicità in senso metafisico, che, assegnando alla libertà umana una realtà trascendente, apre le porte alla dicotomia cartesiana di natura e spirito che accompagnerà la gnoseologia storicistica, caratterizzandola, nonostante ogni avviso spiritualistico contrario, in senso oggettivamente naturalistico. Ciò viene implicitamente ammesso da Rahner allorquando afferma che «ci rappresentiamo anche l’essere in genere e tutto ciò che è immateriale alla maniera di un essere materiale, dunque come un soggetto (la materia) cui compete per sé una quiddità universale, come un ente che ‘ha’ l’essere»,154 ossia come un dato fenomenico colto in forma oggettiva. «Ogni ente – sostiene Rahner - può diventare un dato nell’orizzonte del fenomeno sensibile attraverso la parola», ma «non ogni ente può divenire nella sua essenza dato di una conoscenza recettiva».155 L’ente 152

Ivi, pag. 188. Ivi, pag. 189. 154 Ivi, pag. 190. 155 Ivi, pag. 195. 153

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la cui essenza è quella di possedere in maniera assoluta l’essere, è Dio, che è unico. La storicità è intesa come il luogo della trascendenza, nella quale, dal punto di vista oggettivo appare l’essere in genere, che si manifesta come fenomeno. «L’essere è aperto nel fenomeno in quanto in esso si colgono le proprietà universalissime dell’essere [che] si chiamano proprietà trascendentali dell’essere». 156 La «proprietà di un ente» è il «modo in cui l’ente possiede l’essere», possesso che «si può determinare attraverso la negazione»,157 la quale «ha la sua unica sede possibile nella parola». Questa, «da una parte non rappresenta l’ente nella sua essenza, dall’altra, attraverso la negazione che essa, e solo essa, può accogliere, può, a partire dal fenomeno, determinare ogni ente anche extrafenomenico».158 «La parola umana, alludendo per sé sempre ad un fenomeno, può essere il modo con cui ogni ente senz’altro si rivela», ossia si apre, all’uomo, il quale pertanto è «l’essere che ha necessariamente il dovere di ascoltare una possibile rivelazione del Dio libero […] in una parola umana».159 Il «fenomeno non è altro che ciò che l’uomo incontra nella sua storia: ogni ente terrestre», sia un oggetto sensibile che «l’uomo stesso nella totalità del suo essere e del suo agire».160 La parola,»intesa anzitutto nel senso di un segno rappresentativo di ciò che non è dato in se stesso»,161 è «il luogo di un possibile incontro rivelatore col Dio libero, di fronte a cui l’uomo si trova in forza della sua originaria trascendenza». Tale parola non solo «viene pronunciata in termini umani», ma secondo Rahner «è anche in grado di esprimere tutto ciò che dev’essere eventualmente rivelato.162 Ma come è possibile ipotizzare una compiutezza del senso della parola se non riferendola alla possibilità del senso stesso entro l’orizzonte ermeneutico in cui esso storicamente si esprime? Il luogo della parola di Dio, secondo Rahner, coincide con il luogo della storia dell’essere umano, anche se il carattere libero e contingente dell’atto divino, «imprevedibile», lo rende storico anche in senso metafisico e non solo strettamente umano. 163 Resta comunque problematico il rapporto immanenza-trascendenza. La vigile preoccupazione teoretica di Rahner è di non coniugare spiritualismo con soggettivismo, cercando di preservare l’oggettività 156

Ivi, pag. 192. Ivi, pag. 196. 158 Ivi, pag. 200. 159 Ivi, pag. 201. 160 Ivi, pag. 202. 161 Ivi, pag. 153. 162 Ivi, pag. 202. 163 Ivi, pag. 203. 157

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della conoscenza come un dato originario dipendente dalla natura dell’oggetto, e non dalle modalità apriori della sua conoscenza. In altri termini, attraverso l’impianto tomistico, Rahner cerca di condurre il discorso ontologico al punto in cui il kantismo ha posto il limite gnoseologico del criticismo anti-metafisico, per cui, invece di secondare, secondo la stessa lettura di Heidegger, la tendenza antropologistica della moderna teoria della conoscenza spirituale, il teologo cristiano si sforza di rappresentare il limite criticistico kantiano come il dato originario della coscienza, sul quale fondare ogni tipologia teoretica, compresa la conoscenza di Dio, che diventa perciò a sua volta Ente tra enti, e come questi anch’Egli sensibile. «Non si può – egli scrive - ipotizzare che l’uomo attraverso la rivelazione di Dio possa essere miracolosamente sottratto al suo modo naturale di agire e di pensare», perché altrimenti «abbasserebbe la rivelazione libera al livello di parte integrante dell’uomo stesso, perché non potrebbe essere conosciuta più come inattesa, come atto libero di Dio rispetto all’uomo già pienamente costituito nella sua essenza». 164 Motivazione fragile ed equivoca, legata al concetto dogmatico di storicità e di libertà come assoluto volere rispetto a ogni umana condizione contingente. L’uomo è un essere storico a causa della sua apertura trascendente, protesa verso l’essere in genere, verso Dio e quindi verso una possibile rivelazione. L’uomo, per trovarsi di fronte all’essere in genere deve rivolgersi al fenomeno, [inteso come] tutti gli enti esistenti nel mondo, tra i quali è compresa sia la storia del singolo uomo sia quella dell’umanità, di cui egli è sempre membro. Il rivolgersi alla storia non è quindi un atteggiamento lasciato alla discrezione dell’uomo ma gli è imposto fondamentalmente dalla sua spiritualità specifica. Una rottura cosciente con la sua storia sarebbe quindi nell’uomo una contraddizione intrinseca con la sua essenza considerata non solo nel suo aspetto biologico ma anche proprio in quello spirituale.165

Rahner pare non avvedersi della insuperabile difficoltà di coniugare oggettivismo e spiritualismo fuori del fondamento ontologico naturalistico greco, che proprio la prospettiva spiritualistica cristiana negava radicalmente con l’ipotesi creazionistica, la quale tendeva a sottrarre la visione dell’uomo dalla antropologia naturalistica pagana. Questa tensione teoretica tra ontologia antica e nuova spiritualistà cristiana giunse al punto di rottura con Protestantesimo, che l’incarnò 164 165

Ivi, pagg. 204-205. Ivi, pag. 207.

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attraverso l’istanza di un ritorno allo spirito anti-metafisico evangelico.166 Secondo Fabro il Protestantesimo è stato caratterizzato dalla tensione (Spannung) tra giustificazione (Rechtfertigung) e riconciliazione (Versöhnung), vita temporale (Diesseits) e vita eterna (Jenseits), che però non ha trovato un «punto di consistenza superiore alla tensione stessa» che impedisse di far «prevalere a caso l’uno o l’altro dei termini in lizza». E invece «è stato precisamente questo l’esito del dogma nel Protestantesimo: al centro una teologia ortodossa travagliata da un equilibrio continuamente instabile perché minacciato alla periferia dal razionalismo assoluto e dal fideismo assoluto che premono ai lati».167 In questa «tensione», che, secondo lo stesso Fabro, costituisce «il movente segreto nella storia della Chiesa», che trova nel dogma la sua «espressione e formulazione», essendo «il dogma quindi che regge e caratterizza la vita della Chiesa così che le varie epoche della storia della cristianità prendono la fisionomia della tensione che si presenta come predominante e dà l’allarme»,168 si compendia più generalmente l’intero processo metafisico della cultura moderna, sospesa tra un ritorno post-cristiano alla ontologia classica, in chiave spesso anticristiana, e un ritorno post-cattolico allo spiritualismo anti-metafisico del Vangelo, in chiave anti-pagana. Sotto questa prospettiva, il contenzioso teologico infra-cristiano coinvolgeva gli stessi fondamenti ontologici del sapere, non solo religioso ma filosofico e scientifico, per cui l’opera di de-mitizzazione intrapresa dalla teologia protestante svolse una funzione teoretica di segno critico analoga a quella di ogni filosofia razionalistica nei confronti della rappresentazione mitologica dell’Essere, indicativamente custodita nel nostro caso dal cattolicesimo, il quale si vide costretto a lottare, per la sua preservazione, contro ogni forma di modernismo, sia teologico che scientifico. Sul fronte della teologia critica, l’esito della «opera di corrosione e di spasimo» rappresentato dal Protestantesimo ebbe come «risultato» storico-culturale che esso «finì sommerso come religione rivelata, prima per opera del razionalismo illuminista», il quale «anticipa di due secoli le posizioni del materialismo dialettico», e quindi «dell’idealismo «Il punto di partenza del Protestantesimo fu l’esigenza, o la pretesa, di un ritorno all’interiorità del Cristianesimo del Vangelo che sarebbe stato compromesso dalla struttura prevalentemente giuridica della Chiesa romana e da una teologia speculativa come la Scolastica che aveva chiesto alla filosofia greca i principi per appropriarsi delle verità che Dio aveva comunicato con la Rivelazione»: C. Fabro, Dall’essere all’esistente, Brescia, 19652, pag. 71. 167 Ivi., pag. 73. 168 Ibidem. 166

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romantico (Kant, Hegel, Schleiermacher), poi da parte della teologia liberale fino al più recente storicismo teologico e allo stesso Jaspers che hanno volatilizzato, senza residui, il contenuto soprannaturale e trascendente del Cristianesimo». 169 Se il motivo dominante della posizione tradizionalistica cattolica è il magistero apostolico quale fonte di ogni legittimazione ecclesiale, il «centro» della «spiritualità» protestante è la Anfechtung, ossia lo «scrupolo» o la «tentazione», che è un tipico motivo luterano che «rappresenta, in un certo senso, nella sfera della coscienza del credente ciò che il peccato originale è nella sfera ontologica ovvero la separazione da Dio che l’anima sperimenta dovunque nella vita dello spirito», restando «in un’oscillazione continua», sicché staccandosi dalla Chiesa, «l’interiorità protestante era insidiata fin dal suo inizio dalla frattura fra dogma e vita».170 L’equilibrio apparente poté ancora mantenersi per tutto il sec. XVII grazie alla energia spirituale dei teologi conservatori, come anche del grande Leibniz e poi di Wolff nel quale però si avvertono ormai evidenti i segni del crollo teologico. Questo avvenne infatti nel secolo XVIII secondo le due direzioni apparentemente opposte del razionalismo e del fideismo che traggono origine dalle due Critiche della ragione di Kant. […] Il razionalismo religioso di Kant spunta dappertutto: egli vede nelle verità religiose soltanto un «contenuto morale» e lascia perciò cadere ogni «contenuto dogmatico» in senso teologico stretto. Il «peccato originale» è ridotto al «male radicale» (das radicale Boese) cioè alla debolezza congenita per fare il bene: il racconto biblico della caduta dei progenitori è per Kant un mito. Similmente nell’interpretazione della S. Scrittura, è il significato morale ciò che conta e il compito del contenuto storico, della «fede storica», è di essere veicolo per la condotta morale. Inutili perciò riescono la fede nella rivelazione e nella critica, inutile è l’opera di una Chiesa visibile: l’unica rivelazione di Dio è quella ch’egli compie in ciascuno con la voce della coscienza (Gewissen).171

Secondo Fabro, con la piega storicistica che fa assumere all’essere spirituale grazie alla conversio ad phantasmata dell’intuizione sensibile, Rahner avrebbe «compiuto il completo assorbimento del realismo tomistico nel trascendentalismo kantiano». E pur avendo cercato di inscrivere il processo trascendentale all’interno dell’orizzonte realistico tomista, il teologo cattolico finisce per rappresentare un

169

C. Fabro, Op. cit., pagg. 71-72. Ivi, pag. 81. 171 Ivi, pag. 82. 170

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«capovolgimento del realismo tomistico in processo trascendentale».172 Per Fabro è chiaro che la posizione di Kant è una reazione al soggettivismo dogmatico – sia teorico come pratico – del Protestantesimo ortodosso, imitato alla lettera della Scrittura e stretto nella sola fide: tanto il principio della facultas seipsam interpretandi della Bibbia, come la invocata analogia fidei che dovrebbe dirimere i punti controversi mediante i principi già chiaramente stabiliti, non possono essere di aiuto e fornire un criterio solido. Per questo il Protestantesimo è finito inevitabilmente nell’anarchismo. Il principio fondamentale kantiano del Bewusstsein überhaupt elimina a un tempo la consistenza ontologica e quindi ogni problema spirituale del Singolo e contiene ormai i germi della risoluzione del dogma in «sapere teoretico» e in «sentimento di dipendenza» a cui arriveranno avversandosi Hegel e Schleiermacher.

Ma il critico di Rahner non spiega le ragioni ontologiche di tale «capovolgimento» delle posizioni fideistiche in quelle realistiche e viceversa, lasciando quindi nell’ombra stocastica il perché in seguito, con Reimarius, Lessing e Herder, «Cristo è ridotto a un ideale morale, il più alto, della vita umana e il Cristianesimo alla forma più pura della religione (e rivelazione) naturale».173 Da tale incomprensione, che è all’origine dell’atteggiamento polemico e difensivo del cattolicesimo verso il Protestantesimo, deriva pure l’atteggiamento puramente ostativo del pensiero cattolico verso pressoché tutti i movimenti ideali dell’età moderna, anche quelli dichiaratamente cattolici, che pure erano sorti dalla dialettica interna all’orizzonte onto-teologico greco-cristiano, rappresentandoli come una mera deformazione ideologica della recta ratio custodita dalla Chiesa. 7. L’atteggiamento cattolico è determinato dalla posizione dogmatica di riaffermare il pensiero di Tommaso come la mitologia più strutturata della fede cristiana tradizionale, nel cui universo di senso ontoteologico è possibile rappresentare sia la «convinzione del reale», cioè il suo fondamento ontologico, che la relativa dottrina della conoscenza, ossia la sua elaborazione teologica. Proprio il tema gnoseologico appare alla sensibilità teoretica moderna il terreno preferenziale per una verifica critica dei tradizionali fondamenti di fede religiosa, secondo una precipua metodica che il pensiero moderno ha preteso costituire unico legittimo terreno dialettico delle distinte prospettive razionali, ma

172 173

C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, cit., pagg. 80 e 81. Ivi, pag. 83.

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che discende dalla tradizione metafisica classica ereditata dalla teologia cristiana. Già lo spostamento di accento teoretico, dal fondamento di fede al criterio di leggibilità del mondo, è indicativo della necessità che l’universo religioso incontra di ri-elaborare la propria tradizione fideistica in chiave filosofica, assegnando conseguentemente alla sua posizione già ancillare un rilievo moderno.174 In tal senso, il rapporto tra l’elaborazione filosofica dell’evento religioso e i contenuti teologici della sua rivelazione, si dispiega nello stesso tempo come «problema teoretico-scientifico» tra due campi disciplinari, e come «problema esistenziale dell’uomo che indaga», e quindi inerente tanto alla «giustificazione rispetto al suo oggetto» di una ricerca, che a «i motivi e gli intenti per cui l’uomo la coltiva».175 Da qui la priorità della questione relativa alle condizioni che rendono possibile la conoscenza (la tomista conversio ad phantasma)176 e il rapporto del sapere (la tomistica vis cogitativa) col «mondo», inteso come «il nome della realtà accessibile all’esperienza immediata dell’uomo». 177 Per affrontare la problematica gnoseologica occorre definire, accanto all’oggetto della conoscenza, anche il soggetto. La questione «che cos’è l’uomo» intende innanzitutto determinare l’essenza dell’ «anima». […] Nello stesso tempo l’ «anima», in quanto fondamento essenziale dell’uomo, è anche considerata il luogo di un evento teologico capace di ricevere l’appello di una rivelazione. L’essenza dell’uomo è interamente se stessa soltanto nell’attività. Così ciò che l’uomo è, si rivela solamente nell’attività, solo lì si disvela la sua essenza […]. 178

L’idea tomista dell’uomo si compone di due elementi essenziali: quello della sua natura spirituale, che lo pone in relazione con Dio, e quello della sua natura razionale, che lo pone in relazione col mondo. La differenza dei due rapporti è la condizione ontologica della partecipazione dell’uomo alle sue due nature essenziali, nonché la 174

Di questo era consapevole Rahner stesso allorquando avvertiva nella sua Introduzione a Geist in Welt che «qui opera una interpretazione di Tommaso che procede dalla filosofia moderna, […] da Kant fino a Heidegger»: K. Rahner, Geist in Welt. Zur Metaphysik der endlichen Erkenntnis bei Thomas von Aquin (1936), tr. it., Milano, 1989, pag. 4. Da ora GW. 175 K. Rahner, HdW, tr. it. cit., pag. 29. 176 «La conversio ad phantasma è la parola chiave tomista per designare l’unità di tutte le potenze conoscitive umane nell’esercizio della conoscenza e con ciò, infine, anche l’unità d’origine dell’unico conoscere umano»: K. Rahner, GW, pag. 5. 177 Ivi, pag. 4. 178 Ivi, pag. 19.

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premessa della definizione metafisica di tale partecipazione. La relazione di partecipazione nasce dalla postulata differenza tra l’ente oggetto di conoscenza e il soggetto della conoscenza, per cui il quid delle singole cose conosciute si trova in modo diverso nella cosa e nell’intelletto. In tal modo il conoscente si contrappone al conosciuto e si eleva già ad una critica dell’oggetto: all’oggetto materiale è assegnata una determinata posizione metafisica affermando che la sua forma, il suo essere e il suo contenuto intelligibile, si trovano nell’ente materiale «in modo diverso» che nel conoscente intellettivo. Le cose materiali particolari, allora, sono misurate da una grandezza che non è loro immanente e che tuttavia le misura, perché il conoscere non solo le possiede coscientemente, ma, nel giudizio, distingue il loro modo di essere metafisico da altri modi.179

Questa conoscenza, trascendendo l’oggetto da cui parte, è metafisica, 180 per cui la teoria che l’interessa non è, come in Kant, una critica della conoscenza, ma bensì una metafisica della conoscenza.181 La conoscenza intellettiva del mondo, nella sua intrinseca possibilità, è il fondamento di ogni conoscenza umana […] e per questo [la conoscenza] avrà già superato, in quanto tale, le cose particolari giudicandole e tuttavia si baserà su queste senza possedere preliminarmente la norma del loro giudizio in modo consapevole. La problematica tra la conoscenza del mondo e una metafisica che lo trascende si è introdotta nella conoscenza del mondo stesso. Essa deve basarsi (convertere) sulle cose (phantasmata), ma, in quanto conoscenza universale e necessaria, deve giudicare queste cose.182

La posizione tomista, che si vuole «metafisica», sviluppa la sua teoria gnoseologica a partire da un fondamento ontologico implicito che, come ogni postulato metafisico, è costituito da un atto di fede che sostiene un’Idea, secondo la quale «l’uomo possiede una cognitio immaterialis, universalis et necessaria». Ed è questa Idea che sostiene la visione antropologica tomista. Ma l’universalità è una condizione necessaria della conoscenza, o non piuttosto una posizione assiologica, che trasforma il dato di coscienza in dato di conoscenza sul fondamento di un postulato di fede, per cui «l’uomo possiede una cognitio immaterialis, universalis et necessaria», sul cui principio è fondata la visione antropologica che «Tommaso 179

Ivi, pag. 22. Ivi, pag. 24. 181 Ivi, pag. 4. 182 Ivi, pag. 24. 180

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condivide con ogni grande filosofia, da quella dei Greci fino a quella di Hegel»?183 Secondo la nostra prospettiva, il rapporto tra conoscenza metafisica (cognitio universalis) ed esperienza sensibile del mondo è dogmatico, per cui l’affermazione tomista che «intellectum esse in actu est ipsum intelligere» rimane un’ipotesi metodologica sulla quale si fonda «l’archetipo del conoscere» circa «l’identità reale di conoscere ed essere conosciuto», da cui discende la definizione assiomatica per cui «conoscere è l’essere-presso-sé dell’essere», e la conseguenza ricordata da Rahner che «c’è un’intuizione, in senso autenticamente tomista, solo là dove l’essere nel suo sé reale è appreso perché è identico a colui che lo apprende».184 Se sussistesse tale identità di conoscente e conosciuto, essa sarebbe originaria, pre-cognitiva, e perciò sempre auto-cognitiva e, tutt’al più, sarebbe un’operazione di anamnesi dell’archè. Su questo presupposto intuitivo nasce il soggettivismo cartesiano e l’identità coscienzialistica di pensiero ed essere, da cui origina ogni forma moderna di immanentismo e di panteismo. Il punto decisivo è la differenza dell’intuizione dal concetto, il quale ultimo procede per astrazione dei fenomeni ritenuti rilevanti dalla concreta realtà del molteplice divenire. Ora, è esattamente la percezione della molteplicità in divenire l’attività dell’intuizione, la quale conosce il Tutto prima di ogni astractio, divisio et compositio concettuali. Intendere l’intuizione, alla maniera di Tommaso, come «un’apprensione immediata dell’intelligibile nel suo sé reale e presenziale»,185 equivale a confondere l’essere del concetto – cioè l’oggetto della sua astrazione cognitiva – dall’essere concreto, oggetto dell’intuizione, il quale non è l’ente ideale e astratto del concetto, ma l’Essere totale. Solo l’intuizione conosce l’Essere, mentre il concetto conosce l’ente. Ed è tale ente che, concepito come essere ideale, viene assunto come elemento molteplice di analoghi enti ideali, tra i quali l’intelletto stabilisce delle relazioni razionali, cioè appunto ideali. La realtà dell’intuizione, ossia l’Essere, essendo Uno e non Molteplice, non può rappresentarsi come processo in divenire, ossia sottoforma di relazioni causali, ma bensì come l’immagine dell’Essere nella sua immota totalità. Tale immagine dell’Essere è sensibile a riguardo della forma rappresentativa (imaginatio), ma è metafisica a riguardo del carattere trascendente lo spazio e il tempo, entro i quali si inscrive

183

Ivi, pag. 22. Ivi, pag. 28. 185 Ivi, pag. 28. 184

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l’esperienza ontica del Molteplice. L’intuizione sensibile è quella dell’opera d’arte, mentre l’intuizione metafisica è quella del fondamento ontologico. Solo due diverse modalità rappresentative di un unico atto teoretico, considerato secondo i distinti momenti simbolici della forma estetica e del contenuto razionale. L’opera d’arte, in quanto rappresentazione estetica dell’Essere, è l’immagine sensibile dell’Essere secondo il Mito ontologico, ossia è una ontologia per immagini anziché per fabulas. La rappresentazione mitico-estetica dell’Essere divino è l’Icona ( ), mentre la rappresentazione mito-logica è il , il racconto religioso.186 La religione, come rappresentazione liturgica e come 186

Tanto la rappresentazione sensibile che quella razionale sono entrambe simboliche, in quanto, se l’espressione estetica rappresenta sensibilmente un’essenza, cioè un contenuto razionale, questo contenuto è costituito da un fondamento ontologico, che fa fede della sua realtà, e di una sua rappresentazione razionale, che fa fede della sua credibilità, per cui le due rappresentazioni, quella estetica e quella razionale, si richiamano e si implicano vicendevolmente. Diversamente, l’assunzione di realtà della sola espressione sensibile o della sola significazione razionale, determina una astratta scissione della loro unità simbolica, che ripone nel nudo fatto fenomenico e, rispettivamente, nel solo senso razionale, il significato immanente della loro realtà ideale. Di conseguenza, l’espressione sensibile diventa forma estetica, avente in sé stessa l’intimo principio di realtà e il suo processo storico-genetico, e il contenuto razionale diventa forma logica, in sé considerabile secondo leggi proprie di sviluppo dialettico. In tal modo, le due originarie dimensioni simboliche della realtà concreta, concepite come aventi in sé una propria realtà sensibile e ideale, si sviluppano in reciproca indipendenza e secondo una loro propria tendenza storica, oggetto di conoscenza scientifica. Le distinte storie dell’arte, della filosofia, etc. sono spicchi di realtà considerati secondo una chiave di lettura logico-fenomenica che inevitabilmente riporta la loro processualità storico-genetica a un relativo soggetto ideale, la cui identità empiricoesistenziale è l’artista o il filosofo, e quella trascendentale è l’Arte o la Filosofia, intese come universali categorie spirituali, Soggetti logico-formali della Storia ideale eterna dell’uomo razionale. Una siffatta rappresentazione scientifica della realtà storica è di tipo puramente logico, e non ontologico, e perciò al fondo irrazionale e contraddittoria, fideistica appunto, in quanto una Storia eterna è il contrario di un processo storico, diretto a un fine razionale, ma è la glorificazione dell’attimo fattuale, reso libero nel suo assoluto presente da ogni vincolo teleologico di senso trascendente, ed è perciò un Mito, quello della universalità del concetto. È sulla base di una tale conoscenza mito-logica che si fonda la comprensione del mondo moderna, il cui principio di realtà è costituito dalla credenza nell’esistenza di quelle astratte determinazioni onto-logiche. Senza una tale fede ontologica, che caratterizza il razionalismo moderno, le essenze logiche

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affermazione dommatica dell’Essere, ha questa origine. Così come la critica razionale del fondamento ontologico origina la filosofia, il cui pensiero è dunque costitutivamente negativo, in quanto oggettiva idealmente della realtà concreta l’elemento logico, astraendolo e distinguendolo dall’elemento dogmatico, cioè ontologico. La filosofia può concepire un mondo, logicamente coerente e razionalmente concluso, ma non può rappresentare la esistenzialità del mondo-dellavita, dal quale la rappresentazione logica coscientemente si astrae. L’intuizione è immaginativa (imaginatio) in quanto ha per oggetto la realtà sensibile, l’esperienza del mondo, legata allo spazio e al tempo. Quando l’intuizione sensibile si pone come un dato ipotetico della ragione, da verificare empiricamente, essa acquista valore di congettura scientifica. Questa posizione è assegnata all’intuizione da parte della coscienza logica, che analizza la rappresentazione intuitiva in senso critico, distinguendo dialetticamente ciò che è da ciò che non è logicamente sostenibile secondo il principio logico di realtà, che è di modo esclusivo. Rispetto al modo di realtà mitico, il modo logico opera attraverso la sistematica distinzione, e conseguente esclusione dalla realtà, degli elementi immaginativi le cui relazioni di senso razionale non sono universalizzabili, ma legate alla sola contingenza sensibile, e designate come prodotto della immaginazione fantastica. La rappresentazione fantastica della realtà viene designata come narrazione mitica, il cui senso razionale unitario non è l’universo logico ma bensì quello intuizione immaginativa del Mito, in cui domina il principio di Possibilità e non di Necessità. Soltanto la rielaborazione logica dell’intuizione immaginativa distingue l’elemento mitico da quello razionale, originariamente congiunti nella stessa rappresentazione simbolica della realtà, assegnando al primo, il carattere della rappresentazione fantastica, e al secondo il carattere della rappresentazione reale. Ciò comporta che il principio di realtà, originariamente di carattere intuitivo, e quindi inclusivamente simbolico tanto dell’elemento fantastico che di quello razionale, venga assegnato al solo contenuto di coscienza razionale, che diventa così l’unico orizzonte di senso universale. finirebbero di essere (credute) reali, e verrebbero considerate invece come rappresentazioni mitiche. Da qui il carattere religioso dello scientismo moderno (storicismo compreso), e la necessità per la sua sopravvivenza dello screditamento teoretico delle altre fedi religiose storiche. E da qui, inoltre, la tendenza monistica del razionalismo – idealistico o materialistico -, che riporta a un’unica fonte genetica (lo Spirito, ovvero la Materia) la fenomenologia della sua astratta rappresentazione dell’Essere.

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La ratio disgiunta dalla fides originaria, acquista valore di senso universale e fondamento di realtà del relativo universo razionalistico. Il razionalismo è pertanto l’universalizzazione della ratio per mezzo della logica, che determina la ragione universale della realtà. La realtà contingente, esclusa dall’universo di senso logico, perde nei suoi confronti anche il senso della sua ragion d’essere, diventando il luogo della casualità irrazionale e della insignificanza. L’insignificante è ciò che la dialettica esclude dall’universo di senso logico, e consegna alla realtà del Mito, che pertanto diventa il luogo antonomastico della non-realtà, della rappresentazione fantastica della irrealtà, ovvero il non-luogo dell’insignificante. La logica trasforma così il fondamento ontologico intuitivo della realtà in orizzonte utopico, convertendo pertanto l’essere simbolico originario in non-essere logico. Questa dialettica della ragione astratta è il portato nella critica logica del Mito, della sua originaria intuizione del mondo, che, negando il fondamento della fede ontologica nell’Essere, opera anche come critica della verità. Le intuizioni del mondo, infatti, se considerate in se stesse (quoad substantiam), sono mere ipotesi razionali; se invece sono considerate in relazione alla fede che le afferma (quoad modum), sono verità di ragione. La perdita della verità del Mito coinvolge la crisi stessa della ragione come ragione del sapere mitico, come mito-logia. In questo senso, ogni ri-elaborazione razionale della religione come Mito fondativo del sapere razionale, è una filosofia della religione. L’universo simbolico del Mito, dunque, si infrange nel momento in cui interviene al suo interno il criterio dialettico, in base al quale l’elemento razionale della rappresentazione mitologica è giudicato reale solo se universalizzabile, cioè solo se rappresentabile in senso universale e non contingente, sicchè soltanto la realtà universale viene definita esistente. La condizione della realtà del Mito viene dunque legata alla possibilità della sua esistenza universale, ossia della sua esistenzialità, e pertanto all’interno dell’universo di senso logico, per cui l’essenza ideale coincide con l’esistenza reale. Di converso, solo la messa in mora del principio di realtà stabilito dal fondamento logico-ideale consente di ripensare criticamente tale fideistica identità ontologica, ristabilendo la differenza ontologica tra ente (esistente) ed essere (essente). Con la fine della credenza ontologica cristiana, viene meno anche la necessitas della cognitio immaterialis universalis del tomismo. La teoria aristotelica della conoscenza intellettuale, prevedente il

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riferimento ai phantasmata,187 è legata all’impianto idealistico della metafisica greca, per il quale, come sappiamo, l’Essere è l’Idea dell’ente, cioè la proiezione meta-fisica della realtà fisica sensibile. La possibilità della trascendenza della realtà fisica finita, in senso greco, è legata all’Idea e alle determinazioni concettuali della realtà sensibile, in senso cristiano, invece, è legata allo Spirito, la cui intuizione non può essere sensibile. Da qui il «dilemma» di cui riferisce Rahner, «se considerare la conoscenza intellettiva una conoscenza metafisica in sé conchiusa, […] che possiede il suo contenuto indipendentemente dall’esperienza sensibile, […] oppure, se considerarla una conoscenza che deve tenersi costantemente sul terreno dell’immaginatio come l’unico fondamento che la rende possibile, senza un’intuizione metafisica autonomamente fondata.188 Da qui inoltre la centralità della questione della conversio ad phantasmata nel pensiero di Tommaso, che consente aristotelicamente all’intelletto agente l’ «astrazione» dell’immagine da tutte le sue caratteristiche materiali, e quindi il superamento della stessa percezione sensibile dell’oggetto singolare per la conoscenza intelligibile della essenza universale delle cose sensibili (quidditas rei materialis). Il passaggio dal singolare sensibile all’universale intellettivo e il processo inverso per giungere dall’essenza alla singolarità dell’atto cognitivo (reflexio), concludono il circolo ermeneutico del processo della conoscenza o riflessione di «ritorno» (reditio completa). 189 Allorquando l’oggetto della conoscenza originaria dell’intelletto non è più l’ente sensibile ma i Libri sacri e la stessa tradizione dogmatica della ermeneutica teologica, considerata come un corpus filologico non più assunto acriticamente dalla nuova lettura biblica proposta dai Riformatori, non soltanto viene a mettersi in discussione l’universalità della lingua dotta medievale, il latino, ma si infrange la stessa pretesa universalistica dei suoi contenuti di ragione, che il dogma custodiva, coltivando la pretesa di giungere al «senso originario dei testi» attraverso una ermeneutica filologicamente rigorosa attraverso «l’apprendimento della lingua greca o ebraica e la purificazione del latino stesso», sicché «attraverso Lutero e Melantone, la tradizione umanistica è venuta a confluire con l’impulso riformatore».190

 : De anima, , 7, 431a 17; ved. K. Rahner, GW, tr. it. cit., pag. 31. 188 K. Rahner, GW, tr. it. cit., pag. 30. 189 Ved. P. Porro, Tommaso d’Aquino. Un profilo storico-filosofico, Roma, 2012, pagg. 279-281. 190 H.G. Gadamer, WuM, pag. 212. 187

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Con la rimozione della tradizione ermeneutica ecclesiastica, e la esaltazione del presunto sensus literalis della Scrittura, viene messa in discussione la «oggettività» della gnosi teologica aristotelico-tomistica, e in senso lato razionalistico-metafisica, sulla quale si fondava la stessa autorità intellettuale e morale della Chiesa, spostando il baricentro della nuova prospettiva teoretica sul soggetto conoscente, ossia sulla sua attitudine a stabilire una relazione organica, cioè razionalmente coerente, tra il contextus oggetto di interpretazione e il suo senso unitario, costitutivo dello scopus significativo a cui mira, tale che l’unità della coscienza ermeneutica del soggetto vada a coincidere dogmaticamente con l’unità di senso che si pretende dalla Bibbia. 191 In altri termini, la dissoluzione critica dell’universo teoretico-religioso cristiano perpetrata dalla esegesi riformatrice veniva in intenzione arginata in funzione katechontica dall’unità della coscienza del soggetto morale, sostenuto non più dalla tradizione ermeneutico-dogmatica cattolica, ma dalla attingibilità alla stessa fonte scritturale delle sue convinzioni di fede. La rimozione della mediazione tradizionale dal rapporto Soggetto-Oggetto, rendendolo diretto, creava i presupposti teoretici della riabilitazione del razionalismo antico, e dell’assunzione idealistica dell’identità ontologica dell’Essere con l’ente che da Platone giungerà a Hegel, eliminando conseguentemente l’apporto noetico fondamentale del Cristianesimo quale gnosi fondata su ciò che Heidegger chiamerà la «Differenza ontologica» tra il Seyn e il Seiende, alla cui relazione mediatrice (Vermittlung) si pone il Cristo, il Mediatore per antonomasia. Il monismo ontologico è la premessa del moderno immanentismo razionalistico, fondato sulla soggettività trascendentale creatrice di senso e di realtà. Infatti, l’identità onto-teologica della coscienza con il suo oggetto intende la «oggettività» come estraneazione momentanea del processo dell’auto-coscienza produttiva del suo oggetto. Ma l’estraneazione dell’uomo dalla originaria condizione soprannaturale, che solo la redenzione della fede può condurre alla riconciliazione (Versöhneng) attraverso la mediazione di Cristo, non è equiparabile alla astrazione come momento dell’auto-coscienza. La oggettività intesa come Entäußerung dell’auto-coscienza è il prodotto della soggettività che costituisce l’elemento spirituale dell’oggetto reale (Dingheit), il quale oggettivandosi come atto razionalmente giustificato, si realizza come prodotto culturale di natura sociale. L’identità dell’atto spirituale, che nel nostro caso è il prodotto ermeneutico, cioè l’interpretazione univoca delle Sacre Scritture, con il fatto sociale, cioè con l’oggettiva

191

Ivi, pag. 213.

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realtà del prodotto culturale, è all’origine di quella metàbasis eis àllo génos della verità di ragione che si converte in opinione «quando entra nella piazza pubblica».192 La identità dell’atto della coscienza ermeneutica con l’oggettività del fatto sociale, cioè con la fatticità del prodotto storico impersonale, è possibile soltanto ammettendo la coincidenza dell’universalità del prodotto del Soggetto poietico con la necessità del suo rispecchiamento fattuale, il cui inveramento consiste nella corrispondenza ontologica di matrice idealistica. Il Soggetto ideale hegeliano si capovolge in marxiano soggetto collettivo in quanto suppone una comune determinazione logica propria di una ontologia monistica. Ma l’Umschlag non sarebbe possibile senza quel fondamento dogmatico di cui parlava Gadamer, che l’ermeneutica dei Riformati mutua dall’ontologia dell’idealismo greco, cioè da quella tradizione razionalistica ereditata dalla metafisica cattolica. I prodromi intellettuali della critica illuministica alla Tradizione, non solo teologica ma sociopolitica, sono in nuce nella nuova ermeneutica teologica dei Riformati, la cui aspra ed estenuante contesa coi cattolici su grazia, libero arbitrio e predestinazione finì per spostare l’attenzione intellettuale su questioni più neutre in senso schmittiano, quali quelle relative a una condotta moralmente corretta, elaborata dai platonici di Cambridge, dal neostoicismo e dal deismo, fino a configurare una armonia di tipo secolaristico in cui l’idea di ordine naturale nel comportamento umano assunse una valenza economica di modello di sana e razionale produttività tesa alla personale e comune prosperità, la cui forma di realtà oggettivata finì per condizionare fortemente l’ «immaginario sociale» moderno.193 La costruzione di un ordinamento morale implica la sua positivizzazione politica di una volontà collettiva concentrata sul fine comune del suo benessere, in cui la moralità stia in uno stretto rapporto con la legalità. In questa prospettiva la filosofia della storia si assumerà il compito di dirigere il pubblico; poiché in essa, come propedeutica di un assetto cosmopolitico, le leggi della ragione si combinano con il benessere: essa stessa deve diventare opinione pubblica. Si arriva così all’autoimplicazione della filosofia della storia, 194 192

H. Arendt, Truth and Politics (1967), tr. it. a cura di V. Sorrentino. Torino, 1995, pag. 43. 193 Ved. Ch. Taylor, A secular Age (2007), tr. it., Milano, 2009, pagg. 207-242 e 285-302. 194 J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit (1962), tr. it., Bari, 1971, pagg. 140-142.

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dove il progresso verso il meglio universale implica l’esautorazione della Provvidenza e della gratuità della Grazia a favore di un piano razionale che, per la sua realizzazione storica, esige l’unificazione delle coscienze empiriche in corrispondenza all’unità intelligibile della coscienza in generale [la cui] universalità è quella della coscienza empirica cui la filosofia hegeliana del diritto darà il suo vero nome: opinione pubblica.195

La nascita dell’opinione pubblica coincide con la versione secolarizzata dell’ermeneutica biblica riformata, la cui liberazione dal canone dogmatico procedeva dalla storicizzazione dello stesso orizzonte religioso entro il quale era possibile «capire il particolare in base al tutto», inteso modernamente come il «concreto orizzonte» della totalità storica, non più distinguibile in sacra e profana. Parimenti, «l’ermeneutica perviene alla sua essenza propria solo quando, da disciplina che sta al servizio di un compito dogmatico, si trasforma in disciplina che riveste la funzione di organo della storiografia». Ma la sua trasformazione in coscienza storica, non libera l’ermeneutica solo dai dogmi teologici bensì dalla stessa autorità del paradigma culturale classico, interrompendo tra l’antichità e il presente storico il tradizionale «univoco rapporto di modello e imitazione», conducendo con la lunga querelle des Anciens et des Modernes a «dissolvere la pretesa di normatività dell’antichità classica».196 Le conseguenze di tale posizione critica verso la Tradizione sono state devastanti per la civiltà cristiana, dando origine a una gnoseologia alternativa alla medievale cristologia. Infatti, il senso unitario della Storia, ossia il significato dell’Essere ideale conosciuto dal Logos ermeneutico, quale ragione universale conoscibile per acribia filologica, eliminava l’intervento della Grazia divina nella conversione della coscienza, e dunque del ruolo mediatore di Cristo, necessari alla determinazione della verità, conseguibile per statuto metodologico della teoria del comprendere in seguito, da parte del soggetto teoretico, etsi Deus non daretur. Questa nuova prospettiva apre due scenari complementari. Il primo riguarda il rapporto che il soggetto conoscente ha con l’oggetto conosciuto, assunto inevitabilmente come estraneo e da comprendere all’interno dell’orizzonte di coscienza del Soggetto trascendentale; il secondo riguarda la diversa declinazione formale della trasmissione del 195 196

Ibidem. WuM., pagg. 215-216.

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sapere. Sorvolando sul primo aspetto, ricordiamo solo che la distanza tra il Soggetto e l’oggetto era inevitabilmente destinata progressivamente a dissolversi in relazione alla centralità crescente del Soggetto quale referente teoretico del pensare metodico in quanto tale, secondo una linea di sviluppo che da Cartesio, attraverso Fichte e Hegel, giunge a Gentile. Più significativo per il nostro discorso è invece l’altro ricordato aspetto, inerente alla trasmissione del sapere. Infatti, il cambio di paradigma assiologico, recidendo la fonte della trasmissione tradizionale del sapere, quella appunto teologica, il cui monopolio ermeneutico era ecclesiastico, inaugurava una nuova tradizione, non più basata sulla trasmissione orale del sapere, secondo le modalità tipiche della comunicazione predicativa e orante del clero cattolico, ma sulla lettura commentata di un testo scritto, che richiedeva una tecnica di comprensione, essa stessa da definire per evitare la babele delle interpretazioni soggettive. In altri termini, la fine dell’unità della Tradizione preludeva alla fine anche dell’unità di senso garantita dal Logos universale, poiché la soggettivazione dell’attività ermeneutica implicava il rischio del fraintendimento, legato soprattutto al testo scritto.197 Ciò significa che, a fronte della rimozione delle garanzie istituzionali sulla recta ratio che operava sulla tradizionale attività esegetica, l’assicurazione di un Logos universale, consustanziale all’attività di pensiero di ogni uomo non bastava più a scongiurare il rischio della incomunicabilità, e quindi della fine stessa di ogni comunicazione interpersonale e diacronica. L’oscillante spostamento dal soggetto conoscente all’oggetto da conoscere, riflette la condizione propria di una prospettiva ontologica monistica in cui la reductio ad unitatem costituisce il presupposto di validità del costrutto cognitivo e lo sforzo teoretico dell’interprete. La ricerca del discorso universale fa il paio con quella dell’interpretazione universalmente valida, oggettivamente sostenibile, ossia razionale. Ma allorquando l’uni-verso si scopre essere un orizzonte linguistico e culturale storicamente determinato, e perciò variabile per tempo e luogo, ecco che la rimozione della Tradizione esegetica si ripercuote come instabilità intellettuale e ricerca di un fondamento veritativo, che solo la fede poteva offrire. Una fede che si rivela non solo religiosa, legata quindi a una particolare tradizione teologica messa in discussione, ma una fede anche e soprattutto ontologica, fondativa del presupposto di ogni discorso razionale, e dunque della stessa attività ermeneutica. In tal senso, la Tradizione custodiva, non tanto o non solo il potere legato al monopolio

197

WuM., pag. 217.

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ermeneutico delle Sacre Scritture (Auslegung), quanto il senso della Verità rivelata da quei sacri testi (Verstehen), costitutivi del mito arcaico sulla cui fede si basava la credibilità della rappresentazione della mito-logica della cultura cristiana, cioè di quella Tradizione magistrale che la Riforma non aveva più riconosciuto come ermeneuticamente vincolante. Il primo vulnus che la Riforma inferse alla cultura cristiana, e per essa alla sua civiltà fino ad allora strutturata sul fondamento teologicopolitico della Tradizione, fu l’esautorazione della lingua dotta universale del latino e la riformulazione dei fondamenti del sapere in un linguaggio inedito e allotrio, che costringe l’interprete a riesumare, non già le credenziali teologiche delle sue affermazioni attuali, privandole di una soggettività eversiva del senso comune consolidato, universalmente riconosciuto, ma il percorso teoretico attraverso il quale sia possibile giustificare razionalmente un determinato contenuto ideale. Occorreva risalire a quella che Spinoza nel Tractatus del 1670 chiamava «mens auctoris», che non era altro che la intentio agostiniana, consistente nella «intenzione dell’autore» relativa al resoconto di quelle «cose che l’autore poteva avere in mente» ma che «non si possono dedurre semplicemente dai principi della ragione».198 Ma ciò supponeva che quegli stessi principi non fossero tutto ciò che si potesse dire di un evento storico, il quale, per poter essere interpretato nel suo senso di verità, e non già in conformità al modello ideale astratto, doveva comprendere proprio ciò che l’astrazione intellettuale scartava come elemento particolare accidentale e transitorio dell’oggetto di conoscenza. Ossia quella soggettività esistenziale che faceva di qualcosa ciò che era concretamente sé stessa, la sua particolarità, distinguendola da altre, ma che la conoscenza razionale espungeva all’atto della sua considerazione intellettuale, ricercante l’essenza, ovvero il suo senso universale. Questa universalità di senso, dunque, non era più sufficiente a conoscere l’oggetto storico nella sua astratta verità universale, l’unica che secondo Aristotile fosse scientifica, ma secondo la rappresentazione desunta dal sensus orationum, cioè secondo il suo senso «storico»,199 per definizione particolare e perciò aristotelicamente non scientifico. La questione che si sviluppò come problema filosofico, a partire da Schleiermacher,200 fu di cercare di definire una conoscenza che fosse a un tempo storica e scientifica. La differenza ermeneutica si stabiliva implicitamente sul fondamento di

198

WuM., pag. 219. WuM., pag. 220. 200 Ved. W. Dilthey, La vita di Schleirmacher, 2 voll., Napoli, 2008, 2010. 199

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una più radicale differenza ontologica, inerente alla precipua natura dell’ente particolare e finito, rispetto all’Essere universale della gnosi razionalistica tradizionale.201 In realtà, essendo l’Idea platonica la proiezione dell’ente considerato nella sua universalità, ossia come generatore di senso comune a ogni ente, indicato come essenza, ed essendo questa sola conoscibile razionalmente, la conoscenza essenziale coincideva con la conoscenza possibile dell’ente, sicché sia l’ente che la relativa sua conoscenza venivano indicati come razionali. Possibilità e razionalità erano dunque teoreticamente sinonimi. 202 Le cose cambiano nella prospettiva ermeneutica, la quale, concentrandosi sulla particolarità dell’ente oggetto di conoscenza, assume di questo il carattere escluso dalla conoscenza razionale, cioè la sua fisionomia naturale, e pertanto una ermeneutica che volesse costituirsi come una scienza a sua volta universale, non poteva fare a meno di pensarsi come scienza naturale, riconfermando per altri versi la gnoseologia idealistica platonica, pur nella convinzione ideologica di costruire una scienza realistica, mirata alla intelligenza delle cose concrete. La cosa storicamente concreta è il testo scritturale, predisposto, a seconda dei casi, o esteticamente alla libera manifestazione del proprio pensiero, ovvero teoreticamente alla sua comunicazione tesa alla comprensione razionale. In ogni caso, l’ermeneutica è un’arte (téchne) del comprendere il prodotto del soggetto. In tal senso, per Schleiermacher, la comprensione di un autore è una sorta di «divinazione» o immedesimazione psicologica. Il «metodo» della comprensione dovrà avere di mira sia ciò che è comune – mediante la comparazione – sia ciò che è peculiare – mediante l’indovinare; cioè sarà insieme comparativo e divinatorio. Sotto entrambi gli aspetti, tale metodo resta però «arte», in quanto non può mai essere inteso meccanicamente come pura applicazione di regole. L’elemento divinatorio resta indispensabile.203

Le conseguenze per noi qui più rilevanti di tale impostazione metodologica sono anzitutto che il contesto significativo, all’interno del quale ha senso veridico l’interpretazione, ossia il «tutto» rispetto al quale il testo in oggetto è il particolare, non ha più un elemento fissato 201

La tesi di Heidegger si basa su questa elementare ripartizione gnoseologica, che lui, com’è noto, considera originaria della intera tradizione metafisica occidentale, a partire da Platone. 202 Sull’argomento, C. Marco, Platonismo e idialismo (inedito). 203 WuM., pag. 229.

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da una sedimentazione di senso tradizionalmente acquisita e fiduciariamente perpetrata, che funga da referente normativo per la contingente e variabile soggettività interpretativa, affinché il senso soggettivo non sia deviante dal senso comune ortodosso, ma entrambe le polarità entrano in una relazione dialettica di cui non è scontato l’esito ermeneutico, che diventa pertanto relativo e soggetto a infinite correzioni esegetiche. Ciò porta alla consapevolezza che l’individualità sia «un mistero che non si lascia mai svelare pienamente»,204 ossia che il senso della libertà umana, legata alla interna intenzione, sia trascendente ogni possibile manifestazione contingente che si manifesti come storico atto di volontà, per cui l’interprete non può limitarsi a cogliere la lettera del testo ma deve immedesimarsi alla mens auctoris considerandolo alla stregua di un creatore di senso. Ciò che mutava rispetto alla coscienza cristiana del passato era che il mistero della libertà umana, non avendo più nel Cristo la sua immagine universale e meta-storica, e dunque la sua risposta risolutiva, si parcellizzava nella constatazione delle empiriche difformità esistenti in ogni singola creatura umana, la quale, nel riconoscimento della propria finitezza, scopriva la sua dipendenza dal suo Creatore. In questo senso è stato ben detto da Gadamer che «il roblema di Schleiermacher non è quello dell’oscurità della storia, ma quello dell’oscurità del ‘tu’ ».205 Che poi è la relativa oscurità di ogni linguaggio singolare che abbia perduto l’originaria convenzionalità linguistica del linguaggio della cultura comune, il latino appunto veicolato dalla Tradizione. Con l’insorgenza delle lingue volgari nella fruizione letteraria delle distinte culture nazionali, la koiné tradizionale della lingua comune colta viene progressivamente a perdersi a favore di linguaggi non elaborati e suscettibili di una evoluzione semantica che aumentava vieppiù il senso idiomatico relativo locale mano a mano che essi si allontanavano dal referente tradizionale, che custodiva, con la lingua colta comune, anche il fondamento di senso della comune cultura, cioè il Mito (narratio) della Rivelazione cristiana, il Dóchema. Nella lingua comune di ognuno andava trasmesso e colto il contenuto della produzione letteraria particolare, pur nella consapevolezza che quanto espresso formalmente non fosse tutto il significato possibile, sicché l’interprete doveva scoprire nel detto anche il non detto. E ciò, privando ogni interpretazione del suo carattere normativo, esponeva la creazione individuale all’imponderabilità della libera rappresentazione della realtà, prendendo a prestito il modello del genio per delineare una teoria

204 205

WuM., pagg. 230-231. WuM., pag. 231.

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estetica universale. L’aspetto paradossale di questa teoria dell’ermeneutica era che essa, per giungere alla comprensione concettuale (begreifende) del suo oggetto, doveva ascendere a partire dalla comprensione meramente conoscitiva (erkennende) della sua forma empirica, e dunque procedendo a quella astrazione dal sensibile all’ideale propria di ogni processo cognitivo di tipo intellettivo. Tale processo ha, come modus operandi sistematico, il carattere generale della rimozione (occultamento od oblio) dell’Essere per l’affermazione (determinazione) dell’ente. 8. L’Essere della ontologia greca coincide con l’essere intelligibile delle cose. L’Essere non è un oggetto ma è l’oggettività, il fondamento della conoscenza che non è colto per atto intenzionale, ma è il fondamento dell’intenzionalità della conoscenza, la matrice di tutti i concetti, senza essere un concetto. Se il concetto determina l’ente, lo definisce secondo la sua realtà, esso, determinandolo come ciò-che-è, lo distingue dall’Essere. L’Essere è ciò che Scoto chiamava il «precognitum», ossia la condizione ontologica di ogni possibile determinazione ontica. L’Essere, nella sua differenza dall’ente, dunque è la rappresentazione del Tutto, rispetto al quale l’ente è qualcosa. Poiché l’ente si determina come ciò-che-è, l’Essere differente dall’ente è ni-ente. Sicché il Tutto, perché qualcosa sia, dev’essere pensato come Niente, e in quanto oggetto di pensiero, anche il Niente è. L’essere del Niente è la possibilità dell’ente, la condizione ontologica della sua libertà storica. In questo senso, il processo storico di razionalizzazione del mondo (che Heidegger chiama «la tecnica») coincide con il processo di negazione dell’Essere, cioè del Tutto, a favore dell’ente. Il Tutto, rispetto a ogni determinazione ontica, è l’indeterminato, il possibile rispetto al reale, il quale a sua volta è perciò in-possibile che sia Tutto, cioè che sia Niente. Solo l’Essere può essere Tutto e insieme Niente. Ma il Tutto che non è qualcosa, cioè ente, non è veramente Tutto ma soltanto la condizione di possibilità d’essere dell’ente, cioè la Differenza ontologica che rende possibile la realtà ontica. La Differenza è pertanto la libertà negata dalla determinazione dell’ente, ossia dalla sua necessità di essere qualcosa anziché niente e di essere se stesso anziché altro. Questa coscienza ontologica dovrebbe aver risolto la questione dell’Essere, che invece rimane aperta sin dalla fine del sec. XIII, quando portò alla divisione in seno alla Scolastica di due correnti speculative, facenti riferimento alla scuola domenicana e a quella francescana, rispettivamente platonico-agostiniana e aristotelica. L’aristotelismo, com’è noto, dominò la speculazione di tutto quel secolo, portando il pensiero occidentale, tradizionalmente platonico-agostiniano, a un 135


disorientamento, anche a seguito delle contaminazioni che il pensiero dello Stagirita aveva ricevuto dalle interpretazioni dei filosofi arabi Averroè e Avicenna, tanto che un sinodo di Parigi, nel 1210 proibì la lettura dei testi aristotelici, che furono oggetto di disamina teologica da parte di una commissione d’esame costituita da Gregorio IX nel 1231, la quale condannò molte delle tesi in esame. Paladino delle tesi agostiniane tradizionali sostenute dalla Chiesa era Enrico di Gand, «figura dominante all’università di Parigi in quel tempo e restauratore dell’agostinismo tradizionale», contro il quale polemizzò Duns Scoto, il quale «assorbe i valori più validi dell’aristotelismo e li mette al servizio della teologia».206 Secondo Scoto, l’oggetto della filosofia o intelletto è l’Essere, che è universale in quanto indeterminato, astratto perché comune a tutte le cose. «Obiectum cuiuslibet scientiae inventae naturaliter est universale: l’oggetto di ogni scienza essenzialmente razionale, e quindi in particolare della filosofia, è l’universale, che raggiunge tutti senza passare per i singoli, incapace di scorgere, contenuta nella sua virtualità, la molteplicità infinita del particolare e del contingente».207 La filosofia dunque non conosce l’essere concreto e vivo, essendo il suo unico oggetto la realtà sensibile. Secondo Scoto, la filosofia non può penetrare ed esaustivamente risolvere i problemi che affronta, perché costretta a imboccare la via astrattiva. L’intuizione soltanto, e nel campo soprannaturale, la Fede, riescono a colmare tali lacune, rimettendo l’intelletto nel solco dell’intera verità. [E pertanto, se] il concetto astratto riproduce l’essenza della realtà spoglia delle singolari componenti da cui è concretizzata, esso si oppone non alla verità ma alla completezza. Solo l’intuizione coglie le sfumature individuanti della realtà, ed essa è sostituita dalla Fede nella parola sacra, che quindi non contrasta ma arricchisce e potenzia la ragione .208

Il Negativo, o Essere in-determinato (o Uno o Tutto), icombe su ogni ente di giudizio. Vuol dire che ogni determinazione ha in comune con ogni altra ciò che esclude da sé, il Negativo, ossia l’Essere nel senso di simpliciter simplex di Scoto. E’ il Negativo ciò che unisce ogni essente esclusivo dell’altro-da-sé, ogni ente. L’ontologia è la scienza della esclusività, dell’astrazione concettuale. Essa coglie il suo oggetto esclusivamente, per opposizione logica. La verità è invece per Scoto 206

F.S. da Brusciano, Giovanni Duns Scoto nel suo ambiente storico, in Giovanni Duns Scoto nel VII Centenario della sua nascita, Napoli, 1967, pag. 24. Da ora Centenario di Scoto. 207 O. Todisco, I rapporti tra filosofia e teologia, in Centenario di Scoto, pag. 35. 208 Ivi, pag. 39.

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inclusiva: questa è l’idea di Essere di Scoto: secundum totam indifferentiam entis ad sensibilia et insensibliia. L’artefice della conoscenza, per Scoto, è l’intelletto. In base alla dottrina scotista degli «status»,209 egli denuncia un defectus nella natura umana che supera intensivamente la perfectio naturae degli stessi filosofi. In tale contesto la necessità del ricorso al dato sensibile appare di ordine psicologico e non metafisico, poiché l’intelletto umano è creato per il possesso intuitivo dell’essere sommo e singolare. Il teologo pertanto alle verità filosofiche aggiunge altre che, se da un angolo operativo rivelano i limiti della natura umana, dall’angolo entitativo costituiscono il vertice supremo cui può essere innalzata.

In tal senso, «l’integrazione teologica è incompossibile con l’autosufficienza della filosofia pagana», nel senso della complementarietà di filosofia e di teologia, con esclusione della «doppia verità». E pertanto, l’ente filosofico della metafisica non va confuso con l’ente teologico, così come l’uomo della filosofia, illuminato dalla ragione e immerso nel ferreo meccanismo delle forze della natura e creato per la contemplazione speculativa delle sostanze separate, è diverso dall’uomo della Rivelazione.210 Scoto comprende che l’intuizione della verità, anche se cronologicamente e psicologicamente parte dal dato sensibile, si giustifica razionalmente a partire dal suo principio, 211 dalla sua arché, la quale viene indicata come Essere, ma che rispetto alle determinazioni reali è il Negativo, che pre-siede a ogni determinazione d’essere, a ogni giudizio apofantico. Ciò che viene escluso da questo giudizio d’essere è appunto il Tutto originario da cui pro-viene ogni ente. Esso è «vero» in quanto in-determinato, ossia nel suo non-essere qualcosa di determinato e perciò finito. S. Tommaso distingueva tra l’intelletto angelico, al quale assegnava la conoscenza delle realtà immateriali, le facoltà sensitive, proprie degli organi di senso atte a conoscere le realtà materiali, e l’intelletto umano, che conosce i concetti generali astratti della realtà sensibile, ovvero le quidditas rei materialis. Diversamente da Tommaso, Scoto sostiene che 209Status

naturae institutae (la situazione dello spirito umano prima del peccato), status naturae decadutae (la situazione dopo il peccato originale), status naturae restitutae (il modo d’essere nella vita beatifica). 210 Ivi, pagg. 42-43. 211 A.G. Manno, Introduzione al concetto scotistico di essere, in Centenario di Scoto, cit., pag. 50.

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l’intelletto umano può conoscere l’Essere sotto tutte le forme, materiale e spirituale, sensibile e intelligibile, creato e increato. L’intelletto umano, dice Scoto, «existens eadem potentia naturaliter», rimanendo lo stesso anche di fronte a Dio, quando le realtà spirituali saranno conosciute non più mediatamente attraverso il velo delle cose sensibili, ma direttamente, mercé lo status gloriae dopo la vita terrena, quanto appunto l’uomo subirà un perfezionamento senza mutare la sua natura.212 L’Essere è per Scoto una «nozione» la «più comune e più semplice dell’intelletto umano» che è «presupposto delle particolari conoscenze» che «precede le percezioni sensibili», nonché «condizione di ogni idea determinata» quale «punto di partenza della metafisica, la scienza dei principi primi, che sono a fondamento di tutte le scienze e costituiscono la base per la conoscenza di Dio». Ciò implica che «il concetto di essere, la cui estensione è infinta, mentre è il contenuto generale, è anche il tramite mediante il quale si ascende all’Essere primo», andando a costituire quell’identità filosofica di «concetto di Essere e di Dio», che, pur essendo collegati, invece andrebbero distinti per non cadere nell’errore del panteismo.213 L’intelletto umano è dunque per Scoto «già inizialmente sospeso fra il finito e l’Infinito», non limitandosi alla conoscenza delle realtà sensibili, sia in termini sostanziali (Bacone) che in termini essenziali (Tommaso), e neppure può cogliere l’intuizione diretta di Dio, come voleva Gand, poiché Dio stesso è virtualiter, cioè presente in ogni frammento della realtà e del vero, spronando la ricerca dell’intelletto verso il Principio.214 Scoto pensa l’Essere non in termini di «nozione prima ed elementare di realtà in qualunque modo esistente», ma come «un’idea che può estendersi a qualunque contenuto, sensibile e spirituale, reale e ideale, finito e infinito», che pertanto «si allarga all’indefinito e abbraccia sotto di sé ogni ordine di realtà», superando la «nozione statica» della realtà, che lo renderebbe concetto finito, per abbracciare «tutto il pensabile», ossia «l’essere in quanto tale (ens ut ens)».215 I concetti dell’intelletto, così come li concepisce Scoto, sono «universali» in quanto «validi per ogni ordine di realtà», e perciò «di portata metafisica», ossia «non sono pure forme della mente ma regolano intrinsecamente la realtà di qualsiasi ordine», e sono essenti da errore in quanto «l’errore può sorgere nell’attribuzione di un predicato non necessario, ma non può sorgere in quelle nelle quali il predicato è 212

Ivi, pag. 56. Ivi, pag. 57. 214 Ivi, pag. 59. 215 Ivi, pag. 60. 213

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identico col soggetto o contenuto in esso necessariamente».216 L’identità di cui parla Scoto è l’indeterminazione di un orizzonte ontologico vuoto, che precede ogni conoscenza determinata. L’intelletto è pertanto è la facoltà del conoscere, mentre la conoscenza ne è l’attività. Esso è l’artefice della conoscenza, la causa principalis, il cui oggetto è l’instrumentum ipsius intellectus. Ciò che sottostà alla base della metafisica antica e alla teologia razionale, che su di essa è costruita, è il valore universale del concetto di Essere come idea di Univocità, che sta a indicare l’essenza pura di realtà. Contro l’ingenuo realismo, che fa dipendere la conoscenza dalla realtà sensibile, Scoto oppone l’autonomia del’intelletto pensante; contro l’idealismo soggettivistico, che ritiene l’oggetto pura creazione del soggetto, egli oppone il limite della conoscenza intellettiva dell’Io trascendentale, la quale «sarebbe un’attività conoscitiva sufficiente per ogni oggetto solo se avesse in sé tutto l’essere». La realtà, che è esterna all’attività conoscente, non viene creata dall’intelletto, ma solo percepita come esistenza indipendente, e in quanto conoscenza, che è attività spirituale, la realtà vene spiritualizzata. 217 Spiritualizzare la realtà, cioè conoscerla, significa sollevarsi dalla realtà sensibile per pervenire ai principi universali. Nondimeno, se l’intelletto si ferma all’astrazione dai dati sensibili per giungere a concetti generali, resterà irretito nelle varie forme di empirismo e di materialismo, senza giungere alla realtà spirituale. Come giungervi? Attraverso l’intuizione, che è il vero potere universalizzante e creativo dell’intelletto. Altrimenti, l’universale non sarà che un mero «nome» che indica astratte forme di realtà, non corrispondenti agli enti singolari, che in natura non si presentano mai identici fra loro. Da qui la conoscenza univoca dell’Essere operata dall’intelletto, che conosce la vera universalità ontologica, diversa dalla generalità del concetto sensibile. Senza l’Univocità cadrebbe anche l’analogia, possibile in quanto i termini analoghi sono concepiti partecipi di un concetto, di una qualità o di un principio che li accomuni; se si nega il valore di questa unicità è tolta la base di ogni di ogni analogia e si danno solo termini irrelativi, atomisticamente separati o accostati solo estrinsecamente, [mentre invece] l’univocità si fonda sul potere universalizzante e creativo della verità obiettiva da parte dell’intelletto .218

Chi pretenda di rinvenire tale univocità, non già nell’intelletto ma in 216

Ivi, pag. 61. Ivi, pagg. 66-67. 218 Ivi, pag. 72. 217

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rerum natura, non riuscirà mai a rintracciarla, negando la realtà di Dio artefice della natura, che è realtà molteplice e non univoca. Perciò non è possibile ricavare alcuna univocità dalla molteplicità degli enti naturali, determinati nella loro singola realtà positiva. La positività, dunque, è propria della realtà sensibile e di quella concettuale, laddove la univocità dell’Essere sussiste in quanto universale e comune Negatività. Solo il Negativo, in quanto Tutto e Uno, indeterminato non-essere ciòche-è, è veramente universale. In questo senso, l’Essere univoco di Scoto è negativo, assoluta o pura possibilità indeterminata e infinitamente determinabile. E tale possibilità è propria solo di Dio, l’Essere in-determinato che per Avicenna è neuter in quanto puro di determinazioni. Ma proprio perciò Dio non può essere in sé un ente, come l’Essere può diventarlo determinandosi, limitando liberamente la sua possibilità in realtà finita (kenosis). L’univocità, intesa da Scoto come valore di conoscenza universale, se intesa in relazione all’Essere, conduce al fenomenismo kantiano e al monismo fisicalista spinoziano, poiché l’universalità viene declinata come principio (aitia) e non come fonte originaria (arché) di conoscenza. Se potessimo infatti conoscere l’ente permezzo del principio universale, conosceremmo solo l’Idea o essenza (ousia) dell’ente. Ma l’essenza universale dell’ente è pur sempre l’idea dell’ente, e non già un ente universale. Che un ente non sia universale, lo attesta la molteplicità degli enti; ma che la stessa idea dell’ente non sia propriamente universale se non in riferimento alla sua essenza, lo attesta a sua volta la pluralità delle idee. L’Idea pertanto è uni-versale solo in relazione all’ente reale, nei termini cioè della corrispondenza della finitezza dell’ente alla sua rappresentazione ideale, ma universale non è propriamente l’ente, che rimane in sé altro dalla sua Idea razionale. Se noi chiamiamo «essere» la rappresentazione ideale dell’ente, dobbiamo necessariamente riferire tale essere al suo ente finito, tale che la sua essenza finita limiti necessariamente la sua pretesa universalità, che perciò è anch’essa una universalità finita. Ma non è questo l’Essere univoco di Scoto, la cui onnicomprensività non può mai essere soddisfatta concettualmente se non per finzione; infatti, la molteplicità in-finita degli enti reali è solo potenzialmente infinta, ma non realmente, al pari dei numeri, i quali, se vogliono indicare realtà concrete devono de-finirsi in cifre finite. Sia il concetto di infinito che il calcolo infinitesimale sono pure finzioni mentali, non rappresentative di enti reali ma solo ideali. In considerazione di ciò, ne consegue che il principio di univocità-universalità, applicato alla realtà finita del Molteplice, si converte in Negativo opposto, poiché affermare che l’Essere sia in ogni ente equivale a dire che vi sia in tutti. Ma se è in tutti e in ognuno, nessuno di essi lo ha in proprio e il Tutto non è in 140


nessuno di essi. Un ente è tale se si distingue dagli altri; affermare che l’Essere è in tutti e in ognuno, non li distingue tra loro ma li confonde, potendosi dire che ogni ente è l’Essere, avendolo in sé, e contemporaneamente che non-è l’Essere, essendo questo in ognuno. Ciò che l’Essere è in ognuno, è la sua determinazione; ciò che non-è in ognuno degli enti è la sua universalità. E dunque l’universalità è una qualità che non appartiene agli enti ma all’Essere, laddove la determinazione è propria dei soli enti. Essendo pertanto l’Essere indeterminato, ossia in-definito, esso solo è universale; ma l’universalità in-definita e in-determinata non è l’essenza (ousia) degli enti, la loro idealità; ma se essenza è, è differente da quella degli enti, è una essenza negativa. La diversità ideale è l’opposizione logica, mentre la diversità reale è la contrarietà concreta. L’opposizione logica è un negativo razionale e un positivo reale. Ciò che non è bello è qualcosa di brutto. La Bellezza può concepirsi astratta dal suo referente empirico e allocata nell’Iperuraneo, ma ciò che non-è bello non-è appunto una Idea, ma qualcosa che non appartiene all’Idea. E ciò che non è ideale è empirico, pura realtà sensibile e finita. Ciò che è comune sia alla realtà ideale che alla realtà empirica è ciò che va al di là della loro opposizione logica e contrarietà reale: ossia ciò che le trascende. Ciò che trascende ogni determinazione ideale e ogni finitezza reale è appunto il Negativo, l’Essere-Non, quella assoluta possibilità d’essere, cioè di libertà, che appartiene solo a Dio, e in virtù della quale Egli non interviene nelle determinazioni del mondo finito se non attraverso il Cristo incarnato, la «cifra» (Jaspers) sublime della Sua infinitezza e possibilità. Dio come «totalmente altro» (Barth) dall’Essere finito, è nella mediazione del Figlio, paradigma della co-esistenza di Essere e di Essere-Non, di realtà e di possibilità. Non a caso il Cristocentrismo di Scoto, rispetto alla antropocentrica concezione della Incarnazione del Verbo per il peccato di Adamo, dà la misura di due diverse scuole teologiche e di due metodologie.219 Caratteristica della metafisica greca è di aver concepito l’di Anassimandro, l’Essere infinito, come un ente, cioè una realtà oggetto di pensiero, attribuendogli l’infinitezza propria di ciò che non è reale ma soltanto possibile. Identificando l’Infinito col Possibile, i pensatori greci hanno creato le premesse della volontà di potenza quale realizzazione nel finito della Possibilità infinita di Dio, rimuovendo la Differenza che separa l’Infinito (la Possibilità) dal finito (realtà effettuale), l’dall’Essere, e considerando perciò tale Essere come Tutto. L’infinitezza (o Univocità del Tutto) non è l’astrazione

219

A.G. Manno, Introduzione, cit., pag. 50.

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concettuale, l’universalità finita dell’Idea, per cui l’intelletto agente che astrae dalla realtà sensibile per definire i suoi concetti, non può conoscere Dio se non attraverso le Sue manifestazioni finite: gli eventi naturali e quelli spirituali. Solo attraverso la mediazione della realtà finita noi possiamo ri-conoscere Dio, quindi Lo conosciamo attraverso le Sue opere. In tal senso, non possiamo farci di Lui, come invece presumeva ancora Scoto, un concetto positivo, poiché Dio non è un oggetto di pensiero, un ente, se non nella Sua determinazione reale, in Cristo.220 L’analogia che è possibile instaurare tra tutti i fenomeni reali è la possibilità che ognuno di essi manifesta della realtà in-finita di Dio, la quale è appunto la Negatività che il Tutto rappresenta rispetto a ogni finitezza reale, la Differenza. L’unico Ens commune che unisce gli uomini e Dio è il Cristo. L’univocità, come «essenza pura» è appunto pura di realtà, e non può identificarsi con la «essenza» concreta delle cose, l’entità ideale. L’essenza pura di realtà è solo legata alla fede, e non già alla esistenza reale di Dio. Se infatti Dio fosse «reale», ossia esistente in natura, sarebbe in ogni cosa e persona, panteisticamente, e ogni ente mondano sarebbe perciò parte del Tutto. L’unico «concetto univoco» a Dio e alle creature è la realtà spirituale, diversa da quella fisica. Ed è proprio tale realtà spirituale l’o il Tutto di Dio. Ma esso non è propriamente un concetto positivo, bensì soltanto negativo rispetto a ogni possibile determinazione. Hanno ragione coloro che sostengono che, negando l’univocità, «non si può affermare di [Dio] neanche che esiste, perché l’esistenza implica il concetto di essere, e se questo non è riferibile a Dio, non possiamo attribuire a Lui neanche quella».221 Infatti, l’accesso intuitivo e trascendente a Dio è la fede, non la ragione, che è sostenuta dalla fede. Ma anche la posizione fideistica, propria dell’ebraismo, è suffragata dal realismo storico cristiano, dal momento che il Cristo è l’incarnazione fisica di Dio. Ed è proprio la «realtà» storica della Rivelazione a rendere universale la fede spirituale in Dio, circoscritta prima di allora a un solo popolo. In questo senso cristologico, la conoscibilità e la dimostrazione dell’esistenza di Dio è resa possibile dall’Incarnazione, che costituisce la ratio che si affianca alla fides originaria. Per superare il fenomenismo e l’empirismo, e quindi la concezione «passiva» o «speculare» del conoscere, per cui il pensiero è concepito come il riflesso o lo specchio della realtà sensibile, che è molteplice e individua, si deve fare appello non già – come fanno i razionalisti –

220 221

Ivi, pag. 75. Ivi, pag. 76.

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all’universalismo idealistico, che rende oggettivi gli enti ideali assumendoli come «reali» (realismo), ma bensì all’universalismo spiritualistico, o negativo, che è l’unità altra rispetto a quella sensibile. Ed è appunto tale Alterità spirituale l’unità possibile tra Dio e la realtà finita. Fondando la metafisica sulla idea dell’Essere, si perviene al naturalismo greco e al panteismo spinoziano e hegeliano, cioè allo storicismo come «scienza dello spirito». La prova razionale dell’esistenza di Dio è Cristo, il Mediatore. Il principio analogico, che utilizza quello di ragion sufficiente o causale, si fonda sull’idea di Essere, esteso analogicamente alla realtà trans-fenomenica o spirituale. Questo errore fondamentale comporta l’assunzione di Dio come Ente, sia pure sublime, il Quale deve esistere come ogni altro ente sensibile per essere investito della perfezione propria delle creature ontiche, cioè quelle ideali, e non spirituali. L’analogia tra Dio e la realtà finita presta il fianco alla critica di Feuerbach sull’antropologismo della religione cristiana, che proietta in Dio la concezione umanistica. «Il finito, proprio perché tale, non può mai dare l’idea dell’Infinito».222 Eppure dall’ente noi ricaviamo l’Idea come sua proiezione razionale. Che questa venga elaborata dalla coscienza a prori non toglie che essa stessa sia il riflesso universale del finito. Nell’ambito della relazione tra Soggetto e Oggetto, che non snaturi la sua biunivocità a favore dell’uno o dell’altro termine polare, la condizionatezza del dato empirico è insuperabile per ogni gnoseologia razionalistica. Ed è questo il senso della critica di Heidegger all’onto-logia classica. Il soggettivismo idealistico e l’empirismo materialistico sono le risposte facili alla riduzione della relazione a un solo termine a scapito dell’altro. Mentre ogni pensiero della Differenza ontologica deve superare l’antinomia dialettica ribaltando il presupposto dell’ontologia classica, cioè che l’universalità appartenga all’Essere quale realtà concettualmente determinata, anziché all’Univocità del Tutto, il vero universale, che è negativo e originario, e non «prodotto» della coscienza. Come tale, esso può solo essere rinvenuto intuitivamente in interiore homine come il Nulla rispetto all’essente. La presenza del Nulla, come il differente Essere-Non rispetto all’Essere, è l’elemento divino che ci costituisce come creature partecipi della infinitezza di Dio. Identificare tale infinitezza con l’universalità dell’Idea è astrarre dalla realtà, che pure consideriamo il contenuto primo della conoscenza. L’universale, infatti, è la qualità che hanno le cose finite senza la loro finitezza. Universalizzare significa astrarre dalla finitezza e rappresentare il fenomeno come in-finito, ovvero come ciò che non-è finito.

222

Ivi, pag. 81.

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L’universalità deriva dall’Uno, e pertanto consiste nel pensare l’Essere come non-Essere, e dunque l’ente come ni-ente. Questa esigenza metodica può estendersi alla conoscenza della persona umana, e quindi alla Storia come avvento del Cristo nel tempo? In altri termini, è possibile pensare all’ermeneutica come un metodo generale indipendente da ogni contenuto? La pretesa della filosofia di superare ogni contraddizione, riportando la molteplicità dei fenomeni all’unità di senso razionale, come poteva dare risposte esaustive alla questione dell’ uomo se ogni uomo è l’interprete della sua storia spirituale? Come può l’interprete conoscere le vicende umane fermandosi alle sue «vestigia», cioè ai segni esteriori, senza poter penetrare l’interiorità dell’anima (imago)? Trattandosi della Parola di Dio, come potrebbe l’interprete arrivare, unicamente mediante il pensiero e lo sviluppo delle conseguenze implicite nei concetti di un autore, a posizioni che corrispondono alla vera intenzione dell’autore stesso», guardando al testo scritturale «in modo indipendente dal suo contenuto di conoscenza» e lasciando «indeterminato il problema della verità del suo contenuto? 223

La questione, che sarà l’oggetto dello storicismo ermeneutico nell’età romantica, verteva sulla possibilità di una «storia universale», ovvero di una narrazione delle complessive vicende umane alla stregua di un principio ermeneutico generale e comune a ogni esperienza storica particolare, il quale non poteva non coincidere con un Logos in grado di dare una ragione universale a ogni esperienza culturale molteplice. La stessa pretesa universalistica poteva nascere soltanto sulla premessa della rimozione della Tradizione teologica e del ritorno a una mentalità razionalistica che facesse consapevolmente a meno del travaglio teoretico della teologia medievale, incentrato sul Mito quale «racconto di Dio», e sulla differenza tra il giudizio razionale e la volontà che guida l’intelletto. La causalità, che è il principio gnoseologico dell’intelletto, è di tipo naturale e perciò basata sul principio di non contraddizione. Ma nel campo spirituale, cioè nell’ordine della libertà della coscienza intuitiva, l’imprevedibile disegna l’orizzonte stesso della singolarità e contingenza dei comportamenti dell’uomo. La stessa predilezione paolina verso la carità sulle altre virtù teologali, assegnava appunto alla voluntas la superiorità (excellentior est) sulla sapientia dei filosofi. Infatti, la volontà può dirigersi allo stesso modo verso il bene ovvero verso il male, che è tale se chi lo compie vuole compierlo, mentre è oggettivo per la coscienza che lo riconosce. L’oggettività è la condizione di realtà del giudizio pratico, che giudica 223

WuM, pagg. 235- 238.

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sulla efficacia o inettitudine di un’azione, e non già sulla sua qualifica morale. Ciò comporta che i due momenti, morale ed economico, sono afferenti a due distinti giudizi di realtà: oggettivo è solo l’atto pratico, mentre la soggettività dell’atto volitivo, cioè l’intenzione dell’autore, è relativa al suo significato morale. Sono entrambi giudizi intellettivi, ma di natura diversa. La volontà, contenuto del giudizio pratico, è l’estrinsecazione dell’intenzione, la sua oggettivazione reale. Considerata in sé può essere tanto buona che cattiva, cioè soggetta ad opposte valutazioni morali. Da qui il suo carattere contingente. Ma l’indeterminatezza del giudizio riguarda nondimeno solo la sua oggettività fenomenica, non può inerire all’aspetto morale, che non può ammettere contraddizioni, proprio in quanto intuizione di verità. S. Paolo si riferisce, non già al concetto di Bene, e alla sua logica esclusione di Male, ma al sentimento della Carità, cioè all’amore cristiano che non giudica i singoli atti di volontà, le azioni, ma li consegna alla loro condizione di essere ciò che sono, ovvero alla situazione esistenziale di colui che li pone in atto. La considerazione caritativa si sposta dal rapporto Soggetto-Oggetto, proprio dell’analisi concettuale, alla relazione della persona con la sua coscienza: della volontà pratica con la intenzione morale, concentrandosi su questa anziché sulla oggettiva realtà fenomenica. Entro la dimensione intenzionale, la «conoscenza» è un elemento non decisivo, proprio perché la sua decisività è relativa alla pratica manifestazione della volontà. Invece, l’intenzione può prescinderne completamente e rimanere del tutto sconosciuta: da qui il senso di mistero che avvolge la libertà umana.224 La Carità, in considerazione del Mistero divino nella creazione dell’uomo, e quindi del Mistero dell’uomo stesso come attore spirituale, non giudica l’intenzione attraverso la volontà, alla maniera razionalista, ma lascia sussistere l’intenzione nella sua propria realtà, interiore e soggettiva, e non oggettivata. L’intenzione, infatti, può rimanere inespressa, in-effabile, in-compiuta, senza venir meno a se stessa, al suo intrinseco significato e valore morale. Ciò che è da giudicare nella sua effettiva realtà è invece il prodotto della volontà, l’actio, che con l’intenzione può non avere niente a che fare ed essere del tutto convenzionale e formale. Di contro, 224

A questo proposito, rimane significativa la tendenza di ogni analisi razionalistica, poggiata sulla fattualità degli eventi e alla oggettività della volontà che li realizza, ad attribuire ai moventi intenzionali un carattere inconscio e istintuale, pre-razionale e tale da non avere alcuna considerazione di merito in relazione al giudizio pratico. La ricostruzione storica degli eventi in tal modo considerati non a caso risultano, per quanto scrupolosamente documentati e filologicamente accurati, inevitabilmente contingenti e confutabili.

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il giudizio razionale, ignorando o rimuovendo in virtù del suo principio monistico (universalismo) la differenza tra realtà trascendente e realtà immanente alla volontà, tende a identificare la volontà con l’intenzione, giudicandone la sola effettualità. L’invito paolino alla Carità, conseguente alla prescrizione evangelica a «non giudicare», inerisce alla condizione umana nella sua totalità di spirito e materia, di intima intenzione e volontà manifesta, di libertà e necessità, ma anche di sentimento e intenzione ignota: come si può infatti «giudicare» ciò che non è oggettivabile ed è pertanto misterioso? L’atteggiamento di Carità, non giudicando la parte per il tutto, si astiene dal’ignorare la presenza del Mistero, assegnando a Dio – anziché all’intelligenza umana – la possibilità di considerare l’uomo alla luce del Tutto. Il riconoscimento del limite insuperabile dell’intelletto umano, è la condizione per stabilire una forma di conoscenza fondata sulla Differenza ontologica, superatrice della gnosi razionalistica basata sul principio monistico della universalità del Logos. La limitazione (della validità) del giudizio razionale ai soli fatti reali, riduce ad illusione la pretesa storicistica di poter comprendere gli eventi umani all’interno di un onnicomprensivo e univoco orizzonte razionale, in grado di unificare la molteplicità delle esperienze personali dell’uomo sotto costanti leggi di tendenza, alla stregua di fenomeni inerenti ad enti naturali. In tal caso, il procedimento astrattivo invalso nella formazione del giudizio concettuale universale, verrebbe a privare la realtà umana dell’essenza spirituale propria alla sua costituzione personale, rendendo perciò inintelligibile la condotta dell’uomo, confermando per altro vero il carattere misterioso della sua natura. Poiché il Mistero non è oggettivabile e traducibile in ente di ragione, ossia in realtà finita, esso non è logicamente giudicabile: di esso si può dire qualcosa, ma non lo si può comprendere, in quanto trascendente ogni determinazione oggettiva. In tal senso, il Mistero è il e non i . Ed è questa la natura propria del quale origine () di ogni , oggetto di in-finita elaborazione razionale. La trascendenza del Mito rispetto alla determinazione logica dei suoi contenuti, stabilisce un rapporto di conoscenza non univoco, cioè non di tipo universalistico, ma fondato sulla coscienza della Differenza e pertanto nella modalità della relazione Finito / Infinito, Dio / Uomo, ovvero nella dimensione della spirituale Libertà e non della naturalistica Necessità. La dimensione della Libertà non può rinvenirsi nella (analisi della) causalità dei fenomeni oggetto del giudizio pratico, la volontà dei quali è sempre condizionato dalla necessità del loro significato oggettivo, stabilito dalle forme socio-culturali in cui è espresso. Ciò che può essere libera è la sola intenzione, la cui soggettività interiore può non 146


manifestarsi oggettivamente in un senso univoco e compiuto, cioè storico. La storicità dei fenomeni riguarda la sola effettualità delle volizioni, il cui significato (verum) viene razionalmente fatto coincidere con la loro espressione oggettiva (factum). Ma i facta storici, i fenomeni oggettivi, le res gesta non sono l’intera realtà umana, perché sconsiderano l’elemento più propriamente umano, l’intenzione che anima la sua volizione, che Pascal chiamava «le ragioni del cuore»,225 il luogo figurato del sentimento e del mistero della singolarità esistenziale di ogni uomo in quanto persona sprituale, intorno al quale si esercita l’affabulazione letteraria e la produzione artistica. La Libertà è principio contrario alla Necessità; questa appartiene alla logica e al principio di non contraddizione, laddove la prima è la condizione della responsabilità morale, ossia della scelta del Bene anziché del Male. Conformarsi al Bene significa adattare la volontà all’intenzione, l’economia (volontà) alla morale (verità); al contrario, separare la Necessità dalla Libertà di coscienza, significa omologare l’intenzione alla volontà, facendo prevalere la ragione oggettiva sul ritenimento morale, sulla verità, che è il fondamento ontologico di ogni discorso razionale, inerendo al senso di ciò che è, al suo significato trascendente. Il regno economico della volontà è quello di Cesare, detentore del Potere e custode delle certezze sociali, mentre la verità spetta a Dio, custode del Mistero che trascende l’esperienza umana. Se l’intelletto presiede a ogni decisione, l’intenzione si uniforma al suo dettato razionale, alla volontà. Scoto chiama «volontà» l’intenzione, la quale, separata dall’intelletto, diventata inoggettivabile e dunque irrazionale nella prospettiva dell’orizzonte razionalistico in cui si muoveva il Dottor Sottile. Sicché egli ammise che l’atto volitivo fosse condizionato dalla volontà e dall’intelletto, che intuirebbe la duplice natura (le due «cause efficienti») della volizione umana responsabile, sospesa tra intima intenzione e pratica azione. Il senso creativo del giudizio pratico secondo Aristotile, in opposizione alla contemplazione dell’intelletto speculativo, consiste nel portare all’essere ciò che non-è, riducendo l’Essere a ente fenomenico. Pratica è l’attività umana produttiva di realtà. Si produce ciò che prima non era ciò che ora è. Il movimento temporale prefigura una entità in-esistente che si oggettiva in realtà presente. Il passaggio dal passato-negativo al presente-positivo costituisce l’essenza di ciò che è pratico. Anche la dialettica del Logos conduceva in essere, per Platone, ciò che prima del 225

«Come si vede il cuore [in Pascal] è spogliato del significato emozionale più banale e potrebbe essere riaccostato alla volontà di Scoto, che è soprattutto l’organo dell’amore e in particolare dell’amore di Dio»: N. Petruzzellis, I valori dello spirito e la coscienza storica, Napoli, 1964, pag. 34 n. 1.

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giudizio non era. Rispetto all’attività pratica, quella noetica assumeva l’Essere dell’ente come pre-esistente, pensando la rappresentazione ideale come effettivamente esistente. Su questa credenza si fonda la teoresi idealistica che caratterizza tutto il razionalismo europeo, metafisica cristiana compresa, che ha tradotto l’Essere ideale platonico nel Dio di Agostino e dei suoi discepoli Anselmo d’Aosta (1033-1109) e Abelardo di Nantes (1079-1142), che sistemeranno le questioni logiche secondo un programma e un metodo che verranno ereditati dalla scolastica, e quindi da Tommaso e da Scoto. 9. L’importanza storica della figura di Anselmo è il suo proponimento di tradurre in linguaggio logico l’interiorità agostiniana, filtrando il magistero di Agostino attraverso le istanze razionalistiche del suo tempo, che nelle scuole di Parigi e di Chartres ebbero i loro maggiori centri, in alternativa all’opposta traduzione mistica, che aveva il suo centro di irradiazione nell’abazia di S. Vittore, fondata da Guglielmo di Champeaux, e il massimo esponente in Bernardo di Chiaravalle, che ispirerà la corrente francescana e la filosofia di S. Bonaventura (12211274). La corrente razionalistica riteneva necessario fondare la verità di fede sulla ragione, secondo le due declinazioni del realismo, che assegna all’universale una effettiva realtà e che fu interpretato da Anselmo, e del nominalismo, che fa dell’universale un segno convenzionale atto a designare i veri reali che sono i molti individui particolari, il cui campione fu Roscellino (1050-1120).226 La tradizione razionalistica ebbe i suoi maggiori esponenti in Alberto Magno e in S. Tommaso. I suoi problemi nacquero prima, con Porfirio e Boezio, ma nel sec. XI furono oggetto di opposte e contrastanti disamine tra le due accennate correnti razionalistica e nominalistica, che utilizzarono per polemizzare l’ars ratiocinandi, la dialettica, che verrà in seguito perfezionata dalla scolastica, e che era stata lo strumento 226

Per la ricostruzione del pensiero del periodo, ved. M.T. Antonelli, Introduzione a Anselmo d’Aosta, Proslogion e Liber apologeticus, Torino, 1956; S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia medievale. Dalla patristica al secolo XIV (1954), Milano, 2006; E. Gilson, La filosofia di san Bonaventura (1924), Milano, 1995; F. Copleston, Storia della filosofia (1950) vol. II, La filosofia medievale. Da Agostino a Scoto, Brescia, 1971; M.D. Chenu, La teologia come scienza. La teologia nel XIII secolo (1969), Milano, 1971; A. Pompei (a cura), San Bonaventura maestro di vita francescana e di sapienza cristiana, Atti del congresso per il VII centenario (1974), Roma, 1976, 3 voll.; P. Porro, Tommaso d’Aquino. Un profilo storico-filosofico, Roma, 2012; AA.VV., Giovanni Duns Scoto nel VII Centenario della sua nascita, Napoli, 1967.

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caratteristico delle sette filosofiche posteriori a Plotino. La scuola dell’Alto Medioevo commentò soprattutto i testi platonici e neoplatonici, e quindi la filosofia agostiniana, ma col metodo logico. L’abilità dialettica Anselmo l’apprese dal suo maestro Lanfranco di Pavia, umanista colto e fine giurista, che l’aveva a sua volta ereditata da S. Pier Damiani (1007-1072), convinto sostenitore della corrente mistica e antirazionalistica. Sicché si può dire che nel suo pensiero confluirono tanto il razionalismo che il misticismo, che imperversarono tra i secc. X e XI. Oggetto della meditazione di Anselmo riguardò due questioni essenziali: il rapporto tra fede e ragione, e la validità degli universali. Il problema della conoscenza prima di Kant era costituito da tre problemi: 1. origine della conoscenza (come conosco); 2. oggetto della conoscenza (cosa conosco); 3. giustificazione del valore della conoscenza (il fondamento). Partendo dallo studio di s. Agostino, Anselmo si pone la questione del sapere, che è più che conoscere, delle sue possibilità e dei suoi umani limiti. La conoscenza dell’uomo giunge sin dove arriva il suo sapere, sicché la possibilità di conoscere proviene all’uomo dalla realtà del suo intimo sapere. Dalla esperienza interiore, quale fonte della conoscenza, deriva ogni concetto di senso razionale. Credo ut intelligam: prima credere, quindi conoscere. La realtà prima è il sapere interiore, a cui segue il ragionamento, che deve portare alla consapevolezza di quel sapere riconoscendolo come verità di ragione. Il concetto universale, di cui si fa uso nel discorso, enuncia una verità che sussiste nella mente dell’uomo come termine reale del suo intendere. Il problema degli universali venne impostato da Boezio nei termini di una ricerca dei fondamenti dell’universale ai fini della sua validità. Tale fondamento veniva fatto consistere nel suo grado di realtà. Più era reale tanto più era valido; ossia, più corrispondeva a una realtà, tanto maggiore era il suo grado di validità. Ma in cosa consisteva tale realtà dell’universale? Anselmo assume come reale lo stesso universale, per cui, quale termine di un sapere mentale, l’universale è reale. L’idea, dunque, è in sé realtà: da qui l’idealismo di fondo della metafisica cristiana. In Anselmo, però, non vale la reciproca: la realtà, cioè, non si riduce all’Idea. Il realismo di Anselmo non è dunque idealismo metafisico puro, non è immanentismo. La realtà non dipende dall’universale della mente, ma l’Idea è posta come realtà. In altri termini, l’idea di Dio che è nel soggetto è reale, è realtà, ma non significa che Dio sia l’idea di Dio, bensì che l’idea di Dio è Dio nel soggetto. L’universale è realiter nel soggetto, è il modo d’essere dell’ente divino nel soggetto. L’idea è reale e valida in quanto coglie l’essenza universale della cosa: la cosa è reale per la sua essenza universale, per la sua natura, la quale natura universale costituisce la 149


realtà del concetto. L’essenza universale forma la realtà o natura della cosa, che è nel contempo la realtà o natura del concetto. In tal senso è natura indifferens, realtà indeterminata. Per S. Tommaso, l’esse in intellectu è un aspetto dell’essere reale della cosa. L’essenza è ontologicamente reale nella cosa, mentre nella mente è reale come concetto, cioè astrattamente. Le due forme di realtà dell’essenza universale non coincidono, poiché nella cosa l’essenza è reale ad modum realitatis, mentre nella mente è reale ad modum rationis, priva di ogni datità esistenziale, sussistente solo nella mente. I due modi, esistenziale e razionale, sono relativi alla individualità della cosa e rispettivamente alla sua astratta concettualizzazione: l’universale concreto e l’universale possibile o concetto. 227 La dottrina dell’indifferentismo di Anselmo, per quanto meno elaborata di quella di Tommaso, nondimeno è metafisicamente più unitaria e funzionale a dimostrare la mediazione tra il realismo del concetto ideale e la realtà dell’individuo. La realtà è data infatti per Anselmo dagli individui, ma ciò che li rende reali è la loro natura propria, data dalla substantia universalis. E’ questa che rende reali le cose universali, ma l’universalità si determina come individualità attraverso l’aggiunta di differenze (admistio differentiarum). Ed è appunto tale admistio a rendere ragione della stessa persona individuale, ossia dell’uomo, rendendola proprietatum collectio. E pertanto, l’universale presente in ogni uomo è natura indifferens, cui si aggiunge la proprietatum collectio perché si formi l’individuo. L’universale, per Anselmo, non è solo concetto della mente, ma è la stessa natura indifferens avulsa dalla proprietatum collectio della cosa. Il realismo di Anselmo deriva dal modo in cui pensa l’essenza universale, che chiama natura indifferens, e che egli fa coincidere con la realtà del concetto della mente e con la realtà dell’essenza pertinente alla cosa individuale. In ambito metafisico, il rapporto tra validità e realtà degli universali viene risolto in termini gnoseologici. Anselmo si pronuncia a favore della realtà degli enti universali, cioè dei concetti, proclamando la realtà delle idee, coincidenti con la natura delle cose. La natura indifferens è l’oggetto delle sue considerazioni metafisiche, intesa come oggetto di pensiero, non della sola mente umana, ma anche di quella divina: il Verbo. E’ il pensiero del Verbo a essere reale, ad avere una sua realtà vera. Il paradigma del Verbo è l’essenza più vera delle cose, per cui dalla mente dell’uomo si può risalire alla mente di Dio. Ed è l’idea di Dio a giustificare metafisicamente il realismo gnoseologico di Anselmo, così come l’affermazione che l’Idea è realtà

227

Ved. A.D. Sertillanges, Op.Cit., pagg. 39-52.

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costituisce il risvolto idealistico della fede in Dio, poiché l’idea è del Verbo, la sua realtà prima e autentica. Tra i due aspetti, solo quello metafisico afferma l’identità di Idea e realtà in Dio, mentre l’aspetto gnoseologico non ammette la reversibilità dell’equazione idea = realtà. Ciò significa che l’idea divina coincide con la realtà stessa di ciò che la fa essere reale. In questa teoria si avverte l’esemplarismo agostiniano come teoria della similitudine. L’essenza della cosa è infatti una similitudine dell’essenza che è nel Verbo, e l’idea umana è una similitudine dell’essenza della cosa; il suo paradigma è l’idea o essenza divina, che sussiste come parola di Dio. La realtà del concetto e della cosa trovano nel pensiero di Dio la loro realtà originaria e fondamentale, nel senso che la coincidenza di pensiero ed essere deriva dall’essere idea di Dio. In tal senso, le cose hanno tanta più verità quanto più riproducono l’idea divina, e lo stesso vale per la verità dei concetti, sicché la ricerca logico-gnoseologica coincide con la stessa conoscenza della volontà di Dio. Questa impostazione razionalistica caratterizzerà il percorso della teologia cristiana, facendo dell’idea del Verbo la sede della verità e della realtà della cosa. Il Verbum di Anselmo non è il Verbum di Roscellino, per il quale esso non aveva alcun fondamento nella realtà, ma era una finzione nominalistica. Per Anselmo, invece, il Verbum è una similitudo individuale dell’idea divina: è cioè direttamente fondato su questa realtà ultima dell’idea divina. Nel Proslogion Anselmo formula la sua celebre prova ontologica, la quale si fonda sulla colleganza inconsutile di fede e ragione, che per Agostino costituiscono «le due forze che ci portano a conoscere».228 Il pensiero di Agostino riflette la tesi ontologica fondamentale di Platone, per il quale l’Uno, il Bene e l’Essere coincidono, e tutto ciò che è imperfetto lo è in quanto partecipa della perfezione. Ciò significa che il Bene partecipato non è intrinseco alle cose partecipi, ma si aggiunge in virtù di quella partecipazione. Su questo impianto metafisico si è costruita la filosofia della storia cristiana di Agostino, la sua teologia della salvezza storica.229 Rispetto alla concezione platonica, Agostino sostiene la teoria della illuminazione, con la quale spiega la conoscenza delle verità eterne; nondimeno, di platonico è la concezione dell’intelligibile come intuizione diretta dell’intellectus, su cui si fonda la sapientia, che differisce esplicitamente dalla ratio, che è la conoscenza delle cose sensibili su cui si fonda la scientia. Diversamente dalla dicotomia

228 229

Agostino, Contra Academicos, III, 20, 43. Ved. G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona, Roma, 1988.

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aristotelica di phronesis, quale saggezza morale, e di episteme, che è il sapere teoretico della scienza, la sapientia ottenuta dall’attività dell’intellectus è la vera conoscenza, fondata sull’intuizione della Verità divina. Per l’agostiniano Anselmo, la negazione dell’esistenza di Dio deve previamente ammettere il concetto di Dio, che lo pensa come l’ente id quod magis cogitari nequit. Si può di tal Ente pensare che esista soltanto nella mente, escludendone l’esistenza? Non sarebbe per Anselmo possibile, poiché se un ente di cui non si possa pensare il maggiore non fosse anche esistente, non sarebbe il maggiore. Dunque, non si può pensare un ente siffatto senza pensarlo anche come esistente. L’esistenza di Dio, affermata per via di ragione, ricade però, oltre ogni intenzione di Anselmo, nella necessità del Logos, anziché nella libertà della fede. Se la Verità, come sosteneva Gregorio di Nissa, che per von Balthasar è il maggior interprete cristiano dello spirito greco, è che tutto viene da Dio, l’identità di questo tutto con Dio inteso come Logos, condiziona la stessa fede cristiana nel Dio dell’Amore, ascritto alla necessità delle forme logiche del naturalismo greco. Se le Sacre Scritture, ossia il Verbum, rappresentavano il Mythos, il Logos teologico ne era la rielaborazione, per cui ogni pensiero razionale, partendo dalla verità del fondamento mitico, era una mito-logia. Ma quale elemento del Mito veniva mantenuto nella sua elaborazione razionale? La visione universale, l’. Ogni rappresentazione di un fenomeno o di un evento che gli attribuisca significato universale, è mitica, esprimendo un’esigenza di ordine () stabile, originario ( ) e immutabile ( = illimitato, non soggetto a divisioni opposte). Ciò che si dice «principio» e «fondamento» metafisico di tutte le cose, necessariamente Uno e perciò separato dal Molteplice, e dunque «sacro». Il Mythos è pertanto caratterizzato dal principio monistico che passa al Logos. La coniugazione dell’Uno (Mito) e del Molteplice (oggetto della scienza) produce l’Uno scientifico, cioè il concetto razionale, che è una trascrizione profana dell’unità divina ( ) attraverso la molteplicità naturale ( ). La metafisica è l’interpretazione unitaria dell’Essere, la conoscenza della sua «essenza». E’ noto che «per i Greci la scienza è pensata sul modello della matematica, cioè di un sapere dell’immutabile, un sapere che si fonda su dimostrazioni e che perciò tutti possono apprendere».230 La credenza universalistica, di origine mitica, per cui la vera conoscenza è quella che scopre le leggi razionali della Natura, di cui fa parte l’uomo, rispetto alla concezione spiritualistica e personalistica cristiana è una superstizione teoretica,

230

WuM, pag. 365.

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fondata su un’antropologia naturalistica che non dà ragione della Rivelazione cristiana, che ignora. Attribuendo al Dio cristiano le qualità dell’Essere mitico dell’episteme greca, si fa di Esso un ente di ragione, e dunque una entità mito-logica. Secondo Aristotile, l’intelletto speculativo tende ad adeguarsi all’Essere. Se però questo è inteso come realtà naturalistica, l’adeguazione è imitazione. E poiché il cosmo naturalistico è retto dal principio di Necessità, di cui la legge scientifica è l’espressione razionale, l’adeguazione alla legge naturale equivale alla sottomissione alla Necessità cosmica. Sennonché, il dio cristiano è Dio d’amore, e quindi fonte di libertà e responsabilità morale personale. Soltanto sul fondamento di libertà e responsabilità personali è possibile concepire una storia spirituale dell’uomo: una storia dell’uomo spirituale. Di ogni singolo uomo, dalle cui vicende personali non si può astrarre per indicare una ipotetica legge naturale di ragione. In tal senso, l’indicazione del Logos come espressione dell’essenza dell’idea divina, elimina gnoseologicamente la funzione, per fede indispensabile, della mediazione cristica e dell’apporto della Rivelazione come tramite alla Verità. Al verbum interiore corrisponde la vox esteriore. Il verbum mentis è il discorso interiore che la mente ha con sé stessa in analogia (similitudo) con l’idea del Verbo divino, ed è realtà per Anselmo. La vox, invece, è il discorso esterno, il linguaggio, con cui si esprime il pensiero, ma non è il termine diretto e autentico della verità interiore, bensì soltanto un modo convenzionale e simbolico. Il verbum, invece, è similitudo della realtà suprema, e quindi esso stesso realtà vera, già mai convenzionale e fittizia. Pensare è dunque esprimere verba, concordanza cosciente del pensiero umano con quello divino, per cui il compito dell’uomo è di pensare, cioè di dire interiormente la verità di Dio, che si esprime nell’uomo in verba, che riproducono la stessa realtà delle idee divine, l’ordine della realtà, che i verba riproducono per rappresentarsi la verità. L’uomo pensando si adegua all’ordine della realtà divinamente stabilita. Pensare è riconoscere la realtà come idea, cioè conoscerla come verità. Si ha pertanto verità quando l’intelletto nel giudicare riconosce ciò che è, adeguandosi alla realtà. Ogni concetto è tanto più vero quanto più corrispondente alla realtà delle cose, ossia quanto più è ciò che dev’essere secondo l‘oggetto che vuole rispecchiare. In tal senso, per Anselmo la verità coincide con la rettitudine, ossia con la corrispondenza di una cosa con se stessa e con l’essere di se stessa che le è proprio. Retto è ciò che è secondo l’essere di se stesso. Il concetto di rettitudine, tipicamente morale, diviene valido per ogni campo, per quello dell’intelletto come per il campo della volontà, per cui il concetto di verità assume un valore anche morale. Ma se l’essenza vera sono le idee archetipe divine, per cui è vera l’idea 153


(verbum) che è quod debet esse in rapporto all’archetipo divino, il pensare con rettitudine – cioè per verba – esaurisce il processo conoscitivo, tutto proteso alla cognizione razionale delle cose. L’illuminazione per fede è la rettitudine, il retto procedere per verba dell’intelletto: rettitudine dell’intelletto in quanto rectitudo sola mente percepibilis. Negli esseri incoscienti di natura, la verità è la legge che fa sì che ogni essere adempi alle sue funzioni proprie. La spontaneità è la rettitudine della natura, che nell’uomo è invece consapevole. Ma è la stessa legge naturale a regolare le cose umane e quelle degli esseri incoscienti. La legge naturale è il pensiero stesso di Dio, la cui consapevolezza è solo dell’uomo. L’uomo in generale, come specie, e non l’uomo convertito, il cristiano. Come affermava infatti s. Giustino martire (100-168 ca.), tutti gli uomini in quanto esseri razionali partecipano di Cristo, e poiché in ogni uomo per pius affectus vi è una predisposizione spirituale verso la verità, tutti coloro che vivono di ragione sono stimati cristiani anche se si dichiarano atei. Lo stesso pensava Tertulliano (155-230 ca.), per il quale l’anima (razionale) è per natura cristiana. Per Anselmo, come abbiamo visto, la rettitudine non è solo una legge formale astratta, ma è la direzione in cui si muove la conoscenza che aspira al Bene, verso il quale è diretto l’intelletto che lo riconosce in interiore, per fede. Il votum fidei, che è la disposizione dello spirito ad accettare la luce della verità per farne la guida della vita, coincide con la stessa recta ratio dell’intelletto. Sul concetto di sapere interiore si fonda la tesi anselmiana della necessità – intrinseca alla presenza della Verità nella mente umana – della realtà dell’Essere Supremo. Nel Proslogion la tesi ontologica non è che l’espansione della dottrina agostiniana della conoscenza interiore, cioè della Verità presente all’anima. Conoscere se stessi è tutt’uno che conoscere la realtà di Dio. Nondimeno, il Proslogion non è un monoloquium dell’anima con se stessa, ma è un alloquium, cioè un discorso argomentato rivolto all’insipiens, all’ateo, al quale è precluso l’appello alla fede, per cui non giova suscitare in lui la meditazione per la conoscenza di Dio ma occorre la dimostrazione. Secondo Anselmo, l’ateo non crede in Dio perché non pensa, sicché insegnandogli a ragionare egli scopre Dio come presenza necessaria. Il concetto di Dio, infatti, implica la Sua esistenza.ì; ma non è questa la tesi del Proslogion. Per Anselmo è il pensiero stesso che reca in sé una incontrovertibile prova della esistenza di Dio, la cui ammissione nasce dal solo pensare. Ma cosa significa pensare per Anselmo? Implica due momenti: quello della intuizione della verità, e quello della sua argomentazione logica. L’argomento logico presuppone la Verità, che dunque è un originario acquisto della mente per intuizione di fede. E’ la fede che attribuisce 154


realtà all’essere del pensiero, affermando che l’Essere è anziché non. Questa affermazione fideistica è la premessa metafisica di ogni argomentazione razionale, poiché senza la credenza che l’Essere sia, non è possibile argomentare alcuna relazione tra enti. L’Essere, pensato come il fondamento di ogni ente fenomenico, è lo stesso Dio, sicché il pensiero dell’Essere è il pensiero di Dio. Questo innesto dell’ontologia naturalistica greca nella metafisica cristiana fa di Dio la causa prima della realtà molteplice, la fonte metafisica della conoscenza della realtà, che, essendo conoscenza razionale (epistemica), inerisce alla realtà naturale, alla quale l’uomo è equiparato. Ciò che distingue la gnosi del filosofo pagano dalla gnosi cristiana è l’identità dell’Essere dell’ontologia greca con il Dio di Abramo. L’insipiens di Anselmo è colui che non ragiona, ossia non conosce la realtà per verba, cioè per relazioni necessarie delle essenze universali, ma la conosce solo per esperienza, cioè per causas. Se le cose del mondo possono esistere o non, la loro essenza è invece necessaria, anche senza l’esistenza delle cose empiriche. Sicché Dio esiste anche se non si crede in Lui. Dio quindi non esiste in senso esistentivo, come ente fenomenico, ma come ente di ragione: in interiore homine. La Sua particolarità ontologica è che Dio non può essere oggettivato dalla ragione come ogni altro ente razionale, ma Egli è la pre-condizione di ogni ragionamento, in quanto ne è il fondamento. In tal senso, per Anselmo, il Suo status rationis non deriva dalla ragione, ma è la ragione che deriva dalla Sua esistenza, e perciò, derivando da Dio la ragione, anch’Egli è razionale. Anselmo predispone ante litteram il circolo ermeneutico, per il quale la stessa credibilità della affermazione di realtà dipende dal pregiudizio circa la verità della sua esistenza, ossia dalla credenza ontologica che l’Essere è anziché non. Il presupposto di fede ontologico, proprio perché non può essere dimostrato se non avendolo già predisposto all’inizio come fondamento del discorso razionale, non è in senso stretto un principio di ragione ma il principio dal quale muove la ragione. Un’arché la quale, come tale, può essere oggetto di ragione (in senso epistemico greco), ma anche oggetto di errore, come nel caso del miscredente, che agisce come se Dio non esistesse. Se la conversione cristiana consistesse soltanto nell’attribuire all’Essere il nomen di Dio, allora non varrebbe neppure la pena cercare di convertire i cuori degli atei. Il rischio implicito nell’adozione del metodo razionalistico nel discorso cristiano è di ritenere essenziale il fondamento di fede solo verso chi non lo riconosca, mentre all’interno dell’orizzonte cristiano, esso diventa ciò che è l’Essere per Heidegger, il fondamento rimosso, fruibile solo in senso categoriale a priori. Eppure, non è difficile comprendere che tale rimozione è inscritta nel metodo stesso del pensiero logico, il quale 155


fonda la sua veridicità sulla possibilità di esprimere essenze universali, le quali non sarebbero tali se trovassero ostacolo in un Quid che le limitasse, e che fosse più comprensivo di esse, giusta la definizione anselmiana di Dio. La coincidenza fra universalità della fede nel fondamento, e l’universalità astratta dal fondamento del linguaggio filosofico, ha portato alla rimozione dell’arché fideistica, al di fuori della quale, l’intera struttura logico-metafisica restava sospesa alla tradizione che l’aveva concepita ed elaborata, quella appunto cristiana, espressione di una cultura storica universale solo nel suo ambito valoriale. Il dispiegamento della pretesa universalità del pensiero razionalistico, rimuovendo la questione del fondamento metafisico, ha inficiato il valore veritativo della fede, identificata con il récit fabulistico della tradizione religiosa cristiana. Il suicidio della civiltà cristiana inizia nel separare la ragione dal suo fondamento di fede, pensandola nei termini naturalistici della cultura pagana. L’universalità della ragione senza fondamenti, lo scientismo moderno che ne deriva, risulta appunto dalla rimozione della questione della verità, che solo la fede può garantire. Proprio del razionalismo è il monismo ontologico, per cui l’universalità del concetto definisce una realtà infinita nel finito. Infatti il principio universale non può ammettere un principio che non sia esso stesso razionale, cioè una forma ideale costruita dalla ragione stessa medesima. La critica razionalistica del Mito originario è il tentativo del valore concettuale di affermarsi come assoluto, cioè di emanciparsi dal suo principio di fede ontologica pre-razionale. L’innesto della ratio antica nell’orizzonte della fides cristiana era possibile soltanto a condizione di non assumere l’episteme scientifica come bastevole alla conoscenza della verità. Rimossa la questione del fondamento veritativo della ragione, è caduta anche l’istanza fideistica. Il rapporto tra fede e ragione che prende a delinearsi teoreticamente nel sec. XI, precisando l’oggetto della speculazione, le norme e lo stile con cui condurla, inaugura quella tradizione filosofica che ha il suo acme nel sec. XIII e che si propaga fino al XVII, nota come scolastica, caratterizzata dall’ordinamento compatto delle questioni teoriche, attraverso una logica stringente e sistematica che le riporta a una visione comprensiva e unitaria che si compendia nelle summae. La summa è l’espressione tipica di questo ideale unitario, che per metodo e sistemazione offre una visione ideale conclusiva. Da qui l’esigenza di una disciplina di metodo e di linguaggio filosofico considerata essenziale all’argomentare, che, tramandato come puro esercizio dialettico e arte retorica dall’Alto Medioevo, con la scolastica conquista il senso di un mezzo di inquisitio e di inventio filosofiche, identificandosi con lo stesso procedimento del pensare e con le leggi del 156


pensiero, riflesso della struttura metafisica del mondo pensato nella visione filosofica razionalistica. Anselmo esce dal metodo filosofico precedente alquanto indefinito e schiude i tempi nuovi alla sistemazione di s. Tommaso, offrendo la prima sistemazione logico-metafisica organica e unitaria, nonché il metodo proprio della scolastica. Opere come il Monologion di Anselmo, il Sic et non di Abelardo e la Summa di Alessandro di Hales rappresentano i saggi capitali di quell’argomentazione sistematica e di quella sistemazione disciplinare che saranno tipici del filosofare scolastico. Anselmo rivisita in chiave razionalistica la tradizione agostiniana, integrando l’impostazione platonica del pensiero del grande Vescovo africano con una impostazione aristotelica (problemi degli universali, etc.). In Anselmo tuttavia l’impostazione aristotelica si ferma all’ordinamento organico del sistema teologico-metafisico, senza tendere, come in Tommaso, all’assorbimento del pensiero aristotelico nella metafisica cristiana, per cui la differenza tra la filosofia di Anselmo e quella successiva scolastica è dovuta alla assenza in Anselmo dell’orizzonte dottrinale averroistico, presente invece in Tommaso. In tal senso Anselmo fu considerato un Alter Augustinus da Giovanni di Salisbury (1110-1180), discepolo di Abelardo. Anselmo, dunque, pur non ignorando le istanze razionalistiche e quelle sistematiche, rimane al di qua dell’intellettualismo e del cosmopolitismo arabi, e dunque estraneo a una mentalità puramente razionalistica e a una metafisica prettamente naturalistica, a favore della agostiniana speculazione integrale, che accoglie sia la speculazione teoretica astratta che l’approfondimento intimistico dell’anima mistica, immergendosi in un clima che Anselmo chiamava agostinianamente credo e poi caritas, e che rimane il sostrato del suo argomento ontologico. La rilevanza storica del pensiero di Anselmo è di aver pensato la divina «bontà immensa, che trascende ogni umano intelletto»231 come una totalità, che egli chiama trascendente, intendendola però come totalità finita, comprensiva degli opposti logici. Totale infatti è per Anselmo ciò che trascende la polarità della realtà fenomenica e comprende in sé gli opposti che la astratta ragione distingue e contrappone. In questo senso, la realtà di Dio è più simile alla realtà fenomenica che alla astratta realtà ideale, canonizzata dalle leggi umane della ragione. Se Dio è «la vita stessa», non può essere solo «bontà», ma anche in Lui esiste il Male, ciò che noi giudichiamo come tale, e perciò Egli può essere «buono e con i buoni e con i cattivi».232

231 232

Proslogion, ed. cit., pag. 17. Ivi, cap. XII, pag. 21.

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L’istanza metafisica unitaria del fisicalismo greco, trascritta in termini cristiani, ma pur sempre razionalistici, condiziona la tradizione di pensiero occidentale, di cui la secolarizzazione non è che il coerente sviluppo della premessa universalistica. E’ pur vero che in Anselmo vi è la coscienza della Differenza tra la finitezza umana e l’infinità di Dio, indicata come Eternità, ma la visione che dell’eternità ha Anselmo è spaziale e temporale, fisica, e non trascendente. Egli non ha la concezione della «pienezza» di Dio come pienezza del tempo escatologico (éskaton). Egli indica Dio, molto prima di Jaspers, come «l’incircoscritto e l’eterno», affermando che è «eterno, in quanto, come non cessa, così non comincia mai ad essere».233 La ragione umana non può cogliere l’Unità di Dio, che «nessun intelletto può scindere. La vita, la sapienza, ed ogni altro bene non sono parti tue, ma sono tutti insieme uno».234 L’intelletto umano non può conoscere l’Unità che è Dio nella sua intierezza, ma solo come parti, astratte dal Tutto degli attributi divini. Se dunque il Bene come Tutto non è il bene come opposto al male, ma lo contiene nell’Uno divino, significa che il male è ciò che la mente umana coglie come parte del Tutto, è cioè la stessa capacità finita dell’uomo di conoscere la realtà: il peccato è la logica. Da qui la fondata intuizione della fede: credo ut intelligam. Il punctum dolens dell’impostazione anselmiana, che verrà quindi ripresa dai teologi scolastici, è che il metodo in virtù del quale il credibile, oggetto della fede teologica, diventa intelligibile è il modus ratiocinativus, con il quale la ragione dimostra i contenuti della fede. la fede costituisce il punto di partenza per il retto uso della ragione, ma non interviene affatto nel processo dimostrativo che vale per se stesso. Perché possa formulare verità necessarie, afferma Anselmo, è indispensabile la fede, ma queste verità valgono per se stesse allorché siano dotate della chiarezza ed evidenza razionale. La dichiarata autonomia della ratio dalla fides, sancisce l’opzionalità della fede ai fini della conoscenza, che permane nella sua verità di ragione etsi Deus non daretur. Ma poiché ogni discorso è significativo entro il suo orizzonte di senso, nessuno perviene alla verità. E’ la questione platonica che la posizione teologica liquida a favore del metodo, sulla scorta della gnoseologia aristotelica. Per conservare alla fede un carattere comprensivo del discorso razionale, e non solo fondativo, occorre concepire il processo cognitivo come una relazione costante tra circoscritto infatti ciò che, quando è tutto in un luogo, non può essere contemporaneamente altrove: e ciò è proprio delle sole cose corporee. E’ incircoscritto invece ciò che è nello stesso tempo tutto dovunque: e questo solo a [Dio] appartiene propriamente»: Ivi, cap. XIII, pag. 21. 234 Ivi, cap. XVIII, pag. 27. 233«E’

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l’elemento definitorio o concettuale e l’elemento negatorio o trascendente, che riporti ogni definizione positiva alla sua matrice inclusiva dell’alterità negata dalla attualità del pensiero. In tal senso, non è possibile convincere gli increduli con la ragione discorsiva, poiché la convinzione non è «razionale», dipendente dalla necessità, ma posizionale, ossia legata a un atto intuitivo: la conversione come atto di libertà. Il senso del discorso, diversamente dal processo naturale, matura in conseguenza del suo significato originario: in relatione ad fruitionem. Senza la fede significativa, il linguaggio è muto e i signa concettuali vuoti di senso. Ma ciò comporta che il senso perseguito attraverso i signa sia originario, arcaico, e come tale del discorso in quanto nel discorso. Ciò che è nel discorso non è il discorso stesso, ma il senso che lo rende significativo. Un senso che è significativo entro il suo «orizzonte di senso», che non è universale in senso totale, ma in quanto comune a tutti i fidentes. Perciò la filosofia, quale elaborazione del senso comune, non può prescinderne come discorso altro da quello comune, cioè astratto, ma deve supporlo quale fondamento del discorso significativo. Senza volontà di credere (= convinzione) non c’è verità. In tal senso, ogni verità è verità creduta, convinzione appunto, o verità di fede. 10. Per S. Bonaventura (1221-1274),235 ci sono tre tipi di pubblico: 1. le persone che non credono, 2. quelle che hanno una fede oscillante, e 3. coloro che hanno una fede perfetta. Egli si rendeva conto, contrariamente ad Anselmo, che la teologia, per quanto concepibile come scienza razionale, in quanto fondata su argomenti di ragionevolezza, deve poter ricorrere ad argomenti che la pura ragione naturale non può offrire, come nel caso della Trinità, per cui «nullo modo trinitas personarum est cognoscibilis per creaturam, rationaliter ascendendo a creatura in Deum», sicché i filosofi non possono conoscere la Trinità «nisi haberent habitum fidei […] unde quae 235

Detto il Dottor Serafico, canonizzato nel 1482 e riconosciuto dottore della Chiesa nel 1587 da Sisto V, è uno dei principali interpreti della teologia fiorita tra la metà del sec. XIII e la metà del XIV, nella quale si riflette il nuovo corso religioso apertosi con la predicazione francescana, innestato nel filone speculativo agostiniano. Il «modulo teologico francescano» consiste nell’amalgamare lo spirito francescano nelle strutture di pensiero teoretiche nella tradizione filosoficoteologica vivente, facendo di Bonaventura il modello medievale di innesto della spiritualità nuova del Vangelo in ambito culturale (Agostinismo francescano). Mancando all’Ordine francescano una codificazione, a questa attese Bonaventura con le Costituzioni Generali del Capitolo di Narbona del 1260, assicurandone continuità e vitalità.

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dixerunt, aut locuti sunt non intelligentes, aut fidei ratio illustrati».236 Il metodo ratiocinativus è sempre interno a un discorso teologico che non elimina il merito della fede né l’autorità della S. Scrittura. La ricerca teologica tratta delle rationes probantes fidem nostram con argomenti contrapposti di tipo dialettico, mentre lo studio della Sacra Scrittura è narrativo, espositivo e di tipo esegetico. La Scrittura tratta del credibile in quanto credibile, ossia della verità di fede, mentre la teologia tratta del credibile in quanto intelligibile, fondandosi sulla ragione. Non sono «due verità», ma l’una si basa sull’autorità del testo, cioè sulla fede che esso sia ciò che afferma di essere: contenuto di verità; l’altra si dispiega come ragione della fede, discorso sulla verità. Ma la verità è sempre presupposta, e non è di ragione, ma sempre di fede. Per Bonaventura, il rapporto tra la teologia e la scienza della S. Scrittura è di «subalternazione», nel senso che, pur avendo lo stesso oggetto di studio, la scienza teologica («subalternata») lo determina secondo una prospettiva particolare. La teologia è subalterna nel senso che, in mancanza di certezze razionali, interviene la certezza dell’autorità scritturale, confermando anche Bonaventura che l’ambito della verità di fede sia più comprensivo di quello degli «argomenti necessari». Non perché sia «irrazionale», ma perché superiore alla ragione naturale. La distinzione della verità, superiore mercé la fede e inferiore in quanto ragione «naturale», non chiarisce la questione essenziale della intrinseca differenza. Il tentativo di unificare la conoscenza razionale con la verità è parallelo a quello di concepire la filosofia come servizio della teologia, ammettendo sostanzialmente un unico e medesimo criterio di realtà. La Rivelazione cristiana consisteva principalmente nel criterio di verità, trascendente rispetto a quello immanente del razionalismo naturalistico. La concezione trascendente della verità apre l’orizzonte chiuso della Necessità alla Libertà della Possibilità, quella propria al legein del Mythos, aperto alle varie interpretazioni di senso, di cui quello speculativo staglia l’aspetto razionale, o meglio intellettivo. La scienza speculativa o teoretica ha un fine solo conoscitivo, così come l’intelletto pratico ha il fine di dirigere l’azione. Ma la stessa divisione platonico-aristotelica dell’anima nasceva dal presupposto che la conoscenza filosofica escludesse la conoscenza comune (doxa), quella pratica, appunto, viziata da incoerenze e contraddizioni, laddove quella filosofica è metodica e coerente. La coerenza metodica della filosofia, pagata con l’esclusività, ossia con l’esclusione della conoscenza comune, pratica (phronesis), faceva del filosofare una tecnica neutra, al

236

I Sent, d. 3, q. 4 concl., (I, 76).

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servizio del più forte acquirente, secondo la nota vicenda della pratica sofistica stigmatizzata da Platone. La Rivelazione cristiana ha innovato proprio tale criterio di giudizio, stabilendo la differenza tra la Verità (trascendente e divina, cioè non disponibile da parte dell’uomo) e la ragione del Potere (immanente). Pilato chiede retoricamente cosa sia la verità, perché ha già la sua verità, che è il potere di Cesare, di cui egli partecipa come governatore, senza discutere la sua autorità politica, senza cioè un’intima adesione di coscienza. Di fronte alla certezza della necessità politica, razionalmente fondata, Gesù oppone la Verità trascendente. La «forza della ragione» naturalistica e politica è diversa dalla sapienza della Verità spiritualistica e di fede. La prima è costretta a distinguere la certezza scientifica dalla credenza pratica, non riuscendo a unificarle; l’altra propone la confluenza tra fede e vita nell’esistenza integrale. Alla dialettica platonica Gesù oppone l’Amore, tanto inclusivo del senso della vita quanto per l’altra esclusivo. Anziché la conoscenza, la sapienza. Non c’è rapporto tra i due criteri, poiché l’oggetto della conoscenza è diverso. La scienza inerisce ai fenomeni sensibili, mentre la sapienza affronta la conoscenza della esperienza spirituale dell’uomo, gli invisibilia, il Mistero. La scienza è conoscenza dell’Essere; la sapienza spirituale è intuizione del Mistero, che per la ragione è il nonessere. Sbagliano, afferma Bonaventura nelle Collationes, coloro che si affidano esclusivamente alla scienza, senza conoscere la realtà spirituale dell’uomo, che è ben più della sua attività intellettuale. Le Sacre Scritture hanno per oggetto narrativo il Mistero (mysteria), e narrano il Mythos delle vicende umane (pulchras historias).237 Il senso letterale è quello «esterno» (facies naturalis, voces) che va integrato con il senso «interno» (facies mystericae). Le Scritture, essendo la voce di Dio, contengono multos intellectus, e omettere perciò per esse l’intima significazione teologica dei testi equivale a travisare il senso del Mistero che essi custodiscono, e che non si può rendere con la sola esegesi razionalista ma coinvolge l’atteggiamento di fede, cioè l’atteggiamento pratico del fedele, l’intera sua testimonianza esistenziale. Nelle Scritture il mondo si fa Mythos, racconto di Dio come avvento del senso definitivo che è il Verbo, che esprime Dio stesso. L’avvento di 237

Il Mito non va inteso in senso fantastico-affabulatorio, ma come racconto inglobante, cioè non esclusivo come il discorso del logos, «che non rimanda ad altro che a sé la propria significazione, [e quindi] non deriva da altro la propria intelligibilità, perché esso stesso conferisce ai fatti umani e alle cose del mondo la loro intelligibilità prima e ultima»: P. Prini, Il filosofare nella fede secondo S. Bonaventura, in Atti del Congresso per il VII centenario, vol. I cit., pag. 401.

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Cristo è un rinnovamento del senso ultimo della vita e delle cose del mondo, per cui la veracità del Mito cristiano doveva implicare la scomparsa del divino dal mondo pagano, cioè dall’antica sacralità della Natura rappresentata dal politeismo; il che fece supporre nei primi secoli che i cristiani fossero «atheoi», propugnanti un mondo privo di religiosità. In questa operazione demitizzante dell’antica religiosità pagana, i cristiani si appoggiarono alla filosofia, che aveva tradotto quella religiosità in morale, privandola della sua significatività assoluta. Ma nell’utilizzare la filosofia in funzione anti-mitologica, il pensiero cristiano ha fruito di uno strumento che pur sempre era derivato dialetticamente da quella fonte mitica, dal naturalismo; lo stesso che in epoca moderna fu riabilitato dal razionalismo, emancipatosi questa volta dal suo servizio teologico. Sicché, se per un verso il Cristianesimo è subentrato alla civiltà pagana come erede e continuatore degli eterni valori umanistici, per altro verso non è riuscito a immunizzarsi dal suo impianto naturalistico pagano, assumendo lo strumento logico come una tecnica presuntivamente neutra, che invece si è rivelata astratta dal suo fondamento di fede e fondativa di una autonoma visione del mondo. Ma la stessa duttilità del Logos attesta la natura essenzialmente espressiva della verità [che] non può avere una natura immutabile ed eterna [poiché essa] è, nella sua fonte e nel suo fondamento, l’espressione eterna di Dio, è il Verbo, la Parola in cui Dio esprime ab aeterno se stesso.238

L’Idea sta nella sostanza divina, nota Gilson, come il Figlio sta al Padre metafisicamente. La «espressione» o Logos di Dio è appunto il Figlio. Ma questo Verbo, interpretato come Logos razionalistico della tradizione filosofica greca, che l’intendeva, alla maniera stoica, come la natura stessa, ha ingenerato quel sincretismo instabile tra fides et ratio che il pensiero moderno ha destrutturato. La «veritas exprimens», la verità come espressione, è la forma mediata del passaggio della veritas dalla mente di Dio a quella degli uomini, poiché «Dio ha espresso tutte le cose in suo Figlio».239 Da qui la identificazione di Bonaventura dell’Idea con la «similitudine espressiva». La contemplazione di Dio nel mondo è fatto di espressioni, cioè di «parole» di Dio: «Verbum divinum est omnis creatura»: ogni creatura è una parola divina. Come è stato giustamente notato, «si tratta dunque di una vera e propria ontologia

238 239

P. Prini, Loc. cit., pag. 402. P. Prini, Ibidem.

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dell’espressione».240 L’esistere delle cose è la forma del loro essere, la loro corporeità sensibile e temporale, e come le parole s’incarnano nella voce, così la ratio aeterna di Dio, l’Idea, s’incorpora nelle cose come la loro intrinseca «ratio regulans et motiva», partecipando in questo modo alla loro origine eterna, che è appunto il Verbo divino. In questo senso si può dire che per Bonaventura «la creazione è un immenso sacramento».241 L’esigenza di una ontologia dell’espressione che potesse porsi come modello metafisico adeguato a rendere intelligibile i due temi centrali della Rivelazione cristiana: la creazione del mondo e l’Incarnazione del Verbo Redentore, nasceva dunque già all’interno dell’orizzonte di pensiero cattolico medievale, come problema della «precomprensione» e presupposto ermeneutico, in termini non soltanto esistenziali, quali considerati dalla teologia protestante. 242 L’esigenza filosofica di costituirsi come conoscenza universale coincideva con la necessità di autofondarsi mercé un «apriori radicale» che ne garantisse l’indipendenza dalla fede, potendosi così concludere in se stessa al fine di porsi, secondo l’espressione di Hegel, «come cerchio che si chiude», ovvero, secondo l’espressione di Popper come «un assoluto terrestre». Ma la visione del mondo francescana mirava proprio a ribaltare la priorità metafisica, ponendo l’intuizione di Dio al principio della conoscenza, consapevole che non ci potesse essere niente di conclusivo e di assoluto per l’uomo lasciato in balia della sua finitudine temporale e cognitiva. E’ questo il motivo centrale della critica di Bonaventura a quella che noi chiamiamo l’autonomia del filosofare. Infatti, «la scienza filosofica è via per altre scienze ma chi «In un’ontologia dell’espressione – e forse soltanto in essa – è possibile intender il senso delle due età dentro le quali e attraverso le quali si è fatto presente nel mondo il messaggio salvifico, e precisamente l’età pagana della contaminazione idolatrica del sacro e l’età atea della cancellazione di ogni segno del sacro nel mondo. Questa età che è la nostra, legge il mondo, altrettanto come nel paganesimo, fuori dal codice ermeneutico della Scrittura che si è adempiuta nella rivelazione del Verbo incarnato. A differenza del paganesimo essa legge il mondo nelle categorie rigorosamente autonome del pensiero scientifico e cioè nelle categorie o in quadri teorici che servono soltanto alle procedure delle “verità fattuali”, scontando sia l’esito dell’efficienza tecnologica che la carenza delle finalità di fondo. Per questo la filosofia bonaventuriana possiamo ritrovarla attualissima per noi esplicitamen te come quello studium sapientiae di cui parla Agostino, come una genuina Christiana philosophia, che è la vita cristiana illuminata dal pensiero»: P. Prini, Loc. cit., pag. 404. 241 P. Prini, Loc. cit., pag. 403. 242 Ved. WuM., pagg. 383 sgg. 240

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vuole fermarvisi cade nelle tenebre».243 Egli conia un’espressione, «sursumactio», che indica «l’azione elevante, che compendia lo sforzo umano e la Grazia divina nel vincere il peso morto della natura, [ed] è condizione indispensabile dell’agire come del contemplare cristianamente».244 Con il diffondersi dell’aristotelismo dopo Averroè, Bonaventura ricorda ai suoi confratelli che la conoscenza che conduce alla salvezza non si rinviene presso i filosofi e neppure presso le Summae dei teologi o nelle opere dei Padri della Chiesa, ma direttamente alla fonte cui tutti loro rinviano, ossia alla Scrittura, che è l’origine stessa del sapere che libera dal peccato: «omnia divina supra tempus sunt».245 L’esistenza di una «filosofia cristiana», quale proposta da Gilson,246 implica una «teologia della storia», che non pertiene ai soli filosofi medievali, ma a tutti i filosofi in quanto «cristiani».247 La questione della verità del giudizio storico come relazione tra l’universale e il particolare inteso come situazione concreta, non può rifarsi alla concezione etica aristotelica, che individuando nella techne l’applicazione pratica di un previo sapere (eidos), si pone a metà tra l’episteme e l’esperienza, per individuare i suoi referenti metodologici.248 La coscienza morale cristiana, infatti, non è paragonabile alla areté dell’Etica nicomachea, dove Aristotile nega che il Bene supremo possa essere un’Idea, ma sostiene la tesi dell’eternità del mondo, la quale «rende inconcepibile la beatitudine cristiana».249 Il filosofo può pensare a prescindere dalla sua fede religiosa, ma «se la verità cristiana veniva accolta come fede, il cristiano usa i concetti filosofici in stretta connessione allo scopo di rendere intelligibile il dono della fede – credibile factum intelligibile per additionem rationis , il suo lavoro si presenta come una filosofia della religione», e più precisamente una «filosofia del cristianesimo», in cui la figura di Cristo 243

P. Prini, Loc. cit., pag. 405. “Ogni cristiano operoso sursumagit. Nella sua attività il divino, come finalità e come aiuto interiore, ha la parte dominante. Imbevuta di pietà ed intrisa di sofferenza, l’azione cristiana è intrinsecamente religiosa […] ed “è di fatto un amare Dio con tutte le forze”: A. Gemelli, Il Francescanesimo, Milano, 19455, pagg. 468 e 469. 245 Ved. P. Vignaux, Condition historique de la pensée de Saint Bonaventure: christocentrisme, eschatologie et situation de la culture philosphique, in Atti del Congresso per il VII centenario, vol. I cit., pag. 411. 246 E. Gilson, Lo spirito della teologia medioevale (1932), Brescia, 1963. 247 P. Vignaux, Loc. cit., pag. 418. 248 Ved. WuM, pagg. 363 sgg. 249 Ved. P. Vignaux, Loc. cit., pag. 420. 244

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risulti al suo centro.250 Per Bonaventura la stessa filosofia non ha solo per oggetto il Cristo, ma ha Questi come suo fine, sicché la filosofia della religione non ha infine altro oggetto che la teologia stessa. Per il Santo, il metafisico considera l’Essere primo, «ut habet rationem principii, medii et finis ultimi, non tamen in ratione Patris et Filii et Spiritus Sancti», compito questo che il filosofo lascia al teologo. In ambito filosofico, l’Essere (esse) è lo stesso di quello dei fisici – convenit cum physico -, e la sua considerazione relativa ai fini, con lo stesso Essere di cui trattano i moralisti. Sicché quando il filosofo riprende il punto di vista dei «filosofi illuminati» dalla fede (esemplarismo), in quanto la ratio omnia exemplantis, la ratio medii, del filosofo, è la stessa della ratio Filii sive Verbi del teologo, anche se il filosofo questo lo ignora. Il teologo infatti pensa il Verbo per la sua «esemplarità» che dall’interno della stessa Trinità si dispiega fin dentro l’Incarnazione quale immagine dell’uomo. 251 Bonaventura è dunque «filosofo della religione» quando mostra il Cristo come «centro referenziale», cioè di significazione, della conoscenza razionale. Nello stesso tempo, nella Collatio III, Bonaventura dichiara che diversamente dai filosofi – contra philosophos –, la tesi della creazione del mondo per una causa diversa da quella relativa agli effetti debba essere derivata dal Verbo, attraverso la Sua mediazione; tesi che non è alla portata dei filosofi in quanto tali. Il Nostro già anticipa quanto sarà la tesi del secondo dei Discorsi sulla religione di Schleiermacher circa le forme allotrie in cui si risolve la religione, una delle quali è appunto la metafisica, la quale, pur avendo in comune con la religione «l’oggetto», che è il rapporto dell’uomo con l’Assoluto, essa «teorizza» ciò che invece il sentimento religioso «intuisce».252 Ciò non nega quanto sostenuto nella Collatio I, poiché non nega l’esistenza di Idee in Dio, ma solo la maniera con cui sono spiegate le origini delle «cose», cioè con l’emanatismo arabo, il quale appunto non nega il punto centrale dell’esemplarismo cristologico ma, il suo modo di rappresentare la teologia della creazione tramite il Verbo, che è a sua volta «increato», spiegabile solo con l’Incarnazione e dunque con la fede. Il Verbo incarnato è la sola «porta» d’ingresso alla conoscenza ultima e assoluta.253 Il filosofo giunge alla conoscenza attraverso la mediazione del Verbo, pur non rendendosene conto, se non credente; se invece credente, conosce tornando al Principio («plena revolutio, 250

Ivi, pag. 422. Ivi, pag. 425. 252 F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione (1799), tr. it., Brescia, 2015. Ved. I. Mancini, Filosofia della religione, in Opere, vol. I, Brescia, 2077, pag. 83. 253 P. Vignaux, Loc. cit., pag. 426. 251

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reductio completa») che permette la rivelazione di Dio come Padre. Il Verbo è il «medium metaphysicum reducens»,254 della metafisica che «est tota nostra metaphysica», per cui la sua pienezza non è accessibile che al teologo: una filosofia della Rivelazione applicata a ciò che si è detto essere una filosofia della religione, che lascia spazio a una metafisica pura, superiore a quello della mera filosofia, priva dell’esemplarismo teologico. Ciò comporta dunque che «la cultura filosofica si situa presso Bonaventura in una storia il cui senso complessivo si rinviene nella sua escatologia: quella del Verbo incarnato, oggetto della fede presente come ‘eterno avvenire’ dell’uomo e dell’intero universo».255 Per il Dottore della Chiesa, la filosofia è «afflitta da un vizio congenito che le impedisce di funzionare correttamente, persino nell’ambito suo proprio».256 Bonaventura contesta ad Aristotile sia la ricordata tesi dell’eternità del mondo e la ciclicità dei tempi, che non potrebbero conciliarsi con l’evento escatologico dell’Incarnazione, che la teoria dell’unicità dell’intelletto agente professata dagli averroisti, dal momento che se ci fosse un solo intelletto comune a tutti gli uomini, non potrebbe sussistere né l’immortalità personale e neppure di conseguenza la salvezza dell’anima, poiché non sarebbe più necessario di osservare i comandamenti dal momento che si potrebbe dire indifferentemente che i cattivi sarebbero salvati e i giusti dannati .257

L’errore comune a tutti i filosofi pagani è la mancanza di acquisizione dell’«esemplarismo», negato da Aristotile, che all’inizio della sua Metafisica e nella sua Etica ha ripudiato la teoria platonica delle idee, privando così di ogni giustificazione razionale la teoria platonica della virtù. Se per Aristotile la scienza è quel sapere cui perviene lo spirito circa la ragione delle cose, che le rende ciò che sono e non altre, si può parlare di scienza per Bonaventuna solo in riferimento a una verità necessaria ed eterna conosciuta con certezza. Ma nessuna realtà creata è immutabile e nessuna verità è capace di procurare all’intelligenza una “Incipiendum est a medio, quod est Christus”, afferma Bonaventura rifacendosi sia alla I Epistola a Timoteo (2,5), dove è scritto che Cristo è “il mediatore tra Dio e gli uomini”, che al “medius vestrum” di Giovanni 1, 26. 255 P. Vignaux, Loc. cit., pag. 427. 256 J. Chatillon, Saint Bonaventure et la philosophie, in Atti del Congresso per il VII centenario, cit., pag. 438. 257 J. Chatillon, Loc. cit., pag. 439. 254

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tale certezza infallibile, alla quale pure aspira. Solo la Verità increata, ossia il Verbo di Dio, ragione eterna delle cose, può condurci alla scienza vera: «Christus unus omnium magister».258 Infatti la sola conoscenza non può trovare la ragione eterna delle cose nelle cose stesse, e da qui deriva la parzialità e imperfezione della gnosi filosofica. L’incontro delle due nature nell’unica persona divina di Cristo è la chiave di volta per comprendere il rapporto tra fede e ragione. L’assunzione infatti della natura umana da parte del Verbo porta alla perfezione l’essere umano, e così l’incontro della fede con la ragione la nobilita in consapevolezza di sé. Il Verbo è pertanto «radix intelligentiae omnium»; infatti «si intelligis Verbum, intelligis omnia scibilia». Il Verbo, assumendo in sé la ragione umana, fa sì che l’uomo possa conoscere non solo il conoscibile razionalmente, ma anche ciò che conosce il Verbo, aprendo l’intelligenza alla divina sapienza. A partire dalla stessa conoscenza di Dio: «Esse divinum est primum quod in mente»; «primum speculabile est Deum esse. Primum nomen Dei est esse», poiché «quidquid de Deo dicitur, reducitur ad esse; hoc est proprium nomen Dei». «Primum et Summum ens esse evidentissimum in una veritate». La teologia razionale sostenuta da Bonaventura è l’unico ponte di passaggio e di sviluppo della ragione nella fede, di inveramento del sapere umano in quello divino. Il concetto dell’Essere è quello in cui Dio è presente e contenuto. Per Bonaventura la conoscenza di Dio è di evidenza immediata. La possibilità della teologia razionale suppone un forte ottimismo antropologico, che ha come riflesso immediato l’ottimismo gnoseologico della conoscenza di Dio. Su questa premessa, la tradizione onto-teologica cristiana ha assunto la ragione filosofica in senso strumentale e assiologicamente neutra, distaccata e a se stante rispetto alla metafisica naturalistica greca, per inserirla a scopo protrettico in posizione ancillare. Nel primo libro delle Sentenze, il Serafico definisce il soggetto nominale di cui tratta la teologia come il «credibile», il quale, mediante l’aggiunta della ragione, trapassa nell’ordine dello «intelligibile», diventando il soggetto della teologia. Sicché, la ragione teologica dovrà articolarsi in definizioni, divisioni, ragionamenti complessi che concorrono tutti a formare la struttura della questio teologica. «Orbene», sostiene Bonaventura, «il modo di procedere nella sacra Scrittura, cui la teologia appartiene come la parte al tutto, è principalmente quello della narrazione e non della ricerca razionale» (modus procedendi in sacram Scripturam est typicus et per modum

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Sermo IV (V, 567-574).

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narrationis, non inquisitionis), per cui il libro delle Sentenze, che è propriamente teologico, non deve procedere con il metodo della investigazione razionale» (cum ergo liber iste pertineat ad sacram Scripturam, non debet procedere inquirendo).259 Per il nostro teologo, si tratta di due ambiti di conoscenza distinti. Nella Scrittura il credibile è trattato come credibile, mentre nella teologia si tratta del credibile in quanto intelligibile. Come afferma Chenu, «l’oggetto della fede, senza perdere nulla della sua natura e delle sue qualità, passa sotto un altro regime, ove regna il modo raziocinativo».260 In questo caso, si perviene a un tipo di determinazione che «trae fuori» dal suo contesto originario l’oggetto studiato, il quale non è pertanto più considerato come parte del tutto primitivo, bensì come un contenuto che entra a far parte di un altro contesto e sottoposto quindi a principi diversi di spiegazione. Bonaventura chiama questo procedimento «determinatio distrahens», mentre il risultato di essa è indicato come «subalternanza» La distractio della particolare determinatio che produce la subalternanza è tale per cui «rem ad alium conceptum vel ad alia principia specialia trahit». La ragionevolezza della fede concerne una dimensione di razionalità che trascende il modo della razionalità meramente astratta e impersonale propria della scienza naturale. La teologia per Bonaventura non è propriamente una «scienza», ma «sapienza» «quae simul dicit cognitionem et affectum».261 Nella sua prospettiva, non ogni contenuto di verità è idoneo a impegnare la capacità affettiva dell’uomo. Se la verità della scienza è assiologicamente neutra e affettivamente indifferente e impersonale, la verità propria della sapienza è per sua natura in grado di muovere l’affetto. Le verità di fede sono appunto di ordine sapienziale e metascientifico, poiché il fine dell’uomo è il «godimento di Dio», che è il luogo naturale del bene e l’ultima destinazione dell’anima. 262 Ciò implica una differenza essenziale tra la ragione partecipativa della verità, e la ragione analitica della dimostrazione di un’ipotesi; la stessa differenza che appunto vi è tra la verità e una ipotesi razionale. L’ipotesi di scienza offre una certezza speculativa (certitudo speculationis), mentre la certezza della fede è intrinseca alla verità cui aderisce (certitudo adhesionis). La certezza per adesione è maggiore nella fede che nella scienza, poiché aderisce appunto alla verità, e non a un mero oggetto conosciuto. Questa è la ragione per la quale in nome 259

I Sent, proem, 2 n. 4 (I, 10a). M. D. Chenu, La théologie comme science au XIII e siécle, tr. cit., pag. 64. 261 1 Sent, proem, q 3, resp (I, 13b). 262 Ved. E. Gilson, La filosofia di san Bonaventura, cit., pag. 386. 260

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della verità di fede si immolano i martiri. Bonaventura critica Platone, non già per aver concepito le idee come «rationes aeternae», ma per aver circoscritto la conoscenza alle sole idee, escludendo il mondo sensibile; all’opposto di lui fece Aristotile, che predilesse la sola via della scienza.263 Il Santo sostiene che entrambi i linguaggi, delle cose superiori e delle inferiori, sono dati per grazia soprannaturale ad Agostino. L’uomo per Bonaventura è un ente radicalmente diverso dagli enti altri della creazione, in quanto fine della creazione, e il «medio» attraverso il quale ogni altro ordine rientra nella sua orbita di essere intelligibile, che ha per fine Dio. La ragione è il tramite per deificarsi, cioè per partecipare della realtà di Dio. La ragione stessa è la disposizione umana a ricevere la grazia di Dio. Ma la razionalità non è un comodo privilegio bensì un grave onere pieno di responsabilità. In quanto portatore dell’essere spirituale, dotato di ragione e di morale responsabilità, ossia di libertà, l’uomo è qualificato ontologicamente a determinarsi nella sua unica personalità; anche se l’esser persona non è un dato di fatto, bensì un compito da adempiere, un valore da realizzare, senza alcuna assicurazione di riuscita. La persona non si capisce dal punto di vista dell’essere effettuale e reale, bensì da quello del dover essere, che lo espone alla sua fragilità e finitezza. Provvisto di libero arbitrio, può auto-determinarsi per decidere; a volte in maniera sbagliata. In questo fallire e riconoscerlo riposa il mistero della libertà e del male, ossia la condizione del suo «status». Lo status in cui l’uomo si trova ad esistere influisce sull’esercizio della sua razionalità, determinandone i modi di attuazione. La parola «status» allude chiaramente alle determinazioni ontologiche che costituiscono i vari modi di attuazione esistenziale della natura potenziale dell’uomo. La considerazione della natura pura dell’uomo, astratta da ogni circostanza esistenziale, da ogni realizzazione in statu, è necessaria come propedeutica alla analisi antropologica, ma chiaramente insufficiente a una visione integrale. La conditio primaria dell’uomo è lo «status innocentiae» o «status naturae institutae», in cui la ragione e il libero arbitrio erano regolati secondo rettitudine e giustizia, per cui il giudizio deontologico di valore circa le cose da credere e da fare era orientato secondo il volere di Dio. Per Bonaventura, l’ordinamento del comportamento è determinato dall’ordinazione giusta dell’amore, che orienta anche la ragione e la rettitudine della mente, essendo la matrice di tutte le nostre determinazioni affettive. Nello stato di innocenza l’uomo è rivolto a Dio cui liberamente si assoggetta, e perciò le altre cose gli sono soggette, in

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Ved. E. Gilson, Op. cit., pagg. 96-97.

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quanto lui è in grado di usarle e giudicarne, esercitando il suo governo. Governare le cose del mondo equivale ad assumerle nella potestà con modalità virtuosa e buon uso, giudicando rettamente sulla loro natura: «omnem veritatem creatam subiecerat eius intellectui ad diindicandum, omnem bonitatem eius affectui ad utendum, omnem virtutem eius potestati ad gubernandum».264 Lo status umano coinvolge anche il suo mondo in cui è situato, per cui il complesso degli enti è il loro principio. Con la caduta dell’uomo, anche il mondo decade nel disordine e diventa estraneo e sconosciuto. Il «libro» del mondo diventa aperto e chiaro, o viceversa chiuso e incomprensibile, a seconda che l’uomo si trovi in status graziae (o innocentiae), ovvero in status naturae lapsae et miseriae. Quando l’occhio della ragione è accecato dal peccato di presunzione, il libro del mondo risulta indecifrabile, poiché l’interprete ignora proprio l’unica norma interpretativa stabilita ab aeterno dal suo Creatore: l’ermeneutica sacra del mondo. S. Agostino, riprendendo la tripartizione del Libro della Sapienza dove si afferma che «omnia in mensura, et numero et pondere disposuisti» (Sap. XI, 21), fa corrispondere la triade di «modus, species, ordo» (misura, bellezza e ordine) secondo la quale il mondo è stato prodotto e disposto. Anche Bonaventura si inscrive in questa «estetica sapienziale», dando grande risalto ai trascendentali Vero, Bello e Buono, che si implicano reciprocamente e si convertono tutti nell’ente quali qualificazioni oggettive dell’Essere. L’assiologia implica l’ontologia e la ragione assiologica è perciò anche ontologica. Particolare rilievo il Nostro riserva alla Bellezza (la «species» di Agostino), quale valore semantico del mondo e riflesso creaturale della bellezza divina che in sé appartiene alla Trinità. Ogni ente ha una forma e dunque una sua bellezza. Ogni valore che faccia riferimento ai trascendentali, Bonaventura lo dice «in sé», cioè per essenza attribuito in Dio, mentre quando lo si predica dell’ente creato lo si dice «in altro», cioè per partecipazione. Questa differenza ribadisce la differenza tra Dio e il mondo, stabilendo inoltre il rapporto tra i due termini per analogia, realizzando la condizione di conoscenza di Dio da parte dell’uomo. La premessa di ogni conoscenza è l’assunzione dell’armonia cosmica dell’universo, la cui bellezza deriva, per Bonaventura, dalla connessione di unità e molteplicità, secondo concordanze e differenze proporzionate, che ne stabiliscono l’ordine. L’apprensione del mondo sensibile avviene attraverso tre coefficienti congiunti ma distinti: la sensazione, il piacere e il giudizio. Solo quando sono comprese nel Verbo divino le cose sono

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2 Sent, proemium, (II, 5a).

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veramente conosciute nel loro essere autentico e nelle loro qualificazioni di valore. Questa cognizione è la «ratio superior» della ragione ordinata a Dio. La cognizione di Dio nelle creature ha un valore superiore alla cognizione di Dio mediante le creature. Il primo modo di cognizione consente di conoscere la presenza stessa di Dio nella creatura: è un modo «semiplene», cioè non completo, per l’uomo in stato di via, mentre si realizza perfettamente negli spiriti in stato di gloria. Il secondo modo, attraverso le creature, è proprio soltanto dell’uomo in stato di via. L’avvento futuro del Regno di Dio non implica l’annientamento del mondo imperfetto presente, ma una sua purificazione dai difetti derivati dalla caduta dell’uomo e il ripristino dello stato primordiale. Il primo modo di cognizione è molto importante per le sue implicazioni in senso escatologico, poiché per Bonaventura la ragione teologica è essenzialmente condizionata da tale prospettiva escatologica; una delle funzioni essenziali della ragione teologica, fortemente caratterizzata in senso soteriologico, è quella di suscitare sempre nell’uomo, cioè nella sua coscienza, la speranza dell’avvento del Regno di Dio, il cui futuro inizia dalla coscienza della sua realtà odierna. Il principium radicale è Dio; il totum integrale è Cristo; il totum universale sono e cose create e increate, mentre i signa sono i Sacramenti. Tutto ciò costituisce il «credibile», non solo quale oggetto di fede, ma in quanto «transit in rationem intelligibilis», che è poi il credo ut intelligam di Anselmo d’Aosta. Il passaggio dal credibile all’intelligibile è il modus procedendi della teologia affrontata nella seconda questione. Va precisato che l’unità di res (che sono le stesse per ogni scienza) e di signa concettuali va considerata secundum quod induunt rationem credibilis, cioè in relazione all’unica fede, che è il punto di vista particolare della scienza teologica, che non è puramente intellettuale ma comporta anche la valutazione dell’elemento affettivo e dell’intervento della volontà. Infatti la fede (che è virtù e insieme abito intellettuale), così come la sua fruitio, non si risolvono nell’attività conoscitiva ma sono anche atti della volontà, per cui la teologia non può essere considerata come una scienza «pura» o «neutra», ma come un sapere che impegna l’uomo integralmente. Il metodo in virtù del quale il credibile diventa intelligibile è il «modus perscrutationis sive inquisitivus sive ratiocinativus» con il quale la ragione dimostra i contenuti della fede. Questa costituisce sempre il punto di partenza per il retto uso della ragione, ma non interviene affatto nel processo dimostrativo che vale per se stesso. Perché possa formulare verità necessarie, afferma Bonaventura sulla scorta di Anselmo, è indispensabile la fede, anche se queste verità valgono per se 171


stesse allorché sono dotate della chiarezza ed evidenza razionale. La dichiarata autonomia della ratio dalla fides sancisce l’opzionalità della fede ai fini della conoscenza, che permane nella sua verità di ragione etsi Deus non daretur. L’autonomia infatti non è altro che la pretesa universalità della ragione, il cui criterio di verità è riposto nel suo valore universale quale linguaggio della natura che diventa quindi quello stesso di Dio. L’idea che la verità esposta razionalmente possa giungere, in virtù della sua universalità, anche a chi non abbia la fede, ossia non partecipi dei principi in base ai quali il discorso razionale ha un senso e non altro, cioè sia vero, costituirà un errore gnoseologico capitale che rappresenterà il cavallo di Troia del razionalismo entro le mura teologali. Infatti, la fede non è il proemio (aitìa) della ragione, ma la sua arché, senza la quale essa non può dispiegare il suo logos. Tale fondamento originario costituisce la matrice mitica di ogni discorso razionale, senza la quale quest’ultimo non ha significato che in se stesso e per se stesso. Ma poiché ogni discorso è significativo entro il suo orizzonte di senso, nessuno perviene alla verità, che trascende ogni discorso razionale, il quale senza il suo trascendente senso di verità, non è altro che téchne dialektiké. Il rapporto tra Mythos e Logos ha il suo paradigma essenziale nel rapporto di derivazione-inveramento dell’Antico con il Nuovo Testamento. Il senso innovativo dell’esegesi neo-testamentaria va inteso rispetto al processo ermeneutico intrapreso dal logos naturalistico nei confronti del Mito pagano. Un Logos, quello cristiano, non solo razionale, ma pregno della sua fede, e dunque interprete dell’intera esperienza esistenziale dell’uomo, e non della sola fisionomia etico-politica. Questo carattere di esistenzialità dà all’esegesi neotestamentaria un orizzonte fortemente innovativo rispetto alla tradizione filosofica greco-pagana, e pertanto, almeno in origine, alternativo alla sua concezione metafisica della realtà umana. In tal senso, la testimonianza di Bonaventura fa di lui un lucido e consapevole interprete della nuova istanza noetica inaugurata dalla Rivelazione cristiana. Sul fondamento veritativo che «Christus unus omnium magister» (Mt, 24, 10), il Dottore afferma che il «principium illuminationis cognoscitivae, Christus videlicet»265, assegnando a questa espressione un valore sia gnoseologico che epistemologico. Con l’introduzione dello studio di Aristotile, anche la teologia ne risentì, sin dalla nascita dell’Università di Parigi nel 1215. Sia Tommaso che Bonaventura erano favorevoli alla conoscenza dello Stagirita, il cui rapporto con la verità era diverso da quello cristiano.

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Sermo IV; V, 567-574.

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Platone infatti aveva rigettato come un’ombra tutta la realtà corporea per poter cogliere solo la verità ideale, mentre Aristotile aveva estratto la quidditas dalla concretezza del singolare per ragionare in termini scientifici, di scientia propter quid. Cristo invece fondava la verità dell’uomo nella sua intierezza di vita e di pensiero. Nel libro XIII delle Confessioni, Agostino scrive di aver trovato la soluzione del problema della verità non per astrazioni, comunicandola per definizioni e sillogismi, ma attraverso la sua testimonianza di vita, per mezzo del suo Spirito, la cui parola ha intenzionalità non soltanto logica ma ontologica. Ciò che difettava ai filosofi, «incapaci di rettificare le affezioni dell’anima», era «un libero arbitrio elevato dalla grazia».266 Il limite teoretico della gnoseologia dei filosofi pagani è il loro orgoglio intellettuale, la «volontà di bastare a se stessi», per cui «la certezza e l’apparente disinvoltura della conoscenza filosofica sono qualità per le quali essa si lascia condurre alla sua perdita e conduce alla perdizione». Infatti, il filosofo, che crede di pervenire alla luce, in realtà «ha ormai perduto il senno», sicché «la nascita della teologia» non è una branchia aggiuntiva al ramo della conoscenza scientifica, ma si spiega con una liberalità della grazia e un dono speciale dello Spirito santo [che] viene in soccorso della nostra povertà per farcene uscire; è esso che muove la nostra intelligenza a esplorare il contenuto della nostra fede; è esso che perviene a farci comprendere l’oggetto che noi non vediamo ancora; esso è il fondamento soprannaturale della fides quaerens intellectum.267

La dichiarata insufficienza del filosofo, ossia della conoscenza razionale, non inficia lo strumento della ragione, ma scredita la pretesa filosofica di fare a meno del suo fondamento di fede, ossia che «essa funzioni solo formalmente e come a vuoto», misconoscendo o ignorando che «il solo percorso legittimo e sicuro della conoscenza consista nel partire dalla fede per attraversare la luce della ragione e pervenire alla soavità della contemplazione». Da qui il carattere assegnato alla filosofia come «una dottrina essenzialmente mediatrice [che] presa tra la fede pura e la scienza teologica, è condannata ai più gravi errori se si prende come un assoluto, e incapace di compiersi se non accetta l’aiuto di una disciplina superiore», la «scienza teologica», la quale a sua volta è passaggio verso la luce della Gloria, mancando la quale, sia la filosofia che la stessa teologia sarebbero «false scienze».268 266

E. Gilson, La filosofia di san Bonaventura, cit., pag. 100. Ivi, pagg. 107 e 109. Corsivi nostri. 268 Ivi, pag. 112. 267

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Rispetto alla concezione che Tommaso ha della filosofia 269 come scienza servente la teologia (ancilla theologiae) ma autosufficiente iuxta sua propria principia, che «restaura per la prima volta nei tempi moderni l’idea di una disciplina della ragione che non dipende che da se stessa», la concezione di Bonaventura è guidata da «un’ispirazione completamente differente»,270 secondo la quale l’essere esistente per il pensiero, perché da esso posto come essenza, e l’essenza dell’essere colta da un pensiero, cioè la verità, non sono lo stesso oggetto. Infatti per Bonaventura la verità è «una condizione dell’essere e non può determinarsi se non in rapporto ad esso», per cui «ogni verità si definirà mediante due termini, un termine d’essere e un termine di conoscenza», in mancanza di uno dei quali «nessuna verità potrebbe darsi; infatti se non c’è essenza, non c’è nulla da conoscere; ma se non c’è concezione di questa essenza e rappresentazione generata in un pensiero, non c’è nulla di conosciuto».271 L’essenza è l’oggetto di una «concezione» ideale, cioè di un pensiero razionale, la quale è però generata da una «rappresentazione» che ne è il suo fondamento pre- e meta-razionale, ontologico e di fede: una fede ontologica, quale costituita dalla Parola di Cristo. Il Logos cristico, in grazia del Suo «pléroma» comunica «intus loquitur», cioè dall’interno della verità; ciò che Aristotile non poteva fare. Per Bonaventura, il «modus procedendi per rationes» conviene alla sacra dottrina (la teologia) intorno al «credibile», perché questo supera la ragione nell’ordine delle verità naturali, ma si adegua ad essa se viene elevata dalla fede e dalla scienza: «fides enim elevat ad essentiendum; scientia et intellectus elevant ad ea quae credita sunt intelligendum». In altri termini, la teologia non consiste nel puro ragionare e speculare, ma nel conoscere sapienziale: «sapientia quae simul dicit cognitionem et affectum».272 In queste tesi a noi pare che Bonaventura pervenga a un superamento della pretesa razionalistica di poter giungere, attraverso lo sviluppo razionale delle premesse espresse da un autore, a conoscere conseguentemente il suo pensiero in maniera oggettiva.273 E non nel senso romantico della libera creazione divina del mondo, ma perché è impossibile stabilire una connessione univoca tra oggetto e interpretazione trattandosi della Parola di Dio, la quale, pur espressa in termini umanamente comprensibili, non è de-finibile in alcun sistema 269

Ved. Tommaso, Contra gentiles. E. Gilson, loc. cit., pag. 113. 271 Ivi, pag. 357. 272 I Sent, proemium, q. 3 resp. 273 WuM, pag. 235. 270

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concettuale finito, in una totalità di significato, avendo per contenuto il Mistero. Questo, nondimeno, non è un elemento esterno alla storia dell’uomo, come un ideale astratto o anche storico (come l’età classica, l’umanesimo, l’ekklesia primitiva) rispetto alle imperfette forme presenti, dal momento che l’Incarnazione ha storicizzato, per così dire, il Mistero divino. Esso sta a indicare l’in-finitezza della Parola rivelata, ossia la trascendenza della verità, che non si può con-prendere in un modello storico, cioè finito, che abbia senso in se stesso. Lo stesso ideale «universale» dello storicismo, si rivela infine come un ideale negativo, che è quello della in-compiutezza di ogni realtà storica quale presunto «fondamento» della storicità.274 La teologia è scienza? Il «soggetto» della teologia è il Mistero di Cristo redentore figlio di Dio. Non va confuso con l’ «oggetto» teologico, come capacità scientifica nel ragionare intorno a Dio, cioè come habitus discorsivo. Si chiama «soggetto» di una scienza determinata quella verità che esprime la realtà e che fonda, avvalora e unifica tutte le verità del campo della scienza e le rende intelligibili nella loro organicità. Il soggetto di una scienza di realtà concrete ha una funzione e una portata ontologica, euristica ed epistemologica, poiché dal soggetto emanano tutti i principi che reggono e dirigono una scienza, e le realtà studiate dalla scienza alla luce del soggetto. Per Tommaso, il «soggetto» della teologia è Dio. E tutte le cose che non sono Dio sono in teologia trattate nel loro rapporto con Dio: «sub ratione Dei».275 La «ratio» è dunque il rapporto con Dio, il punto di vista di tal rapporto, e non il costitutivo metafisico di Dio, la «deitas». Il soggetto non è una quidditas, come invece lo è l’oggetto di una scienza. La ratio propria alla teologia è simpliciter diversa. Se si astrae la deità metafisica dal rapporto, svanisce il contenuto della teologia, contenuto ontologico espresso come «sub ratione Dei», secondo le parole di Tommaso. Le cose trattate dalla teologia sono quelle che hanno principio e fine in Dio, che non è una realtà metafisica, ma Colui che si è rivelato come a «provvidenza e bontà perfetta». E’ la luce divina che illumina l’intelletto umano dando allo spirito la facoltà di cogliere l’intelligibile delle cose.276 Anche Bonaventura sostiene, nel commento alle Sentenze, che il «Subiectum ad quod omnia reducuntur […] est ipse Deus». E inoltre che tale «Subiectum ad quod omnia reducuntur», «ut ad totum integrale, est Christus, prout comprehendit naturam divinam et humanam», cui si 274

WuM, pag. 243. Tommaso, In Boetium de Trinitate; ved. M. D. Chenu, La théologie comme science au XIIIe siécle, tr. cit., pag. 77. 276 S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia medievale, cit., pag. 113. 275

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conduce «ad totum integrale» ma anche «ad totum universale», poiché in Lui il «credibile transit in rationem intelligibilis […] per additionem rationis».277 Il soggetto della teologia è dunque credibile in quanto, attraverso la ragione, diventa intelligibile. Ciò non significa che il credibile sia l’intelligibile, che restano distinti, ma che l’oggetto della teologia sia esclusivamente il secondo. Sicché, «altro sarà dunque il metodo del credente, altro quello dell’esegeta, altro quello del teologo».278 Proprio in conseguenza della coscienza della differenza tra fede e ragione, la relazione tra i due termini di cui si compone la verità rimangono inscindibilmente congiunti, per cui le ragioni, cioè l’intelligibilità, «non valgono che nella fede», che è la condizione della comprensione del Verbo divino.279 Bonaventura distingue una theologia cordis, o teologia della carità universale che, inscritta nel soggetto della teologia, unisce tutte le realtà, celesti e terrene, dalla theologia mentis di tipo ellenico, che cerca nella verità-quiddità il fattore costitutivo universale della realtà, anche dello stesso Dio. Secondo la prospettiva teologica sentimentale, non essendo Dio una deità metafisica, la Sua natura caritatevole è costitutiva della Sua conoscenza, così come è valore della Sua verità. La carità dunque è valore, che perviene all’umanità per via sacramentale e non per semplice via intenzionale di dottrine e di leggi. Nella prospettiva della teologia razionale, invece, l’inclusione della realtà di Dio nel sistema della metafisica del finito porterà alla declassazione della storia e alla schematizzazione della morale, che produrranno, per reazione, l’irruzione dello storicismo e dell’amoralismo radicale. In accordo con s. Tommaso, Bonaventura sostiene che la luce dell’intelletto provenga da Dio, « omne datum optimum est descendens a Padre luminum», come recita l’Epistola di Giacomo (1, 17). Quanto all’oggetto di tale illuminazione, cioè al contenuto della verità, occorre pensare a qualcosa di immutabile. Dove rinvenirlo? Poiché le cose possono sussistere sotto tre modi d’essere, e cioè in se stesse, nel pensiero di chi le pensa e in Dio, la ricerca deve concentrarsi nell’ 277

1 Sent, proemium, q. 1 resp. M. D. Chenu, La théologie, tr. cit., pag. 64. E’ appena il caso di ricordare che, dal punto di vista esegetico, il testo delle Sentenze del Lombardo, oggetto del commento di Bonaventura, è preferito, e non solo dai francescani, allo stesso testo scritturale, che viene considerato un racconto sistematico e caotico, tanto che i racconti biblici aprono, a partire dal 1250, un conflitto che durerà due secoli e che porterà allo scontro gli esegeti e i teologi della Sorbona. Ved. Ivi, pag. 62. 279 Ivi, pag. 65. 278

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«essere dell’oggetto in quanto sussiste nel pensiero di Dio», poiché né la contingenza dell’essere sensibile può fornirci una realtà assoluta, e neppure la nostra ideale rappresentazione delle cose, stante l’instabilità dell’intelletto umano.280 La questione da verificare è se tale accesso alla verità, ossia al fondamento della certezza, sia possibile e come. Anzitutto occorre distinguere la conoscenza delle verità divine, dalla scienza umana delle cose; «infatti le cose posseggono il loro proprio essere al di fuori di quello che hanno nelle idee di Dio, ed è questo essere delle cose nel loro genere proprio a costituire l’oggetto stesso della nostra scienza», che non sarebbe tale se noi vedessimo le cose «in Dio» ma una «scienza delle idee». Inoltre, che tale conoscenza ci consenta di giungere a «ciò che vi è di infallibile nella luce di Dio e di immutabile nella sua verità».281 Ciò significa che «essendo Dio il solo fondamento dell’essere e del conoscere, non si può raggiungere nessuna conoscenza se non si raggiunge Dio». Nella prospettiva platonica di Agostino, alla quale si rifà Bonaventura, amare Dio significa conoscerlo come Bene, e «non hoc et illud bonum sed ipsum bonum»,282 cioè come Idea eterna, che non appartiene alla ragione finita dell’uomo, il quale, perciò, non può crearla da sé col suo solo pensiero.283 Ciò che è creato dal pensiero umano subisce le sue stesse vicissitudini, mentre «le esigenze della verità sono assolute, poiché i suoi caratteri distintivi sono quelli di Dio». Da qui il limite della teoresi pagana, della filosofia di Platone e di Aristotile, e della superiorità di Agostino. 284 La scienza pagana è pertanto limitata perché senza fondamenti, i quali soltanto forniscono la possibilità della conoscenza della verità, che è la stessa conoscenza delle idee di Dio. Ma cosa è Dio? Dio è l’Infinito, ed è perciò che non si può conoscere direttamente Dio 285.286 Solo il rapporto tra l’immutabilità dell’essenza divina e la intelligenza mutabile 280

De scientia Christi, IV, Concl., t. V, pag. 23; Itinerarium, III, 3. Ved. E. Gilson, La filosofia di san Bonaventura, cit., pagg 362-3. 281 Ivi, pag. 364. 282 De Trinitate, VIII, iii, 4. 283 “Deus autem nec modum habere dicendus est, ne finis ejus dici putetur. Nec ideo tamen immoderatus est, a quo modus omnibus tribuitur rebus, ut aliquo modo esse possint. Nec rursum moderatum oportet dici Deum, tamquam ad aliquo modum acceperit. Si autem dicamus eum summummodum, forte aliquid dicimus; si tamen in eo quod dicimus summum modum intelligamus summum bonum”: Agostino, De natura boni, I, 22. 284 Ved. E. Gilson, La filosofia di s. Bon., cit., pag. 365. 285 2 Sent, 23, 2, 3, Concl. 286 E. Gilson, loc. cit., pag. 367.

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del nostro pensiero, attraverso il fissaggio in una legge, può consentire alle conoscenze umane il loro «carattere trascendente di necessità». In tal modo «il pensiero umano si fissa sotto la necessità dell’atto eterno col quale Dio pensa se stesso e conosce tutte le sue possibili partecipazioni», legando lo stesso pensiero umano al suo fine supremo, dirigendo la molteplicità delle esperienze sensibili verso i principi primi o universali, ossia le ragioni eterne (ut regulans et motivus).287 La relazione con Dio è la possibilità con la verità. La funzione della ragione, che si vuole strumentale, interviene in senso condizionante nel momento in cui si concepisce la presenza di Dio come «ragione eterna», e questa come «legge universale». Infatti Bonaventura , attraverso la dottrina della reductio o della resolutio, intende che la verità di un qualunque giudizio è da condurre «di condizione in condizione fino alle ragioni eterne che lo fondano», ossia ai «primi principi» dai quali «essa ricava la sua necessità», conducendo cioè l’evidenza della verità razionalmente sostenibile, che è l’essere particolare delle singole cose, che ce le fa apparire per ciò che sono, alle «condizioni che la giustificano», ossia al Tutto dal quale esse traggono la loro verità, che è l’idea di Essere.288 Sul fondamento di questo principio ontologico primo, che «est quod primo cadit in intellectu», quanto non è esistente, è essere possibile, e quanto è niente è pensato come assenza d’essere. Ciò comporta che l’Essere assoluto è il primo pensiero che cade sotto l’intelletto, il primo pensiero che necessariamente deve presupporsi prima di ogni singola determinazione d’essere e di ogni contingente pensiero. «Di qui la necessità della riduzione dei giudizi a Dio si impone come un’evidenza e si può quasi dire che essa è implicata nel più piccolo dei nostri giudizi».289 Senonché questa reductio ad Unum stabilisce una relazione delle parti col Tutto che è puramente logica, intendendo il fondamento ontologico di ogni essere come la loro unità razionale, e non esistenziale. Ed è proprio l’identità di unità razionale con unità esistenziale a costituire l’Essere ideale come fondamento ontologico comune agli esseri esistenziali. Ma ciò che caratterizza il pensiero metafisico greco è esattamente l’identità di Essere e pensiero, ossia di essere in senso razionale con l’essere esistenziale. Sicché, l’universalità dell’Essere ideale, identificata con l’Infinitezza di Dio, fa di Dio stesso il principio attraverso il quale il pensiero pensa tutti gli enti, ossia una fonte di pensiero, la cui eternità risiedeva nella sua assoluta attività

287

Ivi, pag. 368. Ivi, pag. 369. 289 Ivi, pag. 370. 288

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(illud esse est quod est purus actus). Ciò comporta che la reducio del Serafico non sia altro che l’abstractio della scienza aristotelica, ossia quel «giudizio che libererà l’universale dal particolare e che, facendo intervenire il necessario e l’immutabile nel porre l’universale, supporrà per il fatto stesso l’intervento delle ragioni eterne e di Dio».290 L’avallo divino assegnato alla necessità logica, fa della universalità della ragione, ossia del concetto, la vera idea di Dio, e quindi della metafisica greca la struttura stessa della verità logicamente pensata, l’orizzonte teoretico anche della verità cristiana. La veridicità della Parola, che per il Vangelo è Agàpe, si declina (nell’Itinerarium e nello Hexaemeron) in termini di razionalità del Verbo, con una riduzione della theologia cordis alla theologia mentis. Infatti, «è proprio la stessa formazione dell’idea generale che suppone l’azione delle ragioni eterne», che sono «il fondamento di tutto ciò che la nostra conoscenza contiene di verità».291 Bonaventura è consapevole che la luce divina non è riducibile a oggetto di conoscenza, e che la sua presenza sfugge a ogni tentativo di determinazione finita (lux inaccessibilis); essa, non potendo essere intuita come una causa, può essere solo avvertita (cointuitus) come matrice di effetti, provocati da una causa trascendente (inalligabilis).292 La tesi di Bonaventura per cui la conoscenza teologica procede da un «habitus affectivus et medius inter speculativum et practicum», con intenzionalità più pratica (ut boni fiamus) che teoretica, è la reazione, o almeno la correzione, di una concezione a-storica e a-dinamica della verità. La verità, nella sua prospettiva teologica, si fonda con la carità (che è valore che perviene all’umanità per via sacramentale e non per semplice via intenzionale di dottrine e di leggi) in una sola realtà, che nel Cristo si realizza come personalità storica. Il Pneuma, che abita in Lui e che anima e conduce tutta la storia, è verità quanto carità e storia di liberazione e di progresso, sotto ogni aspetto. La visione francescana, che coinvolge anche l’Eros, assunto ed elevato in questo dinamismo del Cristo, «è una correzione della concezione aristocratica della verità, concepita ellenisticamente come teoria che astrae dalla umiltà della singolarità e quindi della storia».293

290

Ivi, pag. 371. Ivi, pag. 372. 292 Ivi, pag. 374. 293 Il francescanesimo è una riabilitazione del laicato, «mortificato per oltre mille anni». Infatti, «solo sostituendo il Dio di Gesù Cristo e in Gesù Cristo col Diodeità-metafisica, e riducendo la verità dell’essere partecipato in verità diafana dell’essenza come quiddità, si disprezza o si sottovaluta la città terrestre»: D. 291

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La carità non è soccorso di commiserazione, ma cointuizione di Dio: il Dio di Gesù, non una astratta quidditas. La verità di Dio non è la verità teoretica dei filosofi, così come la carità non è solo una virtù che ci aiuta a fare accettare la verità teoretica come unica via per conoscere Dio; se così fosse, il pluralismo culturale sarebbe l’occasione di perdere la fede. Lo stesso dicasi dell’ecumenismo, che andrebbe altrimenti combattuto. «Omnes doctores christianae Legis finaliter debent tendere ad vinculum caritatis» (Sermo IV). La scienza giudica e insegna la verità dei valori contingenti, mentre la sapienza contempla i valori eterni. La carità non è un’istanza pratica per cui l’ «intellectus speculativus extensione fit practicus», secondo il principio aristotelico, ma è l’intenzionalità di carità che definisce il teologo come teologo. Il modello per Bonaventura non era Aristotile, che fu maestro in scienza, e neppure Platone, che, per quanto superiore al primo in sapienza, non ebbe la cognizione e l’esperienza di fede di Paolo e di Agostino; il vero maestro fu Cristo, «ipse solus est principalis magister et doctor» (Sermo IV), perché autore della nuova Economia, incarnato in essa: «fuit viator et comprehensor».294 La Sua dottrina non è sola predicazione o dimostrazione sillogistica e teorica: il Suo annuncio è incarnazione, evento. Solo così l’economia della salvezza umana passa dalla «legge in figura» alla «legge di grazia»: «Christus fuit leo surgens et agnus occisus», passando dalla kénosi alla gloria. Cristo non è un maestro per erudizione o per legiferazione, ma per comunione di carità. Egli non va considerato come un «oggetto» di lettura critica, ma come «soggetto» in noi. Il magistero teologico, pertanto, non è tale se non è ministeriale, se cioè non è ispirato dalla «benevolentia caritatis», in quanto la teologia è «intelligentia fidei». La novità della concezione cristiana, testimoniata magistralmente da Bonaventura, risiede nella considerazione del fattore divino non in termini di agenzia logica, quale mera potenza creatrice del Logos universale, ma come ispirazione esistenziale che coinvolge l’intera esperienza di vita dell’uomo che ne attinge. Dio non è un «motore immobile» lontano e indifferente alle sorti umane, ma una presenza paradigmatica che si è manifestata come modello antropologico esemplare. L’esemplarismo è desunto dalla dottrina platonica delle idee ed è essenziale alla concezione di Dio come causa efficiente e finale del mondo. Come spiegava Platone la realtà del mondo con l’idea del Bene, così Bonaventura la spiega col Verbo divino incarnato, sintesi di tutte le

Capone, Il magistero del Cristo in teologia come scienza, secondo S. Bonaventura, in Atti del Congresso per il VII centenario, vol. I cit., pag. 589. 294 Ivi, pag. 591.

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idee, che diviene causa esemplare di tutte le creature e luce che illumina ogni uomo. Con esso si spiega l’idea della Creazione e della Provvidenza, riducendo la portata delle cause naturali. Il Logos platonico si è incarnato in Cristo; fondamento della nostra intelligenza e modello della realtà cosmica. Filosofia e rivelazione, per la loro comune dipendenza dal Logos, diventano due momenti dello stesso processo spirituale che è nel contempo approfondimento del conoscere e santificazione del volere. In questo processo, la filosofia è orientata verso la rivelazione. Questa prospettiva teleologica intrinseca allo sviluppo della conoscenza nella sapienza, ha come premessa fideistica che la sapienza sia il sapere divino, laddove la filosofia è solo l’approccio umano e limitato ad essa (Fedone). Nel momento in cui la sapienza divina viene eclissata fuori del sistema della gnosi razionalistica con Aristotile, quella premessa fideistica viene a cadere come in-formale e in-conoscibile. Non vi è più rapporto necessario tra fede e ragione, tra credibile e intelligibile, ma il Motore diventa immobile e separato dal processo teoretico, simile alla Grundnorm del sistema giuridico kelseniano. La trasformazione della filosofia in scienza sistematica, in metafisica, la libera dal suo vincolo archetipo, rappresentandola come «tecnica dialettica». In questa prospettiva, comparare il Logos platonico ideale al Verbo concreto del Cristo è fuorviante, poiché, se Platone può essere inverato da Aristotile in termini immanentistici, concependo la forma logicamente consustanziale agli enti di ragione, il Verbo divino non può essere rappresentato fuori della Sua realtà esistenziale, che nella figura esemplare del Cristo ne rappresenta la totalità, e non la razionalità ellenica. Tale condizione esistenziale, che riguarda l’uomo non solo in quanto essere razionale, ma in quanto viator finito e dunque mancante alla ricerca della Verità che lo trascende, non può essere trascritta nei soli termini della condizione sociale, quale condizione politica, ossia nei termini di una economia della convivenza economica tra esseri naturali, ma coinvolge la totalità dell’esperienza umana, caratterizzata tanto dalla finitezza della condizione naturale quanto dalla aspirazione a trascenderla. Ed è appunto tale tensione trascendente che fa dell’uomo una persona, un essere spirituale, che non si appaga della sua finitezza ma ricerca Dio, che è fonte dello spirito. Una esistenza caratterizzata da questa tensione tra condizione finita e aspirazione trascendente non può riassumersi nella relazione polemica amicus / hostis, tesa a stabilire un ordine sociale conforme ai rapporti di forza economici tra gli uomini. La coscienza spirituale dell’uomo lo porta infatti a superare la condizione politica del regno di Cesare, per aspirare a una solidarietà inter-personale fondata sul magistero di Cristo, modello spirituale di una esistenza ispirata dalla verità, non dalla razionalità. Tale solidarietà 181


inter-personale ispirata dalla verità insegnata da Cristo, è il modo sociale della carità, alternativo al modo politico di «adempiere alla Legge» (Rom. 13, 8-10), servendo Dio anziché Cesare. L’alternativa nasce non tanto dal rifiuto della socialità politica, in cui vigono i soli rapporti di forza tra gli uomini, quanto dal rifiuto della riduzione ontologica dell’uomo a essere socio-politico, e come tale guidato dal modello antropologico della ragione strumentale, canonizzata dalla scienza in senso greco. Ciò che la carità cristiana contesta al modello metafisico greco, non è la capacità del Logos di unificare in un nesso organico la Natura, ma di aver considerato l’uomo come parte integrante e speciale, quale specie caratterizzata dall’uso della parola (anthropos logos echon). Lo stesso linguaggio, nella prospettiva politica del razionalismo greco, assume un valore strumentale - riconosciuto anche da Bonaventura - ma in senso funzionale al discorso politico, e perciò quale tecnica economica. Non è questo, però, il senso cristiano della strumentalità della parola ispirata dal Verbo divino. La relazione uomo-Dio non è la stessa del rapporto logico tra l’intero e la parte, tra la forma ideale e l’ente particolare. L’unità, che il naturalismo identifica con la grandezza fisica della natura, va intesa in senso cristiano come totalità spirituale, in cui la dinamica potenza/atto della metafisica naturalistica aristotelica diventa relazione spirituale tra possibilità della parola finita (della espressione storica) e la libertà del Verbo in-finito, in cui Possibilità e Libertà si coniugano nell’esperienza esistenziale del singolo uomo come storia. Poiché lo spirito per l’uomo è la parola, la parola infinita è il linguaggio divino, il Verbo rivelato da e in Cristo, che diventa fonte esemplare di ogni determinazione particolare del logos finito. La fonte esemplare della sapienza greca era il Mythos, il linguaggio mitico, la cui favola era l’arché paradigmatico di ogni discorso umano. La filosofia, quale discorso razionale universale, si costituisce in polemica con la sua fonte arcaica (l’Eutifrone platonico), la cui tradizionale costituzione paradigmatica per il comportamento umano limita il valore del Logos universale, che superiorem non recognoscens. La filosofia nasce come lingua polemica che ha la pretesa di fondare un’etica razionale più coerente di quella divina. La coerenza della filosofia si determina metodologicamente come sostituzione della libertà pluriversa della tradizione mitica con la necessità universale del linguaggio tecnico. Cambia il paradigma linguistico mitico, a favore della forma concettuale uni-versale. Da qui l’istanza riduzionistica del Molteplice sensibile all’Uno ideale. L’unità logica del sistema verbale razionale si costituisce in antagonismo con la libertà espressiva del linguaggio informale, proprio del Mito; si costituisce, cioè assumendo la Necessità (teoreticamente logica e praticamente politica) come metodo di 182


conoscenza e misura assiologica di condotta. La fonte arcaica cristiana non è il Mythos pagano ma la Rivelazione (Kérigma), il Verbo scritturale, il quale non può essere l’oggetto del discorso umano, del logos razionale, ma la fonte ispirativa della poiesi spirituale, ossia il principio poetico della creazione del linguaggio. In tal senso, la realtà in-finita dello Spirito divino si manifesta all’uomo come totalità del Verbo, che è fonte della creazione del linguaggio come parola finita. Se l’uomo non può rappresentare in forme finite la totalità in-finita del Verbo divino, destina tali forme all’oggettività della realtà finita, quella sensibile della dimensione fisico-naturale. Ma i signa trascrivono le forme culturali della parola umana, non i suoi contenuti trascendenti, in-de-finibili, e perciò soggetti a in-cessanti formalizzazioni. Il tentativo razionalistico e storicistico di far coincidere il Verbo trascendente, che è fonte di Libertà, con la Parola definitoria del linguaggio formalizzato secondo necessità logica, è destinato allo scacco teoretico, poiché cerca di rimuovere quella Differenza ontologica che sta alla base della relazione Finito / Infinito che caratterizza esistenzialmente l’esperienza dell’uomo nel libero rapporto con Dio. In questo rapporto, il vincolo unitivo è costituito dall’amore di Cristo (II Cor. 5, 14), che si dispiega come strumento della fede (Gal.5, 6). Il razionalismo tende a trasformare la relazione uomo-Dio in rapporto essere-pensiero, promuovendo il Soggetto trascendentale a dominus del suo oggetto ontico, frutto della sua poiesi. Al contrario, la pistis cristiana è teocentrica, poiché «tutto viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo» (II Cor. 5, 15-18). 11. L’origine divina del legame tra gli uomini, elimina in radice ogni amor di sé, e dunque ogni prospettiva di legittimazione etica del potere politico, rispetto al quale l’agape cristiana è la dimensione opposta.295 Il teo-centrismo è l’orizzonte gnoseologico ed etico peculiare del Medioevo, il cui sapere, da Agostino a Bonaventura, è appunto ordinato organicamente a partire dalla figura di Dio, in un sistema gerarchico che Lo vede al vertice. La fine di tale organicità del sapere e della vita sociale coincide con la dissociazione di filosofia e teologia, ragione e mistica, con la definizione del sapere razionale in metafisica e la destinazione della teologia a un ambito gnoseologico sostenuto dall’autorità ecclesiastica. L’antropo-centrismo moderno è dominato dallo gnosticismo razionalistico,296 in cui, «sciolto ogni rapporto con 295

Ved. A. Nygren, Eros und Agape (1930), tr. it., Bologna, 1955, pag. 107. «Da tre secoli il pensiero tende a identificarsi con l’essere, quale nume, immanente della vita, e lo studio di esso costituisce il problema centrale della filosofia. L’età nostra si gloria di essere arrivata alla consapevolezza che vivere è 296

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Dio», la ragione «ha cercato tutte le avventure del pensiero», rendendo Dio «un’astrazione della mente», mentre «la natura e l’uomo sono entrati in un conflitto mortale tra loro» per prendere il posto che è stato di Dio, volgendosi, con la preminenza della visione naturalistica, a fagocitare l’uomo, ovvero, con l’idealismo, a fagocitare la natura da parte dell’uomo.297 La pretesa di costruire una «scienza filosofica» è rinuncia a considerare il rapporto tra scienza (filosofia razionale) e fede (filosofia morale) come insuperabilmente necessario alla conoscenza dell’esperienza esistenziale dell’uomo. Solo in Kierkegaard nel sec. XIX e in Heidegger nel XX emerge la consapevolezza di un nuovo pensare, di una nuova filosofia come pienezza. Nell’ambito dell’ispirazione cristiana, solo i russi hanno conseguito tale consapevolezza (si pensi a Soloviëv, a Bulgakov e a Berdjaev). La filosofia come metodo rescisso dal fondamento della fede è scientismo, astratto razionalismo e naturalismo.298 Come già notava Hegel, la filosofia non è altro che la riflessione sulla religione, ovvero, come noi preferiamo dire, non è che una «rielaborazione del Mito». Non esiste infatti una filosofia «pura» che non sia guidata da una fede o intuizione onto-logica che non tenda a giustificare tale fede. Questa fede è costituta da una opzione originaria che guida lo «spirito» della ricerca filosofica. L’anima e il corpo, sostiene Bonaventura, vanno considerati come «principia constitutiva» della totalità di ciò che è congiunto da una «naturalis colligantia», per cui l’anima è congiunta al corpo e non separata da esso, in modo tale che l’uomo non sia né solo corpo né solo spirito né sola carne, ma «spirito in una carne mortale». L’uomo integrale va visto come il prodotto di due nature che, seppur diverse, concorrono alla costituzione di un’unica realtà personale. Bonaventura per spiegare tale unità ricorre alla teoria aristotelica del rapporto tra materia e forma. Il corpo non va considerato come un «mezzo» utile a compiere un’azione, ma un elemento che partecipa alla costituzione di una «forma», che è una totalità esistenziale (l’anima) che l’azione da sola non è in grado di realizzare compiutamente. Bonaventura parla a proposito di «forma totale», che costituisce una unità reale, la natura umana. L’anima non pensare; pensare è sapere; sapere è credere nel proprio pensiero, quindi si può fare a meno della vecchia fede “sustanzia di cose sperate ed argomento delle non parventi”, e si può anche fare a meno della Religione come culto di un Dio trascendente, come legge eteronoma»: A. Gemelli, Op. cit.., pag. 447. 297 D. Galli, Il teocentrismo in s. Bonaventura, in Atti del Congresso per il VII centenario, cit., pag. 625. 298 Di «virginité philosophique» come scienza senza fede ha parlato A. Gesché, Le Dieu de la révélation et de la philosophie, Paris, 1972.

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dipende dal corpo perché ne ha bisogno, ma perché è attratta. L’uomo, spirito in carne mortale, ha come elemento costitutivo l’anima, che ha in sé sia il vivere che l’agire, anche se può sussistere per sé e separarsi dal corpo. Questo è l’Io, che assume ad oggetto il proprio corpo. L’Io non è (solo) spirito (teoretico o pratico) ma è unità di spirito e di corpo, è cioè anima. In verità, l’unità delle due nature dell’uomo può sussistere in armonia solo se l’anima venga concepita come elemento che trascende non soltanto la parte corporale, ma anche quella spirituale. Infatti, sia la posizione paritetica (spirito = corpo) che quella gerarchica (spirito superiore al corpo) non rendono armonico il rapporto congiunto, ma lo espongono al conflitto reciproco. Solo la trascendenza della loro mediata unità li può assumere come differenti e insieme partecipi. Se identifichiamo lo spirito con l’anima, esso abiterà i cieli platonici o cristiani, sussistendo in sé anche fuori l’incarnazione corporea. In questo snodo metafisico si concentra il senso cristiano del Verbum caro.299 Il peso del «bagaglio di schemi mentali e di strumenti linguisticoculturali e quindi ermeneutici» di origine aristotelica gravava sul Dottore francescano, facendo sì che la posizione agostiniana venisse a perdere gran parte della sua originalità speculativa e metodologica, filtrata appunto attraverso la metafisica dello Stagirita, che incise in maniera suggestiva e deformante sull’elaborazione teologica del tempo, nonostante i divieti papali del 1210 e del 1215.300 Se infatti la ricerca del Logos parte da un assunto archetipo (àmesos arké) che ne condiziona lo sviluppo teoretico, questo per l’ontologia greca è la Natura (Physis), ossia l’Essere quale appare evidente negli enti, il fenomeno; per l’ontologia cristiana al principio vi è il Verbo, sicché l’espressione di Dio in risposta a Mosè «Io sono ciò che sono» non va intesa in senso analogo all’ontologia greca, ma come Mysterium, che rimane, non già incognito dopo la Incarnazione cristica, ma trascendente rispetto a ogni definizione razionale ed elaborazione della fede nel discorso teologico,

“Raccogliendo gli elementi emersi dall’analisi dei testi di Bonaventura […], pensiamo di poter affermare che la sua concezione della costituzione ontologica dell’essere umano è sostanzialmente dualistica con venatura spiritualistica, vale a dire con una decisa tendenza a ‘isolare’ l’elemento spirituale, a considerarlo separatamente e a preferirlo decisamente sul piano assiologico”: G. Iammarrone, Il progetto teologico di s. Bonaventura, in Atti del Congresso per il VII centenario, cit., pag. 651. 300 Ved. S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia mediveale, cit., pagg.75-138. 299

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lasciandolo aperto all’esperienza della relazione singolare con Dio. 301 Questa apertura nella libertà del rapporto dell’uomo con Dio, e della fede con la ragione, è ciò che il discorso filosofico tende a conchiudere in termini di necessaria determinazione razionale. Ciò fa sì che nei rispettivi casi, mentre nel discorso cristiano la gnosi razionale rimane la variabile singolare del rapporto col Verbo, la cui unità si rinviene nell’agape di Cristo, nel discorso filosofico è lo strumento metodologico a costituire il motivo unitario delle distinte disposizioni ermeneutiche dei fedeli. E’ pure innegabile che nel tomismo, e in genere nella tradizione scolastica di origine aristotelica, è sempre latente il rischio di una giustapposizione tra il Logos della necessità, della tradizione metafisica naturalistica, e il Logos dell’amore della visione cristiana. Di conseguenza, se la gnosi caritativa cristiana, elaborando il Verbo scritturale, si apre alla libertà delle singole esperienze relazionali della fede, tale che ognuna di essa possa trovare la sua definizione personale nella comunione in Cristo, la gnosi filosofica, viceversa, tende a ridurre l’esperienza spirituale delle singole coscienze all’uni-verso concettuale della de-finizione dogmatica esclusiva, proponendo una concentrazione della tensione spirituale in direzione dell’univoca determinazipone concettuale di una astratta quiddità, alla cui necessità logica è assegnato il criterio unitivo delle singole esperienze esistenziali, omologate alla accidentalità dei fenomeni sensibili. Le «forme» costitutive dell’esperienza spirituale concreta dell’uomo sono, per Bonaventura, tre: 1. l’apertura dell’anima alle realtà esteriori (extra se); 2. il ripiegamento dell’anima in se stessa (intra se); 3. l’elevazione dell’anima sopra di sé (supra se). Questi sono i modi dinamici dello spirito, «naturali» e «costitutivi» dell’uomo che la grazia tende ad elevare verso il Dio della salvezza. I primi due sono finalizzati al terzo. Infatti, il percorso dinamico dell’anima parte dall’esterno, si porta nell’intimo e da questo si eleva al trascendente, che ne è la destinazione finale: «ab imis ad summa»

301

Come rilevato da Rahner, « mistero non è sinonimo di una proposizione che sarebbe assurda inpensabile quoad nos. E se l’orizzonte dell’esistenza umana, che fonda e abbraccia tutto il conoscere umano, è in partenza mistero (e di fatto lo è), allora l’uomo possiede senz’altro un’affinità positiva- data perlomeno con la graziaverso quei misteri cristiani che costituiscono il contennuto fondamentale della fede»: K. Rahner, Grundkurs des Glaubens. Einfürung in den Begriff des Christentums (1976), tr. it., Alba, 1977, pag. 30.

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attraverso «ab exterioribus ad intima».302 Esso riflette inevitabilmente il dualismo platonico, facendo dell’anima una realtà trascendentale in relazione all’esperienza singolare, e trascendente in relazione a Dio. Qui si appalesa il limite di una teoresi che nasconde la relazione uomo-Dio quale si è determinata attraverso l’Incarnazione, tale che sia Cristo la mediazione dell’anima personale al cospetto di Dio. Se infatti platonicamente lo spirito riuscisse da solo a riunirsi a Dio, anche indicandolo come anima, renderebbe superfluo il ruolo di Cristo, il Mediatore per antonomasia, rendendo possibile a ogni singolo uomo ciò che invece è consentito solo a Lui: rapportarsi direttamente a Dio, facendosi Dio stesso. La divina mediazione cristica conferma invece la Differenza, e con essa la sapienza teologica della Verità. Proprio la mancanza di quella mediazione rendeva il razionalismo greco soggetto alle alterne prevaricazioni dello spirito sul corpo e viceversa, formando così la tipica rappresentazione polemica dell’ordinamento sociale dell’uomo e naturale del cosmo. Per Tommaso, «sola extensio ad opus facit aliquem intellectum practicum»,303 secondo la dicotomia aristotelica della sfera speculativa e della pratica, la quale ultima si dispiega come impegno dell’intelletto verso l’esterno. In Bonaventura i tre generi riflettono la dicotomia. Per Tommaso la teologia, se vuol essere scienza in senso causale aristotelico, deve prendere gli «articuli fidei» come principi evidenti e da essi procedere, in modo da distinguere fede da teologia quale «scientia conclusionum». Per Agostino, la teologia è «intelligentia fidei», un «ratiocinari» nell’ambito della fede, una «fidei scientia».304 Bonaventura resta nella linea agostiniana, per cui la riflessione teologica è «sapientia», e la «scientia theologica» viene intesa come «veritatis credibilis notitia pia»: teologia come scienza = «scientia fidei». La scienza deve rivestire carattere sapienziale, ossia unire la dottrina alla contemplazione di Dio; conoscenza sul piano oggettivo, fondata sulla fede. Fede e sapienza sono quindi gli estremi di un processo noetico, la teologia, che è un evento dinamico nel soggetto umano, lo sviluppo coerente della sua fede soggettiva. Nell’ambito della 302

Evidenti le influenze agostiniane. Il testo forse più maturo di Bonaventura, in cui l’intelligenza si abbina alla pia predicazione, è il suo commento “esistenziale” al vangelo di Luca, su cui G. Cardaropoli, L’annunzio della salvezza nel commento bonaventuriano al Vangelo di Luca, in Atti del Congresso per il VII centenario, cit., vol. II, pagg. 319-331. 303 Ved. A.D. Sertillanges, Op. cit., pagg. 427-445; E. Gilson, L’être et l’essence (1948), tr. it., Roma, 1988, pagg. 71-111. 304 Una nuov esposizione della teologia agostiniana del De trinitate in G catapano, Agostino, Roma, 2010, pag. 159-180.

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soggettività, la funzione della ragione è il medium attraverso il quale la fede, sotto l’impulso della grazia, matura in sapienza o contemplazione: «ut inchoetur a stabilitate fidei, et procedatur per serenitatem rationis, ut perveniatur ad suavitatem contemplationis» (Sermo IV).305 La mediazione è intesa come Logos filosofico, ovvero come il Christos Logos? La confusione tra i due criteri di inveramento della fede genera un cambiamento di prospettiva decisivo ai fini della chiarificazione noetica della funzione della scienza. Infatti, l’accoglimento della prospettiva ellenica (il Logos metafisico naturalistico in funzione ancillare) è all’origine della futura moderna emancipazione della ratio dalla fides e della relegazione della teologia a sapere autoreferenziale. Per Bonaventura il medium che egli chiama «ratio» o «serenitas rationis», «non è tanto l’esercizio della facoltà razionale dell’uomo, o l’uomo come essere razionale, ma è il soggetto umano globale, così come egli lo esperisce e lo tematizza sul piano della riflessione razionale e diciamo anche, implicitamente, trascendentale».306 La questione essenziale è che con l’adozione del metodo raziocinante per giustificare la fede, la subalternazione è proceduta nel senso della razionalizzazione della fede, sicché la determinatio distrahens dell’oggetto teologico implicava la entificazione di Dio attraverso la demitizzazione della sua Parola, cioè la trascrizione razionalistica del Verbum. La conseguenza razionalistica è un portato del passaggio noetico del «credibile» nell’ «intelligibile», dove la fede «passa sotto un altro regime», ove regna il modo raziocinativo».307 Se ciò è possibile, ossia che il Verbum si riduca a Parola, a sola scriptura, anche la persona di Cristo può ridursi alla Sua esperienza umana, alla Sua sola dimensione storica, vanificando il senso stesso della Rivelazione. Questo passaggio storicistico è segnato dalla «generalizzazione, operata da Dilthey, dell’ermeneutica a organo universale delle scienze dello spirito» quale «tecnica della comprensione».308 Se l’ermeneutica diventa scienza, la conoscenza non è più fondata sull’evento cristico, ma sulle cose stesse, ossia su quei dati della coscienza resi assoluti, e quindi non creati ma trovati, a partire dai quali il dire del logos, il processo ermeneutico, si dispiega dall’essere dell’ente; ovvero, dall’ente, la cui verità è l’Essere dell’ontologia greca. Risalire dall’ente all’Essere è possibile teoreticamente in quanto sia possibile preventivamente 305

De reb. Theol. (V, 571); 576a; III Sent. d. 35, q. 3 (III, 778b). G. Iammarrone, Il progetto teologico di s. Bonaventura, in Atti del Congresso per il VII centenario, cit., vol. I, pag. 667 n. 98. 307 M.D. Chenu, La teologia come scienza, tr. it. cit., pag. 64. 308 WuM, pag. 312. 306

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stabilire una identità logica tra i due elementi del pensiero e della realtà pensata. Ma nel caso del rapporto fede e scienza, l’identità è resa impossibile dalla differenza tra uomo e Dio, la cui relazione necessita della mediazione di Cristo. Solo assumendo la realtà di Cristo, non già come la manifestazione della totalità, ma la Totalità stessa, è possibile pervenire alla identità di Essere ed ente, e dunque alla dissociazione ab soluta dei due elementi, ossia della fede, la greca Theosebeia e latina pietas, che Agostino rende con «culto di Dio» (Dei cultus), e della conoscenza, la greca episteme, che egli rende con «scienza» o «disciplina» (scientia). «Dio stesso dunque è la somma sapienza, mentre il culto di Dio è la sapienza dell’uomo (pietas). Difatti la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio».309 Ma cos’è dunque la «fede» nella visione cristiana di Bonaventura? Platone pone come fine e principio speculativo il Bene, e non l’Essere. Ciò fa dell’ente non semplicemente un essente ma una cifra assiologica del Bene. Il Bene, e dunque la filosofia, è un fondamento assiologico del pensiero per logoi. E’ esso a determinare il valore dell’ente, che è (to òn), rispetto al disvalore in-esistente (mé òn). La differenza originaria, stabilita da Parmenide, tra Essere e non-Essere viene riveduta dal parricida Platone, per il quale il non-Essere non esiste come tale ma come differente. Nel Sofista infatti l’éteron non è una negazione assoluta, un ni-ente, ma relativa all’esistenza affermata: omnia determinatio est negatio. Ogni posizione ontica si determina in relazione alla sua antitesi logica. Platone può con ciò giustificare il Molteplice, come appunto diversità di enti significanti ognuno il proprio sé ontologico, e differenti dall’Essere tra gli essenti. Ogni ente è un sé diverso da altri sé, che sono non-essenti-ciò-che-l’ente-è. Ma il Bene, essendo il Tutto, non può costituirsi come mero Essere. Il Bene è l’Intero originario, l’arké, il Mystero, e non il solo intelligibile. Ridurre il Bene all’intelligibile è operare una riduzione razionalistica di tipo metafisico-naturalistico, che considera l’ente di pensiero un fenomeno, ossia il particolare, intuito dai sensi, del suo essere universale. Se l’Essere prende il luogo del Bene, e l’Essere è l’unità ideale della realtà sensibile, il Bene diventa la Natura, per cui l’intelligibilità viene intesa come cognizione razionale dell’ente fenomenico, oggetto della «scienza» (episteme). E poiché nella prospettiva ontologica in cui si muove la scienza dei fenomeni, il ni-ente non è intelligibile, esso semplicemente non-è, e non solo in senso logico ma anche esistenziale: è nulla. Se intellezione equivale a conoscenza del fenomeno, ne consegue che la fede è superflua, in quanto credenza in cose in-sensibili,

309

Agostino, De Trinitate, XIV, i, 1; tr. it. di B. Cillerai, Milano, 2012, pag. 795.

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e perciò in-intelligibile. Orbene, la fede è l’opzione ontologica originaria del pensiero greco per l’Essere, a fondamento del quale è possibile il discorso filosofico sull’ente. Tale discorso (logos) è strutturato sulla relazione del Tutto (l’Essere) con la parte (l’ente), tale che l’essere dell’ente sia anziché non, cioè pensato in modo esclusivo dell’altro-da-sé. In tal senso, l’ente è tutto ciò che può essere, e non altro; da qui la possibilità che il qualcosa, l’ente, sia tutto, cioè sia universale. Su questa corrispondenza onto-logica dell’Essere col pensiero si fonda la verità razionalmente pensata alla maniera della metafisica greca. L’archetipo cristiano è diverso. Anzitutto l’identità di Bene ed Essere in Platone va correttamente intesa nel senso della positività ontologica del Bene, ossia che il Bene è l’Essere, non già che l’Essere è il Bene. Nel senso che la considerazione formale di ogni determinazione di pensiero intenda come realtà del pensiero stesso il Bene, che pertanto costituisce l’Essere stesso del pensare. Pensare il Bene significa pensare che esso sia l’Essere del pensiero, e non già pensarlo come l’Essere naturalistico. Non a caso Hegel, per fugare ogni dubbio, ha chiamato l’Essere Geist, Spirito, alla maniera cristiana, traducendo il termine greco . Per Bonaventura la fede, riprendendo s. Agostino, è la virtù di credere in ciò che non appare: «fides est virtus qua creduntur quae non videntur»; e inoltre «fides est substantia sperandum rerum, argumentum non apparentium»310.311 Significa che il pensiero fondato sulla fede non ha per oggetto i fenomeni naturali, ma è un sapere me-ontico, che ha per oggetto i misteri, ossia gli atti divini emanati dal Mystero che è Dio, «Padre invisibile» (Giov. 1, 18).312 Dio non si vede perché non appare. La fede «illumina» con la luce spirituale ciò che non è evidente: «fides est illuminatio». Ma ciò che non si vede è appunto il Mystero, oggetto della fede ontologica, Dio, sommo Vero («summa Veritas») In tal senso, l’illuminazione della fede è una «rivelazione» di Dio, non una deduzione. Dio si rivela a colui che assume per vero il Suo mistero, che è una realtà che non appare. La «rivelazione» ()313 è il

310

III Sent.d. 23 dub I (III, 501a). Ved. G. Iammarrone, Il progetto teologico di s. Bonaventura, in loc. cit., pag. 670. 312  = cosa segreta, da  = iniziato; sto chiuso;  = avvolto nel mistero, inintelligibile razionalmente, non esprimibile a parole, ineffabile. 313  deriva da svelare, scoprire, manifestare; ma  è anche ri-chiamare, e-vocare. 311

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«modus» peculiare alla fede di pervenire alla Verità, ossia di conoscere il Bene. L’apocalisse è la manifestazione che rivela il mistero, ciò che non appare. L’evento di ciò che si rivela, il suo essere, non è originario ma viene evocato dal suo non-essere-presente, dalla sua in-attualità. Giusta l’intuizione di Agostino, l’in-attuale è tanto passato che futuro, sicché la presenza rivelata richiama tanto il trascorso che il possibile. Ma se ciò è vero, ossia che l’ente è e anche non-è, il presupposto logico fondativo delle categorie aristoteliche, cioè che ciò che è non può non essere, e che ciò che è sia diverso da ciò che non è, non può valere nell’ambito del senso della presenza dell’evento della fede cristiana. La rivelazione è pertanto la pienezza del tempo escatologico, di contro alla mera attualità di ciò-che-è, dell’ente di pensiero razionale. Rendere quindi «intelligibile» il contenuto della fede, equivale a oggettivarla nella sola realtà attuale, storicizzandola in senso contingente rispetto alla sua compiuta storicità, stabilita nella relazione simbolica col Bene trascendente. L’intelligenza dell’atto di fede non coincide con l’oggettivazione razionalistica, la quale astrae dalla storicità l’oggetto conosciuto per assumerlo nella sua esclusiva luce attuale, in cui si condensa la possibilità. La possibilità, risolta nell’attualità dell’ente, fa di questo tutto il possibile. La considerazione di ciò-che-è (l’ente) come tutto, ne consente la disponibilità, cioè il potere di privarlo della sua possibilità di essere altro da ciò-che-è; potere che consiste appunto nel transformare l’ente in un ni-ente. Il potere della scienza è tutto in questa riduzione della possibilità dell’ente nella sua necessità di non poter essere altro da ciò-che-è attualmente. Si comprende così la natura dell’esclusività del processo logico-razionale, la cui determinazione presente nega proprio la storicità della pienezza della realtà di fede, poiché ciò che l’affermazione determina con l’attualità esclusiva dell’ente è l’attualità esclusiva del tempo presente, la cui assunzione come Tutto (cioè il suo valore universale) nega l’eternità del Bene, la pienezza del tempo, la possibilità di ciò che resta in-determinato dalla de-finizione attuale. E ciò che resta indeterminato nella definizione è il Bene, il Tutto, il quale non si conosce con la ragione logica, ma con la sapienza della Verità, fatta di «cognitio» esperienziale e di «affectus» (volontà sentimentale), ossia di partecipazione mistica ai «credibilia»: la «fides formata» è ben diversa dalla «fides informis» del riduzionismo razionalistico, ossia della conoscenza meramente intellettiva. La conoscenza per fede riveste dunque un carattere religioso che investe l’intera esperienza esistenziale del teologo-credente, consapevole della

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irriducibilità del Soggetto della fede in oggetto razionale. 314 La «fides formata» deve comprendere tre aspetti della fede, che sono: credere Deum, cioè guardare la divina verità come oggetto; credere Deo, ossia considerare Dio come il «motivum» della fede; e infine credere in Deum, cioè considerare Dio come fine ultimo. La «ratio» è il passaggio dal semplice assenso alla comprensione. La tappa dell’ «intellectus» si ha quando le «rationes» sono prese non solo dalle condizioni, qualità, proprietà del Creatore, ma anche da quelle specifiche della creatura spirituale, attraverso un coinvolgimento che implica sia la contemplazione di Dio che la considerazione di sé come essere spirituale, interiormente. A questo punto dunque la «scientia theologica» si interiorizza, realizzando l’ «idem intimum et summum» di cui diceva Agostino. 315 Per conseguire questa posizione, occorre procedere, secondo l’itinerarium bovaventuriano a 1. una purificazione intellettuale, che consiste nell’astrazione da ogni rappresentazione sensibile e concettuale, e a 2. una purificazione affettiva, consistente nel distacco dalla colpa e da occasioni distraenti. Dopo di che, l’anima è presa di un «excessus» mentale e mistico, nel quale il suo «apex affectus» è indirizzato unicamente e totalmente a Dio. Il fine al quale è diretta la conoscenza, più che l’oggetto, fa la differenza tra scientia, il cui organo è la ratio, e sapientia, il cui organo è l’intellectum.316 La conoscenza raziocinativa è pervasa da una «cupiditas» che, con «brutalità sessuale», annienta il suo oggetto nell’atto stesso in cui lo riduce alla sua

314

In questo senso è stato affermato che la teologia di Bonaventura non è né solo teoria e neppure prassi, ma “scientia affectiva”: E. Krebs, Spekulativ-theologische Eigenart der Theologie des hl. Bonaventura (1921), cit. da G. Iammarrone, Loc. cit., pag. 698 n. 203, il quale attribuisce alla dimensione “storica” dell’uomo moderno la “concretizzazione storica” intesa come “piena verità” del soggetto mondano, travisando l’esclusività dell’universalità razionalistica con “un’autentica integrale esperienza umana” in cui la “soggettività” e la “trascendenza” verrebbero a suo dire “intimamente correlate”, terminando col giudizio di non attualità della teologia del Dottore Serafico, che pertanto risulterebbe “alquanto lontano dalla nostra sensibilità e dalle nostre preoccupazioni di credenti oggi”: Ivi, pag. 701 e 704. 315 De Trinitate XII, 1 e 2. 316 L’argomento ontologico viene trattato, con vario ordine di priorità, nel Commento alle Sentenze; nella Collatio X dello Hexaemeron; nell’Itinerarium, 3 e 5; nel De mysterio Trinitatis, q. 1. Ved. L. Iammarrone, Il valore dell’argomento ontologico nella metafisica bonaventuriana, in Atti, cit., vol. II, pagg. 67-110.

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essenza.317 La differenza fondamentale dell’atteggiamento mistico risiede nella destinazione trascendente della sapienza, che, a differenza del semplice movimento discorsivo del pensiero, è caratterizzata da una intuizione della verità, in cui consiste la contemplazione divina delle Idee «fondata su un atto di sottomissione a Dio e beatificante».318 La «sottomissione a Dio» è certamente un atto di volontà (affectus) che dirige quella che Agostino chiama ratiocinatio,319 verso la contemplazione divina, ma offre anche la misura della considerazione strumentale della ratio nella ricerca della verità, resa possibile dal previo riconoscimento per fede del contenuto della Scrittura come vero. In tal senso, «la fede pura non è che adesione del credente a ciò che la Scrittura ci insegna».320 La fede è volontaria sottomissione al contenuto del racconto scritturale, ossia riconoscimento della fonte archetipa della Verità, che è Verbum, ossia narrazione, Mythos. La contemplazione è, non già una relazione soggetto-oggetto, ma una «mystica sapientia», ossia una «visio intellectualis» o «per speculum», che consiste nella comunione dell’anima con la sua fonte originaria: un ri-conoscimento che è «unitio amoris» con Dio, dove è trascesa ogni scientia in una conoscenza più intima e più immediata della conoscenza razionale, che fa dell’amore il culmine della stessa «scientia theologica». Questa «suprema unitio per amorem» non esclude la conoscenza razionale del mondo, ma non vi si identifica, alla maniera greca, con la posizione identitaria di Essere e di pensiero, esclusiva di ogni esperienza non determinabile concettualmente. L’amore di Dio è coscienza della differenza tra la rappresentazione umana, per idee, della verità in termini di certezza scientifica, e la realtà del Bene, trascendente ogni umana determinazione razionale, ossia ogni conoscenza per causas. Se la conoscenza umana si ferma a questo livello di coscienza, non perviene al vero ma «s’inganna, e dietro ad esso corre, se guida, o fren, non torce lo suo amore».321 La differenza rispetto all’archetipo idealistico è inequivocabile. Se infatti l’Idea è il modello dell’Essere razionale, quale forma eterna di Del processo di reificazione dell’oggetto razionalizzato tratta Th.W. Adorno, che lo collega alla sessualità, in Minima moralia (1945), tr. it., Torino1954, pag. 84. 318 Ved. E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin (1929), tr. it., Genova, 2014, pag. 144. 319 De quantitate animae XXVII, 53. 320 E. Gilson, La filosofia di s. Bon., cit., pag. 90. “Ciò che crediamo, lo dobbiamo all’autorità [della sacra Scrittura], ciò che intendiamo [lo dobbiamo] alla ragione”: Agostino, Dell’utilità del credere (11, 25). 321 Dante, Purgatorio XVI, 91-93. 317

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ente, univocamente definito, le Scritture sono poli-semiche perché in esse si rappresenta l’Intero, che non può pertanto avere la sola voce del Logos determinativo di senso uni-versale. Insieme al senso letterale, un secondo senso allegorico, poi quello tropologico o morale, e infine il senso anagogico322.323 L’allegoria insegna ciò che si deve credere; l’anagogia ciò che si deve aspettare; la tropologia ciò che si deve operare. Il senso letterale è la faccia naturale, gli altri sono sensi mistici. Ciò significa che l’oggetto letterale è il fenomeno che appare nella sua evidenza attuale, la res oggetto del pensiero scientifico. Il senso univoco del discorso scientifico è già nell’intuizione sensibile dell’ente fenomenico. Il senso «mistico» è invece inteso nella polisemicità della modalità analogica, che è il senso proprio alla teologia, il senso mistico appunto, che è eminentemente narrativo. La narrazione è la espressione propria del Mythos, cioè dell’Intero. La credibilità affidata alla cognizione razionale è la modalità meno indicata per l’esegesi scritturale, anche se essa è prevalsa nel canone ermeneutico della Chiesa, che ne ha detenuto il monopolio, costituendosi pertanto come potere mondano e istituzione legale. Il significato rivelatore del senso mysterioso delle Scritture, la «visione come parola di libro aperto» (Isaia) dell’Apocalisse, è portato dal Cristo Salvatore. Non a caso, come racconta Luca (4, 16, 20), Gesù a Nazareth legge in sinagoga un sabato il libro di Isaia. L’Apocalisse è l’apparizione di Gesù portatore di senso, Logos. Ma un Logos che non è quello del razionalismo naturalistico della metafisica greca. La metafisica cristiana, utilizzando lo strumentario tecnico della teoresi ellenistica, ha condotto una strenua lotta contro il pensiero metafisico neo-pagano sul suo stesso piano noetico, vanificando il senso della conversione (metanoia) della fede. Il Concilio di Trento sanciva che a tenere a freno gli ingegni petulanti, si decreta che nessuno fondato sulla sua prudenza, nelle cose di fede e di costumi spettanti all’edificazione della dottrina Cristiana, torcendo la sacra Scrittura a’ sensi suoi, contro quel senso che tenne e tiene la santa madre Chiesa, alla quale appartiene giudicare il vero senso e della interpretazione delle sante Scritture, o anche contro l’unanime consenso de’ Padri, ardisca interpretare la sacra Scrittura; ancorché cotali interpretazioni in nessun tempo avessero a venire alla luce.324

322

Collationes in Hexaemeron, II. «Littera gesta docet; quid credas allegoria; Moralis quid agas; quo tendas anagogia» (promemoria degli Scolastici). 324 Sess. IV, Decreto delle ediz. e dell’uso de’ s. libri. 323

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Il Concilio Vaticano confermava sancendo che Poiché, ciò che decretava il santo Sinodo Tridentino, sull’interpretazione della divina Scrittura, a frenare gl’ingegni petulanti, di alcuni uomini viene pravamente esposto, Noi rinnovando lo stesso decreto, dichiariamo che questo era il suo pensiero, che nelle cose di fede e di costumi spettanti all’edificazione della dottrina cristiana, si debba tener per vero senso della sacra Scrittura, quello che tenne e tiene la santa madre Chiesa, alla quale appartiene giudicare del vero senso e della interpretazione delle sante Scritture; e perciò a nessuno è lecito contro questo senso, o anche contro l’unanime consenso de’ Padri, interpretare la sacra Scrittura. 325

La duplice formulazione dogmatica, assegnando alla Chiesa istituzionale il monopolio ermeneutico delle Scritture, si costituisce come un potere di vigilanza del senso univoco e universale di ciò che tende ad affermarsi come un atto di libera adesione alla Verità, la quale non può affermarsi de imperio da parte di una autorità terrena, ma solo procedere attraverso il dialogo della coscienza credente e la grazia divina. L’alternativa non era di abolire la validità esegetica di ogni lettura canonica, ma di fondarla sull’autorevolezza degli interpreti, sul loro carisma, e non sul crisma sacerdotale di una autorità pur sempre storica e umana. Codesta deriva potestativa della Chiesa era inscritta implicitamente nella sua aderenza alla metodica filosofica, asservita alla elaborazione delle dottrine teologiche, la cui incongruenza col magistero di Cristo imploderà nell’età moderna come Protestantesimo teologico dei riformati e razionalismo autonomo delle scienze naturalistiche. Secondo il paradigma ontologico aristotelico, ereditato dalla metafisica scolastica, l’intelletto speculativo tende ad adeguarsi all’Essere. Se questo è inteso come realtà naturalistica, l’adeguamento è imitazione della legge di natura. L’Essere aristotelico è l’unità ideale degli enti reali, il modello astratto e perciò indeterminato di ogni possibile determinazione. La distinzione scolastica tra «agibilia» (quanto pertiene all’agire) e «factibilia» (ciò che è pertinente al fare) non tiene conto della impersonalità dell’agire socialmente significativo, che coinvolge oggettivamente la partecipazione collettiva della produzione dei facta individuali, a partire dalla rappresentazione che se ne ha in quanto azioni significative, cioè portatrici di senso. Alla storiografia soggettivistica sfugge il carattere processuale dell’agire umano e la sua indeterminatezza, che richiede perciò una continua rievocazione ermeneutica delle gesta idealmente significative rispetto al senso 325

Costit. Domm. della Fede Cattolica, cap. 2.

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razionale dell’analisi; così come sfugge all’analisi sociologica il carattere singolare della prassi e la sua imponderabile destinazione soggettiva. La mediazione tra le due fenomenologie è costituita dalle forme istituzionali che regolano la vita individuale in senso assiologicamente plausibile, cioè conforme al modello ideale-razionale, e tale da stabilizzare l’agire in modo prevedibile. I canoni dell’ortoprassi stabiliti dalle istituzioni sociali formano l’areté aristotelica, lo habitus di una condotta ideale interiorizzata come avente valore sociale. Nella logica di Cesare, la ratio intellettiva deve socializzarsi nei termini prescritti dalle istituzioni e diventare recta, cioè conforme al modello ideale. In questo orizzonte deontologico, la volontà dell’agente è razionale se conforme al modello sociale. La conformità è la misura deontologica della socialità, la quale è pertanto l’indice assiologico dell’agire razionale. La stessa produzione artistica vi si deve conformare e diventare «recta ratio factibilium», arte virtuosa. L’arte creativa si concentra sulla espressione pratico-estetica, sulla «forma», perdendo di vista il significato simbolico della rappresentazione, che racchiude e rimanda all’intuizione dell’Essere. Astrarre la espressione estetica dai suoi contenuti simbolicorapresentativi equivale a scorgere il factum soggettivo perdendo di vista l’orizzonte di senso dell’agire sociale, conforme ai dettami istituzionali, ispirati a loro volta dai principi di socialità dominanti. La pretesa gnoseologica di considerare distinti anche esistenzialmente i valori ideali conoscibili in base alla astratta teoresi razionalistica, è strettamente idealistica, assumendo come «reali» i dati di coscienza «nominali». Il portato storico di tale pretesa è stata la moderna disintegrazione delle culture storiche e l’instabilità permanente degli assetti sociali costituiti. Con la predicazione cristiana, la prospettiva assiologica del razionalismo antico cambia radicalmente in senso trascendente e non più sociale, tale che la funzione mediatoria non sia più l’istituzione del Potere politico ma la persona del Cristo, che non è una Idea bensì una Persona. Sul personalismo cristiano il Cristianesimo edifica la civiltà medioevale,326 la quale non è «caotica e disgregata nei suoi valori come la nostra, ma [è] una civiltà integrata», ossia è una civiltà che nei propri limiti ha elaborato un sistema di valori che non entrano in conflitto reciproco ma si implicano vicendevolmente. Ed è la presenza di questa integrazione che rende così difficile oggi comprendere Resta insuperato l’affresco di A. Dempt, Sacrum Imperum (1930), tr. it., Messina-Milano, 1933, rist. an., Firenze, 1988. Ved. pagg. 167-170, dove è ricordato il simbolismo di Bonaventura. 326

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l’apparente mancanza di distinzione tra bellezza e utilità, bellezza e bontà (pulchrum et aptum, decorum et honestum) di cui sono piene le discussioni scolastiche e le disquisizioni di tecnica poetica. Il medioevo non vede questi valori separati, e non per difetto di spirito critico, ma per una certa unità di relazioni morali ed estetiche, per vedere la vita secondo unità.327

Il limite della visione organicistica pagana apparve chiara ai cristiani, e fu quella di non aver veduto la differenza insuperabie tra la «intentio» intima del soggetto agente e la sua «voluntas», relativa all’ «actio» conforme ai dettami sociali. Imputare l’azione alla sola intenzione è errore opposto e speculare alla pretesa di stabilirla per sola relazione causale alla volontà. La volontà infatti è sempre una relazione con l’azione, ma non è perfetta. Essa presume la interferenza della intenzione interiore e della prescrizione sociale. Se è conforme alla prescrizione sociale, l’azione si inserisce in un agire collettivo di cui è parte processuale; se invece è difforma alla condotta socializzata, l’azione persegue fini dettati dalla sola intenzione soggettiva. La asserita identità di condotta volontaria con condotta intenzionale genera i processi alle intenzioni, che pretendono di svelare il mistero dell’intenzionalità oggettivandolo in termini formali, per modo che, intervenendo sulla forma, sia possibile intervenire anche sull’anima. Tipico esempio è la teoria psicanalitica di Freud. La tara di questa pretesa riduzionistica è di dover ricorrere agli impulsi vitali per darsi ragione delle forme razionali, entro le quali costringere l’istinto naturale come fiera nella gabbia del domatore. Non potendo ammettere l’incontenibile mistero all’origine di ogni forma razionale, senza smentire la sua pretesa universalità, il metodo razionalistico procede per affermazioni del qualcosa attraverso negazioni del Tutto, in una tensione perenne che rivela essa stessa l’impossibilità della pretesa universalistica di una ragione senza fondamenti né fini trascendenti. L’Essere totale non è un ideale ontologico, una realtà perfetta come il Dio di Anselmo, ma la dimensione trascendente ogni esistente, ciò che è altro rispetto a ciò che si determina così com’è. Tale alterità non è il «totalmente altro» del dualismo gnostico e orfico, ma il Differente spirituale, il mysterium in-reale, escluso da ogni determinazione reale, perché in-contenibile in una forma de-finita. Il Bonum è la forma ideale, il Pulchrum è la realtà estetica. Se i due momenti coincidono in una stessa realtà esistenziale, assunta come espressione dell’Universale, allora dall’Essere totale viene escluso ciò che buono e bello non-è, definendo l’Essere entro la realtà del modello F. Di Zenzo, Momenti dell’estetica medioevale e Duns Scoto, in Atti, cit., pag. 118. 327

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ideale, negando che altro sia, giudicandolo ni-ente. Il paradosso ontologico di tale pretesa universalità è la negazione della peste del don Ferrante manzoniano. La dialettica hegeliana risponde al problema uniformando il momento negativo al positivo nel processo diveniente, ma con ciò identificando il Negativo all’Opposto logico, anziché al Trascendente. La risposta di Platone era che il negativo logico fosse il diverso esistenziale, cioè un altro positivo, senza peraltro uscire dal nominalismo per restare nell’immanentismo. La soluzione è che l’elemento veramente soggettivo del Bonum non è il prodotto formato, il Pulchrum, ma il motivo intenzionale, l’Intentio, che trascende sempre ogni volontà (voluntas) di realizzare (agere) il prodotto concreto (factum), e pertanto il Verum è solo intenzionale, e perciò trascendente e mai identificabile con alcun factum storico. Non a caso, il Verum cambia nel giudizio soggettivo, laddove il factum rimane nella sua oggettività fenomenica. L’asserzione di Nietzsche in uno dei Frammenti postumi per cui «tutto è interpretazione», significa che il «tutto» è il Verum della soggettività intenzionale, che è diverso dal mero factum, che non è soggettiva interpretretazione. 328 Il Bonum cambia, non perché sia imperfetta e necessariamente diveniente, la sua definizione storica, ma in quanto trascendente ogni finita determinazione, per cui ogni definizione formale non riesce a oggettivarlo nella sua totalità. E quando il factum perde il suo significato simbolico, relativo al soggettivo verum, non perciò smette di essere pulchrum, cioè realtà sensibile, espressione estetica; diventa però astratta dal suo valore ispirativo, dal suo referente significativo di verità. La dis-integrazione del Pulchrum dal Bonum e dal Verum riduce il factum umano a res naturale, oggetto della cupiditas della ratio di cui trattava Bonaventura. Diversamente dall’astratto formalismo estetico del razionalismo moderno, l’estetica medievale con Tommaso era giunta a identificare l’organismo formale, quale forma sostanziale, con la stessa sostanza, quale sintesi di materia e forma. Se dunque l’unità moderna viene orttenuta assimilando la sostanza alla forma, sicché, come per Croce, «tutto è forma», l’unità medievale si ottiene assimilando la forma alla sostanza, sicché per Tommaso «tutto è sostanza». Ma se è vero che la sostanza (il Bonum) è tutto, non è vero che tutto sia nella forma, per cui l’unità formale o sostanziale viene trovata a mezzo dell’identità 328

Anche Heidegger lo afferma allorquando in Essere e tempo scrive che «c’è essere, non ente, soltanto in quanto la verità è. Ed essa è soltanto in quanto e fin tanto che l’Esserci è», ossia il soggetto interpretante. Cit. da G. Vattimo, Essere e dintorni, Milano, 2018, pag. 335.

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dell’opposto logico col diverso ontologico ( ), ossia con la supposizione, che è una credenza, che la forma concettuale sia universale, cioè esclusiva dell’altro-da-sé. Universale è soltanto l’Essere trascendente, il Bonum, ossia quella veritas mysteriosa che per Agostino habitat in interiore homine, ossia appunto quella intenzionalità misteriosa che fa dell’uomo una singolarità personale e non un ente naturale. Anche le forme razionali sono storiche, al pari delle espressioni estetiche reali, di cui sono rappresentazione ideale, cioè astratta unità del molteplice ontico, e non possono che rappresentare simbolicamente l’Essere trascendente, il Tutto, ma giammai ridurlo a oggetto di giudizio. Ragion per cui, asserire che Tutto è forma, ovvero che Tutto è sostanza, significa dire che la forma e la sostanza, che sono concetti, corrispondano alla totalità trascendente ogni determinazione storico-ideale, relativa alla coscienza storica del tempo. Ciò che è relativo, non può essere «universale», ma solo «ideale», ossia proiezione razionale di ciò che è reale: la rappresentazione simbolica. L’ideale non è dunque il prototipo originario di ciò che è reale, ma ne è la proiezione razionale, la forma astratta da ogni accidente contingente e imperfetto del sensibile, di cui è modello. Il Tutto, invece, è il vero arché, l’originario dal quale deriva ogni logos determinativo di realtà. Se tale Origine è il Mito, i logoi che ne derivano sono rappresentazioni razionali del mito, ossia mito-logie; parimenti, se l’arché su-posto è Dio, ogni rappresentazione del mondo è una theo-logia; se, invece, l’origine del logos è la realtà sensibile idealizzata, la Physis, il discorso razionalistico è una onto-logia naturalistica.329 Se la legalità dell’ordine formale proveniva dall’artifex stesso del prodotto, non poteva superare la finitezza del pensiero umano. La confusione tra pensiero umano e oridine meta-fisico universale – cosmologico e formale-legale – porta all’umanesimo immanentistico e

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In questo senso Heidegger ha definito lo storicismo moderno, che rappresenta l’uomo come un essere soltanto sensibile e che pensa in relazione alla sua razionalità fisicalistica, come una variante dello scientismo che sottrae alla memoria il ricordo dell’Essere e si costituisce come «tecnica in quanto storiografia della natura». Come egli precisa, «l’animalità è in sé una riduzione (sdrammatizzazione) contro l’Essere; la ‘storiografia’ cerca di sostituirla con la produzione dell’ente senza entrare in relazione con l’Essere e con la meditazione, [per cui] l’essenza moderna dell’uomo è già prefigurata nella sua determinazione di animale storiografico-tecnico e dunque il passar via accanto alla pretesa della necessità dell’Essere è deciso». Überlugungen VII-XI (Scharze Hefte 1938-1939) (2014), tr. it., Milano, 2016, pagg. 273-280, 370 e 377.

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al legalismo razionalistico dei sistemi di pensiero auto-fondati.330 Dalla premessa che l’idea sia l’universale e il concetto la sua rappresentazione razionale, deriva la credenza della validità degli assunti razionali «etsi Deus non daretur», rispecchiandosi nella realtà l’essenza ideale del concetto. A seguito di quella premessa, ogni idea diviene una universalità distinta, mentre la realtà del vero universale, per essere in-finito, è in-distinto e, per essere omni-con-prensivo, concreto, non già astratto da ogni concreta singolarità. L’ipotesi di poter conseguire l’unità reale quale rispecchiamento ontico dell’unità logica dell’Idea, è propria dell’idealismo razionalistico platonico che l’aristotelismo ha strutturato in fisica o scienza naturalistica, che il razionalismo modrno ha ereditato credendo di poter costruire l’Essere razionale, creandolo dal modello ideale. Lo Stato ideale come opera d’arte è l’optimum vivere del razionalismo umanistico che, a partire dall’estetica, estende la perizia d’artefice a ogni prodotto umano, fino a comprendervi l’intera Storia, «sicut totum eus ex mutis formis» (D. Scoto). L’unicità della forma sostanziale conduceva all’unità dell’organismo, estetico o sociale, in senso ontologico. l’anticamenra del totalitarismo ideo-logico, prodotto della trascrizione in termini ontologici dell’universalità spirituale e mistica della totalità di Dio. La concezione «positiva» dell’Essere come ente universale condiziona l’intera theo-logia cristiana. D’altro canto, l’ammissione di una intuizione spirituale distinta dal processo logico-formale di tipo sillogistico o dialettico, è indizio della diversa disposizione mentale atta a cogliere, appunto intuitivamente, l’Essere totale. La diversità consiste nella condizione non oggettiva di tale universalità, e quindi non conoscibile razionalmente per mezzo di concetti formali. Duns Scoto ammette una conoscenza intuitiva dell’essere singolare concretamente esistente, concettualmente indistinta e spiritualmente indifferenziata, che diventa chiara e distinta nel pensiero astrattivo e riflessivo. Ma essa è solo la versione individualizzante in senso esistenziale della teoria organicistica dell’ontologia tomista della «quidditas specifica», di cui la «haecceitas» scotista è derivazione e preludio alla monadologia di Leibniz. Ma anche del singolarismo esistenzialistico, a partire da Kierkegaard. Infatti, la «ratio individui» scotista, rispetto alla natura «communis», ha in più una «entitas positiva», cioè una «singularitas» che la «facit unum cum natura». In Scoto la singolarità della haecceitas diventa assoluta, unica, tale da costituire l’individuo come

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Sulla natura idealistica del platonismo, si rimanda a Platonismo e idealismo (inedito), sul razionalismo politico modermo, a Dall’orizzonte di senso religioso all’autonomia della coscienza politica (inedito).

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microcosmo.331 Con Scoto anche lo Spirito divino, quale sfondo immutabile dell’Essere, acquisisce un suo svolgimento verso la perfezione, che non riguarda più soltanto la pars naturalis ma l’Essere spirituale stesso. Lo sviluppo diventa principio immanente esteso alla trascendenza (intesa in senso idealistico di universalità), ossia il principio stesso dell’Essere, inteso poi come Natura (Spinoza) o come Storia (Hegel). Ma né il Deus sive Natura di Spinoza, né il Deus sive Geist di Hegel sono il Dio trascendente del monoteismo ebraico-cristiano. Con Scoto l’uomo artifex mundi rifà la creazione naturale nei modi coerenti al modello ideale, perfezionando la spontanea creatività divina negli schemi della necessità razionalistica, dove ogni particolare espressione individualizzante mira ad esaltare l’unicità perfetta del dettaglio estetico, che troverà nella miniatura e nella pittura franco-fiamminga l’estrema tendenza tardo-gotica del pieno sec. XIII. 332 La teologia di Scoto schiude la rivalutazione del Corpo Mistico di Cristo quale modello del mondo come Logos, cioè come modello antropologico. La corrispondenza ideale tra mondo e Dio fa della figura di Cristo la rappresentazione storica di quella possibilità, estesa analogicamente a tutta l’umanità; non in senso solo astratto e universale, ma concreto e singolare, sì che l’estensione del pricipio universale nell’essere singolare, negli enti esistenziali, lo rende tributario di una essenza trascendente che, partecipata già in terra nonostante il peccato originale, fa di ogni creatura la traccia stessa di L’organico in Scoto diventa vivente individualmente, tanto che «le singole cose della realtà empirica non hanno più bisogno di una legittimazione oltremondana, soprannaturale per divenire oggetto dell’arte. Dio presente e attivo in ogni ordine della natura corrisponde ad un mondo più aperto che non esclude la possibilità dell’ascesa sociale. Duns Scoto reinterpreta in Aristotele il senso dellanatura che non è cosa morta, ma storia di mondi e di persone che non sono cristallizzati in forme definitive, in un’ontologia perfetta quasi simbolo di una eternità immutabile. Di immutabile in Aristotele v’è Dio soltanto, tutto il resto è svolgimento di cause ed effetti, potenza ed atto»: F. Di Zenzo, Loc. cit., pagg. 125-126. 332 «Lo stile gotico ha come fine di avvicinare quanto più è possibile tutte le verità della fede al credente in una maniera tangibile. Lo stile romanico è teocentrico, la cattedrale gotica è cristocentrica e dell’immagine del Cristo non si vuol riconoscere soltanto quella del Giudice – l’istanza morale del Giudizio finale – ma anche il Cristo della Misericordia che ha sofferto per l’umanità e mostra le sue piaghe. Nel mondo figurativo gotico il tema della Passione si presenta con maggiore pregnan za e dal gotico, contemporaneo a Duns Scoto, troviamo raffigurato addirittura il Cristo come homo fra gli uomini. Con Scoto dall’allegoria passiamo al figurale, dal concettuale al razionale»: F. Di Zenzo, Loc. cit., pag. 127. 331

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Dio, a prescindere dalla redenzione. Di questa sensibilità theo-centrica si fa interprete il francescanesimo, con la sua pressante centralità dell’uomo. Gesù Cristo è uomo e Dio; umanità e divinità coesistono in Lui: a seconda che si guardi dal punto di vista della divinità o dell’umanità del Cristo, si può cadere nell’unilateralità con le relative conseguenze sul modo di vedere come coesistono umanità e divinità in Cristo. E difatti la cristologia nella sua evoluzione storica s’è sviluppata secondo una duplice direzione […], così ne è risultata una linea di pensiero, in cui ha dominato il punto di vista della glorificazione del Cristo, procedendo dal «basso in alto»; ed un’altra, in cui ha dominato il punto di vista dell’Incarnazione, con un procedimento dall’ «alto in basso». 333

La glorificazione parte dall’umanità di Gesù e giunge alla divinità del Cristo, perciò la resurrezione diventa l’annuncio (kérigma) centrale della salvezza che prefigura il rapporto finale tra Dio e il mondo nella fase estrema della glorificazione. Questo aspetto è caratteristico della religiosità orientale, in cui si sottolinea l’Ascensione al Padre. Il punto di vista occidentale si concentra più sulla figura del Salvatore, in cui la missione del liberatore dal peccato attraverso la morte prevale sulla nuova creazione, sulla resurrezione come creazione di nuova realtà. La prospettiva dell’Incarnazione parte dal prologo di Giovanni: «Verbum caro factum est»: il Verbo si è incarnato. Scoto, erede di entrambe le tradizioni, come francescano è più concentrato sull’aspetto del Verbo Incarnato. Il suo interrogativo teologico fondamentale è: qual è la destinazione del Cristo fatto uomo? Il presupposto è la predestinazione del Cristo a essere Figlio di Dio, da cui consegue che: 1. Egli è predestinato ad essere uomo; 2. che è scelto a essere Figlio di Dio al posto di ogni altro uomo; 3. che è destinata a Lui l’unione di natura umana e Logos. E inoltre: qual fine intende perseguire Dio attraverso Cristo? Il fine divino non è altro che la Sua gloria: Dio ama e vuol essere riamato (Isaia 43, 7). Per Scoto, Dio «est formaliter charitas», che si manifesta come praxis, essendo l’amore la causa ad extra di ogni creazione. «Scoto nelle sue riflessioni parte fondamentalmente dalla nozione di Dio come Amore e su di essa intesse tutta la trama della sua teologia».334 L’amore di Dio è «ratio volendi», il cui fine è l’amore 333

Pietro da Nocere, Il primatodi Cristo nel pensiero di Duns Scoto, in Atti, cit., pagg. 149-150. La terminologia di Cristologia «dall’alto in basso e dal basso in alto» è di H. Vogel, Gott im Christo, Basel, 1951. 334 Pietro da Nocere, Loc. cit., pag. 153.

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stesso pervasivo di sé in ogni creatura, per cui «Dio amando se stesso ha predestinato gli altri a se stesso» («Deus diligendo se praedestinavit alios a se»). L’amore riflessivo di Dio è trascendente la finitezza umana, sicché l’amore finito dell’uomo, compresa la cupiditas ratiocinandi, essendo incommensurabile a quello infinito di Dio, non poteva eguagliarlo. «L’unum infinitum» che è Dio, «in quanto realtà assoluta e centrata in se stessa, è il valore supremo, la misura simpliciter per ogni realtà».335 Per colmare la Differenza, solo una persona pur umana ma anche divina poteva interporsi: da qui la figura centrale di Cristo come supremo e santo Mediatore. L’omocentrismo risiede nella glorificazione di Dio come Cristo, come Figlio incarnato e fatto uomo, partecipe dell’esistenza storica del genere umano, ossia della Storia, ma anche della sostanza divina, la quale «è, analogamente all’assoluto, un genus metaphysicum» della cui realtà partecipa per analogia dunque l’Uomo. Nel caso di Cristo, il Suo esse divinum lo distingue dall’esse creaturae «soprattutto per il fatto che non può a sua volta essere specificato in generi e specie, cosa che accade invece nel mondo sensibile», sicché se vogliamo «parlare di categorie nel caso dell’assoluto, esse devono ottenere un ordinamento e un nesso strutturale del tutto diversi e un significato che corrisponda alla realtà assoluta».336 Diversi dalla mensura perfectionis della scienza della natura, che è la quantità, ossia il numero. Ciò comporta che tra l’unum del concetto naturalistico, e l’unum quale totalità trascendente e divina, esiste una differenza non colmabile, soprattutto in considerazione che «il numero puro non è in grado di cogliere la realtà empirica e, inoltre, l’elemento storico nella sua individualità», per cui «la conoscenza che appartiene alla matematica e alla scienza della natura non è la conoscenza». Da qui l’originalità della «totalità oggettuale, ottenuta mediante l’unum et diversum» della concezione del realismo medievale, il quale, seppure «si attiene saldamente al carattere della realtà naturale», secondo la logica e metafisica aristoteliche, configura una unità «certamente di tipo particolare», la quale, «lungi dall’essere naturalismo, è bensì spiritualismo».337 Su cosa è fondata tale «particolarità» teoretica, di cui Scoto è uno dei maggiori interpreti? Nella inversione del processo intenzionale di Dio, dove la fine escatologica è preordinata rispetto all’inizio storico. Per Scoto, l’Incarnazione è l’ «articulus principalis omnium rerum unius mundi», il fatto più saliente della creazione, il «capolavoro di 335

M. Heidegger, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus (1916), tr. it. a cura di A. D’Angelo, Sesto San Giovanni, 2015, pag. 89. 336 M. Heidegger, Op. cit., pag. 90. 337 Ivi, pag. 91.

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Dio» («Summum opus Dei»). Il Verbo, infatti, è la gloria stessa di Dio attraverso la unione della sua sostanza a quella di Cristo. Nell’azione dell’artefice l’esecuzione rappresenta il processo contrario a quello dell’intenzione: nell’ordine dell’esecuzione la natura umana ha preceduto la gloria divina, mentre l’ordine intenzionale contempla prima la natura divina e poi quella umana. La fine è preordinata rispetto all’inizio pratico; ciò vuol dire che nell’intenzione il processo è astratto da ogni contingente considerazione accidentale, legata all’intervento dell’agente collettivo. Qui risiede la differenza ontologica tra l’intenzione soggettiva e la realizzazione pratica collettiva, indipendente dall’intenzione. Se dunque negli uomini la volontà incontra i limiti della realizzazione pratica, dovuti all’attualità dell’intenzione, cioè alla possibilità della sua posizione in essere, in Dio non vi è differenza tra intenzione e volontà, tra pensiero e azione. In questa differenza, che si fa esistenziale nella concreta fenomenologia storica, risiede il valore simbolico di senso storico-esistenziale della passione di Cristo-Uomo a causa degli altri uomini. Ciò che in Gesù patisce è «la carne», ossia la possibilità di realizzare l’intenzione, il cui valore resta distinto dalla sua fattibilità, dipendente dalla situazione. Tra intenzione e volontà vi è dunque la situazione, che è la realtà storica in cui il Dasein si trova. Con Husserl sappiamo che la coscienza del mondo e il mondo coincidono nello stesso atto intenzionale, non esistendo una coscienza vuota, a sé stante. Questa tesi ricorda molto l’argomento a simultaneo di Bonaventura sulla esistenza di Dio, dove la nozione di Dio (soggetto) include necessariamente la Sua esistenza (predicato). 338 Ma il mondo della coscienza è la rappresentazione che di esso se ne fa il soggetto, quella rappresentazione intenzionale, che Sartre chiama «analogon», in virtù della quale il mondo stesso è negato, ossia «l’esistente è oltrepassato»,339 cioè trasceso. La rappresentazione della intenzione-in-situazione non è quella che afferma l’esistenza del mondo, poiché come abbiamo visto lo nega, e neppure quella che lo conosce in base a categorie razionali di vero/falso; il mondo-in-situazione riflesso nella coscienza intenzionale è pertanto un analogon del mondo reale razionalmente oggettivabile e socializzato, che non esiste se non nella coscienza che lo intuisce. Ed è questa rappresentazione che a sua volta viene negata nella situazione dal «L’esistenza di Dio è certissima in se stessa perché è una verità prima e immediatissima nella quale non solo la ragione del predicato è contenuta nel soggetto, ma è assolutamente la stessa cosa l’essere che viene predicato e il soggetto di cui esso viene predicato»: Bonaventura, De mysterio Trinitatis, q. 1, a. 1 (V, 49b). Ved. L. Iammmarrone, Loc. cit., pagg. 68-69. 339 J.-P. Sartre, L’immaginaire (1936), tr. it., Torino, 2007, pag. 288. 338

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mondo oggettivo, già strutturato in un suo equilibrio instabile da difendere, e difeso dalle istituzioni sociali. Ciò che l’intenzione potenzialmente viola è l’ordine esistente, la stabilità di ciò-che-è; in altri termini, minaccia la rappresentazione ideale dell’ente. Ed è questa la ragione per cui Platone esclude i poeti dalla città ideale: l’immagnazione poetica minaccia l’esistente razionalmente formalizzato. Il mondo della rappresentazione offerta da Gesù nega la realtà di Cesare nell’atto in cui non la con-ferma come assoluta, ossia svincolata da ogni possibiità di essere violata da un «analogon» desocializzato. Ciò che il potere di Cesare non ammette è la possibilità della intenzionalità non conforme alla volontà socializzata. Il modo proprio di negare tale evenienza è quella di dichiarare non esistente la rappresentazione intenzionale, che per Gesù è invece la Verità. Ed è proprio la natura soggettiva della rappresentazione intenzionale del mondo, di regola controllata e corretta dalle istituzioni sociali, a costituire l’elemento eversivo dell’ordine mondano pensato come oggettivo, e cioè indipendente dalla rappresentazione intuitiva della coscienza singolare, e la cui indipendenza è fondata sulla (credenza nella) priorità ontologica del mondo rispetto a ogni possibile sua rappresentazione soggettiva. Su tale creduta priorità dipende la stabilità del mondo stesso com’è, dell’esistente. Nel momento in cui Cristo nega l’archetipo fisicalista e afferma la priorità dell’atto divino creatore del mondo, minaccia l’oggettività della rappresentazione ontologica che ne legittima l’ordine cosmico e sociale, ivi compreso il potere politico di Cesare. Ciò che Gesù afferma, in altri termini, è la priorità della fondazione veritativa del mondo sulla sua razionale rappresentazione. Ma se nell’uomo l’intuizione del mondo si dà con l’atto intenzionale stesso, il cui oggetto è la realtà del mondo, la «cosa in sé» kantiana, irriducibile, in Dio la coscienza del mondo precede il mondo da Lui creato, in maniera tale che la Sua rappresentazione del creato sia originaria rispetto alla creazione effettiva. Questo pre-supposto cristiano, scardina l’ordine metafisico dell’ontologia naturalistica e pone le premesse della metanoia della coscienza. Con la sostituzione razionalistica moderna dell’Io a Dio, la conversione della coscienza diventa rivoluzione politica, esattamente quanto scongiurato dal Gesù critico della deriva zelota della Sua predicazione. Ma questa riduzione immanentistica della immensa trasformazione del paradigma ontologico cristiano è stata possibile eliminando la duplice natura divino-umana di Cristo, il Quale consegue la gloria del Padre, cioè la compiuta identità dell’intenzione alla volontà, solo post mortem, e non in questo mondo. Ciò comportò che la gloria finale, durante la vita terrena di Cristo, fosse intenzionale, 205


cioè posizione di fede, anticipatrice dell’evento futuro, pre-ordinato nella intenzione di Dio ma realizzato storicamente solo nel tempo debito delle umane possibilità. Analoga attesa fidente riguarda la parousìa apocalittica, il ritorno del Cristo alla fine della Storia, che è già preordinato nell’economia del piano divino come realtà, ma che è avvenire secondo il tempo dell’attesa escatologica. In questo senso la divintà del Cristo storico è fideistica e simbolica, poiché Egli si congiungerà al Padre solo dopo la parentesi terrena, durante la quale Gesù, come homo patiens, assume valore di simbolo esistenziale della trascendenza divina: già Figlio di Dio, ma non ancora Dio stesso. Questa distanza del tempo escatologico è nella Differenza stessa delle due nature, umana e divina, che solo in Cristo coesistono in unità. Parimenti, la Chiesa terrena è manifestazione iconica del Cristo, la Sua immagine simbolica, non già la Sua realtà divina. Da quanto detto, si può comprendere il significato ontologico della fede e il valore morale che rappresenta. Infatti, la Verità interiorizzata nella coscienza intuitiva (l’agostiniana veritas in interiore homine) ha luogo nella libertà inconcussa e incoercibile della intenzione, che costituisce la premessa spirituale del libero arbitrio, cioè della sua destinazione come volontà attiva nel mondo, oggetto della rappresentazione intenzionale. Ma tale Verità, che trascende ogni posteriore determinazione razionale, e che è la rappresentazione analogica del mondo già dato come realtà oggettiva e come ordinamento ontico, nega il mondo oggettivo in quanto non lo intuisce come totalità data ma come mondo-in-relazione con l’infinita possibilità analogica che lo trascende, destinandolo alla sua finitezza storica. Altrimenti, l’intenzionalità del mondo lo libera dalla necessità della sua attualità, destinandolo alla possibilità della sua libertà, ossia della sua relazione con l’altro dalla finitezza, con l’Infinito, che Cristo ha per immagine speculare ubicato «in cielo», per indicare la differenza rispetto alla realtà attuale dell’ordine terreno. Infatti la dimensione terrena è segnata dal peccato originale, dalla esistenza decaduta, alla quale non può sottrarsi l’umanità di Gesù, che infatti muore in croce per congiungersi alla gloria del Padre. La necessità della morte per la finale libertà, è il pedaggio che l’intuizione della Verità tributa alla necessità dell’oggettivazione del mondo, alla de-finizione in ordine stabilito e garantito dal Potere. Il tempo dell’attesa viene riempito dalla fede nell’evento escatologico; fede che è amore del prossimo, solidarietà umana per la comune condizione di finitezza creaturale, anticipazione terrena dell’unione mistica a Dio. Sicché l’amore come manifestazione presente della fede nel futuro della pienezza escatologica costituisce il modo umano di testimoniare la condizione spirituale a venire, che è però già stata pre-ordinata da Dio ab aeterno: il modo di esistere della fede nel tempo dell’attesa, 206


nell’intermezzo dell’intanto storico fra il già dell’evento cristico e il non ancora della compiutezza escatologica dell’apocalissi. L’incarnazione del Verbo è la sua kénosis verbale, la Sua definzione umana, che è parola finita nel tempo. L’Incarnazione «rappresenta» la Gloria originaria e futura, di Dio in Cristo. La pienezza è impedita dal peccato, che il Salvatore è chiamato a redimere. «Diversamente, il Cristo sarebbe apparso subito come il glorificato Uomo-Dio, al vertice della creazione».340 Perciò la «gloria» non può essere «della carne» del Cristo, cioè della Sua umanità e finitezza, masolo «dell’anima» nell’assunzione post mortem. La «redenzione» dal peccato è dunque il passaggio attraverso il tempo terreno, culminante nella morte, che conchiude il ciclo paziente, cioè della sofferenza, e schiude il tempo della libertà spirituale dalla finitezza terrena. Questa non è che la convivenza della singolare coscienza intenzionale con la volontà delle altre coscienze, che si rapportano all’intenzione soggettiva come «il mondo» rispetto al proprio analogon. L’amore trasforma tale convivenza in coesistenza intenzionale, cioè come valenza comune della originaria rappresentazione intenzionale, in comunione spirituale o ekklesia, comunità di credenti. Nella dimensione intenzionale dell’amore, il mondo non viene più ri-negato come l’Altro-da-sé, oggettivamente pre-esistente alla libertà singolare come mondo-dellavita, ma accolto come l’Altro spirituale che è nel proprio sé, in modo alternativo a quello politico, che è basato sul conflitto. Il conflitto (polemos) nasce dalla disparità delle interpretazioni del mondo, ognuna delle quali produce una rappresentazione (Darstellung), che Platone chiamava doxa (da  = credo che sia vero). L’orizzonte ermeneutico all’interno del quale nascono le rappresentazioni dell’Essere è costituito da una comunità di credenti, accomunati appunto dalla credenza che la realtà sulla quale fondano la loro rappresentazione del mondo (Darstellung) «è vera» anziché «non». Questa credenza comune sulla verità dell’Essere, che elimina il conflitto delle interpretazioni, è il fondamento ontologico sul quale si fondano le rappresentazioni metafisiche e teologiche, che giustificano razionalmente quelle intuizioni di fede originarie, dando origine alle logie delle Weltanschauungen.341 Queste visioni razionali del mondo, che sono il presupposto tradizionale fondativo di ogni orizzonte ermeneutico, sono a loro volta rappresentate da organi di salvaguardia dei loro fondamenti costitutivi, che sono le

340

Pietro da Nocere, Il primato di Cristo nel pensiero di Duns Scoto, cit., pag. 161. W. Diltey, Die Typen der Weltanschaung und ihre Ausbildung in den Mataphysischen Systemen (1919), tr. it., Napoli, 1998. 341

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istituzioni sociali, fornite di un braccio armato, funzionale al ripristino dell’ordine infranto e quindi alla pace, che è il Potere. Se noi indichiamo come Dogma il fondamento di fede ecclesiale dal quale muove ogni discorso razionale su Dio (theo-logia), chiamiamo Dòkema () l’orizzonte di fede dogmatica costituito dalla comunità dei credenti attraverso la sua tradizione storico-culturale molteplice (depositum Fidei), nella cui persistenza si sono determinate le varie particolari elaborazioni teologiche dei pensatori cristiani, ognuna delle quali, se recepita dalla Chiesa, rappresentativa del suo organo di tutela istituzionale, acquistava valore significativo interno al patrimonio comune tradizionale. La singola teoresi dokematica la indichiamo come dokesis (), per distinguerla dalle elaborazioni metafisiche della filosofia razionalistica.  12. Il grande apporto del Cristianesimo innovatore del sapere pagano 342 fu la concezione della vita umana come esistenza concreta, cioè come esperienza comprensiva di pensiero e azione nella testimonianza della fede. Rispetto alla concezione greca e romana, che vedeva nel modo della socialità politica il luogo di completezza della precaria esistenza umana, il Cristianesimo concentrava nella singola coscienza l’orizzonte di senso del mondo, trovandolo nel rapporto d’amore con Dio, attraverso la mediazione storico-spirituale di Cristo. La prospettiva singolare cristiana fa dell’uomo una imago Dei di cui Cristo è l’exemplum antonomastico; non dunque uno strumento politico ma un fine morale. Ponendo l’uomo come fine, viene superata del tutto la dimensione politica della socialità, propria della civiltà olistica pagana. Questo avrebbe comportato anche la revisione profonda e radicale della metafisica naturalistica antica, che invece costituì in vario modo l’asse portante della teologia, entrando in commistione con l’ideale cristiano originario. Dopo il connubio teoretico razionalistico di tradizione ellenistica e aristotelica, il rinnovamento cristiano fu promosso dal francescanesimo. Alla fine del Ducento il Francescanesimo si è già affermato come una forza spirituale così intera, complessa e consapevole, da agire in tutti gli strati sociali e in tutte le direzioni, sulle piazze e nelle Università, negli eremi e nelle corti, sulle folle europee e sulle masse asiatiche. Questa forza è l’amore, amore concreto e fattivo, che imprime alla speculazione uno slancio volontaristico e mistico e di conseguenza importantissimo per l’azione, per l’arte, in una parola, per la civiltà. L’azione francescana, che si riassume nell’apostolato dell’esempio evangelico e della predicazione, per il suo carattere d’amore e di 342

Ch. Möller, Saggezza greca e paradosso cristriano, Brescia, 1961.

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concretezza, ottiene quasi subito due effetti: universale l’uno, particolare l’altro. Universale è la diffusione d’una religiosità più filiale, intima e confidente, che attenua il dissidio tra la carne e lo spirito e quasi concilia il Divino e l’umano; particolare è l’accentuato impulso dato allo svolgimento della personalità negli individui e nei popoli. 343

La domanda che oggi pare più pregnante è se il Cristianesimo abbia (ancora) bisogno di una dottrina, o piuttosto l’educazione all’amore caritativo vada impartita attraverso la testimonianza esemplare. Dottrina comporta definizione razionale, teologia, ossia precettistica astratta, per cui la dottrina della fede finisce per prevalere sulla fede. Se fede è relazione aperta della coscienza con Dio attraverso Cristo, la dottrina è una dogmatica sostitutiva all’impegno coscienziale, alla responsabilità della testimonianza. Alla conversione dei cuori si è sostituito storicamente il timore dell’autorità. L’autorevolezza nasce dal potere carismatico del testimone della fede, non certo dal potere dell’autorità, sia pure sacralizzato. Se si tiene poi conto dell’archetipo mysterioso che fonda ogni discorso sulla fede, il Mysterium della Trinità, ogni determinazione razionale finisce per definire lo stesso principio in termini conformi a una versione umana canonizzata, trasformando la fede escatologica in ideologia di controllo istituzionale: follia dal punto di vista della fede, come sostenne l’Apostolo e cantò quindi il Poeta. 344 Come potrebbe una infinita ispirazione di Verità compendiarsi e ridursi in una definizione dottrinale? Un pensiero unico sostituirsi al travaglio singolare di ogni relazione di fede? Per fuggire il caos ermeneutico la autorità ecclesiale può fornire gli strumenti della recta ratio, suggerendo il percorso testimoniale e di pensiero dei maggiori, santi e pensatori cristiani, ma non può imporre una anziché altra via di accesso a Dio, costringendo la mediazione entro le forme chiuse della propria autorità, anziché le forme aperte ispirate dalla santa autorità di Cristo, nella cui Mediazione divina va ravvisata l’unica vera unità spirituale dei fedeli. Il Verbum è il racconto di Cristo, il Suo exemplum, non già la parola umana, la trascrizione razionale di una verità falsata dalla limitazione ontologica della scientia umana, di cui «è corto il dire e come fioco» al gran «concetto».345 343

A. Gemelli, Il Francescanesimo, cit., pagg. 95-96. «Matto è chi spera che nostra ragion / Possa trascorrer l’infinita via, / Che tiene una sostanza in tre persone. / State contente, umana gente, al quia»: Purgatorio III, 34-37. 345 Dante, Paradiso XXXIII, 115-6. Concetto analogo era stato riferito anche dall’oracolo di Serapide egizia e tramandato da Eraclito di Ponto e da Porfirio: 344

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La storia umana è rappresentata simbolicamente dalla vicenda terrena di Gesù il Cristo. Dalla nascita umile alla passione, e dalla morte umana alla resurrezione spirituale della Pasqua, che perviene alla gloria divina. Nella vicenda compiuta di una vita paradigmatica, esemplare, si manifesta il percorso esistenziale della intera umanità, sia pure nella molteplice varietà delle esperienze singolari. Il Logos cristico non è una Idea, ma una esistenza concreta nella Storia. E questa concreta esistenza, che è mondana e spirituale, supera la stessa distinzione razionalistica e aristotelica fra theorein e praxis. Infatti la Verità cristiana è allocata in interiore homine, ma non è puramente coscienziale, cioè soltanto contemplazione di Dio, la cui distanza trascendente giustifichi una prassi autonoma dalla fede, ma è relazione della coscienza col suo fondamento intuitivo, con l’ispirazione divina della Grazia, che esprime la intenzione morale. Tale intenzione (la intentio agostiniana) nasce dalla intuizione di Dio che fonda l’intendimento del mondo, ossia quella rappresentazione analogica che fa di una singolarità esistenziale una persona spirituale. La salvezza cristiana è la modalità esistenziale che ha come exemplum la vicenda di Cristo di pervenire al superamento della originaria condizione peccaminosa dell’uomo. Il «peccato originale» consiste nella condizione particolare dell’uomo disintegrato dalla Natura ma non spiritualmente conformato alla coesistenza con l’Altro. L’uomo, che non è un essere di natura, non è neppure un essere di cultura. Per diventarlo deve inserirsi in un contesto sociale che lo riconosca come membro del gruppo: deve acculturarsi e conformarsi all’unità sociale entrando in simbiosi col mondo-della-vita. Se non lo facesse, rimarrebbe esiliato in una terra di nessuno, che è la condizione apolide tanto temuta dai Greci, ovvero quella sacrificale dell’ homo sacer romano. Ciò implica che il problema della socializzazione dell’uomo è culturale nella misura in cui è esistenziale, e si misura nella distanza tra l’intenzione singolare e la volontà socializzata. L’intenzione di Gesù, ossia la sua rappresentazione del mondo (Darstellung) era di amare il prossimo per poter essere riamato, accettando l’alea dell’opposizione del mondo (coactio). Il martirio della carne cui andò incontro, fu nel contempo anche quello della parola (Logos), che si rivelò insufficiente a redimere l’umanità dal Male, diversamente da come credevano i filosofi pagani. La tecnica nell’uso del Logos, che consentiva di creare forme di conoscenza entro cui

«, ».

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definire il mondo, non bastava a convertire i cuori, cioè a unire le singole rappresentazioni intenzionali in una unica realtà vissuta. Occorreva fondare la parola sul valore trascendente dell’Agape, cioè sulla fede nella redenzione finale, nell’eskaton dell’ultimo giorno. La contemplazione filosofica pagana acquista nella predicazione cristiana un inveramento assiologico, quello del valore esistenziale dell’intuizione intenzionale del mondo, che la posizione razionale escludeva come ente in-esistente, come ni-ente, e che la fede escatologica convertiva in testimonianza esistenziale, fornendo quella concretezza della singolarità esclusa dalla rappresentazione razionale come vana speranza dell’ecce homo impotente di fronte al Potere; quella stessa speranza che Socrate aveva riposto nella impersonale volontà politica del collettivo sociale, tutta immanente alla realtà terrena, che il discorso coerente del filosofo avrebbe auspicabilmente piegato alla necessità del Logos, e che Gesù aveva invece affidato alla gratuità della grazia divina. Il Logos pagano, fondato sulla necessità delle leggi della Natura diventa, nella prospettiva cristiana strumento riduttivo del Potere, inadatto a rappresentare la totalità dell’esperienza umana, perché espressivo della sola ed esclusiva dimensione terrena. Delocalizzando il fondamento del Logos, dall’eserienza sociale alla verità trascendente, il Verbo stesso viene trasvalutato nella sua letteralità, aprendosi al senso non convenzionale nel quale invece l’aveva ascritto il Potere cesareo. Rispetto alla prospettiva del Fedone, l’aspirazione della Repubblica rappresenta un regresso ermeneutico in senso ontico della coscienza filosofica verso l’uso della parola in termini ideo-logici. La coscienza cristiana si scontra con l’opinione comune entro la quale è sorta, poiché si propone di superare, attraverso l’atteggiamento misericordioso, il principio polemico che ne sostiene l’ordine sociale, testimoniando una modalità di rapporto altruistico basato sul Noi in Cristo, che è radicalmente diverso dall’atteggiamento esclusivo della logica dialettica, basata sulla affermazione del Sé come potere sull’Altro. Infatti, accogliere la Verità che è nell’Altro, riconoscendola come quella comune, è atteggiamento contrario all’assorbimento della altrui rappresentazione del mondo nella propria, secondo il criterio della forza politica, alla quale il cristiano oppone quella del carisma spirituale. La forza politica opera sulla «carne», ossia sulla volontà oggettiva, unendo astrattamente i corpi in un organismo etico che regola le volontà, laddove il carisma spirituale agisce sull’ intima intenzione, ispirando la libera comunione degli intenti, costitutiva di una comunità mistica, non politica. Il problema fondamentale dell’etica greca post socratica era la ricerca della felicità ovvero della «vita beata». Per Socrate, com’è noto, si 211


poteva raggiungere solo attraverso la virtù ( ). Il valore dell’uomo è in sé stesso, non nella reputazione ( ) o nei suoi beni materiali; da qui l’autonomia e superiorità della vita spirituale e della dedizione alla ricerca della verità. La «prudenza» () è la sintesi di conoscenza intellettuale e di volizione adeguata, che consente alla virtù di essere una scienza pratica. La prudenza è dunque il contenuto della virtù, intesa come la modalità di estrinsecare in modo adeguato al contesto operativo, ossia al mondo-della-vita, la volontà nell’azione: savoir faire, diplomazia, tecnica comportamentale, strategia e politesse. Il corrispettivo cristiano della phronesis razionale è la intenzione o «libertà di coscienza», intesa come atteggiamento responsabile nato dalla scelta tra volizione morale e volontà utile. Se la considera la realtà naturale dell’uomo, il contesto sociale, per orientare efficacemente l’azione, la libertà di coscienza considera il valore simbolico del comportamento intenzionale ai fini della sua spirituale significazione. Al significato sociale, che ha cioè un senso razionale secondo l’opinione condivisa dal gruppo, l’intenzione preferisce il significato simbolico dell’agire, e dunque adeguato al valore spirituale universale, il Bene o Amor Dei. La condanna di Socrate era razionale rispetto al senso socio-politico del reato ascrittogli dai suoi detrattori, e viceversa irrazionale la sua posizione morale rispetto all’etica pubblica della polis. La razionalità politica, cioè l’etica pubblica, da Platone è considerata doxa, opinione semplicemente condivisa, ma non perciò vera. Vera era per lui, come per Socrate, soltanto la posizione ideale, che entrambi consideravano universale, ma che appare irrazionale alla ragione comune. Ma poiché la posizione ideale si oppone alla ragione comune, essa è negativa rispetto alla positività dell’opinione dominante, sicché l’ideale si definisce come ciò-che-non-è-reale nel mondo-della-vita, ma solo intenzionale, possibile nella coscienza individuale. L’universalità dell’Idea è dunque vuota di realtà. La realtà per Platone, rispetto all’Idea, è imperfetta, e pertanto la realtà ideale è priva di imperfezioni, proprie del mondo della finitezza. L’idealismo platonico considera «ideale» l’immagine razionalmente perfetta della realtà, facendo dunque dell’Idea una proiezione eterna che nega il divenire delle cose finite. La posizione razionalistica che ne deriva sostituisce al movimento finito del mondo-della-vita (Lebenswelt) la dialettica ideale, che diventa così la dinamica vera della storia umana, pensando l’Idea come la Ragione universale (Logos), equivalente storico della legge di Natura, ripetto alla ragione contingente e doxastica, costitutiva dell’opinione comune. Universale sta dunque per necessaria, non eludibile né aggirabile, «astuta» in senso hegeliano. Caratteristica ontologica del Logos è la sua in-esistenza rispetto a ciò212


che-è, all’ente, per cui il supposto «oblio dell’Essere» (Seinvergessenheit) ideale è in realtà il modo razionale di costituire l’Idea come il negativo deontologico dell’ente, il cui fine etico è di rispecchiarlo, per cui il fine razionale della realtà del mondo-della-vita è di conformarsi all’Idea, che rappresenta la sua necessità metafisica. La prospettiva intenzionale del cristianesimo, spostando il luogo della Verità dal modello ideale della realtà, all’interiorità del valore morale della scelta di Dio, intende l’Universale non già come l’opposto logico dell’ente sociale, il suo modello razionale speculare, ma come il diverso trascendente la realtà ontica del mondo, sicché i due termini della polarità finito / Infinito non si possono dialettizzare, poiché l’Universale spirituale non è l’astratta unità negativa degli enti particolari concreti, ma è il Tutto in-finito rispetto al singolare finito. Il Tutto trascendente infinito è appunto l’Uni-versale in-reale, e perciò spirituale Bene, che già Plotino «concepisce come quell’unico fondamento e quell’unica origine identici al divino per eccellenza, o (primo) Dio che, in virtù di sé stesso, lascia essere nella forma del molteplice ciò che è, rispetto ad esso, altro» e che, «così com’è in se stesso, non può essere immobilizzato in una definizione, non è dicibile, cioè rappresentabile, nel linguaggio come un qualsiasi fenomeno della differenza».346 La declinazione naturalistica e ontica dell’idealismo platonico ha smarrito il senso fondamentale e irriducibile della Differenza tra l’Unouniversale e il razionale, che è conoscenza del particolare. Aver positivizzato l’Idea ha reso negativa la realtà del mondo-della-vita (Lebenswelt), così come aver universalizzato la realtà finita come opus rationale ha condotto alla negazione del valore ideale: da qui l’idea di risolvere la dialettica degli opposti universali nella sintesi della loro identità.347 Solo se il valore universale rimane trascendente – ossia altro rispetto a ogni realtà ontica – è possibie affermare la Differenza ontologica stabilendo la relazione d’amore col Logos-Mediatore e, attraverso di questo, amare la incompiutezza reale, che invece i filosofi razionalisti detestano proprio per la sua imperfezione rispetto all’astratto modello ideale. La trascendenza del valore è dunque la condizione della sua universalità, come pure della comprensione della realtà fenomenica così-com’è, in quanto cioè realtà finita. La finitezza del mondo-della-vita, nella prospettiva della relazione stabilita dalla Differenza, non è più rappresentata come de-formazione peccaminosa, 346

W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum (1998), tr. it., Milano, pag. 127. Heidegger, in Identitàe differenza (1957) attribuisce a Fichte la fomula dell’identità di Io=Io, rivlta a sé stesso, diversa dall’ugiaglianza, rivolta invece all’altro; tr. it., Milano, 2009, pag. 38. 347

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ma come possibilità salvifica: la salvezza offerta dalla relazione di carità: la charitas come modalità di relazione del cristiano, alternativa alla relazione polemica, propria del filosofo razionalista. Ciò che era  per la ragione idealistica, diventa  per la sapienza cristiana, e ciò che era Logos per la filosofia, diventa ragione finita del mondo per la fede cristiana. La ragione finita è quella economica e politica del sapere scientifico calcolante, quantitativo e basato sul nesso causale tra i fenomeni naturali. La ragione universale è la sapienza spirituale della coscienza morale, fondata sulla fede nella verità trascendente. Alla repubblica dei filosofi, il cristianesimo oppone la comunità dei santi. La virtù aristotelica, fondata sulla conoscenza razionale, è destinata all’ politico: è prodotto della scienza dell’utile. L’utilità in senso socratico è «pubblica» utilità, è bene «politico», cioè valore etico. La dimensione politica è l’orizzonte dell’attività umana, compresa la scienza. La  stabilisce la inscindibilità olistica tra la vita teoretica () e la vita pratica (), tra il pensiero razionale e l’azione adeguata. Ma ciò vuol dire che tale inscindibilità è una relazione tra due distinte sfere esistenziali: quella della coscienza soggettiva e quella oggettiva della socialità. Questa relazione deve essere armonica perché non ci sia lacerazione etica nei valori sociali. La saggezza greca puntava all’armonia sociale, poiché concepiva l’unità come valore razionale, relativo al mondo-della-vita. Il fine della sapienza razionale è eudemonistico, non soteriologico in senso cristiano. Lo stesso filosofo, che pure, in quanto ideatore di una rappresentazione del mondo in-attuale, è una figura privata, ha bisogno del riconoscimento sociale () per affermarsi come scienziato sociale; ha cioè bisogno del potere politico per diventare figura pubblica. La politica, nella prospettiva del filosofo, è attività eticamente utile se diviene ancilla del Logos, cioè se utilizza il Potere per conformare il mondo-della-vita al modello ideale, realizzandolo. La sapienza cristiana, invece, non si dirige a «questo mondo» , ossia non ha per fine la socialità economica, ma la «salvezza dell’anima» singolare. Ciò vuol dire che la «conversione» (metanoia) spirituale è individuale anche quando condivisa. Inoltre, che la filosofia è intrinsecamente «sociale», ossia ha una funzione pragmatica, laddove la fede cristiana non offre una «dottrina sociale» informata a regole razionali di valore indipendente dalla Verità, ossia dalla mediazione del Cristo. E’ la condizione trascendente che fa della Verità un’esperienza singolare e personale, e non un oggetto di pensiero dominato dalla ragione strumentale. Solo l’alterità della Verità può condurre ogni singolo a perseguirla al di là della coscienza collettiva, dell’opinione comune socializzata. La verità cristiana non è socializzabile, non 214


essendo una «dottrina sociale», ma è comunicabile come parola di Cristo. La centralità della Parola è nella stessa funzione mediatrice del Logos-Christos, il Mediatore per antonomasia, nel Cui Logos s’incarna il Verbo altrimenti in-effabile di Dio. L’elezione della Parola come luogo della mediazione nella Verità (Verbum), fa delle sacre Scritture il racconto (Mythos) stesso della Verità, a partire dalla quale i logoi acquistano il loro senso ermeneutico. 348 L’esistenza storica di Cristo conferma l’alterità di Dio, il Suo totale non-essere presente che come Parola, come Logos appunto. Il Dio incarnato è la Verità espressa dal Logos, ma la Parola di Cristo rappresenta la Verità, cioè Dio, come «analogon», sia pure di una singolarità universale (l’exemplum di Bonaventura). Quando Gesù afferma «Io sono la Verità», intende la Verità espressa come parola in questo mondo. Solo nella Gloria divina post mortem la Parola si ricongiunge al Verbo trascendente, a Dio. L’Uomo deve morire a questo mondo per acquisire «quell’unità» spirituale cui tende in quanto viator sulla via della «salvezza», cioè della compiutezza spirituale del tempo escatologico. L’incarnazione è l’accesso a Dio, alla salvezza, sicché il viaggio verso l’Altro simboleggia la conversione dalla prospettiva egoica a quella caritatevole, per cui solo nell’Altro il Logos si ricongiunge all’Uno, come la Parola al suo senso originario, al Verbo, da cui proviene. L’interpretazione razionalistica della Parola ha portato a venerare il Logos, la tecnica di accesso, la mediazione della lettera de-finitoria, anziché il suo senso trascendente, costruendo intorno al dogma la relativa Dòkema, la Chiesa-creata, che ha preso il posto del Cristocreatore, che della Sua creatura è diventato l’Idea. Di conseguenza, la stessa interpretazione razionalistica del Logos ha edificato una civiltà cristiana, con una sua etica, ma non ha convertito l’uomo sociale, l’animale politico, mentre la conversione consisteva propriamente nell’abbandono della gnoseologia razionalistica, fondata sul principio polemico, a favore della co-esistenza fraterna fondata sulla fede misericordiosa. Non si trattava di «riformare» lo Stato di Cesare, ma di testimonare con l’amore cristiano la Verità trascendente di Dio. La distinzione aristotelica tra la forma ideale e la forma pratica dell’Essere, e quella platonica tra l’Idea e la realtà, si riferivano ad aspetti opposti di una stessa realtà ontologica. Zeller coglie bene la questione quando afferma che il materialismo greco nasce dalla credenza che fosse l’esistenza il criterio di realtà, cioè la materia

«Qualsiasi cognizione chiara è fondata ell’oscurità di Dio»: K. Rahner, Grundkurs, pag. 42. 348

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percepibile dai sensi.349 Ma va aggiunto che anche l’idealismo greco ha la stessa premessa ontologica, che ritroviamo in Anselmo. La prova ontologica di Anselmo, descritta nel Proslogion, si basa infatti sul presupposto che «ogni bene più piccolo è simile a un bene più grande nella misura stessa secondo cui è bene» (cap. 2). Ciò significa che la rappresentazione dell’ente mondano, oggetto del giudizio di realtà, è «analogon» dell’intuizione del Bene rispetto alla quale l’ente è giudicato bene. E dunque è nella relazione tra la realtà finita (il mondodella-vita) e l’intuizione dell’Infinito (Id quo maius cogitari nequit) che avviene la conoscenza della realtà. Se dal punto di vista logico, in cui si muove Anselmo, il prius è la percezione sensibile del mondo quale si presenta oggettivamente, per cui l’Infinito è una proiezione ideale della realtà ontica, rispetto alla quale la realtà finita è qualificabile per opposizione, dal punto di vista ontologico quella supposta Idea d’Infinito è il vero principio d’essere, senza il quale l’ente non sarebbe bene e quindi sarebbe niente. Ciò vuol dire che la derivazione logica dell’ente dall’Essere è ex nihilo, dal momento che l’Idea è in-attuale rispetto all’ente, a ciò che-è, per cui la sua attualità, l’attualità dell’Essere, è richiamata dalla presenza dell’ente, cioè dalla necessità di de-finirlo, e perciò ne dipende; tale l’ente, tale il suo essere. Ontologicamente, invece, la Differenza dell’Infinito ha principio in se stesso, altrimenti non sarebbe universale, sicché esso, non avendo necessità di de-finirsi attraverso l’ente, sussistendo come Uno, è indipendentemente dall’ente, cioè dal mondo-della-vita.350 Tale in-dipendenza dell’Infinito fa di esso una condizione, a sua volta in-condizionata, di esistenza dell’ente; condizione che costituisce la libertà dell’ente, il quale non è necessitato alla relazione, come invece nella de-finizione dialettica, in cui gli opposti logici si richiamano necessariamente perché rispettivamente siano. Infatti, il carattere incondizionato dell’Infinito coincide con la sua libertà, la quale pertanto è 349

Ved. Mondolfo-Zeller, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Firenze 1938, vol. II passim. 350 Heidegger nota che «vanno distinti due tipi fondalmentalmente diversi di grandezza: quella che per mostrarsi e per vedersi in se stessa confermata ha sempre bisogno di ciò che è piccolo, di ciò che le è contrapposto; e quella che riceve questo nome solo come un’aggiunta perché, in sé fondata, si volge in silenzio all’inizio nascosto, non ha bisogno di dimostrazioni e rinuncia ad avere dei devoti, perché ai sapienti soltanto si apre come una fondazione della verità dell’Essere»: Ueberlugungen VII-XI (Scharze Hefte 1938-1939), tr. it. cit., pag. 371. Probabilmente egli aveva in mente proprio la prova ontologica di Anselmo, criticando l’indebita trasposizione ontologica di ciò che era una definizione logica di Dio, definito come Ente di ragione.

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anche il principio di ogni relazione. Il carattere libero della relazione ontologica, se fa sussistere il mondo-della-vita come realtà indipendente dalla coscienza, fa nel contempo di questa un orizzonte di libertà, all’interno del quale si muove la volontà priva di necessità, ossia l’intenzione, che è quella fede ontologica su cui è fondata la Verità, cioè l’esistenza dell’Infinito stesso: la fede in Dio. La relazione tra la coscienza noetica e la presenza trascendente di Dio è mediata da Cristo, per mezzo del Quale l’uomo perviene alla riconciliazione col suo fondamento. In questo senso, il percorso ad Deum è nello stesso tempo un ritorno alle origini, come afferma appunto Paolo: «tutto è da Dio che ci ha riconciliati con lui mediante il Cristo» (2 Cor, 5, 18), ovvero «mediante la [Sua] morte» (Col, 22). Tale riconciliazione con la divina arché coincide con la salvezza dell’uomo dal peccato, la cui economia si dispiega come una storia singolare che giunge dalla dipendenza dalla Legge alla liberazione in Cristo. Ma la prigionia dell’uomo non era soltanto relativa alla Legge mosaica (Col, 2, 14; Gal, 2, 19), bensì anche alla legge cosmologica del naturalismo pagano, ossia a quel Logos universale che legava gli uomini a un comune destino di necessità. «Nella nuova economia instaurata dal Cristo, la bontà salvifica di Dio si rivela nel riscattare l’uomo dal peccato e dalla morte trasformandolo interiormente e rendendolo degno di vita eterna».351 Questa bontà divina è l’atto di liberazione spirituale dalla necessità onto-logica che Paolo chiama «giustificazione» () escatologica (Rm, 5, 18), di natura ben diversa da ogni logia metafisica operata dai teologi alessandrini.352 Il sensismo gnoseologico, sul quale è fondato ogni razionalismo, compreso il criticismo kantiano, non consente di concepire un valore universale, trascendente il mondo-della-vita a partire dal quale è definibile. Il Logos spermatikos, quale energia vitale che pervade ogni processo cosmico, diventa per la cosmologia naturalistica il senso direzionale che spinge all’ordine razionale universale. In questo finalismo i Greci concepivano l’intelligenza universale della Natura organizzata in cosmo, le cui leggi diventavano oggetto di pensiero. Il 351

V. Loi, Le origini del Cristianesimo, Roma, 1993, pag. 207. Paolo aveva predicato la distinzione secondo bontà spirituale, anziché secondo valore mondano («Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono», 1 Tess, 5, 21), ma bisognerà attendere La dottrina cristiana di Agostino, composta tra il 396 e il 427, per pervenire alla “carità come criterio ermeneutico”. Secondo l’agostiniano Pascal, «l’ordine della verità è l’ordine della carità: conoscere la verità è raggiungere la felicità, perché la verità è Dio e il suo possesso è la beatitudine; ma non si conosce la verità se non per mezzo della charitas»: M.F. Sciacca, Il pensiero moderno, Brescia, 1949, pag. 26. 352

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naturalismo e il razionalismo erano e sono intimamente congiunti. Natura-Ragione-Pensiero costituivano il circolo metafisico che racchiudeva per i Greci l’esperienza del cosmo. La forza cosmica impersonale e incoercibile era dagli stoici chiamata , che Cicerone traduce con «fatalis necessitas».353 Essa era intesa come la forza generativa e regolativa della vita, e come tale da venerare religiosamente. La legge razionale, scientifica, diventa anche legge religiosa, ragione e giustizia immanente. Il Logos eracliteo diventa nella metafisica stoica principio teleologico, al quale bisogna saggiamente abbandonarsi. Il fatalismo cosmico del razionalismo antico è però tutt’altro che passività; è invece consapevole perseguimento della razionalità immanente all’universo, alla quale sarebbe vano opporsi poiché essa pervade l’intera «catena dell’essere», sicché ragione delle cose equivale a connessione causale fra esse. Causalità e razionalità costituiscono il processo della Natura. La distinzione, poi, tra «causae principales» o umane, e «causae adiuvantes» o naturali, non risolveva il problema della libertà, che sarà risolto solo dallo spiritualismo cristiano. Infatti per i Greci la virtù morale era vivere secondo natura, ossia secondando il principio della immanente ragione. La realtà, come Essere di ragione, è realtà naturalistica. Il razionalismo, nella versione ontologica, è naturalismo. E poiché «vivere secondo natura» () è secondare la ragione universale, il primato dell’azione è conseguenza della premessa naturalistica. Infatti, come abbiamo visto, il retto agire è l’inserimento opportuno nel generale processo razionale del mondo, la conoscenza del quale costituisce appunto la virtù ( ) del sapiente. In tal senso, lo stoicismo sviluppa l’esigenza di approntare una dottrina scientifica della conoscenza ai fini dell’azione virtuosa. 354 La cultura filosofica acquista così un valore non solo intimo ma sociologico, fuzionale sia alla pace interiore, che deriva dal dovere di conformità alla natura universale (), che alla eudaimonia della comunità, obbedendo alle leggi e dunque compiendo «quanto va fatto» ().355 Ossequiare il

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Cicerone, Natura deorum, I, 20; De divinatione, I, 55. Le azioni virtuose, secondo la teoria dei valori di Zenone, potevano essere “perfette” (), ossia del tutto conformi a ragione, ovvero semplicemente convenienti ( ) all’ordine naturale dell’uomo, ma ciò non toglie che a stabilirne la giustezza fosse la circostanza oggettiva, tant’è che “tutto ciò che pecca contro il kathekon, in quanto contrario a natura, è errore in senso assoluto”: M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung (1948), tr. it., Firenze, 1967, pagg. 263-264. 355 Ivi, pagg. 270-271. Cicerone, Off. I 126 sgg. 354

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nomos infatti è il presupposto tanto della virtù civica quanto della condotta morale. Il Bene dunque è ciò che è perfetto secondo la natura razionale. La felicità ne è la conseguenza psicologica, e non il fine. E si consegue attraverso l’esercizio dell’indifferenza ( ) ascetica verso i beni materiali, il cui possesso è superfluo e inutile alla saggezza e all’armonia interiore, il cui fine supremo è l’apatia ( ), che è la serena conciliazione col mondo. Il comportamento virtuoso del saggio è quello razionale, conforme all’ordine cosmico della Natura. Per lo Stoicismo, espressione della massima concezione universalistica del naturalismo greco, superatrice del nazionalismo politico tradizionale col concetto di «umanità», l’Essere è la Natura, la realtà visibile, l’universo materiale, e lo stesso Dio, che indica con nomi diversi la stessa realtà finita.356 Con Seneca, il saggio diventa un dio più ricco di umanità, che, a differenza degli dèi olimpici, conquista la sua condizione divina. La sacralizzazione dell’uomo fa della sua dottrina una filosofia umanistica immanentistica, priva dell’idea di una sostanza puramente immateriale e spirituale. Da qui l’idea della morte come la condizione opposta alla vita: «Mors est non esse!», scrive a Lucilio.357 Da romano, anche il saggio per Seneca rimaneva uomo positivo, diffidente verso inutili logomachie e alla ricerca della coerenza tra pensiero e azione. Per lui, «facere docet philosophia, non dicere»:358 lo stesso uomo nel discorso e nella vita pubblica. Per il cristiano Scoto, il «dicere», cioè il linguaggio, sorge dall’intelletto, che denomina la realtà distinguendola attraverso la parola; tuttavia, la facoltà che lo produce, ossia la fonte della sua articolazione grammaticale, la chiama «memoria». Questa si pone tra l’immaginazione e l’intelletto, stabilendo un vincolo di rapporto e di comunicazione tra la coscienza singolare e la comunità dei parlanti. L’attività mediatoria della memoria sta a indicare una funzione di orientamento della coscienza singolare nella situazione esistenziale in cui si trova la persona, che viene perseguita attraverso l’educazione culturale del collettivo sociale per mezzo delle istituzioni eticopolitiche. Nell’ambito della comunità dei credenti, la memoria collettiva è il depositum Fidei, di cui si fa custode istituzionale la Chiesa. L’istituzione ecclesiastica è interna alla ecclesia mistica, che coesistono nella propria persona storica come le due nature di Cristo, che è a un tempo il Figlio di Dio e il Figlio dell’Uomo. Le due distinte ma

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Seneca, De beneficiis, IV, 7-8. Seneca, Epistolae, LIV, 4. 358 Ep., LXXV, 3. 357

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congiunte nature non vanno confuse, sicché quando la Chiesa perde il suo carattere comunitario e mistico per concentrarsi su quello istituzionale, pecca di idolatria, simile a quella dell’eresia monofisita. Infatti il corpo mistico di Cristo, essendo una realtà esistenziale e spiritualmente trascendente, non può essere rappresentato da una istituzione formale di tipo giuridico-politico (Rechtsvertretung), ma solo essere rappresentato attraverso la parola, ossia come rappresentazione (Darstellung) ermeneutica. La tradizione razionalistica, attraverso la quale si è sviluppata per mutuo sincretistico la dottrina cristiana, ha prodotto una rappresentazione storica della Dòkema in senso istituzionalistico-razionale che l’ha portata a confondere il suo alto magistero ermeneutico con la potenza mondana della sua struttura istituzionale. Dalla concezione razionalistica della theo-logia cristiana nasce il nichilismo moderno, quale rimozione del fondamento fideistico che sostiene la rappresentazione di Dio pensato come Essere idealistico, e dunque come il «negativo» rispetto alla positività ontica, e perciò pensato realtà in-esistente e dunque come un Mito in-credibile. 13. Nella prospettiva dell’ermeneutica razionalistica, la parola indica la cosa particolare ed evoca l’idea generale:359 il suo senso resta perciò aperto all’Essere. L’apertura della parola all’ente lo libera dalla sua necessità sensibile, che è la sua particolarità contingente, ma non dalla sua finitezza, caricando così la parola di speranza e di malinconia. La parola eprime nell’atto conoscitivo l’essenza ideale delle cose; ma, una volta stabilita la nominazione, la parola stessa si riferisce alle cose. In questo modo verbale, le cose, la Natura e il mondo-della-vita si pongono in relazione con l’Essere che li evoca. La parola pertanto assume la funzione di mediatrice tra la realtà finita e l’essenza ideale, costituendosi dunque in funzione del concetto e in funzione del reale. La condizione di veridicità di tale orizzonte ermeneutico è che la parola esaurisca la sua mediazione logica in queste sue due funzioni, sul presupposto che la conoscenza concettuale (e quindi la relativa espressione verbale) sia l’unica conoscenza possibile alla parola, la quale viene di conseguenza esonerata dalla funzione originaria, legata alla affabulazione poetica, che la collegava al Mito. La parola mitica del originario è una espressione in-determinata e quindi simbolica, che non veicola un senso univoco e coerente, ma è ispirata alla sola

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«Ogni razionalismo è in fondo sorretto dalla convinzione che solo il concettp oggettivante permette a una realtà di esistere per l’uomo nel suo autopossesso spirituale e libero, concetto che raggiunge la propria realtà autentica e piena nella scienza»: K. Rahner, Grundkurs, cit. tr. it., pag. 34.

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volizione intenzionale, non guidata dalla  che ne determina il senso necessario. La parola incoerente e contraddittoria del linguaggio doxastico non può pervenire alla cognizione razionale della realtà, ma è soltanto col linguaggio dialettico che il parlare diventa razionalmente normativo, discorso filosofico. In questa accezione Duns Scoto usa il linguaggio, come espressivo della sola razionalità. Gli esseri irrazionali non parlano. Per Platone, neppure i poeti dovrebbero parlare, poiché il loro linguaggio non è sistematico ma fantastico, e la loro rappresentazione della realtà falsa e fuorviante. Essi infatti non sarebbero coscienze «intelligenti», perché non conoscerebbero l’essenza della realtà, come invece i filosofi, ai quali soltanto spetterebbe la sapiente disponibilità della parola, e quindi il potere determinativo del suo senso univoco, che è lo stesso del reale. Anche per Scoto «loqui dicit actum immagnationis vel intellectus», intendendo con «immaginazione» la conoscenza del particolare e con «intelletto» la conoscenza dell’universale. Per Occam, invece, il «verbum oris» presuppone il «verbum mentis», nel senso che la parola che dice presuppone l’Idea che è, sicché il linguaggio è la traduzione verbale del pensiero. Per lui, anticipando Gentile, «verbum est actualis cogitatio», nel senso che la parola determinativa di senso de-finisce concettualmente l’in-determinato mondo-della-vita, riflesso del/dal Mito. Le libere associazioni dell’immaginazione devono lasciare il luogo ai nessi necessari, sicché la razionalizzazione del mondo che augurabilmente li rifletterebbe, disegnerebbe rapporti sociali anch’essi necessari. La «gabbia d’acciaio» di Weber è già descritta in queste premesse. La Necessità è dunque l’orizzonte stesso della filosofia. Infatti, il philosophari, come sanno i più consapevoli teoreti, è un pensare impersonale, tale cioè che il pensiero, più che dei filosofi è piuttosto pensato dalla filosofia, in quanto la relazione logica che il discorso ricerca, stabilendo nessi adeguati all’oggetto del pensiero, è una relazione «necessaria», e tutt’altro che «libera», quale invece quella poetica che concerne il Mito. Il pre-supposto onto-logico del logos, che l’Essere sia Idea, costringe la parola alla sua necessità razionale, secondo il metodo dialettico dell’esclusione dell’opposto negativo. La parola sensata, ossia fornita di senso, è quella che esprime il pensiero dell’intelletto. Come afferma Scoto, «la parola verbale, infatti, viene formata per significare e per manifestare ciò che si comprende» («Formatur enim vocale ad significandum et declarandum illud, quod intelligitur»). Scoto rifiuta la teoria di Platone, secondo il quale il nome significa la cosa (nomen omen), sostenendo invece che la parola esprime la cosa sempre in relazione al concetto che ne facciamo nella conoscenza: «nomina sun similia intellectui». Segue Aristotile quando 221


afferma che la parola è il segno della specie intelligibile, cioè del concetto, cioè dell’immagine dell’oggetto creata dall’anima, per cui «nomen potest significare rem ut intelligitur». Il segno, il termine, non può essere né vero né falso in sé. Gli oggetti, in quanto conosciuti, sono chiamati «idee» o «concetti», e in quanto oggetti di cognizione sono immateriali. La parte cognitiva e immateriale del linguaggio è il significato, che conduce alla riflessione filosofica, cioè alla trasposizione dell’ordine materiale o naturale del linguaggio a quello ideale o meta-fisico. In tal senso il linguaggio, in quanto segno dell’idea e della cosa, con-risponde alla verità logica e alla verità naturale: significa le cose ma attraverso il pensiero. La parola come «verbum mentis». Il senso verso cui pro-cede il significante è il significato; ma ciò-chesignifica, ossia la parola come segno, dovrebbe significare la cosa significata, invece il significato non è (più) l’ente nominato dalla parola, ma è il senso razionale che la parola significante indica, per cui la cosa originaria da significare, una volta significata, cioè fornita di senso razionale, diventa essa stessa contenuto del significato, ossia ente di ragione. Ed è questo investimento di senso razionale che trasvaluta la realtà del mondo-della-vita in contenuto oggettivo del pensiero. La realtà oggettivata dal pensiero razionale, cioè divenuta oggetto di pensiero logico, è l’altro rispetto all’in-forme mondo-della-vita, la sua forma astratta dall’in-determinatezza e dall’in-perfezione, proprie del divenire. Il «verbum mentis», dunque, rappresenta l’analogon del mondo-della-vita descritto come vera interpretazione, rispetto alla quale la realtà originaria è falsa. La ragione, attraverso il concetto, si impossessa della realtà informe e la struttura razionalmente facendone il suo oggetto significativo di senso razionale. La parola non «conosce» la cosa indicata, ma la ri-conosce dopo averla significata. Il ri-conoscimento della cosa è il senso della volontà significante che s’indirizza al significato. Ma che cosa riconosce la parola? Quella stessa che ha appreso, e pertanto l’apprendimento coincide con la tradizione di sapere da una fonte attiva a una coscienza ricettiva di senso. Apprendere significa dunque imparare a ri-conoscere il significato della cosa, grazie al quale la cosa stessa diventa significativa, e la relativa parola che la indica, significante. Il riconoscimento presuppone la conoscenza del significato; e conoscere vuol dire appunto attribuire un nomen significante alla cosa indeterminata e quindi in sé in-significante. La tradizione del mero nomen al discente riguarda la semplice «indicazione» della cosa particolare, la sua generica datità ontica, mentre il significato di ciò che la cosa nominata evoca è un atto noetico di chi l’apprende, cioè una interpretazione, la quale pertanto è una indicazione di senso esclusiva di 222


altri. Ciò vuol dire che l’attività dell’apprendimento è intenzionale e insita nel riconoscimento, ne fa parte integrante. La parte ricettiva dell’informazione è sensibile: apprendo il nome e lo ripeto. So che questa cosa si chiama «rosa». Il mio sapere sta nel riconoscerlo. E’ un legame sensibile, della memoria immaginativa. So riconoscere l’immagine della rosa attribuendole il nome appreso. In questa relazione non c’è pensiero, per cui Locke ha potuto credere che lo spirito sia una tabula rasa su cui incidere il sapere. Il pensiero interviene liberando la passività delle sensazioni legate alla partecipazione dell’uomo alla vita biologica in cui vive. Il pensiero interviene attivamente a stabilire delle relazioni di senso razionale tra fenomeni. Dal nomen puramente indicativo, si passa alla relazione della cosa nominata con le altre cose, cioè al significato. Ed è in questa attività significante che la parola rivela la sua possibilità di «verbum mentis». Considerare razionale il significato, cioè la relazione, della cosa, equivale a dire che la relazione ha senso per l’interprete. Ma poiché il senso dell’interprete deve legarsi al senso di ciò che è interpretato, così come si è trasvalutata la cosa informe in oggetto di pensiero, parimenti qualunque realtà trova il suo senso significativo nell’atto della coincidenza col senso razionale dell’interprete. Tale in-discriminata sussunzione di senso del mondo-della-vita entro le forme razionali del Logos viene indicata come il valore universale della ragione. Che questo valore gnoseologico sia una credenza ontologica lo prova il fatto che la condizione di in-distinzione propria della parola mitica venga trasferita alla pretesa razionalistica di poter conoscere ogni realtà in sé allotria come se fosse oggetto dell’attività del pensiero, cioè fosse un suo prodotto intenzionale; che tale pretesa gnoseologica sia di tipo ontologicamente fideistico, lo attesta la supposizione che l’oggetto del pensiero sia coincidente con la stessa realtà effettuale, secondo la più tipica mentalità magistica. Il rispecchiamento idealistico dell’ente all’Idea è una forma di sapere magistica, ereditata dal razionalismo della metafisica occidentale. La relazione razionale tra fenomeni è di tipo logico-causale. E’ la fede nella validità della relazione causale a rendere la conoscenza razionale, ossia «vera» conoscenza. Razionale è pertanto la credenza (nella verità di quella relazione causale), e il razionalismo è quell’orizzonte di sapere fondato sulla credenza ontologica della identità dell’Essere col pensiero, cioè sulla fede nella veridicità della sua rappresentazione analogica, esclusiva d’ogni altra. L’elemento intenzionale di tale credenza ontologica indica il senso della sua «volontà di potenza». L’immaginazione condivisa e tràdita attraverso istituzioni socioculturali forma un abito mentale, una mentalità comune, una opinione 223


pubblica, che Platone indicava come «doxa». Ed è su questa opinione meramente condivisa, ma non necessariamente «vera» secondo ragione, che incide la retorica sofistica come tecnica della parola, tesa a incanalare la volontà umana verso scopi utilitaristici, contro la quale si oppone la prospettiva eudemonistica dell’etica razionalistica socratica. La rappresentazione razionalistica della realtà stabilisce un legame necessario e non alterabile ad libitum della volontà umana, tra gli enti nominati, fondato sulla loro corrispondenza al loro referente ideale. Il significato razionale è (solo) quello conforme alla relazione tra modello astratto ed ente concreto. Una relazione non concorde è una rappresentazione falsa della realtà ontica, e dunque in-razionale e meramente soggettiva, immaginaria. La necessità della conoscenza razionale è intesa in senso logico, e non fideistico; ossia, basata sul convincimento dialettico e non sulla paura degli dèi. 360 Il legame logico, essendo esclusivo di ogni senso immaginario, soggettivo ed opinabile, è dunque un legame necessario, e non libero. Logicamente, non si può non-credere. La fede coincide con la logica stessa, cioè col metodo di pensiero razionale. Su questo presupposto il razionalismo, come cosmologia e socio-logia, si emancipa dal fideismo doxastico delle rappresentazioni non scientifiche della realtà, proprie della coscienza immaginativa, per auto-costituirsi come pensiero assoluto, assolutamente necessario, e perciò «verità» universale. Nell’orizzonte di senso razionale, la necessità della relazione logica coincide con la sua universalità. Universale significa pertanto necessario per tutti coloro che pensano in maniera logica, ossia «vera». Ed è per questo che, identificato l’Essere della metafisica greca con il Dio della fede ebraico-cristiana, s. Anselmo potè accusare l’ateo (insipiens) di «non pensare»; e per lo stesso motivo egli potè affermare Origene distingueva i “semplici credenti” ( ), che hanno creduto in ragione dei miracoli, dai “credenti-filosofi”, gli unici ad essere “perfetti” ( ) in quanto credono in virtù della “scienza intorno a Dio”. Soltanto questi ultimi seguirebbero Cristo “per amore” (pro caritate). Ved. H.A. Wolfson, The Philosophy of the Church Fathers, vol. I (1955, 1964 2), tr. it., Brescia, 1978, pag. 103. L’apologetica già dai primi secoli preferiva i dotti ai semplici credenti, contro il cui rischio elitistico testimoniò Ireneo, mentre sulla possibile deriva ereticale combattè Tertulliano, contrario a ogni sincretismo tra fede e filosofia pagana. Per lui, “l’unico ‘criterio’, l’unica regola si fonda sulla ‘fede’ [senza la cui intuizione] la stessa ragione non ha ragione, resta irrazionale”, così come “irrazionale appare ogni sforzo razionale che non si fondi su quella fede” (De praescr., XIII e XXXVI): F. Adorno, La filosofia antica, vol. 2, Milano, 1978, pag. 539. Ved. J. Lebreton, Il disaccordo tra fede popolare e teologia dotta nella Chiesa cristiana del terzo secolo, Milano, 1972. 360

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che «Dio esiste necessariamente sia nell’intelletto che nella realtà».361 Il regno della logica è il regno della necessità. La necessità universale è la «legge» normativa del cosmo naturale e umano. Su tale premessa è possibile per il razionalista conformare la spontaneità della intenzione della coscienza, e dunque la libertà della coscienza intenzionale, alle leggi necessarie del cosmo universale, al fine di integrare la coscienza umana al regno della Natura. E’ pur vero che la dialettica socratica supera l’utilitarismo relativistico della sofistica, facendo della «virtù» un attegiamento interiore; ed è parimenti vero che con Platone si ascende dalla dimensione antropologica, sulla quale si era posto il suo maestro Socrate alla dimensione eterna delle idee, che per lui era il regno del pensiero divino al quale doveva tendere il filo-sofo. Ma tanto la ricerca socratica che ancor più quella platonica, tendendo a conseguire l’Essere universale, ossia quel legame cosmico solidale e non conflittuale, e dunque armonico, che Scoto chiamava «univocità», e che potremmo indicare anche col termine più prosaico di «ordine», essi mirarono in realtà a uni-formare la coscienza umana, e dunque l’intenzionalità libera, alla Necessità del Logos universale, costringendo ogni aspirazione umana alla dimensione della realtà finita. L’istanza platonica dell’ideale vita sociale celava il desiderio di pervenire alla fine della ricerca filosofica attraverso il conseguimento di una serenità esistenziale possibile soltanto nella città ideale, cioè entro una socialità che avesse acquisito i valori universali come naturali e quindi universali. Il governo filosofico era in realtà la negazione di ogni politica, coincidente con la fine della necessità di istituire l’esito della ricerca filosofica come credo comune, e di garantire la vigenza della conseguita verità col mezzo del Potere. La conversione dialettica della Necessità cosmica in Libertà umana, dimostra come il principio universalistico del Logos fosse niente di più che una credenza, la Darstellung imaginifica di un analogon intenzionale, in cui il rapporto tra individuale e universale viene inteso nei termini della corrisondenza del particolare contingente al generale necessario, per cui sarebbe possibile – pervenendo teoreticamente alla gnosi universale eterna – imitare storicamente il modello ideale. L’ontologia razionalistica è ispiratrice di una conseguente deontologia. La coscienza sensibile conosce il particolare, l’empirico e contingente ente del mondo-della-vita, mentre l’intelletto speculativo conosce l’Idea universale, il concetto, la verità. «Tra l’immaginazione e l‘intelletto per la conoscenza del particolare, e tra la funzione dell’intelletto agente e quella dell’intelletto possibile per la conoscenza e formazione

361

Anselmo d’Aosta, Proslogion, II, tr. it. cit., pag. 10.

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dell’universale, agisce la potenza creatrice del linguaggio».362 Le parole rilevate mettono in evidenza che anche per Scoto il linguaggio è attività spirituale. Ma tale attività è intesa alla maniera greca di conformità alla necessità cosmica del Logos. Se infatti tutto è legato alla necessità cosmica, che potere ha la parola nell’articolazione del senso razionale delle cose? Il potere della parola risiede soltanto nella volontà di conformare l’espressione dell’apparenza, il loqui che pensa come inesistenti le cose necessarie,363 al pensiero di verità, che è «necessario» alla stessa stregua dell’agire opportuno del virtuoso greco. Sicché, anche l’essere di Dio, che è l’unica verità vera in sé stessa e non in quanto pensata vera, non dipende dall’essere del pensiero, ossia dalla libertà della coscienza intenzionale, ma è il pensiero che dipende dal Suo essere. L’indipendenza di Dio dal pensiero, ne costituisce il limite insuperabile, tale che superandolo il pensiero contraddirebbe ogni sua pretesa di realtà, cioè di verità, diventando falso, asserendo» che ciò che è, non sia», che è appunto l’esito auto-confutativo della dialettica del Logos universale. Identificando Dio con l’Essere dell’ontologia greca, e ponendo Dio come supremo limite del pensabile, significa stabilire all’uomo i confini del pensiero possibile, cioè della sua stessa libertà di coscienza, sicché tutto ciò che è pensabile come vero, lo sia o non, è sempre e solo in Dio che può trovare la sua conferma di verità o falsità, e non nel pensiero stesso; ossia è nella premessa ontologica che si pre-determina la verità logica. Cade perciò ogni pretesa distinzione tra l’indistinto cogitare di cose sia vere che false, e l’intuitivo intelligere della conoscenza vera, poiché la verità non dipende dalla retta coscienza che la pensa, ma soltanto dalla necessità inscritta nell’Essere universale, pensato come Dio. Se però l’Essere della metafisica greca non è una totalità vuota di determinazioni (Mito), e neppure la totalità delle differenze (doxa), ma è «l’intero del positivo», ossia la realtà del finito quale oggetto del pensiero razionale che lo pone come vero (ente) anziché falso (niente), allora questo Essere non può coincidere col Dio evangelico di Cristo. Infatti, l’essere di Parmenide che si oppone al nulla «può opporvisi solo se è e quando è; perché, se non è, non è niente e non si oppone a niente»,364 mentre il Dio cristiano è amore ( ), libertà, intesa come possibilità di pensare la realtà come esistente o non, ossia di disporre liberamente del pensiero di pensare Dio o di non pensarlo. La coscienza 362

G. Mascia, La teoria di G. Duns Scoto sulla natura del linguaggio, in Op. cit., pag. 136. 363 Anselmo d’Aosta, Proslogion, IV, tr. it. cit., pag. 53. 364 E. Severino, Ritornare a Parmenide (1964), in Essenza del nichilismo, Milano, 1995, pag. 21.

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intenzionale non è altro che tale disponibilità del pensiero di pensare o non la verità. Se tutte le cose che esistono non possono essere intese come non esistenti, tuttavia tutte, tranne quell’una che supremamente è, possono esser pensate come non esistenti. Ma come non esistenti si possono pensare quelle cose – e soltanto quelle – che hanno principio o fine o composizioni di parti, in una parola, tutto ciò che non è tutto, sempre e dovunque. 365

Fuori dall’immagine fisica, Anselmo intende Dio come la impossibilità di non essere ciò che è, ossia l’unica vera Necessità, fondamento di ogni pensiero, senza il quale il pensare non avrebbe la possibilità di pensare la verità anziché il falso. E pertanto ciò che è vero nel pensiero, è vero solo se coincide con l’essere di Dio. Ma poiché l’essere di Dio non è pensabile come prodotto di pensiero, altrimenti non sarebbe l’arché di ogni pensiero, cioè non è oggetto di pensiero, Dio è l’Altro dal pensabile, il Limite di ogni pensiero. E poiché il pensiero ha come oggetto l’Essere, Dio è l’Altro dall’Essere, l’Essere-Non che limita l’esistenza, cioè l’essere attuale, di ogni ente pensato come esistente. Oltre il limite dell’Essere c’è Dio. In tale senso, l’Essere inteso platonicamente come ciò che proviene dal Niente e torna al Niente, è esattamente l’orizzonte del pensiero umano che pensa la realtà, ossia il suo oggetto, come spazio della possibilità ontologica, quello entro il quale le cose «hanno principio o fine» ma che non potranno mai essere «tutto», ossia in-finite. Infinito è ciò che non si può supporre come non esistente, poiché senza di esso non si potrebbe pensare la realtà esistente. Ma ciò che non può essere pensato come inesistente senza inficiare la stessa realtà esistente, e dunque il pensiero che lo pensa, non è l’Essere di ciò che è, cioè l’essenza dell’ente, ma è ciò che trascende l’Essere di ogni ente, ossia il Nulla di cui Parmenide dice che «non è» Essere. Se non fosse il Nulla, nessun ente potrebbe essere affermato come esistente, e pertanto il Nulla è la stessa possibilità d’essere dell’Essere, ovvero che l’Essere sia anziché non. Tale possibilità, non essendo oggetto di pensiero ma condizione del pensare, non appartiene al pensiero, ma questo ne dipende. E ciò di cui il pensiero dipende è l’Originario da cui l’Essere deriva necessariamente. Ciò che è originario rispetto all’Essere è il differente pensato come Nulla, ossia ciò che trascende ogni determinazione dell’Essere, e dunque ciò che Essere non-è, ma Altro. Ciò che è Altro dal pensiero e che è origine di ogni pensare e che non dipende perciò per il suo essere dal pensiero, è appunto Dio. Solo l’Essere si può pensare come non esistente, ossia 365

Anselmo d’Aosta, Proslogion, IV, tr. it. cit., pag. 53.

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falsamente, mentre del Nulla non si può pensare come non esistente e nello stesso tempo pensarlo, poiché pensare significa pensare l’Essere. Pensare che l’Essere non sia, è pensare il falso, ma che Dio non sia, cioè non sia un ente esistente, non è falso, è semplicemente affermare che è in-pensabile. Se ciò che non si può pensare non è falso e perciò ciò di cui non si può pensare che sia falso è necessariamente Vero. Vera è dunque la realtà che in qualunque modo la si pensi è sé stessa, perché indipendente dal pensiero, e all’origine di ogni pensiero. L’origine di ogni pensiero, vero o falso, coincide con la «potenza creatrice» del linguaggio, che è il luogo donde proviene il Logos: il Mythos, ove tutto ha origine e procede come determinazione d’essere di ciò che è vero e di ciò che non lo è. La condizione trascendente di Dio, quale Origine creativa dell’Essere e di ogni sua determinazione ontica, spiega l’affermazione di Agostino circa l’interiorità della Verità nell’animo umano, cioè nella intenzionalità della coscienza. Infatti, l’ «interno» della coscienza è ontologicamente in-determinato e luogo simbolico di ogni possibile determinazione, verbale (noetica) e volitiva (pratica). La verità come indeterminazione è possibilità di ogni determinazione, ognuna delle quali riporta alla sua possibilità di essere altra da ciò che è. Ed è tale inattualità a rendere in-finita ogni possibilità che pre-cede la realtà attuale, ossia la temporalità presente. Il realismo razionalistico pone Dio come ulteriorità rispetto all’essere attuale, e dunque come apertura al tempo futuro o escatologico. Ma questa interpretazione del tempo escatologico come evento futuro, deforma in senso positivo e temporale la realtà in-finita e in-temporale di Dio, che invece va inteso come trascedenza di ogni temporalità attuale e finita, ossia come origine di ogni inizio, scaturigine di ogni esistenza presentemente attuale, e dunque presente anche in passato e in futuro. Da qui la pienezza del tempo escatologico, propria della realtà in-finita, che, rispetto alla parola logicamente determinata, cioè del Logos, è linguaggio in-determinato, dove l’Essere (dell’ente) può essere pensato come vero oppure non. Dio, quindi, rispetto ai logoi razionali, cioè alle determinazioni positive dell’Essere, è linguaggio originario indeterminato, racconto inclusivo di ciò che è e di ciò che non è, ossia Mito (Verbum). Rimanendo all’inizio di ogni dire sensato o falso, Dio «crea» ogni forma reale, ogni esistenza di ciò che è, ma comprende in sé anche ogni rappresentazione immaginaria, ossia anche la realtà che logicamente non è ma è solo una rappresentazione immaginaria, un «analogon». Dio è dunque pre-sente a ogni realtà ontica, come origine trascendente ogni presente, ogni attualità intenzionale, che lascia essere ciò che è, ossia che si determini liberamente nel suo essere così-com’è e non altrimenti. 228


Ogni oltre essere attuale c’è la sua possibilità in-attuale, e dunque la pre-senza originaria di Dio. E poiché ogni realtà attuale si determina nella sua possibilità presente a fronte di molteplici possibilità possibili e in-attuali, Dio è sempre l’id quo nihil maius rispetto a ogni essere che è, a ogni possibilità ontica, e quindi dello stesso Essere come «intero del positivo». La maggiorità di Dio, dunque, non è nell’essere più di ogni altro essere, ma nell’essere Altro da ogni essere, vero o falso logicamente. L’alterità dio Dio è la Differenza. In questa alterità risiede appunto l’Origine, la pienezza, cioè la possibilità di ogni temporalità e attualità. Il «nulla di maggiore» di cui parla Anselmo è il non-detto di ogni dire, il linguaggio generativo di senso e di non-senso, attività poietica, Poesia, in cui ha «principio e fine». Infatti solo ciò che non ha inizio non ha fine. Dio dunque non è eterna «potenza» bensì in-finita possibilità, Libertà. L’amor Dei intellectualis o la divina mania che scaturisce dalla conoscenza intuitiva è analogo all’»eroico furore» descritto da Bruno, in cui l’uomo consegue appunto la sua libertà. A questo punto appare chiaro come l’affermazione per cui «è meglio essere che non essere», propria della ontologia greca, per la gnosi cristiana vada capovolta a preferenza della maggiore possibilità che rispetto all’Essere ha il Nulla, di cui non si può pensare il maggiore. Infatti il Nulla, che trascende ogni essere, è la possibilità maggiore di ogni attuale determinazione finita, l’In-finito che rende possibile ogni finitezza, facendola emergere da sé, dal Mistero della sua in-finita condizione in-attuale, che è la Differenza. Prendere a fondamento dell’Essere, non già il pensiero che lo pensa, ma bensì la sua possibilità d’essere, significa stornare l’attenzione dal cogito strumentale per riporla all’Origine che è pre-messa di ogni cogitare e fondamento di ogni sapere. Significa, cioè, non partire dal finito, ma dall’In-finito, dal Mystero, che precede la realtà chiara e distinta dei Principi cartesiani, ossia la stessa ragione umana. Cartesio eredita dal razionalismo scolastico, a partire da Anselmo, l’idea dell’intelletto come estensione o quantità, da cui deriva la tesi meccanicista per cui l’universo si riduce tutto a estensione e moto passivo (IV Meditazione). Dio ridiventa il Motore immobile aristotelico che imprime il movimento iniziale, che si trasmette meccanicamente a tutti gli altri corpi o esseri collegati tra loro allo stesso congegno cosmico. Lo sviluppo del cartesianesimo in senso panteistico lo si ha in Spinoza, per il quale Dio, inteso come ciò che non ha bisogno d’altro per esistere, l’assoluto essere per sé, è pensato come «sostanza»,366 che

366

Spinoza, Etica, I, § 3, 16.

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per Cartesio era appunto il «cogito», che noi abbiamo indicato come Verbum. La caratteristica del Verbo, rispetto alla Parola, è la sua totalità trascendente ogni determinazione di senso, la sua in-derivabilità e la sua in-creazione. Se il Verbo (il Dio cristiano) coincidesse con l’Essere dell’ontologia greca, significherebbe, secondo Parmenide, che il Suo essere «è» ma non «diviene», poiché ogni cosa che diviene «non è» (). Come precisa Severino, «questo va detto dell’essere in quanto tale, sia cioè che lo si consideri come la totalità del positivo, sia che lo si consideri come questa povera cosa banale».367 Sicché, nella prospettiva fisicalistica dell’ontologica greca, «l’essere in quanto tale», inteso come la «totalità del positivo», e la «cosa», cioè ogni sua determinazione ontica, sono lo stesso. Questa omogeneità non è smentita dalla metafisica platonica, ma solo articolata nella dialettica idealistica, nella cui polarità l’Idea è intesa come l’essenza degli enti. Il Verbo, inteso come totalità simbolica del linguaggio, è trascendente ogni parola determinata in discorso veicolare di senso, per cui ogni parlato (logos) si costituisce rispetto all’infinità del linguaggio come una determinazione finita, la quale, essa stessa, appartiene a sua volta a un orizzonte linguistico storico di natura anch’essa finita. Ogni orizzonte linguistico storico, per quanto ampio e ricco di determinazioni, potrà costituire soltanto una unità finita, che si rapporterà come orizzonte ideale rispetto al linguaggio parlato del «mondo»,368 cioè rispetto alle singole determinazioni di pensiero, ma il cui senso verbale fondamentale potrà acquisirsi soltanto nella relazione con la totalità trascendente la sua finitezza storica, e dunque nella Differenza rispetto alla totalità infinita, propria del Verbo. In questo senso, il linguaggio del mondo esprime, nella sua determinatezza di pensiero, tanto l’orizzonte ideale della tradizione linguistica storica, che l’orizzonte universale della totalità infinita del Verbo. Nel riferimento all’esclusivo orizzonte ideale, la Parola non potrà che esprimere valori finiti, cioè di senso storicamente mutabile. Ed è questa condizione di storica finitezza del linguaggio del mondo a creare l’istanza ermeneutica della interpretazione filologica dei suoi prodotti spirituali determinati. Ne consegue che la «differenza» storicistica, cioè interna alla finitezza dell’orizzonte linguistico storico, tra «la conoscenza del singolare» e quella «generale e sistematica della scienza dello spirito»,

367

E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., pag. 28. Nel senso di orizzonte linguistico del parlante storico, cui si riferisce L. Wittgenstein quando scrive nel Tractatus che “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” (prop. 5.6). 368

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che Dilthey pretendeva essere «profonda»,369 in realtà è soltanto una relazione dialettica tra l’unità linguistica ideale e i suoi contenuti oggettivati, la quale non potrebbe mai costituire una totalità di senso storico, e dunque in sé in-finita, espressa in una forma determinata e universale che richiami infinitamente le singole determinazioni, ognuna delle quali sarebbe infinita nella sua contingente possibilità de-finitoria. Infatti, una totalità che sia storica, cioè storicamente determinata, è una unità ideale, non reale, la cui pretesa corrispondenza alle singole determinazioni (idealmente) contenutevi è soltanto una astratta inclusione, che appunto astrae convenzionalmente dalla singola condizione in sé concreta. Su queste premesse idealistiche, fondative della moderna sovranità legittimata razionalmente, è stato concepito il rapporto di potere tra i singoli cittadini e lo Stato. Nella prospettiva ontologica cristiana, l’uomo «non è» né sola carne () né solo spirito () ma «è» una «persona spirituale». E dunque il suo divenire oscilla all’interno di una differenza che non è assimilabile alla polarità dialettica in cui si muove il Logos filosofico, che presuppone appunto «la stessa sostanza» dell’Essere e dell’ente fisici.370 La quidditas personale dell’uomo è l’unità esistenziale di una storia animata da quella differenza, che è ontologica, e non logica. Infatti, se l’elemento corporeo della persona è omologo all’essere fisico di ogni ente naturale, per cui c’è disomogeneità sostanziale tra il corpo umano e ogni altro essere vivente in natura, soggetti entrambi alla legge di Necessità che regola la materia cosmica, l’elemento pneumatico appartiene a una realtà che non è fisica ma trascendente l’Essere fisico, rispetto al quale esso non è. Pertanto, se intendiamo l’Essere nel senso fisicalistico della metafisica greca, tutto e solo ciò che è fisico, appartiene all’Essere così inteso, mentre l’elemento pneumatico non è; ma non nel senso logico oppositivo del ni-ente (che per Platone è l’), ma in quello ontologico e radicale del Nulla, sicché, se la totalità di ciò che «è» esistente costituisce l’Essere, ciò che non è fisico semplicemente non è esistente, è Nulla. Se invece intendiamo l’Essere alla maniera cristiana, ossia come realtà spirituale, universale e in-creata e diveniente altro da ciò-che-è, creatrice di tutto ciò che è, e dunque dello stesso Essere, compreso quello dell’uomo, allora Dio non può essere identificato con l’essere naturalistico di Parmenide e della metafisica greca, ma va inteso come

369

W. Dilthey, Die Enstehung der Hermeneutik (1920), tr. it. in Ermeneutica e religione, Milano, 1992, pag. 110. 370 Come afferma Severino, «dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale è una fisica», in Ritornare a Parmenide, cit., pag. 26.

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Persona, allo stesso modo dell’uomo storico, che ne è l’immagine; ma non nel senso del «rispecchiamento» idealistico, tale cioè che l’ente possa coincidere con l’Essere e prenderne il posto, ma nel senso dell’analogon sartriano, essendo ogni uomo una storia singolare, non comprensibile con un concetto entro cui sussumere ogni esistenza umana, come invece avviene per l’ente razionale oggetto del giudizio logico. Ma se l’uomo non è assimilabile all’ente di ragione che si definisce in corrispondenza al suo Essere ideale, che abbiamo detto sia lo stesso di quello naturale, di quale modello l’uomo, la sua vicenda esistenziale, è l’analogon se non della Persona storica di Dio, cioè il Cristo? Un Uomo che vive nella carne della sua fisicità naturale ma anche, in quanto persona, esiste spiritualmente, secondo libertà di coscienza, intenzionalmente. E’ l’intenzionalità l’elemento pneumatico dell’uomo, che coesiste con l’elemento fisico nel rapporto spirituale che caratterizza la sua storia personale col mondo. L’intenzionalità pneumatica dell’uomo non è un istinto naturale, di cui la natura fornisce l’uomo per la sopravvivenza, come risposta alla necessità che vige nelle sue leggi, e dunque come correttivo integratore funzionale a scongiurare la minaccia della morte in cui si riassume la stessa Necessità e alla quale perciò «tutti dobbiamo credere».371 L’intenzionalità umana è il fondamento fidesistico della rappresentazione (Darstellung) del mondo che dà senso (cioè significato intellettuale e direzione morale) alla esistenza personale dell’uomo, che procede, non già come un’entelechia naturalistica, ma come una storia singolare e irripetibile. Lo homo di Terenzio, il cui mondo è la humanitas degli stoici, è la rappresentazione naturalistica dell’uomo quale animal rationale, cioè «politico» e «fornito di parola» (), la cui conoscenza (cogitare) si limita allo scire per causas finalizzato a rispondere alle necessità imposte dalla Natura, ossia alle sfide (challenges) che obbligano all’adattamento per la sopravvivenza biologica, a cominciare dal lavoro. Ma questa Darstellung naturalistica, sulla cui credenza è stata pensata la metafisica greca e costruita la relativa civiltà, non è la stessa rappresentazione ontologica della realtà che ha dato vita alla Weltanschauung cristiana. Nella visione naturalistica antica, non vi era altra ragione che quella di conformarsi alla Necessità, così come in quella moderna non vi è altra libertà razionale che quella di acquisire potere economico utile a far fronte ai bisogni vitali. Ma allora perché l’uomo è stato sempre refrattario ad adattarsi alle leggi di Natura resistendo allo spontaneismo

, antica sentenza attribuita a Simonide. Ved. E. Rohde, Psyche (1893), tr. it., Roma-Bari, 2006, pag. 427. 371

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delle altre specie? Qual è il senso dell’ «irrazionale» comportamento umano? Dodds ricorda che «i Greci erano troppo realisti per non riconoscere il fatto che i malvagi crescono rigogliosi come il verde alloro», per cui per credere nella giustizia divina, intesa come ripristino dell’equilibrio tra giustizia e potere, «era necessario rimuovere il limite temporale segnato dalla morte», e quindi «se si guardava oltre la morte» si poteva pervenire all’esito «che il colpevole fortunato sarà punito nei suoi discendenti, oppure che pagherà il suo debito di persona, nella vita futura».372 Ma poiché il corpo moriva, ciò che ne restava post mortem era una sorta di duplicato psichico, che non era il  omerico, cioè la forza spirituale di un uomo, che moriva perciò con lui, ma la , che Omero e i teologi orfici pensavano fosse una forza esterna che si fosse insediata nel corpo umano come un secondo Io latente, che si manifestava in particolari occasioni in cui «l’Io visibile perdeva coscienza di sé nel sogno, nell’estasi». Diversamente da tali credenze popolari, tramandate dai poemi omerici, i filosofi ionici, cercando «le origini () di tutto ciò che è divenuto e che diviene», chiamarono  «la forza di vivere, la forza di muovere se stessi ed altre cose che di per sé sarebbero rigide e immote [e che] è connaturata ad ogni esistenza».373 Tale forza vitale è comunque funzionale alla , e tutt’al più al , ossia alla relazione che l’uomo ha con la vita naturale e incosciente. La condotta razionale inerisce alla vita cosciente, alla veglia del corpo che interagisce col cosmo, e biunivocamente tra esseri razionali, col cosmo sociale, la polis, la natura umanizzata a misura della esperienza plurigenerazionale. In questo senso, la società rappresentava la risposta politica alla mortalità individuale, che coinvolgeva il problema della giustizia terrena, in vita dei colpevoli. La prospettiva cristiana supera il limite insuperabile al razionalismo filosofico, sia classico che neo-classico o moderno, che giunge a trasfigurare l’anelito della coscienza umana a superare i limiti della finitezza naturale in termini di proiezione ideale del mondo-della-vita depurato delle sue mondane e contingenti imperfezioni. La concezione antica non giunge infatti a darsi ragione per tal via della libertà umana, intendendola come deviazione soggettiva dalla necessità razionale, come ignoranza e aberrazione dal retto sentire indicato dal Logos coltivato dalla filosofia. Il  filosofico è contemplazione, ammirazione (ὰ deriva da ὲ, vedere) della «bella vita» (ὲὸ) degli dèi, i quali «non conoscono le tenebre e

372 373

E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational (1951), tr. it., Milano, 2015 6, pag. 76. E. Rohde, Psyche, cit., pag. 382.

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l’imperfezione che la morte introduce nella vita dell’uomo», poiché per essi «la morte è un nulla o poco più di un nulla, in cui precipitano gli uomini, [sui quali invece] incombe come un’ombra il pensiero che anche le cose più prospere e forti dovranno morire [gettandoli] nella più profonda malinconia».374 Con Pindaro, l’uso metonimico di ὶsostituì il personale ὰ,375 trasferendo così in un topos spazializzato una condizione soggettiva che richiamava in qualche modo quella divina, rispetto alla quale dunque l’immortalità umana rappresentava un analogon. Con la morte del corpo, laὴ rappresentava sia l’uomo alla quale apparteneva in vita e sia il principio vitale che aveva la meglio sulla finitezza materiale, in una colleganza simmetrica tra particolare e generale che si ripresenterà nell’idealismo platonico. Era la concordanza logica dei due elementi, dovuta alla loro omogeneità ontologica, a garantire la loro razionalità in termini appunto di corrispondenza della parte al tutto, sulla quale coerenza era stabilita la condizione di veridicità del principio universale affermato tanto dalla credenza religiosa quanto dal ragionamento filosofico. In questa prospettiva ontologica, ciò che è propriamente umano, - ossia la libertà di devianza dal retto sentire e pensare, e dunque l’intenzione – viene stigmatizzato come elemento spurio del sistema normativo dello spirito razionale, del Logos, il quale corrisponde alla  vitalistica trasferita al piano noetico. Ciò vuol dire che l’elaborazione filosofica del Mito arcaico, conservandone la struttura metafisica, si determina come una sua rappresentazione secolarizzata. Il processo di secolarizzazione del Mito, che si determina come mitologia, agisce sul significato della parola in senso coerente al fondamento epistemico che dà significato al mondo, e di cui la parola sensata, cioè significativa, esprime il senso, cioè il percorso necessario ()) che dal fondamento ontologico giunge alla fondatezza logica, chiudendo il circolo ermeneutico. Tale processo è circolare proprio perché giunge allo stesso punto di partenza, ossia dal fondamento al fondamento giustificato, disegnando una sostanziale tautologia, che è l’esito di ogni discorso fondazionale o dogmatico. Il «dogma» definisce in termini comprensibili alla ragione discorsiva il fondamento di realtà a partire dal quale ha significato il discorso razionale, il Logos. Il dogma quindi esprime la credenza ontologica che legittima razionalmente il discorso e la prassi coerente. Tale credenza

374

B. Snell, Die Entdeckung des Geistes, tr. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino (1963), 2002, pagg. 60-61. 375 Ved. E. Rohde, Loc. cit., pag. 427 n. 417.

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legittimante la parola fornita di senso razionale, consiste nella fede che la rappresentazione (Darstellung) della realtà sia vera anziché falsa. E poiché la rappresentazione della realtà coincide con l’atto di coscienza intenzionale che pone l’immagine della realtà stessa così come l’intende, quella posizione afferma che la realtà «è» anziché «non è», andando così a costituire il principio di realtà, da cui deriva ogni parola fondata (di senso razionale). Con la elaborazione razionale del Mito, il racconto mitico (le storie divine e cosmologiche) perde il suo originario carattere anamnestico per diventare un cifrario simbolico di complesse concettualità, espresse nella semiotica propria alla tecnica del ragionamento iniziatico. Con la scrittura, inoltre, l’aspetto comunicativo del linguaggio perde il suo carattere dialogico, come ben sapeva Platone, sicché nella lettura la comunanza della reciproca relazione significativa viene presupposta anziché conseguita come esito del dialogo, sicché il testo sostituisce la presenza del deuteragonista, in modo tale che il lettore svolge una funzione molto prossima alla celebrazione di un rito liturgico, i cui logoi sono sempre più distanti dal linguaggio comune, segnando una distanza che è al contempo teoretica e fisica, dalla quale si guarda al mondo-della-vita come un mondo altro da quello vero de-scritto. La parola diventa così strumento di controllo della volontà attraverso la definizione pre-scrittiva del pensiero corretto da quella ratio ambita dal discorso filosofico e che è recta rispetto alla parola spontanea e contraddittoria del racconto simbolico del mito. Scoto, che segue l’indirizzo aristotelico per cui i termini lessicali esprimono le idee o concetti, afferma ancora che «nomen vocis debet esse symbolum inter loquentem et cui loquitur, ut res significata (modo quo significata est) sit nota utrique et nomen ut signum rei», ma il «simbolo», però, non è più il phantasma della memoria evocativa di significato, bensì è il termine convenzionale stabilito con valenza erga omnes dal custode esegetico del dogma, il potere ecclesiastico. I logoi pertanto non esprimono più le intenzioni soggettive, la veritas intenzionale presente in interiore homine, ma una oggettiva realtà metafisica, la cui ragion d’essere non è più ispirata divinamente da una intuizione della verità, ma è la natura stessa dell’oggetto, il suo concetto, sicché l’immagine intellettuale che ne deriva attraverso il processo astrattivo ha una sua validità oggettiva, che prescinde persino dalla esistenza reale del suo prodotto, ossia dalla verità che la teoria convenzionalmente rappresenta. Tale immagine intellettuale, che non è altro che una rappresentazione, è il nomen, non più generico e in-determinato dell’analogon soggettivo, inteso come segno univocamente significativo, e cioè universale. «Nomen essentialiter significat rem, sive res sit sive non sit, quia rem repraesentat secundum quod similitudo eius in anima est, et est 235


signum». Se però all’ «anima» sostituiamo il dogma esegetico, che stabilisce ciò che «è» e ciò che «non è» vero, impersonante un’astratta ragione delle cose, la parola non è più il linguaggio della fede, cioè espressione intenzionale, ma diventa cifra simbolica convenzionale ascrittiva di senso e quindi di verità stabilita (da un potere ermeneutico). La razionalità dello Stato moderno, così come fu concepito da Hobbes, si fonda sulla sostituzione del fondamento trascendente del Verbo- la cui indeterminazione di senso esigeva la mediazione ermeneutica theologica, e dunque l’ingerenza nei processi decisionali di legittimazione del Potere da parte dell’auctoritas ecclesiastica- con la definizione unitaria della Parola ideale, la «sovranità», da parte di una fonte normativa, il «popolo», che ne è il depositario e che la rappresenta politicamente. Quando la rappresentazione dell’Ideale politico diventa rappresentanza della sovranità, allora è possibile stabile una correlazione tra mandanti politici e mandatari governanti che chiude il cerchio della legittimazione razionale del Potere, che esautora perciò ogni mediazione di tipo carismatico e trascendente dall’ambito del suo concreto esercizio decisionale. Ma ciò che la rappresentazione razionalistica dello Stato intendeva realizzare come rispecchiamento dell’ideale, ossia la perfetta corrispondenza tra Soggetto e oggetto, ovvero l’identità di Essere e di pensiero, naufraga nella in-possibilità ontologica di sostituire la immagine ideale della realtà finita, immagine anch’essa de-finita, con l’universalità del Verbo trascendente, indefinibile da alcuna Parola, pervenendo perciò al tipico prodotto storico rovesciato rispetto alle originarie posizioni ideali. Infatti, posto il valore politico (Idea), caratterizzato dal conflitto, a fondamento della derivante attività politica (prassi), la rappresentanza formale, mediante elezione, dei rappresetanti opera una sorta di spoliticizzazione del cittadino rappresentato e formale detentore della sovranità, il quale non può esercitare alcuna concreta funzione politica fuori dell’autorizzare elettoralmente i suoi rappresentanti, che invece sono i reali attori politici, che impongono la loro volontà legale – ossia la loro personale rappresentazione della realtà – sull’intero corpo civile e politico. Tale esito dialetticamente opposto alle premesse circa il governo del popolo, dimostra l’astrattezza della moderna concezione razionalistica del Potere. La spoliticizzazione del corpo elettorale reale, cioè dei singoli cittadini deleganti e detentori nominali della sovranità, equivale alla privatizzazione sociologica della legittimità politica, ossia a un ritorno alla aristotelica fondazione pre-politica della libertà civile, basata sul rapporto servo / padrone, che la moderna concezione voleva soppiantare con la teoria identitaria di governanti / governati, rivelano invece la impossibile identità dell’autore popolare, risultato di status privato, e dell’attore politico esercente la libertà dell’auto236


determinazione legale, ossia l’attività eminentemente pubblica dell’esercizio del Potere. Ma questo esito non fa che confermare la natura, non pre-politica ma in-politica della realtà sociale, fondativa del Potere, e non già fondata dallo Stato. L’identità razionalistica di Potere e Stato, nasce dalla riduzione idealistica della sovranità trascendente, di origine divina (omnia potestas a Deo), a forma istituzionale immanente, lo Stato assolutista di diritto, che riverbera la sua autorità politica sulla società, assumendola come oggetto della sua creazione ideale, e dunque politicizzandola attraverso il conflitto derivato dall’astratta legalizzazione formale dei suoi membri, e negandole pertanto la sua realtà originaria, fornita di un suo equilibrio esistenziale, fondato sulla gerarchia dei ruoli sociali. Sicché, volendo scongiurare la lotta tra i membri sociali, ricercando quella «pace» che è il suo fine immanente, il Potere in realtà, assumendo quei membri in senso razionalistico astratto dalla loro concretezza sociologica dei legami morali di gruppo, è creatore di conflitto tra singoli individui, de-finiti «cittadini» dello Stato razionale che li determina come suoi oggetti disponibili perché pensati come reali. La pretesa insita nel principio moderno di rappresentanza, di «rendere presente ciò che per sua natura è assente», secondo la declinazione schmittiana del suo concetto, è possibile nel mandato privatistico, poiché l’assenza qui è appunto «naturale», ossia fisica e contingente. Ma il «suo» della natura divina non è l’ «assenza» provvisoria dell’alteron platonico, che è presentemente ni-ente ma potenzialmente ente; il «suo» della natura divina è la trascendenza, cioè l’in-finitezza differente da ogni possibile determinazione finita. E’ all’interno di questo orizzonte della finitezza che agisce la dinamica della prassi politica, la cui struttura dialettica amico / nemico, funzionale alla sua fenomenologia sociale, non può essere omologabile alla tensione finito / Infinito della relazione ontologica legata alla Differenza. La pretesa razionalistica di sostituire il Verbo trascendente con la Parola legale, e dunque il Governo divino col Potere politico, perde di vista, col fondamento trascendente del Governo, la relazione impolitica servo / padrone ricordata da Aristotile e trascritta da Hegel, la quale, diversamente dalla relazione politica, rappresenta il concreto governo autonomo dell’uomo inserito negli storici organismi etici che per la logica astratta del rapporto Stato ideale / cittadini individui sono «pseudo-concetti» sociologici, la cui realtà invece lo riempie di contenuti esistenziali indipendenti dalla politica, e dunque di natura inpolitica, i quali costituiscono il governo morale della coscienza. Eliminata dalla sfera pubblica la dimensione trascendente del Governo degli uomini, la prassi sociale, investita dalla dialettica politica, si riduce all’economico, soddisfando l’aspirazione universalistica propria 237


del concetto, rappresentata dal Potere di essenza totalitaria. L’immaginario collettivo costitutivo della memoria diventa così immaginario simbolico interno allo spazio ermeneutico definito dal Potere, ossia quella doxa che la filosofia in origine contrastava e che ora essa stessa ha creato in versione pandemica, universalistica. Il circolo ermeneutico del Logos si chiude con un esito paradossale, la cui contraddittorietà appalesa l’assurda pretesa auto-fondativa della gnosi razionalistica, parricida del Mito. Ma sorte migliore non è toccata alla theo-logia, elucubrazione di una religione popolare priva di fede, di intima adesione, già indotta coercitivamente secondo la Necessità del Logos e non lasciata all’arbitrio dell’Agape, quindi avversata e infine ignorata in una società ateistica, il cui principio pratico è l’egoismo utilitaristico, quale esito estremo e inoppugnabile confutazione di una teoresi obliosa della vera universalità, non già dell’Essere, ma bensì trascendente l’Essere. I grandi filosofi tendono tutti a una ri-forma dell’ontologia (Platone, Spinoza, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger), cioè a una ri-definizione del fondamento che superi il nominalismo convenzionale e torni «alle cose», ossia all’incontrovertibile, indicato come Essere, Idea, intelletto, Dio, Natura, Io, etc. Questo ritorno all’arché rivela l’istanza di assoluto che sia fonte di ogni costruzione di pensiero razionale, di ogni «forma» definitoria della realtà di Dio, della Natura, dell’uomo e del mondodella-vita. E proprio tale esigenza noetica rivela l’insufficienza della ragione finita, la vanità della pretesa di auto-fondarsi; analogamente a quella del suo strumento teoretico, il linguaggio, di auto-determinarsi. La dipendenza del Logos dal Mythos è la stessa che ispira quella dell’uomo da Dio: entrambe indicano il limite della finitezza che aspira a trascendenrsi nella relazione con l’In-finito. Indicano cioè che la coscienza intuitiva del mondo è l’atto originario e libero di fondazione dell’Essere, a partire dal quale si svolge il discorso filosofico, che ne dipende quale mito-logia. Ciò significa inoltre che l’elaborazione del Mito sia necessariamente interna al senso comune, anche quando idealmente trasceso nel concetto astratto; senso comune pre-giudiziale che è il contesto culturale dell’esperienza in cui matura la riflessione filosofica, il suo «orizzonte ermeneutico» entro il quale ha senso (significato e insieme direzione logica) la rappresentazione razionale della realtà. Ciò implica che l’origine di ogni Darstellung è prerazionale e, in quanto atto di coscienza intenzionale, creazione libera da ogni necessità logica, e perciò stesso in-razionale e di tipo fideistico. La credenza fondamentale che l’Essere «è» anziché «non» costituisce la fede ontologica imprescindibile di ogni discorso elaborativo di senso, la condizione di ogni giustificazione razionale della realtà. Questo Platone intendeva asserendo che la filosofia fa nascere l’essere dal Nulla, ossia 238


dall’Altro dal Logos, che è la vox Dei narrata dal Mito e creduta vera.  è il verbo greco che indica il credere essere vero. La comunità dei credenti, accomunati dalla stessa fede nel Verbo, elaborato in dottrina () stabilita dal «dogma» theo-logico e salvaguardata dalla Chiesa, l’abbiamo indicata come , che è la realtà cristiana nel mondo, costitutiva dell’orizzonte di senso entro il quale si fondano le rappresentazioni culturali della civiltà europea e dell’intero mondo da essa influenzato.

14. Secondo Scheler, «in ogni spirito umano sano è presente la capacità di considerare gli stessi avvenimenti del mondo secondo prospettive di altezza fondamentalmente differente del suo sguardo spirituale».376 Ciò vuol dire che la pretesa «oggettività» della visione scientifica del mondo è tutta relativa al metodo di analisi interno alla sua prospettiva fenomenistica. La comunanza di ogni prospettiva riguarda soltanto «gli stessi avvenimenti del mondo», a segno che esiste «una» dimensione, per l’appunto avvenimenziale, che costituisce il fondamento esistenziale di ogni distinta prospettiva spirituale. Ed è questa esistenza che, se da un lato libera la realtà fenomenica del mondo dai contenuti della coscienza individuale, dall’altro consente di ritrovare da parte di ogni prospettiva spirituale un suo fondamento comune, a partire dal quale è possibile stabilire la comunicazione e sottrarsi perciò dall’indeterminatezza del solipsismo, irrazionalistico o metodico che sia. Per tanto, il pluralismo delle prospettive spirituali si eleva dal piano fenomenico come ogni analisi razionale dal crogiuolo degli avvenimenti storici. Ma questa possibilità di mantenersi al livello delle distinzioni spirituali senza venir meno alla comunanza dei referenti avvenimenziali, è a sua volta legata, non già al cosiddetto «pluralismo» o «politeismo» dei «valori», che rimanda a un presupposto relativistico proprio della gnoseologia empiristica, ma bensì alla diversa prospettiva ontologica dell’analisi avvenimenziale, tale che il suo comune fondamento esistenziale venga assunto come non riducibile, come vorrebbe il cognitivismo idealistico, a un ente di coscienza, ossia a oggetto del pensiero, ma che tale riduzione sia la conseguenza propria del processo teoretico relativo alla prospettiva trascelta di riferimento. Prima di questa riduzione della realtà avvenimenziale a oggetto del pensiero, la realtà esiste come mondo-della-vita, ossia come realtà complessa e 376

M. Scheler, Die christliche Liebesidee und die gegenwërtige Welt (1917), tr. it. in L’eterno nell’uomo, Milano, 2009, pag. 881.

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razionalmente indeterminata. Il carattere di indeterminatezza razionale del mondo-della-vita è connesso a quello della sua complessità, che sono le caratteristiche proprie della Molteplicità che si oppone all’Unità ideale della realtà. Se dunque l’Unità ideale è conseguibile nella sola coscienza razionale, ossia come idea del soggetto teoretico (trascendentale ed empirico), la molteplicità della realtà avvenimenziale non può essere costituita dalla somma delle attività individuali dell’uomo, come pretenderebbe ogni teoria soggettivistica della conoscenza, ma deve logicamente risultare dal processo stesso della molteplicità, ossia dalla realtà stessa della vita umana come attività pratica, distinta perciò da quella teoretica possibile solo ai singoli soggetti coscienziali. Il soggettivismo gnoseologico, estendendo alla vita pratica i caratteri della unità razionale della coscienza teoretica individuale, alla fine non si dà più ragione della realtà del mondo-della-vita, giungendo a considerarla come un’astrazione o il semplice coacervo di moventi irrazionali la cui gratuita fenomenologia non è che la rappresentazione della loro assurdità e banalità. Da qui l’esigenza di ogni razionalismo di piegarla a una superiore volontà razionalmente diretta a correggerne le storture, ovvero, secondo gli empiristi, a lasciarla essere nella sua imponderabile e incorreggibile spontaneità, interpretata come l’essenza stessa della «libertà». Il pensiero di Gentile è tutto interno alla prospettiva soggettivistica del razionalismo idealistico ed empiristico, per cui la sua analisi della realtà del mondo iniziava dalla sintesi concettuale della coscienza, rispetto alla cui attualità, il mondo non era altro che «natura» informe, pre-categoriale. Non già realtà «altra» da quella oggettivata dal pensiero, avente un proprio distinto statuto ontologico, ma realtà negativa, non-essere spirituale, privo della libertà creatrice propria dello spirito umano. L’atto umano, spirituale, storico dell’uomo, nella concezione idealistica corrisponde all’azione economica della concezione empiristica. In entrambi i casi, sono atti e azioni individuali del soggetto. L’idea universale di soggetto è la soggettività, il cui concetto richiama il fondamento razionale della natura umana. La logica astratta ha esteso l’universalità del carattere razionale del concetto nel campo storicoempirico, facendo anche dell’azione umana un atto razionale, giungendo perciò a concepire la storia come campo fenomenico di eventi razionali, e in quanto tali individuali. Eliminata la differenza ontologica tra eventi soggettivi, di carattere razionale, ed eventi collettivi, di carattere economico, anche la sfera pratica è diventata mondo di realtà delle azioni dei soggetti razionali, la cui collettività è solo l’intreccio armonico di singolarità individuali. Sicché, la razionalità, carattere proprio dell’evento teoretico, diventa, 240


nella prospettiva razionalistica, il fondamento anche di ogni agire pratico, per cui la storia intesa come processo di azioni soggettive diventa la rappresentazione di eventi individuali tutti razionali, in cui non si distingue più l’essere ideale, e in quanto tale razionale, dall’essere sociale, volto alla vita economica dei gruppi umani, cioè alla conservazione biologica della specie. La prospettiva soggettivistica, rendendo assoluto l’atto umano anche nel crogiuolo del contesto socioeconomico collettivo, ha eliminato la differenza tra l’ideale-razionale è il pratico-utile, uniformando astrattamente l’azione sociale, collettiva, all’evento di pensiero, per definizione individuale. Ora, dove tutto è spirito, niente è razionale, poiché l’affermazione dell’atto spirituale come evento razionale si fondava sulla sua distinzione rispetto al comportamento normale legato alle esigenze della sopravvivenza umana, a partire dalla vita sociale. Da qui la conversione del razionalismo astratto in irrazionalismo culturale, pervasivo di ogni ambito spirituale e sociale, e l’universalizzazione dei processi produttivi e trasformativi dell’economia umana a criterio assoluto di valutazione dell’agire razionale. Il «valore», da concetto economico, diventa parametro di commisurazione di ogni attività umana, e criterio stesso della sua razionalità spirituale. Il concetto di soggettività, assolutizzato e confuso con quello genericamente antropologico di razionalità, viene ridotto razionalisticamente a quello della convertibilità economica di ogni prodotto spirituale dell’uomo, il cui «valore» è appunto assunto nei termini relativi alla sua convertibilità economica. Pertanto, ciò che ha «valore» universale non è più il prodotto ideale, che, diversamente da quello pratico, caratterizza la soggettività spirituale, ma il prodotto economico, che sulla convertibilità universale poggia il suo valore specifico e relativo, e in quanto tale soggettivo. Soggettività e universalità diventano dunque caratteri del prodotto umano razionale, ossia universalmente convertibile in qualunque altro prodotto. Il prodotto umano universalmente scambiabile è il denaro, la cui astratta determinazione di valore costituisce la massima espressione della razionalità umana. Talmente astratta, che può prescindere dalla stessa soggettività, diventando così assolutamente impersonale e valida in sé. Non a caso il valore assoluto del denaro prescinde sia dall’uso che dall’utente, essendo esso la fonte di trasmissione del valore. Se dunque l’idea universale doveva necessariamente riferirsi al suo soggettivo creatore, ed essere limitata dalla storicità della sua produzione culturale, il prodotto della astratta universalità razionalistica realizza ciò che all’idea non era consentito, ossia la stessa impersonalità, che è appunto la negazione della stessa soggettività, costituendosi insieme come l’assoluta negatività e l’assoluta razionalità. Va da sé che la negazione della soggettività coincideva con la negazione dello stesso pensiero, ossia della spiritualità teoretica dell’uomo, che l’aveva caratterizzato culturalmente 241


rispetto alle altre specie viventi, biologicamente determinate alla prassi economica, e quindi incapaci di trascendere l’azione finalizzata alla sopravvivenza. Il razionalismo, facendo dell’economia una scienza razionale universale, ne annulla la differenza ideale rispetto all’agire spirituale, e volendo emancipare l’uomo dalla simbiosi con la Natura rendendo ogni sua azione finalisticamente razionale, lo assoggetta alla natura artificiale dall’uomo stesso creata, la società economicamente concepita come reticolo di interessi individuali auto-gestiti dall’uomo, o come individuo indipendente dalla società, e perciò «libero», ovvero come membro della comunità socio-economica collettiva, la sola a potersi definire propriamente «libera». L’individualismo e il collettivismo sono i due aspetti del razionalismo astratto e dell’assoluto soggettivismo, l’uno di tipo anarchico e l’altro di tipo totalitario, ma perfettamente convertibili reciprocamente a seconda della prevalenza di una o altra declinazione ideologica. Ora, esattamente il problema della convertibilità è stato l’oggetto della riflessione di Scheler, il quale, a proposito della prima Guerra mondiale, per rappresentare l’immane tragedia morale del conflitto tra nazioni cristiane, parla di «disfatta del Cristianesimo», ovvero di «abrogazione del discorso della montagna». Che la cultura europea abbia radici cristiane, è un fatto. Che l’Europa stessa si chiami «cristiana» e che da 2000 anni pretenda di educare i suoi figli secondo i principi cristiani, è un fatto. Ed è un fatto che uno dei risultati, uno dei frutti di questa educazione cristiana quasi bimillenaria, è una barbarie, come il mondo non ne ha mai viste, condotta con tutti i mezzi dell’intelletto, della tecnica, dell’industria, della parola. Questo, e solo questo, è il fatto che mi interessa. Questo chiamo «abrogazione del discorso della montagna» […].377

Questa «situazione complessiva di corruzione morale» è assimilata a quella di una «famiglia», dove essa è in primo luogo un tutto indivisibile – indipendentemente da come si è formata, indipendentemente da chi ne è colpevole: se il padre, la madre, il trisavolo o chissà chi. Ogni esperienza umana più profonda insegna che una tale colpa dei gruppi e della totalità non può mai essere completamente suddivisa nella colpa dei singoli. Ogni esperienza attenta insegna che proprio ogni penetrazione più profonda nelle relazioni morali dei membri di una simile famiglia porta alla luce la reciprocità inafferrabile della colpa, tanto

377

M. Scheler, Op. cit., pagg. 883 e 885.

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più quanto la penetrazione è profonda.378

Il concetto cristiano di «colpa collettiva» non va, per Scheler, considerato nel solo ambito dogmatico e circoscritto al solo «genere umano», ma anche «in relazione all’epoca, agli ambiti culturali, ai popoli», in modo da considerare cristianamente «anche l’anarchia europea di questa guerra, o meglio di questa guerra rivoluzionaria, come fondata sulle colpe collettive ed ereditarie degli ultimi secoli di storia europea».379 Ma, aggiunge, solo «il non credente più radicale» può confondere il «fallimento del cristianesimo» a opera degli uomini con il fallimento della «morale cristiana», cioè con «l’ideale stesso di vita cristiana», considerata inopportuna per la «natura dell’uomo», dalla quale «pretende ciò che l’uomo non può dare», e perciò quell’ideale andrebbe ragionevolmente «sostituito da un ideale diverso, più onesto, più attuabile». E così, non potendo cambiare l’uomo, bisognerebbe cambiare piuttosto «i criteri morali stessi».380 Tuttavia, questo argomento è per Scheler, fallace e «degno di biasimo» anche quando può avere dalla sua «delle ragioni», in quanto a suo dire, per quanto l’idea chiara ed evidente del bene possa essere colta anche nel suo contenuto – cristianamente o non cristianamente -, mai essa può essere abbandonata solo per il fatto che gli uomini non la realizzano. L’ideale non può mai essere adattato alla realtà e ridotto al suo livello. Il bene deve essere – anche se non si realizzasse mai e in nessun luogo, dice giustamente Kant. Ciò è insito già nella sua natura formale – non solo nel contesto che il comandamento cristiano dell’amore gli conferisce. Se l’ideale cristiano è una teoria falsa, ciò non può essere per il fatto che l’uomo finora ha soddisfatto così poco questo ideale o perché lo ha addirittura calpestato. Certo, sempre si è data questa tensione tra le leggi terrene della vita politica e sociale e il grande comandamento. Ma, per prima cosa, la tensione è una cosa diversa dalla conversione nell’opposto. Tra le due cose c’è una differenza essenziale, non quantitativa. 381

D’altronde, la stessa differenza «non deve frantumare la nostra unità vitale in due pezzi, in due metà», tali che la parte corporea segua «gli istinti del potere e dell’orgoglio», mentre come anime siamo chiamati ad aprirci «ai beni celesti solo nella fede o nella cosiddetta ‘intenzione’». Questa «falsa strada» che opera una separazione «tra Dio e mondo, tra

378

Ivi, pag. 885. Ivi, pag. 887. 380 Ibidem. 381 Ivi, pag. 889. 379

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anima e corpo, tra intenzione e azione, tra fede e opera, tra libertà esteriore politico-sociale e libertà ‘interiore’, e anche scissione tra politica e morale’», costituisce per Scheler «il pericolo specifico dello spirito germanico», la sua «tara ereditaria» che l’insegnamento del «protestantesimo luterano» ha consentito si diffondesse a livello dottrinale.382 La questione, come si può intuire, è del tutto analoga a quella della «doppia verità» professata dalla dottrina cattolica, per cui l’attribuzione di Scheler allo spirito tedesco appare una forzatura polemica rispetto all’esigenza luterana di accreditare lo spirito dell’intenzione rispetto allo spirito dell’apparenza che animava la prassi ecclesiastica romana. Ma il punto decisivo riguarda la frattura interna alla morale cristiana tra la dimensione interiore, e cioè soggettiva, e quella esteriore, pubblica, politico-sociale, sottratta pertanto alla morale cristiana e abbandonata «al mero attacco e contrattacco delle forze terrene, insieme ad una politica di potere machiavellica».383 La questione morale dell’Europa moderna verteva dunque sulla ricomposizione della frattura intervenuta all’interno della sintesi cristiana, in vista di un risorgimento della civiltà europea nel segno dello spirito cristiano. Se infatti evitiamo questa falsa rinuncia all’autentico innesto dello spirito cristiano nell’esistenza pubblica e visibile, dunque anche nella realtà delle relazioni umane collettive, allora ai non credenti che intendono il «fallimento del Cristianesimo» in modo tale da rivolgere l’accusa alla morale cristiana stessa, dobbiamo rispondere che per questo innesto (Einbau) abbiamo davanti a noi ancora una smisurata storia futura, e che il Cristianesimo – se confrontato con le altre istituzioni terrene – è certamente antico, ma ancora giovane e nuovo per tutti coloro che hanno compreso con chiarezza il senso di durata che i valori religiosi possiedono per essenza, rispetto ai valori della cultura in generale.384

Se la cultura secolarizzata non riduce il «comandamento dell’amore», o meglio, non lo «indebolisce», fino a farne una «superficiale morale del benessere», escludendolo da «ogni realtà pubblica», allora la sua eterna attualità consente di giudicare la vicenda della «storia europea» come una autentica «aberrazione», che coinvolge, a secondo della prospettiva, tanto «coloro che amministrano la legge cristiana», ossia «le Chiese» e i loro rappresentanti, quanto l’atteggiamento di «apostasia» da esse assunte di 382

Ibidem. Ibidem. 384 Ivi, pag. 891. 383

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fronte al «mondo moderno», a significare che la questione in oggetto sia se «il cristianesimo è ancora il potere spirituale che di fatto guida in Europa, o non lo è». Se è ancora il potere spirituale di riferimento, se è tuttora il nucleo e la sostanza dello spirito complessivo europeo, allora il cristianesimo ha fallito, almeno nei suoi rappresentanti e nelle grandi istituzioni che lo rappresentano. Solo se e nella misura in cui – cosa che sarebbe da dimostrare – il cristianesimo avesse perso questo suo ruolo guida, se lo avesse dovuto cedere ad altre potenze spirituali a lui nemiche, […] questa accusa potrebbe essere a buon diritto respinta e mutata nell’altra accusa secondo la quale non è il Cristianesimo ad aver subito questo fallimento, ma lo spirito moderno a lui nemico.385

La complessità del problema morale dell’Europa moderna impedisce di ridurre la questione del fallimento cristiano a singoli Stati, che si accusano reciprocamente in quanto nemici, inerendo essa «l’orientamento fondamentale della storia dell’Europa» che ha condotto alla Guerra. In questo orientamento «comune», che coinvolge tutta l’Europa cristiana, aggiunge Scheler, la Germania va inclusa, senza però alcuna prerogativa di colpevolezza esclusiva. Un’analisi seria deve partire dall’onesto riconoscimento che «in Europa l’ethos cristiano non è più il potere spirituale trainante», per quanto sia vivo dottrinalmente, poiché esso «nella pratica» è trasgredito, e di conseguenza il suo «potere morale non è più la potenza vivente che orienta e conduce la vita pubblica e culturale dell’Europa». In altri termini, la trasgressione, che «c’è sempre stata», non è limitata e circoscritta a casi individuali e temporanei, ma investe « i criteri, gli ideali, le norme cristiane stesse» regolatrici della «attività» umana, le quali norme «non animano né guidano più lo ‘spirito oggettivo’ che prevale nelle opere, nelle forme, nelle istituzioni, nei costumi» della vita europea, avendo ceduto «il timone» della coscienza europea all’«ethos dello spirito moderno specificamente borghese e capitalista».386 Questa determinazione storica di responsabilità morale apre però la delicata questione della possibilità di incolpare di un processo storico, se non le Chiese e i singoli Stati cristiani, un indirizzo culturale che, per affermarsi su quello cristiano, ha dovuto misurarsi nei termini del suo accreditamento morale e intellettuale presso i popoli già cristiani e le loro classi dirigenti. Se, infatti, il complessivo «orientamento» è il risultato storico di una «tensione» morale di forze concorrenti all’egemonia 385 386

Ibidem. Ivi, pag. 895.

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«religiosa» dell’Europa, come si può non coinvolgere in quel risultato anche la posizione delle forze cristiane che hanno perso la loro supremazia? Come si potrebbe, insomma, considerare «complessivo» il fenomeno del «fallimento» cristiano, e quindi definirlo nei soli termini del suo risultato e non anche in quelli delle sue premesse, che in tal caso coinciderebbero per rovesciamento di prospettiva storica con l’effettivo esito? L’etica capitalistica si è affermata su quella cristiana superandone le resistenze, per cui la nuova egemonia è il portato dialettico di una tensione ideale di forze morali antagonistiche, le quali si sono vicendevolmente influenzate, oltre che combattute, essendo entrambe originate da una comune matrice antropologica, cioè storico-culturale, come del resto lo stesso Scheler in qualche modo implicitamente ammette rilevando che «questa guerra ha svelato – non creato» la «sofferenza della coscienza cristiana» di fronte al diverso indirizzo morale delle classi dirigenti europee.387 Scheler, per indicare la perdita di centralità in Europa dell’ethos cristiano incentrato sul comandamento dell’amore, enumera una serie di «poteri spirituali di tipo assai diverso», i quali, «nel corso della storia», hanno collaborato alla sua «eliminazione»: l’umanitarismo, l’individualismo o il socialismo, l’assolutismo statalistico anti-feudale, il nazionalismo politico e culturale, l’autonomia della cultura rispetto alla comunità culturale cristiana, le divisioni sociali in classi economiche, l’economicismo capitalistico borghese. Tali forze «non sono controllate da nulla, ma si sviluppano senza alcun vincolo nella libera concorrenza, unicamente entro i confini del punto di vista di ciò che è opportuno per lo stato».388 Ciò significa che lo Stato, ossia l’organismo politico, assumendo nel proprio ambito le varie e diverse manifestazioni delle attività umane, ha sostituito la comunità religiosa, facendo del suo ethos il criterio morale della socialità alternativa a quella etica cristiana. Solo, infatti, entro la cornice etica dello Stato è possibile che i diversi e opposti «poteri spirituali» possono convivere dialetticamente e armonizzarsi. Ma perché questo sia possibile, deve presupporsi, al di sotto della varietà e conflittualità dei singoli poteri, una loro essenziale omogeneità di principio, costitutiva della loro unitaria assunzione come elementi ideali dello Stato. Qual è questa fondamentale essenza ideale dello Stato moderno, sostitutiva dell’essenza etica che sosteneva lo Stato cristiano? Dobbiamo tener conto, a proposito delle caratteristiche ideali della cultura moderna, sia del fondamentale «oggettivismo» scientifico, così tanto criticato da Husserl, che della tendenza socio-politica pianificatrice

387 388

Ibidem. Ivi, pag. 897.

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propria del razionalismo, messa in luce sia da Popper che da Mannheim, con opposte valutazioni di merito.389 Tali caratteristiche dell’oggettività e della pianificazione sono aspetti collegati e coerenti della metafisica razionalistica moderna, la quale, partendo dal soggettivismo della coscienza ideale, lo ha convertito nell’oggettivismo della realtà sociale, in virtù si quella trasformazione ontologica ormai a noi nota, di cui ciò che Scheler ha indicato in termini cartesiani di «scissione tra anima e corpo» è solo il presupposto metafisico, ma non l’esito deontologico che ha perseguito l’etica razionalistica contro la tradizionale etica cristiana. La razionalità moderna, perseguendo il disegno realistico di emancipare il sapere dalla fonte metafisica tradizionale, che aveva saputo operare una sintesi religiosa tra l’ontologia greca e il personalismo creazionistico della teologia ebraica nel paradigma cristiano, e che nell’etica dell’amore trovava il suo referente dogmatico normativo, tese a ricuperare, ai fini di tale emancipazione, l’oggettivismo del naturalismo greco, in polemica con ogni tentativo idealistico di riproporre il creazionismo di origine teologica in chiave soggettivistica. Per cui lo scientismo moderno, quale forma aggiornata di oggettivismo, si definiva in alternativa teoretica con ogni forma di soggettivismo, sia intuizionistico che logicistico. E’ pur vero, come ha ricordato Mannheim, che la elaborazione in chiave soggettivistica del pensiero moderno è successiva alla crisi dell’oggettivismo scolastico di origine aristotelico-tomista, ma tale oggettivismo non va disgiunto dalla sua matrice teologica, il cui creazionismo costituiva la premessa epistemica di ogni ontologia e gnoseologia cristiana. In questo precipuo senso, la metafisica oggettivistica della filosofia cristiana era l’ancella della sua teologia fondamentale. L’oggettivismo scientistico costituiva invece il prodotto teoretico di un naturalismo epurato di ogni creazionismo teologico, ossia del tradizionale fondamento epistemico del pensiero filosofico, rispetto al quale si definiva come l’erede anti-metafisico, ossia anti-teologico e antiidealistico. Un pensiero ha valore «oggettivo», contrapposto a «soggettivo», nel significato che esso non ha origine dal soggetto (divino o trascendentale che sia). E ciò che non dipende dal soggetto ideale è quanto il soggetto non ha creato, e che perciò è indipendente dalla sua volontà. Lo scientistico moderno declina il suo oggettivismo o in termini strettamente naturalistici e biologistici, per cui il mondo non è una creazione divina ma un processo di infinita trasformazione molecolare;

Questi aspetti sono stati oggetto di separati studi dell’A. qui richiamabili solo per accenno, in quanto ancora inediti. 389

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ovvero nei termini dell’oggettività sociale, per cui ciò che non ha creato il soggetto ideale è il prodotto sociale, collettivo, di un popolo, di una civiltà o dell’umanità intera. Sia il sociologismo che lo storicismo tendono a coniugare in una nuova sintesi razionale sia l’istanza oggettivistica dello scientismo che il motivo spiritualistico legato all’antropologia platonico-cristiana, concependo, a seconda delle correnti di pensiero, la realtà oggettiva o come il prodotto fenomenico di un soggetto collettivo – la classe, la società o la storia -, ovvero come l’orizzonte esistenziale di forze impersonali e indeterminate che muovono i processi collettivi. In ogni caso, il fondamento epistemologico dello scientismo è l’oggettività quale termine di misura della conoscenza universale, ossia di ogni pensiero dotato di senso razionale, relegando nel «soggettivo» ogni altra umana esperienza di vita e di pensiero. Ciò che non è atto di creazione soggettiva è prodotto razionale del lavoro socializzato, ossia razionalizzato. «Razionalizzare» vuol dire dunque «oggettivare» il prodotto individuale rendendolo parte funzionale e organica del processo produttivo del lavoro socializzato. In questo contesto di oggettività, il carattere «individuale» della produzione razionalizzata e socializzata non ha nessuna attinenza col significato filosofico della «soggettività», che è concetto legato al paradigma creazionistico di origine teologica, per cui va nettamente distinto l’individualismo scientistico dal soggettivismo idealistico. «Razionalizzare», in termini razionalistici, significa «spersonalizzare», cioè emancipare, svincolare, il prodotto di valore sociale dalla dipendenza della volontà del soggetto personale. Nello stesso senso, «razionalizzare» significa liberare il prodotto umano dall’aleatorietà della volontà soggettiva, ossia dalla dipendenza dalla sua libera determinazione volitiva, dal suo libero arbitrio. L’organizzazione della vita moderna su basi razionali si fonda sulla progressiva e sistematica riduzione del libero arbitrio dei soggetti morali, assunti solo nel loro valore economico di individui socializzati, quali elementi sociali dell’attività produttiva. La socialità moderna, dunque, si definisce in termini alternativi alla comunità religiosa, attraverso la razionalizzazione delle attività lavorative dell’uomo socializzato, la cui condotta doverosa è legata, non a comandamenti morali, né la sua virtù a una libera conversione spirituale, ma a norme ordinamentali pubbliche, nella cui osservanza si realizza socialmente ogni virtù etico-politica. Così, al percorso interiore del soggetto coscienziale verso la sua redenzione morale, non giudicabile compiutamente da umano tribunale, si sostituisce modernamente la funzionalità individuale al processo produttivo del lavoro socializzato, la cui «virtù» è di valore oggettivamente economico, e sempre commisurabile ai parametri mondani. La oggettività, dunque, non va 248


intesa solo come esteriorità delle forme istituzionali storiche dello spirito, ma anche, e soprattutto, come assicurazione morale, legata alla prevedibilità razionale dei comportamenti umani socializzati e legalmente diretti. In questo senso, tutto l’impianto di razionalizzazione della moderna struttura sociale è una «politica di piano», come l’intendeva Mannheim, ossia una forma di controllo progressivo dei comportamenti umani conformati a un modello di condotta «razionale», cioè prevedibile per moventi e conseguenze. Da questa fondamentale istanza di razionalizzazione dei comportamenti e quindi dei controlli sociali, nasce la risposta dello Stato legislatore moderno, il quale, occupando tendenzialmente ogni aspetto della vita umana ritenuto afferente alla esigenza d’ordine sociale, giunge al totale controllo della sua esistenza, costituendosi pertanto come Stato totalitario. La premessa morale di tale controllo dei comportamenti umani è che l’uomo sia un essere interamente dipendente da se stesso in quanto «responsabile» delle sue azioni, ossia libero di determinarsi come attore. Nella prospettiva razionalistica, tale fondamentale abilità di rispondere delle sue azioni, fa dell’uomo un potenziale eversore dell’ordine pubblico, che va di conseguenza neutralizzato. Ma il punto essenziale è che tale premessa stessa si fonda a sua volta su una visione antropologica del tutto emancipata da ogni referente naturalistico e divino. L’uomo libero e razionale è sostanzialmente solo con sé stesso e con la sua libertà. Nella prospettiva razionalistica, la libertà dell’uomo diventa solitaria. L’umanesimo moderno, rispetto al naturalismo antico e al cristianesimo dell’età di mezzo, fa dell’uomo un ente cosmicamente separato, e perciò fondamentalmente infelice e tendente alla felicità, ossia al suo benessere. L’attenzione verso le sorti dell’uomo sono dunque funzionali alla sua primaria esigenza di provvedere a colmare la sua mancanza di benessere, cioè di appartenenza all’universo cosmico. La cultura umanistica moderna si definisce come una cultura del rimpianto, della malinconia, della solitudine quale motivo di fondo dell’esperienza antropologica dell’uomo emancipato da Dio e dalla Natura. E da questa condizione umana nasce l’esigenza di fraternità e solidarietà, cioè il motivo umanitaristico, che fa coincidere il fine etico con la stessa filìa per la «umanità» come benessere di tutti i viventi. Il concetto razionalistico e umanistico di «benessere» ha una accezione del tutto eudemonistica e mondana, che è opposta a quella cristiana di beatitudine come perfezione spirituale. A partire dall’idea stessa di «umanità», intesa ora «solo nella sua coesistenza temporale [di] coloro che di volta in volta sono viventi, non i gruppi umani nella loro esistenza storica interdipendente e non sullo sfondo di un ordine ultraterreno che comprende anche le anime dei defunti», per cui l’ ordo amoris cristiano, che ruota intorno al «sacrificio», quale «atto spirituale di valore supremo 249


che nobilita infinitamente l’uomo e lo rende uguale a Cristo», viene modernamente a perdere il suo valore teleologico di ricerca della perfezione morale, per declinarsi come «mezzo per aumentare il benessere e la felicità sensibile dell’uomo o di gruppi di uomini».390 Definire il benessere in termini sensibili, anziché spirituali, priva la sua ricerca di ogni indeterminatezza spirituale, per cui lo stesso concetto di «amore umanitaristico per l’umanità», emancipato da ogni riferimento ultraterreno, si concentra sulla parte più materiale della prosperità umana, non desiderandola «in funzione dell’amore e della capacità di amare dell’uomo […] ma, al contrario, reclama l’amore in funzione del benessere». Ne consegue che «l’autentico concetto dell’amore come sacrificio è distrutto fin dalle fondamenta e l’ethos cristiano dell’amore è sostituito da un ethos del benessere terreno».391 Ma quale valore teoretico attribuire a concetti come «rivolta contro Dio» e «distruzione dei valori umani»? Per quale ragione il «moderno amore per l’umanità» si traduce in «una passione fortemente rivoluzionaria, ribelle», che «livella tutte le differenze di valore oggettivo di ciò che è umano»?392 La «rivolta» rimane inspiegabile senza il «passaggio» dell’ordine già ritenuto «oggettivo» e intangibile perché «sacro», in un ordine degradato a valore «soggettivo», opinabile, e quindi «profano». In altri termini, è cambiato il «principio della connessione di tutti i fenomeni», come lo chiama Lukàcs,393 che il razionalismo moderno identifica con la loro calcolabilità o prevedibilità, assunta come indice del loro valore razionale. Come poteva questo assunto non entrare in collisione diretta con ogni forma di teodicea e di ordine regolato in base a una imponderabile volontà divina? L’emancipazione da Dio, dalla sua volontà era dunque la premessa di ogni controllo assolutamente umano del mondo, per cui sia la «rivolta» contro la legge di Dio, che la «distruzione» delle istituzioni umane a essa conformi, sono aspetti complementari e reciproci di un unico processo ideale, a un tempo metafisico e storico, di trapasso da un universo sacrale a un altro universo, che è profano rispetto al primo. Dal nuovo paradigma ontologico consegue la necessità morale, il fondamento deontologico, di uniformare ad esso il mondo, trasformando il vecchio nel nuovo valore di senso, il cui principio di ragione fa considerare l’antico come irrazionale. La ragione del mondo nuova si fonda dunque sulla abiura della ragione antica e la fede nel nuovo principio razionale. La «rivoluzione» non è che 390

M. Scheler, Loc. cit., pag. 899. Ivi, pag. 901. 392 Ibidem. 393 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, passim. 391

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il rispecchiamento della realtà storica al modello ideale prospettato dal nuovo principio connettivo, indicativo della nuova razionalità universale. Rousseau, rispetto a Robespierre e a Marat, rappresenta il principio della esclusione della nuova coscienza critica dall’universo morale tradizionale, in cui essa non riesce a riconoscersi e quindi a integrarsi socialmente. Il motivo rivoluzionario, impersonato dai due altri personaggi citati da Scheler,394 è l’atteggiamento pratico coerentemente conseguente a quello ideale della dis-integrazione dell’ordine tradizionale, avente a oggetto la costituzione di un nuovo ordine mondano. Non cogliere dell’atteggiamento ideale di Rousseau che un «pathos dei sensi», non scorgendo dietro di esso «l’atto spirituale» che ne è all’origine, significa non comprendere la stessa genesi spirituale del processo moderno di razionalizzazione, ossia la sua scaturigine, sia pure dialettica, dalla crisi delle forme ideali costitutive dell’ordine cosmico cristiano. Senza la considerazione di questa crisi formale, relativa alle ragioni filosofiche della fede nei fondamenti teologici, lo stesso universo cristiano, costituito dalla sintesi del creazionismo biblico e del pensiero filosofico classico, diventa una realtà idealmente ipostatica, razionalmente non più giustificabile, e solo storicamente reale, e perciò trasformabile ad arbitrio umano. Ciò vuol dire che la fede nella inviolabilità del cosmo sacralizzato dipende dalla sua giustificazione razionale, ossia dalle ragioni addotte a giustificazione di quella inviolabilità, fornite dalla ragione umana. Questa ragione umana, assegnando a se stessa un valore di fede, è essa stessa ragione divina, consustanziale alla dimensione sacrale dei suoi contenuti ideali, per cui essa torna a concepirsi quale forma umanistica di pensiero nell’atto in cui si scinde dal suo legame teologico con la fede, la quale a sua volta, perdendo le sue giustificazioni umano-razionali, diventa mera espressione dogmatica di forme apodittiche. In questi casi, la fede in Dio e la ragione umana tornano a disgiungersi dal loro universo metafisico, e a separarsi in due configgenti universi ideali. Con la crisi della sintesi cristiana, la ragione umana riprende i suoi sentieri del giorno, illuminando la vita dell’umanità pensante, mentre la fede religiosa ritorna alle ombre dell’antica notte dei tempi, quando Dio e gli dèi pagani giocavano agli scacchi il destino degli uomini. In questo nuovo clima di separazione della coscienza umana, la ragione deve fermarsi alle soglie della sera, lasciando l’uomo nella paura del temporaneo mistero del buio, lasciando il passo alla sola fede, che vale anch’essa quanto il tempo di durata del buio. Ma che ragione è mai quella che si arresta di fronte ai suoi problemi? E che fede sarà mai quella che

394

M. Scheler, Loc. cit., pag. 901.

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rifiuta di valere alla luce del giorno? Torna a proposito tutto il senso profondo dell’immagine hegeliana della nottola di Minerva, che spicca il volo sul far della sera, portando la luce della ragione dove la sola fede annega nelle ombre, ingiungendo all’una e all’altra di non separarsi essendo parti consustanziali del tempo. Si può ben dire che il dominio moderno della scienza nasca da tale dissociazione ontologica tra sapere razionale e fondamento fedele, così che il razionalismo è il prodotto della separatezza della ratio dalla fides, cioè nasce dalla destrutturazione della sintesi cristiana. Se la ragione priva del fondamento epistemico della fede porta all’Illuminismo e al realismo, che sono le dimensioni tipiche del razionalismo moderno, la fede senza il supporto della ragione conduce al fideismo e all’irrazionalismo, che del moderno rappresentano la reazione più radicale. Che i due termini della dissoluzione cristiana siano in relazione, lo comprova proprio l’esperienza intellettuale e umana di Rousseau, per un verso proteso verso un realismo sociologico, e per l’altro verso un individualismo spiritualistico. La sua vicenda dimostra che la relazione dei due termini non solo ha un’origine comune ma è intercambiabile, sicché dall’individualismo si passa al collettivismo democratico semplicemente proiettando nel sociale la forma strutturale del pensiero soggettivo. D’altronde, come sarebbe possibile concepire un «passaggio» ontologico senza la mediazione ideale di un termine comune ai due elementi? Tale elemento comune e mediatore è la negazione, ossia l’idea del negativo come termine di possibilità che l’Essere è in quanto opposto a ciò che l’Essere stesso non-è. La negazione esprime dunque la possibilità che l’essere non sia ciò che appare come Essere, ma altro. Questa possibile toglie all’essere ogni sua necessità, destinandolo al mutamento. Un essere che può non-essere, è, nella sua libertà, un essere non necessario, cioè possibile. La possibilità costituisce l’essenza trascendente a ogni forma immanente dell’Essere, ciò che rende precaria ogni sua sussistenza temporale. L’idea che l’Essere abbia in sé la possibilità di non essere ciò che è, fa dell’Essere stesso una forma incompiuta, che per completarsi richiama incessantemente l’altro-da-sé, il suo negativo. Questo appello all’altro, che per Platone è al fondamento di ogni teoria, nella dimensione cristiana diventa il rapporto di consustanzialità dell’anima umana a Dio, senza il Quale ogni definizione antropologica risulta astratta, perché poggiante su una sussistenza ontologica che prescinde dal suo negativo, cioè su una immanenza senza trascendenza. E poiché un Essere concepito come in sé sussistente è per ciò stesso rappresentabile come l’opposto all’Essere che è invece trascendente, la sua sussistenza è in sé negativa, tale cioè che il suo essere sia essenzialmente un Essere negativo, un essere-non. Ma proprio in virtù di questa sua essenza negativa, l’essere tutto252


mondano dell’ontologia moderna può essere concepito come il rovescio di ciò che è, ossia il suo opposto, per cui l’apoteosi dell’ateismo di un mondo desacralizzato trasformarsi nella sacralizzazione della realtà profana. E questo movimento pendolare di oscillazione tra Essere e nonEssere costituisce il tratto caratteristico della cultura moderna, sospesa tra un razionalismo dell’intenzione e un misticismo dell’azione, ovvero tra una forma ideale di libertà assoluta e una forma riflessa di assolutismo reale. Nel rapporto predicato da Lutero tra «l’anima singola e il suo Dio», tutti i legami sociali furono intesi come la conseguenza del reciproco rapporto, e perciò «sottratti, non tanto a una sanzione religiosa a posteriori, ma alla guida e direzione precedente, attraverso il comandamento di salvezza dell’amore», e quindi abbandonati «alle forze, alle passioni, agli istinti dell’uomo puramente naturale».395 «Naturale» è la condizione dell’uomo privo di «amore», ossia di legami con la sua essenza trascendente. La condizione «naturale» è dunque l’esistenza dell’uomo come essere biologico, senziente e razionale entro la sua dimensione immanente, che è l’Essere-non. Quanto alla «distruzione» degli istituti umani tradizionali, si cominciò dalla Chiesa, espressione massima del «principio di salvezza solidale», la cui finalità irenica fu interpretata dal protestantesimo «non come una via ugualmente necessaria e ugualmente originaria verso Dio e la salvezza [ma] solo come conseguenza della salvezza già ottenuta da ogni individuo», con la conseguenza inevitabile che «la distruzione del principio e del sentimento di solidarietà doveva per così dire diffondersi sempre più a tutti i tipi di comunità», i quali, si trattasse di Stato, economia, cultura, «dovevano da quel momento seguire il proprio corso e svilupparsi in modo indipendente autonomo, ossia secondo leggi in cui Dio è assente».396 E così «l’individualismo esclusivamente religioso […] si tirò dietro lentamente, uno dopo l’altro, l’individualismo politico, quello culturale e infine anche quello economico».397 L’individualismo, dunque, prima di essere un abito psicologico, indica la condizione di «rinuncia all’unione» fra uomini convergenti verso fini comuni, rimettendosi solo a «ciò che è tecnico, meccanico in tutte le cose, ossia sui mezzi», trascurando «ciò che per loro deve essere la cosa suprema», ossia l’attribuzione di un senso spirituale alla vita. Per Scheler, questo «processo che provoca l’atto di rinuncia a convergere nella presa di posizione rispetto al sommo bene, per sua natura non si può arrestare»,

395

M. Scheler, Loc. cit., pag. 905. Ibidem 397 Ivi, pag. 907. 396

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estendendosi progressivamente «prima verso i beni più vicini al bene sommo, poi verso quelli un po’ più lontani», con la conseguente «regressione» delle forze spirituali «normative», che cioè «danno forma» alle questioni del «che cosa devo fare» e circa «qual è la mia missione nel mondo».398 Questa condizione regredita vale per tutta l’Europa, da quando ha perduto la sua relazione comune e armoniosa con Dio, in una Chiesa. L’Europa è trascinata […], dalla logica propria dei suoi affari, delle sue merci, delle sue macchine, dei suoi metodi e delle sue tecniche [comprese] le sue macchine di morte. Questa logica interna di una civilizzazione prevalentemente tecnica, è svincolata da ogni superiore orientamento verso l’unità attraverso una autorità spirituale e morale riconosciuta come comune.399

L’umanitarismo è, a sua volta, non l’universalizzazione del comandamento cristiano dell’amore cristiano, che presuppone Dio come suo fine, ma la generalizzazione della chiusura nell’interiorità individuale dell’uomo delle «energie morali del cristianesimo», stornandole dalla «vita pubblica» e dalla «sfera dello spirito oggettivo», con la conseguenza che «il genere umano [restò] privo di guida e di modelli riguardo al fine fondamentale dell’umanità».400 L’umanitarismo è dunque il portato morale del razionalismo moderno, il quale, con l’Illuminismo, secondo Scheler, rappresentò la reazione al «forte soprannaturalismo, esagerato in modo unilaterale, dei movimenti del primo protestantesimo e [alla] sua pericolosa rinuncia ad una vera installazione del regno di Dio in questo fragile mondo».401 Come si vede, concepire che il rapporto con Dio sia dimensionato alla realtà dell’anima individuale e lasciare che il mondo sia senza Dio finiscono per essere aspetti complementari e simmetrici di una stessa posizione originaria di rottura dell’immagine teomorfica dell’uomo, che è all’origine della attuale «anarchia dell’Europa».402 L’abbandono del mondo al suo destino era la constatazione della irredimibilità del male nella esperienza storica dell’uomo, e quindi la sostanziale ingovernabilità degli affari mondani, lasciati alla precaria composizione di empirici accorgimenti pratici. La forza del bene, destinato anch’esso alla imperscrutabile volontà divina, veniva circoscritta alla presenza individuale nei singoli cristiani, la cui 398

Ivi, pag. 907. Ivi, pag. 909. 400 Ibidem. 401 Ibidem. 402 Ibidem. 399

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testimonianza storica rappresentava comunque una eccezione virtuosa rispetto al caos generale nel quale era ripiombato il mondo abbandonato da Dio. La «anarchia» di cui parla Scheler non è solo quella contingente della Guerra, ma la condizione ordinaria di un cosmo destrutturato, in cui le forze del bene e quelle del male agiscono senza un ordine complessivo precostituito, che in origine era quello testimoniato dalla Chiesa comune e cattolica. Con la destrutturazione dell’universo cattolico, gli elementi della sua classica composizione si emancipano dal loro centro unitario e proseguono una via reciprocamente indipendente, trasferendo nell’altro mondo la composizione delle loro contraddizioni, ritenute insanabili in questo. Per ciò, da un canto, il razionalismo recupera la visione umanistica del mondo, concentrando la sua opera nella supplenza di una teologia del disimpegno mondano, perseguendo un proprio universalismo informato sui princìpi della ragione; dall’altro canto, la fede religiosa spostando il suo baricentro dalla realtà del mondo alla individualità dell’esperienza interiore, nel purificarsi dalle contaminazioni mondane di una ecclesiologia fin troppo partecipe della storia del mondo, riduce il suo ambito di influenza alla responsabilità dei singoli credenti, chiamati essi, in quanto tali, a costituire il sale di un mondo non più sorretto dall’ottimismo fiduciario della ragione umana. In tal senso, la stessa vita diventava per l’uomo il suo proprio calvario, il banco di prova del suo accesso alla grazia della beatitudine eterna, comunque ultraterrena. Da qui l’importanza, come vedremo oltre, dei segni di questa grazia divina nelle azioni e nelle opere umane, quasi la premonizione temporale della futura salvezza eterna. Ma da qui anche il senso del processo di decadenza che l’intera civiltà cristiana verso la progressiva disgregazione della sua sintesi teomorfica. A seguito di quel processo, le tradizioni comuni – che avevano creato una cultura cristiana nel corso di molti secoli, unita ai valori degli antichi, - continuarono a influire ancora per molto tempo e sopravvissero alla loro rinuncia consapevole, così come il cielo rosso sopravvive al sole tramontato. Come i musicisti che improvvisamente non sono più diretti dal maestro di cappella, continuano a suonare ancora per un tratto di tempo, così le nazioni europee sembrarono ancora comporre una certa sinfonia. Ma a questa doveva subentrare la confusione definitiva. In quella che i grandi pensatori dell’Illuminismo – Voltaire, Kant, Wolff – chiamarono la «ragione» autonoma, a quel compendio di princìpi, che si supponevano atemporali e astorici, dell’etica, della logica, dell’economia, del diritto, ecc, brillava ancora la luce eterna in certi bagliori, e brillava ancora come cristiana, anche là dove gli uomini da lungo tempo non volevano più prendere la parola.403

403

Ivi, pag. 911.

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Da questa formidabile ricostruzione del processo di decadenza della civiltà cristiana, si desume nondimeno il ruolo essenziale, anche se implicito, della Chiesa come istituzione massima della società cristiana, nella sua componente umana, soggetta perciò all’edacità dei tempi, ossia alla stessa critica di quella ragione che in altri tempi l’aveva sostenuta. La critica alla Chiesa da parte del protestantesimo si dispiega già da questa ricostruzione come la messa in mora di ogni forma umana di socialità profana, costruita cioè su fondamenti temporali propri della realtà finita in cui abita l’uomo. Ridiscutere il ruolo mondano dell’unica Chiesa significò, in altri termini, scorporare la sua destinazione escatologica dalle forme di esistenza terrena, criticate le quali, quella destinazione permase come lo scopo di ogni possibile forma istituzionale storica. Sicché la ragione comune, individuata nella istituzione cattolica, si disgregò nella ragione di ognuno, nella salvezza di ogni anima fedele, che riprendeva a suo modo, insindacabile fuori delle modalità condivise, il compito di stabilire altre forme comunitarie, anch’esse storiche come ogni esperienza mondana dell’uomo. Così, la Chiesa spirituale trasmigrò in ogni cenacolo di fedeli, in ogni setta e confessione particolare, assegnando all’uomo il compito di renderla coerente in questo mondo, nei limiti delle possibilità di ogni prodotto mondano, alla sua destinazione trascendente. È chiaro che, destrutturata la Chiesa come forma universale, le forme storiche alternative diventano i luoghi simbolici di un policentrismo istituzionale scientemente predicato come il viatico strumentale della stessa ricerca della salvezza religiosa in questo mondo. Bastava assegnare a tale ricerca mondana una sua prerogativa razionale rispetto all’imperscrutabile destinazione ultraterrena perché le storiche determinazioni del suo processo occupassero i compiti di una ragione ormai emancipata dai suoi servigi dogmatici; compiti che la ragione profana poteva verificare sperimentalmente, correggendone in itinere la umana imperfezione in senso progressivo. Per cui «la crescente cultura unilaterale realistica e storica del XIX secolo ha gradualmente messo da parte anche queste tracce di luce»404 e il mondo, riconsegnato agli uomini, privato cioè della «luce eterna» della rivelazione divina, persegue un suo tragitto razionalistico, all’insegna di un sapere metodicamente verificabile della realtà sensibile, la scienza. Rispetto al sapere tradizionale, filosofico, la scienza moderna è autofondativa, non sostenuta da alcun fondamento epistemico, necessariamente religioso. Sicché, quando si dice, anche autorevolmente,

404

Ibidem.

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che la scienza moderna sia la derivazione della filosofia classica, che ne è il fondamento, si omette di considerare che la ragione filosofica non era auto-fondativa, ma presupponeva quel fondamento religioso che la scienza, quale ragione emancipata, rifiuta per statuto epistemologico. Finché il sapere è filosofico, ogni suo fondamento rimanda a un’intuizione religiosa a-razionale, e così ogni sapere disciplinare che derivi dalla filosofia procede a sua volta dagli stessi presupposti ontologici dell’intuizione religiosa. La scienza moderna è la ragione emancipata, resasi «indipendente» da quei fondamenti, per cui essa è un altro sapere rispetto a quello filosofico, il quale, per essere filosofico, deve potersi fondare religiosamente. E se il fondamento della scienza moderna è la realtà sensibile, suo esclusivo e assoluto oggetto di esame, il fondamento della filosofia, invece, non è la realtà sensibile, ma la sua dimensione trascendente o ideale. Perciò, una filosofia che si fa «scienza» del mondo, è scienza tout-court; così come una disciplina di scienza che vuole applicarsi alla realtà trascendente quella sensibile diventa un ramo della filosofia. La stessa transizione dal vecchio al nuovo paradigma cosmologico, considerata nel campo strettamente teoretico, disegna una analoga parabola che vede il pensiero filosofico resistere sull’inerzia della sua lunga tradizione, e il pensiero scientifico definirsi vieppiù come la nuova traiettoria del sapere razionale, la cui razionalità, non essendo fondata su fini escatologici, finisce per identificarsi col metodo della sua declinazione empirico-confutativa. E’ qui che la «ragione» diventa tecnica del pensiero «umanitarista», privo cioè di ogni fondamento teologico. E poiché era tale fondamento a costituire il proprio della ragione filosofica, la nuova razionalità scientifica non è la stessa ragione filosofica, per cui il razionalismo non è lo sviluppo moderno della filosofia ma la sua negazione. Come stretta conseguenza del pensiero umanitarista, ha dissolto sempre più specialmente quella unità della natura razionale dell’uomo, come idea sotto la quale l’epoca dell’Illuminismo aveva sussunto tutti i concetti di vero e falso, buono e cattivo, giusto e ingiusto. Alla fine tutto ciò che doveva valere come norma comune per l’uomo come tale divenne sempre più rarefatto, sempre più astratto e formale. Alla fine diventò invisibile e inconcepibile per la maggioranza.405

La «conseguenza» dunque del razionalismo umanitaristico è la perdita progressiva di quella «unità» ideale che costituiva il fondamento ontoteologico di ogni sapere filosofico, costituito appunto dalla «ragione».

405

Ibidem.

257


Cioè un razionalismo senza ragione, che corrisponde esattamente a un mondo - che è profano, rispetto a quello religioso - ma sacralizzato dalla fede nella sua realtà assoluta, e che sussiste senza Dio. Una realtà il cui Essere, ancora una volta, è negativo. 14. La socialità nuova, il nuovo ordine sociale razionalistico, in quanto fondato su una realtà assoluta, è privo dunque di fine che non sia quello dell’esistenza stessa, la quale perciò diventa un «fatto» da cui partire e a cui giungere per ogni conoscenza dell’esperienza umana. E poiché, in questa realtà esistenziale, ogni forma di idealità viene pensata come aggiuntiva e non originaria alla vicenda umana, anche la convivenza, come relazione ideale tra individui empirici, viene pensata come un’astratta rappresentazione di quella vicenda, il suo elemento variabile e accidentale, meramente funzionale alla sopravvivenza biologica. E, come «tutto ciò che è basato su tale esperienza contingente può anche essere superato da nuove esperienze contingenti».406 Diverso il caso della comunità in senso spirituale, nella quale l’appartenenza è necessaria perché legata a una comune essenza ideale dei suoi membri. Per la sua consistenza, la posizione esistenziale dei soggetti empirici non è vincolante, per cui anche gli «uomini solitari, eremiti, pionieri, cavalieri soli di ogni tipo» possono farvi parte, essendo la loro appartenenza appunto ideale, originaria in senso spirituale e non storico-fattuale. E la consapevolezza di esserne membri appartiene dunque all’essenza anche di quelle persone che vivono isolate, e che l’intenzione spirituale verso una comunità esiste in modo del tutto indipendente dal fatto che trovi o no compimento anche attraverso l’esperienza sensibile contingente di altri uomini, vedendoli etc., e [in modo del tutto indipendente] da quanti siano questi uomini e di quale tipo.407

Il concetto di appartenenza ideale, spirituale, viene slegato da ogni corrispondenza alla condizione politica concreta, e destinato a qualificare la natura dell’uomo, quale «portatore della forza dell’anima razionale», come quella che lo definisce «un’essenza comunitaria».408 In quanto essenziale, «la comunità spirituale» ha «dei diritti propri e superiori […] stabiliti da Dio», in quanto «ha un’origine propria», «divina», e dunque «più alta» di ogni «comunità di vita», la cui costituzione storica viene idealmente trascesa come «organo di una

406

Ivi, pag. 913. Ivi, pag. 915. 408 Ibidem. 407

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comunità ancora più grande, più ampia e più alta».409 Il rapporto tra la comunità storica e quella ideale è lo stesso che tra la realtà fattuale e quella razionale, per cui non c’è nulla di più chiaro e certo per la nostra ragione, né per il nostro cuore, del fatto che nessuna di queste singole concrete comunità terrene (la famiglia, la congregazione, lo Stato, la nazione, il gruppo di amici), in nessun grado del loro eventuale grado di perfezionamento storico, potrebbe essere del tutto sufficiente e accontentare perfettamente la nostra ragione e il nostro cuore. 410

Questo perfezionamento, ispirato sia dalla ragione che dal sentimento di appartenenza, non può trovare «soddisfacimento» in una realtà finita, ma solo in una Idea: nell’idea di una comunità di amore e di spirito con una persona spirituale infinita, che sia contemporaneamente la fine, il fondatore e il capo supremo di tutte le comunità spirituali possibili, così come di tutte quelle terrene e concrete.411

Sorge a questo punto del discorso spontanea la questione se la Chiesa storica, non contemplata esplicitamente da Scheler tra le «comunità terrene», possa, in quanto forma istituzionale finita, se non costituire, almeno sostituire l’Idea evocata dal filosofo. In caso positivo, ogni esperienza comunitaria storica dell’uomo deve far capo alla Chiesa come orizzonte universale della comunità spirituale. In caso negativo, invece, l’esperienza ecclesiale non può considerarsi privilegiata rispetto a quella di altre comunità storiche, spiritualmente ispirate o meno all’idea di Dio, nella consapevolezza che «tutti i fili si incontrano in Lui», e solo in Lui «l’impulso infinito e il processo necessariamente infinito del pensiero riposano, si acquietano e trovano pace, al di là di tutte le comunità visibili finite».412 La questione è meno peregrina di quanto potrebbe apparire a una sua considerazione puramente sociologica, dal momento che la crisi della ideale comunità cristiana coincide con lo scisma ecclesiale, ossia con la defezione dall’istituzione storica per eccellenza rappresentativa della cristianità, appunto la Chiesa, alla quale viene contrapposta, non già un’altra Chiesa, presuntivamente più rappresentativa del suo incontestato valore simbolico unitario, ma un’altra idea di comunità cristiana, che sulla fine della giustificazione dell’esistenza della Chiesa 409

Ivi, pag. 917. Ibidem. 411 Ivi, pag. 919. 412 Ibidem. 410

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fondava le sue ragioni teologiche. Il motivo della Chiesa imperfetta e quello della Chiesa inutile sono radicalmente diversi e non componibili, sicché il concetto di «comunità cristiana» è più controverso e problematico di quanto Scheler voglia farci credere. A noi pare che l’appello esplicito a Dio – anziché a Cristo – quale tensione unitaria dell’ordo amoris abbia un valore indicativo oltremodo significativo e non accidentale, poiché sulla figura di Cristo ruota tutta la vicenda teologica e storica della presenza e della funzione universale della Chiesa. La Chiesa è la fonte dell’autorità e della confessione religiosa dei cattolici, fuori della quale «la Sacra scrittura non ha mai goduto dell’autorità, che deve avere tra i cristiani: cioè quello di determinare la mentalità unicamente in base al proprio contenuto», mentre storicamente, fuori di essa, «sono state piuttosto sempre opinioni già acquisite in antecedenza e al di fuori del cristianesimo a determinare l’autorità della Scrittura, il suo grado e il modo e la maniera del suo impiego».413 Ma la funzione della Chiesa di custode della «purezza della Parola» è legata strettamente alla sua definizione teologica, dalla quale dobbiamo partire per intenderne il ruolo religioso e di modello culturale. Per Chiesa in terra i cattolici intendono la comunità visibile di tutti i credenti fondata da Cristo, in cui, sotto la direzione del suo Spirito e per mezzo di un apostolato da lui stabilito e ininterrottamente prolungatosi, vengono continuate sino alla fine del mondo le attività da lui esplicate durante la vita terrena per liberare l’umanità dal peccato e santificarla […]. Il motivo ultimo della visibilità della Chiesa sta nella incarnazione del Verbo divino; se questi fosse disceso nel cuore degli uomini, senza assumere la figura di servo e senza quindi apparire in forma corporea, avrebbe fondato anche una Chiesa solo invisibile e interiore. Invece il Verbo è diventato carne, si è espresso in una maniera umana esteriormente percepibile, ha parlato da uomo a uomo, ha sofferto e agito alla maniera degli uomini per riconquistarli al regno di Dio, sì che il mezzo scelto per raggiungere questo scopo corrisponde pienamente al metodo universale di insegnamento e di educazione condizionato dalla natura e dai bisogni umani.414

La forma della presenza divina in Cristo agli uomini, cioè l’incarnazione di Dio, indicò anche «la forma in cui la sua opera sarebbe stata continuata», per cui «risulta anche che la Chiesa, per quanto composta da uomini, non è solo umana [ma] la sua figura permanente, è

413 414

A.J. Moehler, Simbolik (1832), tr. it., Milano, 1984, pag. 277-278. Ivi, pagg. 279-280.

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contemporaneamente divina e umana, è l’unità dei due elementi».415 A questo punto sorgono due ordini di questioni. La prima è se la parte divina di Cristo è la sua unità spirituale con Dio, la sua parte umana, sensibile e visibile, non è compresa nel concetto di Spirito di Dio, e Cristo la condivide con i soli uomini. La seconda questione inerisce alla definizione ontologica di Chiesa. Se infatti la Chiesa è unità divino-umana, lo sono anche i singoli elementi che la compongono, cioè i singoli cristiani? Ovvero solo nell’unità essa realizza la sintesi delle due nature? Se Dio si manifesta come uomo, c’è nella natura umana qualcosa che manca nel Dio spirituale, cioè la sensibilità o corporeità. Senza Dio l’uomo è sola natura, solo corpo. Ma senza corpo, senza la natura umana, Dio è solo Spirito. Solo in Cristo avviene l’unità sintetica delle due nature. Cristo non è un doppione di Dio, ma la sua realtà terrena, la sua umanità. E se il corpo di Cristo è la Chiesa, cioè la comunità dei cristiani, solo la Chiesa, quale corpo mistico, può rappresentare Cristo, ovvero costituire la sintesi delle due nature, e non già i singoli cristiani, i quali, come singoli, non possono rappresentare Cristo, cioè sostituire la sua Chiesa. Ma neppure la forma istituzionale, la Chiesa apostolica, può da sola rappresentare l’unità sintetica delle due nature di Cristo, perché la sua funzione di custode della Parola non sarebbe possibile senza la Chiesa comunitaria, informale. Se dunque la parola di Cristo «non è più scindibile dalla Chiesa e la Chiesa dalla sua parola», è altresì vero che questa parola si tramanda nella sua «comunità», e non si ferma nel cenacolo istituzionale. Infatti, «la comunità è legata all’apostolato istituito da Cristo ed è in grado di sopravvivere solo per mezzo di questo», per cui non si può non parlare di esso parlando della Chiesa.416 La Chiesa apostolica rappresenta pertanto la forma istituzionale della Chiesa mistica, costituita dalla comunità dei fedeli. Ma quale relazione intercorre tra le due componenti dell’unica Chiesa? Per definirla, torniamo alla prima delle due questioni prima sollevate, relativa alla essenza spirituale della comunità, ovvero alla sua accidentalità. E’ infatti da questa risposta che dipende la funzione magistrale della Chiesa apostolica. Il perfezionamento dei singoli con la virtù dall’alto ebbe luogo in quanto essi ne furono resi partecipi solo perché formavano contemporaneamente una unità e in quanto la consacrazione dello Spirito avvenne sotto forme sensibili; di conseguenza, secondo le disposizioni del Signore, pure l’unione 415 416

Ivi, pag. 280. Ivi, pag. 281.

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dell’intimo dell’uomo con lui doveva verificarsi per sempre sotto condizioni esterne e in comunione con i suoi […], perché nessuno può santificarsi da solo con l’atto battesimale, ma dipende piuttosto da coloro che già appartengono alla comunità.417

Il battesimo sancisce «l’introduzione nella Chiesa» e la partecipazione alle sue vicende terrene, mentre l’apostolato è lo strumento per cui «tutti i credenti sono indissolubilmente e vitalmente legati alla comunità. Pertanto l’unione con Cristo è contemporaneamente sempre anche unione con la sua comunità». Infatti, «le due cose sono inseparabili, così come Cristo è nella comunità e la comunità in lui».418 In altri termini, la comunità dei credenti è il «corpo di Cristo», di cui la Chiesa apostolica è la forma istituzionale, preposta al compito di «mantenere pura la parola». E in questo compito «essa è infallibile». A nessun singolo in quanto tale si addice tale infallibilità; il cattolico concepisce infatti il singolo solo e sempre come membro del tutto […]; egli è pertanto infallibile solo in quanto sente, pensa e vuole nel di lei [della Chiesa] spirito. Se la Chiesa concepisse il rapporto del singolo verso il tutto in senso opposto e lo pensasse infallibile come singolo, distruggerebbe il concetto della comunione; questa può infatti essere concepita come necessaria solo se la vera fede e la vita cristiana genuina e profonda non possano essere pensate come esistenti isolatamente nei singoli.419

Cristo è uno come persona, così come è una è la Chiesa come istituzione, ma il corpus Christi, ossia la comunità mistica, costituita dai fedeli quali uomini storici, ha un’essenza plurale, è una realtà molteplice, che solo idealmente è una. Ma tale idealità non può coincidere con la forma istituzionale, anch’essa storica, bensì solo con la sua identità trascendente, con la sua realtà spirituale. Ora, la figura di Cristo per definizione non è una figura solo spirituale ma insieme anche umana, sensibile. Essa è una unità sintetica di spirito divino e umana materia, sicché la sua Chiesa rappresenta l’unità ideale della molteplicità dei popoli cristiani. Tenuto forma il concetto unitario, pensare «la verità cristiana», ossia la verità che è Cristo, «in sé solo come una»,420 significa non cogliere l’essenza contraddittoria di quella verità, che è una e molteplice, poiché senza la realtà storica della comunità cristiana, quella verità in sé sarebbe rimasta in Dio, senza incarnarsi in

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Ivi, pag. 281. Ivi, pag. 282. 419 Ibidem. 420 Ivi, pag. 284. 418

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Cristo, che di Dio è la realtà umana. Umanizzandosi, lo Spirito divino perde la sua unità e diventa realtà molteplice. Il processo della cristianità è appunto quello di ricongiungere l’umanità nell’unità divina, che, nella storia, però, non si realizza, essendo appunto ideale. Ci si dimentica troppo spesso che il cristianesimo acquisisce valore religioso distinto dall’ebraismo proprio in quanto mutua dal pensiero razionalistico greco, e poi dall’esperienza giuridica romana, la sua componente filosofica, ossia il suo elemento teoretico umano da conciliare con la tradizione della rivelazione e per servirsene come supporto di pensiero mondano. Ciò comporta che proprio col cristianesimo inizia quella lettura profana delle Sacre Scritture, in seguito canonizzata dalla Chiesa custode della Parola. Ma in realtà tale Parola, entro la Chiesa, non era già più quella della tradizione biblica, ma bensì la sintesi con il sapere mondano. È questa sintesi, di Parola divina e sapienza umana, a essere oggetto di preservazione teologica, costituendo quel patrimonio ermeneutico che il clero, cioè la Chiesa apostolica, ha preso a custodire come scopo della sua missione istituzionale. Così la struttura ecclesiastica, depositaria e custode della sua propria legittimazione morale, si è trasformata in istituzione di potere attraverso il monopolio ermeneutico delle Scritture, costituendosi come il prototipo intellettuale dei tecnici, cioè di un ceto depositario di una esclusiva competenza tecnica usata come potere sociale. Se esaminiamo i contenuti logici delle seguenti affermazioni contenute nel classico testo del Moehler, noteremo l’incongruenza logica che è alla radice dello stesso sviluppo della civilizzazione cristiana, e delle sue conseguenti riproduzioni secolarizzate nella concezione del potere sociopolitico moderno. Partiamo dall’affermazione principale, riassuntiva della posizione ufficiale della Chiesa cattolica su sé stessa, da cui discendono i corollari delle sue posizioni culturali nei confronti del mondo profano. Come Cristo è uno e la sua opera in sé stessa una cosa sola e come di conseguenza esiste una sola verità e soltanto la verità rende liberi, così Egli può aver voluto anche una sola Chiesa.

Si noti l’analogia essenziale tra la persona di Cristo, il contenuto di verità della sua predicazione, e il concetto di unità simbolizzato dalla Chiesa, per cui lo stesso concetto viene rappresentato da una persona fisica, da una teoria religiosa e da una istituzione sociale, necessariamente collettiva. Ma andiamo avanti. Pure lo spirito umano è lo stesso dappertutto e creato ovunque e sempre per la verità e la verità una; i suoi bisogni spirituali essenziali sono eternamente

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gli stessi, per quanto cambino le condizioni di tempo e di spazio e nonostante tutte le diversità di educazione e di formazione […]. Pertanto lo spirito umano uno con la parola una, che è il cibo degli spiriti, giustifica agli occhi del cattolico riflessivo il concetto dell’unica Chiesa visibile.421

In questa seconda serie di affermazioni, alcune credenze dogmatiche, riservate cioè ai cristiani, vengono giustapposte a verità non di fede ma storiche assunte come se avessero un valore dogmatico. Infatti, che lo spirito umano sia uno perché creato allo stesso modo da Dio per tutti, è una affermazione di fede, dalla quale consegue per il credente che la verità sia anch’essa una, quella appunto inerente la sua fede. Ma ciò non può essere per il non credente, che persegue una sua verità, di ragione o di altra fede religiosa, che il cristiano giudica «follia». In questa estensione analogica, la verità della fede, ristretta ad alcuni uomini, diventa, anzi deve diventare, la verità universale, la fede comune di tutti gli uomini. La diversità storica dell’umanità diventa una realtà accidentale da superare attraverso l’unità spirituale, estendendo pertanto l’idea di unicità alla realtà empirica, operando pertanto un «passaggio» ontologico dal mondo sacro al mondo profano attraverso la trasformazione universale di questo in universo di fede. In questa trasformazione consiste la rivoluzione cristiana, che intende convertire la pluralità di esperienza culturali e di credenze religiose nell’unità di fede del cattolicesimo cristiano. L’affermazione circa l’omogeneità spirituale dell’uomo nella diversità di condizioni storiche e di cultura dei popoli umani, non è una verità razionale, ma di fede, che contrasta con la realtà di fatto. Il superamento di questa alterità di fatto rispetto al presupposto ideale diventa la missione dl credente, la cui azione deve convertire l’umanità, cioè rivoluzionarne gli assetti storici. Da ciò che consegue che «lo spirito umano uno con la parola una» non sia una realtà di fatto, non rispecchia cioè la verità storica, che invece prospetta una realtà molteplice, ma riflette la visione ideale del credente cristiano, che da fine escatologico diventa premessa di ogni futura considerazione teorica e pratica dell’esperienza umana. Il fine convertito a presupposto considera la realtà di fatto alla stregua della realtà ideale, per cui sostituisce nella sua considerazione del mondo alla molteplicità reale l’unità ideale del suo wishful thinking. Questo modo idealistico di concepire il mondo è il modello teoretico di ogni opzione ideologica totalitaria, di cui è il riflesso pratico. Ed è sulla premessa fideistica unitaria dell’unico spirito e dell’unico verbo che il cattolico «giustifica» logicamente «il concetto dell’unica Chiesa visibile», trasferendo nelle conclusioni logiche le premesse dogmatiche, senza 421

Ivi, pag. 284.

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mediazione razionale. Infatti, il tratto tipico del pensiero totalistico è l’assenza di mediazione razionale, cioè di quel pensiero che distingua l’Uno ideale dal Molteplice storico, e senza il quale l’Uno e il Molteplice sono lo stesso, e l’uno può convertirsi nell’altro nella volontà di essere il Tutto. Questa interpretazione ecclesiastica della realtà storica costituisce la radice metafisica della violenza ontologica e pratica che caratterizza la civiltà cristiana sotto il magistero della Chiesa cattolica, la quale, identificando la sua forma istituzionale con la realtà stessa della comunità cristiana, e la comunità cristiana con la comunità umana universale di ogni tempo, ha concepito sé stessa come l’ideale realizzato del Verbo incarnato, cioè la fine della storia con la premessa della sua missione, l’ideale cristiano con la realtà del mondo, identificando insomma la Chiesa di Cristo con Cristo stesso. Le conseguenze morali di questa identificazione idolatrica sono state catastrofiche per la civiltà cristiana, che ha sviluppato in sé un cinismo diabolico fondato sulla menzognera teoria della doppia verità, quella ideale e dogmatica, predicata dai pulpiti, e quella terrena e umana praticata nella vita, consentendo alla Chiesa istituzionale di seguire le orme di Cesare nel difendere il suo potere temporale e di predicare l’etica della Montagna con i fedeli, facendo della fede di questa predicazione la giustificazione del proprio potere istituzionale sulla comunità dei credenti, con un sostanziale ribaltamento della sua funzione missionaria destinata in teoria al servizio della comunità. Ma questo «servizio» è l’opera stessa del pensiero razionale della filosofia ancella della fede dei credenti. Senza questa fede collettiva, senza la comunità cristiana, non può esserci alcun «servizio» ausiliario, per cui il monopolio ecclesiastico del sapere è in violazione palese con la missione stessa del pensiero servente la Parola, cioè mediatore razionale tra Dio e gli uomini che credono in Lui, la sua comunità. La Parola di Dio, cioè Cristo, è già verità che si manifesta in pensiero umano, in forme razionali. E perché la verità possa comunicarsi in forme umane, deve appunto incontrare il pensiero profano, la ragione, che così entra al servizio della verità. Ma proprio perché la ragione è umana, essa è umanamente storica, e non può identificarsi con la verità divina, che rimane sempre l’oggetto della sua infinita interpretazione, il suo contenuto trascendente. Il monopolio ermeneutico della Chiesa ecclesiale ha snaturato il senso del servizio della ragione alla verità divina, assimilando l’apparato istituzionale ecclesiastico con la comunità dei credenti, ossia con la stessa esperienza della coscienza della fede, della fede pensata in termini umani. La conseguenza di tale indebita assimilazione della parte al tutto comunitario è stata la rivolta della sola fede e della sola ragione, cioè la 265


scissione nel corpo mistico di Cristo delle sue componenti originarie, e con ciò la fine stessa del cristianesimo come «spirito oggettivo» della civiltà europea. La crisi della civiltà moderna si dispiega dunque come il processo inverso della trasposizione cattolica dell’ideale cristiano nel mondo profano, e, specularmente, la conseguente trasformazione inversa di ogni elemento sacro in dimensione profana. La «secolarizzazione» moderna è appunto il fenomeno della ritraduzione in termini profani degli elementi sacralizzati dalla plurisecolare azione mondana della fede cristiana, conservando il suo principio di conversione del vero nel fatto e assumendo il profano fare come il valore stesso della verità. Con la scissione dell’unità cristica della verità divina e della ragione umana, l’esperienza cattolica si può definire terminata con lo stesso rinnegamento di Cristo, come aveva intuito a suo tempo e modo Dostoevskij. Infatti Cristo è idealmente uno ma storicamente molteplice, avendo consegnato a tutti gli uomini la sua sofferta umanità. La sua corporeità umana, disgiunta col martirio dalla sua persona spirituale, fa di Lui una sintesi reale di unità e molteplicità, che per la comunità è invece una ricerca. La ricerca unitaria del corpus Christi è la missione stessa della sua comunità di fede, che abbraccia potenzialmente tutti i popoli. Solo questa unità mistica può rappresentare l’elemento umano di Cristo, il quale, proprio perché Verbum caro, non è solo spirito, e non può perciò essere uno senza essere nel contempo molteplice. Il carattere molteplice dell’esperienza di Cristo è legato alla sua natura umana, finita e consegnata alla passione della croce. La carne di Cristo diventa la realtà viva della sua comunità storica, riunita idealmente nel suo spirito. La riduzione all’unità della esperienza cristiana, prima del compimento dei tempi, produce il concetto di Chiesa apostolica come potenza spirituale mondana, in sé rappresentativa della comunità cristiana storica, facendo così di un fine ideale escatologico una realtà terrena di fatto. La conversione dell’idea (cioè del vero) in prodotto di fatto (cioè in lavoro umano) è appunto al fondamento del concetto moderno di prassi intesa come prodotto della verità. Ma in senso rovesciato, per cui, modernamente, è l’opera umana a costituire il fondamento della stessa verità, che diventa perciò verità in sé. Così come la tecnica apostolica dell’ermeneutica scritturale, svincolata dal legame organico-funzionale con la comunità, è divenuta funzionale solo alla sopravvivenza istituzionale, modernamente il lavoro. Emancipato dal suo fine sacro trascendente, si è tradotto in tecnica della produzione economica. In questo senso peculiare, lo «spirito» del capitalismo moderno è lo stesso spirito del cristianesimo desacralizzato. La verità come sola fides, come diretto approccio alla Parola divina come Spirito eterno, non è la verità del cristianesimo, che è Parola incarnata, verità espressa in termini umano-razionali. Nel momento in cui la Parola 266


si incarna, essa si umanizza diventando esperienza comunitaria, realtà collettiva, per definizione molteplice. Il Verbo incarnato non è lo Spirito eterno di Dio, ma la sua essenza divina incisa nel finito e partecipe della sua vicenda terrena. La comunità cristiana rappresenta l’unità che si ritrova nella Parola. Una unità ideale che non è reale, per cui essa non è la Chiesa, ma si fa Chiesa ogni volta e solo quando realizza quell’unità. Non c’è comunità senza Parola, né Chiesa senza comunità. La Parola è dunque il principio di socialità della comunità cristiana. Essa, come Verbo divino, cioè come Spirito eterno, è Dio, non Cristo. Cristo è Parola che si fa carne, Spirito umanizzato. Da qui l’unità sintetica del Verbum caro factum est. Concepire la Chiesa come unità perenne, depositaria della Parola, significa non solo renderla indipendente dalla sua carne, cioè dalla comunità molteplice dei cristiani, ma inoltre identificarla con lo Spirito di Dio, che è ideale e non storico. Invece, la Chiesa di Cristo è la sua carne spiritualizzata, lo Spirito che si fa storia, «comunità della ragione e dell’amore con Dio», come la definisce Scheler.422 Questo tipo di comunità spirituale, che discende dallo Spirito divino la sua unità, è ben diversa da una «cooperazione storicamente contingente, terrena, che si appoggia su accordi meramente ragionevoli e arbitrari, stretti da […] un gruppo di persone fisiche dotate di ragione», ma bensì «scaturisce necessariamente dai progetti e dall’opera divina di formazione delle essenze di uno spirito e di un cuore dotati di ragione», per cui la comunità costituisce una «unità e totalità» e non una «somma» di individui che ne sono «membri», legati da un «contratto».423 Il vincolo che lega i fedeli è una «solidarietà morale», in base alla quale ogni membro è corresponsabile «di fronte al Dio vivo» di «ogni colpa», propria e altrui, «di ogni crescita e decrescita della condizione morale e religiosa della totalità del mondo morale, come di una unità in sé solidale».424 Questa posizione di Scheler, assunta per sollevare la Germania da ogni esclusiva responsabilità bellica, è, per quanto sopra argomentato, chiaramente insostenibile, in quanto coinvolge Caino nel delitto di Abele, gli altri apostoli nel tradimento di Giuda, e Gesù stesso della sua passione, rendendo tutta l’umanità correa delle colpe dei reprobi non distinguendoli dai probi. Dichiarare la responsabilità universale dei peccati del mondo può voler richiamare tutti gli uomini alla possibilità del peccato, legatoa alla infirmitas della natura lapsa dell’uomo, ma potrebbe anche stabilire un limite morale invalicabile all’uomo di fede, per cui

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M. Scheler, Loc. cit., pag. 919. Ivi, pag. 921. 424 Ivi, pag. 923. 423

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qualunque azione appaia originariamente macchiata di colpa, negando così l’intervento stesso redentivo di Cristo. Inoltre, la responsabilità morale solidale di tutto il genere umano, suppone che l’unità comunitaria sia una realtà sociologica di fatto, e non già una realtà condenda, verso la quale sono rivolti gli sforzi dei fedeli in questo mondo. Ancora una volta, l’unità è in Cristo ma si fa nella storia. Non può esser presupposta come una realtà condita, così come la Chiesa istituzionale pensa sé stessa, ma solo come realtà divina originaria, ed escatologica alla fine dei tempi storici. La responsabilità è «morale» in quanto atta a distinguere l’azione buona da quella malvagia. Una responsabilità oggettiva di tutta l’umanità come tale non può essere «morale», ma naturale, cioè determinata dalla finitezza della natura umana considerata priva di libertà spirituale, cioè di ragione. La ragione appunto distingue ciò che è l’unità ideale della comunità, che è Cristo, da ciò che è la realtà comunitaria, storicamente molteplice. Non si può applicare alla molteplice realtà storica il principio di unità ideale, se non negando la stessa realtà storica, assumendola alla stregua di un ente ideale, facendone una idea, che è eterna, da carne che è, varia e mutevole. In questo modo si nega la comunità cristiana storica in nome dell’unità ecclesiale, e facendo di una istituzione umana una forma eterna, facendo della Chiesa storica una essenza spirituale, divinizzandola e trasformandola perciò in un idolo. Idolatrico è infatti il culto della creatura al posto del Creatore. Cristo ha creato la Chiesa comunitaria, ed è la Chiesa comunitaria a creare la Chiesa apostolica. Il cattolicesimo, facendo della Chiesa apostolica un ente autoreferenziale, ne ha fatto un fine, da strumento che era in origine, rendendola indipendente dalla comunità dei fedeli, che essa impersona come se fosse Cristo. Solo Cristo impersona la comunità, la quale non è unità ideale se non in Lui, mentre in sé è realtà molteplice. La dottrina cattolica della Chiesa istituzionale che rappresenta nel contempo Cristo e la sua comunità, è dunque dottrina essenzialmente idolatrica, che solleva la Chiesa apostolica dalle responsabilità del mondo, che consistono nella ricerca di quell’unità di fede che la Chiesa considera già acquisita in sé e per sé, come un dato dogmatico. La risposta secolaristica a questa idolatria religiosa è la divinizzazione dell’umanità, l’umanitarismo, il «corpo» de spiritualizzato della comunità umana: il ritorno a una cultura della fisicità come bene patrimoniale dell’uomo. Di ogni uomo. L’opposizione religiosa allo spirito comunitario cattolico è l’individualismo spiritualistico, ossia la negazione dello spirito comunitario a favore dello spirito individuale, tale per cui Cristo avrebbe redento non l’umanità ma i singoli uomini, ognuno dei quali avrebbe dunque un rapporto singolare con Dio attraverso la sola fede: il «mio 268


Cristo» di Lutero. Anche il principio luterano della sola fides, però, negando la natura razionale della fede umanizzata, nega, non solo la Chiesa mediatrice del Verbo, ma la stessa natura divino-umana di Cristo, riproponendo quella separatezza tra fides et ratio superata dalla sintesi cristiana, e propria invece della cultura antica, pagana ed ebraica. L’epoca moderna, secondo Scheler, è segnata dall’individualismo anticomunitaristico e dallo spirito critico, «che scatena tutte le forze terrene dell’uomo e della natura fino alle loro possibilità più estreme». Ma nel frattempo sarebbe sorta «anche un’epoca organizzatrice», la quale, «orientata alla comunità, dominerà spiritualmente le forze dello spirito che prima aveva solo liberato», riportando ad unità spirituale «le forze dei concreti processi economici, del mero spirito di guadagno isolato e razionale, della tecnica delle macchine, del sapere singolo che si accumula e non è più dominato da un vertice», con l’intento di costruire «una nuova e duratura dimora per la società umana».425 Il tratto distintivo di questa rigenerazione spirituale è l’apertura «ad un atteggiamento morale fondamentale di tutto l’uomo nella sua piena attività»,426 ossia, in altri termini, il superamento di ogni forma di egoismo unilaterale, dei singoli e degli Stati, giustificato in nome dei valori mondani della politica e dell’economia come forme razionali di sapere indipendente. Questo il nucleo centrale dell’argomento di Scheler: la sostituzione della logica politica ed economica con le ragioni superiori della morale. Era inevitabile che questa posizione teorica implicasse il superamento della logica scientifica, quale connotato teoretico fondamentale e caratteristico dell’epoca moderna. Ed è proprio in questo proposito che si congiungono in senso unitario i vari indirizzi filosofici sviluppati dallo spirito tedesco in senso oppositivo e confutativo dello scientismo razionalistico, che trovano in Husserl prima e poi in Heidegger il focus intellettuale più radicale e profondo. Rispetto a questa nuova coscienza filosofica, che investe significativamente il pensiero che più aveva risentito delle conseguenze teoretiche ed etiche della Riforma, le analisi della crisi della civiltà europea che si muovono ancora entro la dimensione del moderno razionalismo e spiritualismo individualistico sembrano circoscritte a una concezione della storia imperniata su un insuperabile «realismo della certezza sensibile» che rende improbabile, se non insignificante, ogni sforzo intellettuale a ripensare i fondamenti della coscienza culturale comune in termini antropologicamente dirompenti e rivoluzionari. Mentre è esattamente questo il proposito, sottaciuto e implicito, sotteso a

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M. Scheler, Loc. cit., pag. 927. Ivi, pag. 929.

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ogni analisi interna alla Sonderweg tedesca. E questo per una ragione storicamente comprensibile. Infatti lo spirito tedesco aveva già intrapreso il suo autonomo percorso spirituale violando l’equilibrio culturale affermato dal cristianesimo cattolico. Si trattava ora o di andare oltre la soglia teoretica tracciata da quel fondamento teologico, che fu la strada di Heidegger, ovvero di tornare a quel fondamento teologico per ripensare in termini nuovi un futuro coincidente con un nuovo inizio, che fu la strada di Scheler. In entrambi i casi, il comune presupposto da cui muovere era la «messa in parentesi» del moderno quale epoca di decadenza ideale e morale. Questo presupposto comune di rimozione del moderno si poneva implicitamente in posizione polemica con il tentativo intrapreso a suo tempo da Hegel di tentare una mediazione o conciliazione con la cultura moderna, ritenuta fallita e impossibile. Ora, se pensiamo che la rivisitazione di Hegel fu la traccia di percorso del processo filosofico del neo-idealismo italiano, coltivato nella tradizione moderna dello storicismo, sia vichiano che positivistico, ci rendiamo conto della distanza che divideva una riforma di Hegel da un superamento del pensiero moderno. Nel primo caso, si trattava di includere nel pensiero della soggettività ogni esperienza teoretica e pratica della Storia, pensata come soggetto coscienziale universale; nel secondo caso, si trattava di andare oltre il soggettivismo moderno, così come il pensiero moderno era andato oltre l’oggettivismo del pensiero medievale. La questione per il pensiero tedesco era quella di costruire una nuova cultura per l’uomo, e non di correggere semplicemente le storture della moderna civiltà razionalistica, pensata come il culmine della coscienza umana. Se si perde di vista questa differenza essenziale, non si può comprendere il senso filosofico profondo e originale della Sonderweg tedesca, col suo irrefrenabile afflato etico e costante motivo utopico, che si riscontra anche in Scheler. In Scheler il motivo utopico si coniuga con la radice più rivoluzionaria del cristianesimo, che nel fondamento dell’amore sradica dalla coscienza umana quella «morale del ressentiment» di cui aveva parlato Nietzsche nella Genealogie der Moral, e alla cui «redenzione» viene offerta la morale dell’amore solidale. Ma su questo fondamento morale è possibile rinvenire anche la componente più sana della vita spirituale della cultura moderna, pur sempre stabilita entro l’orizzonte della storica comunità cristiana. Infatti, il principio di solidarietà morale che dovrebbe informare l’atteggiamento nuovo della coscienza comune, «oggettiva», europea, non è «rinvenibile esclusivamente all’interno della tradizione cristiana», ma anche sotto forma di «consapevolezza di classe, coscienza di classe e legame di classe», che hanno trasformato, «indipendentemente dalla tradizione cristiana», nella coscienza dei lavoratori moderni «un 270


interesse in un ethos», per cui la questione fondamentale del tempo avvenire è nel fatto che entrambe queste sorgenti del ritorno del principio di solidarietà nei cuori e nelle coscienze europee, la corrente che viene dall’alto e quella che viene dal basso, l’idea della solidarietà della tradizione cristiana cattolica – il protestantesimo aveva infatti lasciato cadere più che mai proprio questa parte dell’ethos cristiano – e la corrente moderna che cerca faticosamente di avanzare verso la comunione di interessi, siano dirette una verso l’altra tanto da incontrarsi in modo fecondo; che la corrente che viene dal basso, la quale ha dalla sua parte la vitalità del presente, ma in cambio è ancora immersa nei meri interessi di guadagno e benessere e ne è come incatenata, sia illuminata da quella che viene dall’alto, che sgorga da Dio e dalla storia della Chiesa, fino a divenire un’unica potenza morale, ossia un potere dell’amore libero e della libera obbligazione che si estende alla totalità degli uomini che ne partecipano, anche indipendentemente dalla mera comunanza di interessi. 427

Il senso recondito dell’argomento è il seguente. L’esperienza del moderno si è sviluppata in direzione della scissione tra comunità cristiana, rimasta senza guida morale «dall’alto», e Chiesa apostolica, la cui attività pastorale è rimasta vieppiù isolata dal suo gregge, che ha seguito un suo percorso morale indipendente. La nuova prospettiva storico-morale dovrà concepirsi nell’orizzonte della riconciliazione delle due componenti essenziali della Chiesa come corpus Christi, sino a tornare a costituire «un’unica potenza morale», ossia la fisionomia genuina della sua originaria identità. Non è difficile, nella prospettiva storica attuale dalla quale guardiamo questi propositi, riconoscere in essi dei motivi ideologici che andranno a sostanziare le proposte politiche dei movimenti cristiano-sociali tra le due guerre e dei movimenti democratico-cristiani dell’ultimo dopo-guerra. Ma il punto saliente, che inficia sotterraneamente l’intero impianto teorico di questi progetti etico-politici, è che la prospettiva della ritrovata unità cristiana sia concepita come inscritta nel processo stesso della storia europea, indipendentemente da ogni pur lodevole ed auspicabile impegno cristiano in tal senso. In altri termini, anche questa prospettiva cristologica partecipa surrettiziamente alla concezione – tipicamente moderna! – per cui la risoluzione della crisi complessiva della civiltà europea debba necessariamente trovarsi all’interno del processo universale di democratizzazione che è in atto nel mondo civilizzato a partire dalle rivoluzioni americana e francese, e pertanto, anche il cristianesimo ne debba divenire attivamente partecipe e convintamente 427

M. Scheler, Loc. cit., pag. 931.

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solidale. Scheler non si avvede quindi che il riconoscimento della positività morale di un ethos moderno sviluppatosi «indipendente dalla tradizione cristiana» rende questa un elemento accidentale del processo morale universale, e la «indipendenza» morale conseguita dalla cultura moderna l’autentico fattore promozionale della civiltà universale. Con la conseguenza non facilmente eludibile che il fattore moralmente progressivo sia stato visto storicamente nel processo democratico in quanto tale, anziché nella sua intrinseca determinazione ideale. Ma esattamente questa anteposizione dello strumento pratico al fine morale costituisce, come ben sappiamo, la tendenza precipua della cultura moderna secolarizzata, che ha creduto possibile, come anche le parole di Scheler lasciano supporre, che all’interno dell’esperienza storica fosse possibile realizzare il fine escatologico assegnato cristianamente alla missione degli uomini di buona volontà raccolti in ideale comunità. Scheler stesso, alla stregua di tutti i rivoluzionari e filosofi razionalisti, crede nella possibilità di questa realizzazione mondana, che lui prospetta come il futuro morale dell’Europa e il superamento della sua crisi epocale. Inoltre, era difficile assimilare la solidarietà morale della comunità cristiana con la solidarietà economica del legame di classe, il cui ethos si definiva attraverso quella «reazione» contro un «mondo opposto ed esteriore» che caratterizzava secondo Nietzsche il ressentiment dei reietti,428 e che evidentemente era qualcosa di ben diverso dell’amore cristiano. L’identificazione della solidarietà di classe, fondata sulle ragioni contingenti dell’interesse sociale organizzato ed elevato a principio di lotta politica, con l’etica dell’amore in nome dello spirito comunitario, è a dir poco una forzatura, ma soprattutto si basa sulla presunta possibilità di poter conciliare in «un corpo unico indivisibile», cioè in una formazione storica armonica e coerente, sia «la realtà autonoma, sostanziale e la responsabilità personale, autonoma, religiosomorale di ogni anima individuale, la sua discendenza immediata da Dio», e sia «nello stesso tempo l’appartenenza solidale e la vera corresponsabilità di tutte queste anime di fronte a Dio in un corpo unico, che veramente le comprende», conciliando così la sua «origine» e la sua «totalità invisibile» con la sua operatività «nella sfera visibile»,429 dando realtà finalmente in terra a quel Corpus Christi che era stata la consegna morale del messaggio cristiano. Ma la conciliazione tra il principio morale trascendente e quello politico

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F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), tr. it., Milano, 1984, pag. 26. M. Scheler, Loc. cit., pag. 935.

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immanente sarebbe stato possibile solo attraverso la mediazione di un terzo elemento accomunante, la fede nella sintesi cristiana, che proprio la cultura dell’età moderna aveva eluso come fondamento del sapere razionalistico, il quale lo aveva escluso sia nella concezione dello Stato che della società moderni, e che la considerazione di Scheler poneva invece, per la sua validità, come un presupposto. A suo dire, l’evoluzione dello Stato e della società moderni nell’epoca che si limita alla critica e a scatenare forze, ha portato, tanto nel campo della costituzione e della concezione dello Stato, quanto nel campo dei rapporti reciproci fra gli Stati, così come nel campo dello spirito e di sistemi dell’economia, sempre e comunque a due principi e ideali contrapposti, perennemente in lotta tra loro, che sono entrambi, nella stessa misura, profondissimamente in contrasto con lo spirito della comunità cristiana. Nell’ambito della concezione dello Stato, questi due principi sono: il principato assoluto, fortemente centralistico, «sovrano», cioè non dipendente da nessun potere sulla terra se si esclude la sua volontà sovrana […] oppure, come ideale opposto a questo, la signoria non meno sovrana della cosiddetta volontà popolare. […] Nell’ambito della cultura essi sono: una cultura che riflette la nazione oppure una cultura mondiale. Infine, nell’ambito dei sistemi economici, essi sono: la libera concorrenza di tutti gli individui e tutti i gruppi che economicamente ubbidiscono solo al proprio egoismo – oppure, come ideale opposto, un socialismo di Stato imposto […].430

Questi opposti ideali, a dire di Scheler, «contraddicono il nucleo più intimo della concezione cristiana della comunità», in quanto essi, tutti e nella stessa misura, seppure in direzione opposta, negano sia il principio di solidarietà […] sia il principio strettamente connesso a quello, secondo il quale ogni individuo e ogni unità sociale subordinata […] devono essere tanto un soggetto autonomo di diritto e sovrano, in rapporto al proprio diritto originario, quanto un libero servitore […] come membro di un’unità sociale estesa», [facendo riferimento al] supremo signore di ogni comunità, cioè Dio.431

Scheler qui contrappone lo sviluppo del pensiero socio-politico moderno, al suo interno dialettico, al corpus dottrinario della concezione cristiana, intesa come elemento terzo e inafferente al processo di formazione dello spirito moderno, dal quale invece esso si è originato per emanazione culturale o per antitesi, rendendo inspiegabile la sua fenomenologia

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Ivi, pag. 933. Ivi, pag. 935.

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storico-ideale. Questo tipo di analisi di Scheler getterebbe un’ombra problematica sulla stessa fondatezza della sua sociologia del sapere se non fosse preordinata a uno scopo ideologico ben preciso, quello di offrire alla cultura tedesca una sponda culturale e morale che la sospinga verso il recupero del suo senso di appartenenza alla civiltà dell’Europa attraverso la comune identità del cristianesimo. Recuperare il fondamento cristiano, equivaleva per Scheler a restituire all’Europa lacerata dalla guerra il suo profilo ideale più autentico e profondo dello stesso razionalismo, e anche molto più partecipato di quanto lo sarebbe il progetto husserliano di fondazione di una nuova logica trascendentale: quello appunto dell’etica cristiana, che per un millennio e mezzo ha ispirato e sostenuto lo «spirito oggettivo» della civiltà europea. Un «ritorno ai princìpi» morali per ridefinire il corso della società e della cultura post-moderne. Insomma, la proiezione utopica di una origine (spirituale) perduta e (socialmente) da riaffermare. Come, se non con gli strumenti della politica, cioè con quanto di più pagano e insieme moderno si potesse immaginare? L’idea di Stato, come organizzazione burocratica del potere, nasce infatti dall’esigenza di amministrare la funzione decisionale, relativa a stabilire ciò che è da ciò che non è sacro, espresso in termini religiosi, ovvero legale, in termini laici. Stabilita la funzione, con essa nascono i depositari e i custodi dell’ordine di cui essa è funzione. L’idea comunitaria di Scheler viene mutuata dal tradizionale concetto cristiano di «corporazione», intesa come «legame originario e organico» delle persone che vi appartengono. L’idea cristiana, rispetto alle forme pagane di comunità statale, ha in più la conoscenza della «anima spirituale immortale, autonoma, nel suo nucleo superiore ad ogni possibile comunità statale, indipendente dallo Stato, creata da Dio, con il suo mondo interiore religioso e morale e il regno intimo del suo animo». La comunità antica «non conosceva il fine, che si trova oltre ai fini del benessere e della cultura del singolo come dell’intero, e il valore della salvezza spirituale, soprannaturale della totalità e della persona individuale», il cui concetto costituisce il «limite invalicabile» a ogni pretesa dello Stato.432 L’«individualismo cristiano», non è solo, dice Scheler, «una verità della fede cristiana», ma è il connotato precipuo della cultura spiritualistica che non riduce quel concetto alla mera dimensione economica o a un «modus di una qualche forma di totalità», si tratti dello Stato, della società o della ragione cosmica o del processo storico, ma lo costituisce come «la magna carta dell’Europa», in base alla quale «l’essere e l’essenza della

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personalità [umana] è immortale e perciò già anche durante la vita terrena non deve dissolversi completamente nella nazione e nello Stato, e non deve darsi ad esse».433 Orbene, acquisita questa coscienza spirituale al patrimonio comune della cultura europea, la persistenza dello Stato, quale comunità etico-politica, viene assunta da Scheler come una resipiscenza pagana, e non già come la forma strutturata necessaria alla sussistenza di ogni gruppo umano non occasionale, cioè organizzato. Nel caso specifico della comunità cristiana, cui fa riferimento Scheler, il rapporto con la fede passa anch’esso attraverso l’autorità apostolica, la quale, rispetto al popolo dei fedeli, costituisce l’organo del governo pastorale, preposto a decidere sulla legittimità e ammissibilità delle forme espressive di credenza. La fede sostiene la credenza della comunità, ma non ogni forma di fede è ammissibile secondo ragione. Ciò vuol dire che l’autorità apostolica ha il compito della decisione razionale sulle forme della fede, in quanto organo depositario delle forme legittime, cioè ortodosse. Così, se la fede sostiene la credenza della comunità, la ragione sostiene l’azione apostolica. Ma di quale «ragione» si tratta? Sulla base della risposta a tale domanda si sviluppa la relativa concezione del potere, anche di quello dello Stato. Secondo quanto riferito di sopra, tutta la comunità dei credenti partecipa alla costituzione formale del Verbo, poiché la sapienza del mondo con cui si esprime la Parola divina è la ragione stessa che intendono i suoi membri quali uomini appunto del mondo. Se infatti non la intendessero, ed essa restasse inespressa o esotericamente misteriosa, la stessa predicazione del Verbo sarebbe inutile e vana. L’istanza predicatoria avanzata dal messaggio evangelico presume la comunicabilità della Parola divina in forme non esoteriche. La forma umanamente universale del Verbo è il suo linguaggio razionale universale. Senza il sapere profano, umano, lo Spirito non potrebbe comunicarsi alle genti. E poiché le culture umane sono storiche, anche il linguaggio religioso dev’essere necessariamente storico, e come tale aggiornabile e riformabile. L’innesto del Verbo nella forma sapienziale profana, trasvaluta questa, trasformando il linguaggio della ragione, cioè la filosofia, in teologia, cioè in una mitologia razionalistica, in cui la fabula veritatis è commista al linguaggio sapienziale della ragione umana, che appunto è universale. Il nuovo sapere razionale di Dio ha creato l’organo della sua elaborazione tecnica, cioè della sua forma canonizzata; ossia ha creato il monopolio ermeneutico della Chiesa istituzionale, la quale, depositaria del Verbo, è divenuta anche la custode della sua forma storica, determinandosi come

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Ivi, pag. 939.

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potere culturale sacralizzato. La custodia del Verbo, però, non può consistere nel monopolio dello Spirito santo, ma consiste nel culto dello Spirito trascendente ogni forma storica della Verità. Custodire una forma storica di verità, significa sostituire il prodotto umano al Creatore, nel nostro caso, divino, ossia praticare un culto idolatrico. Se dunque la Chiesa considera «sacra» assieme alla Parola divina anche la forma storica della sua espressione mondana, ossia se stessa come fonte istituzionale di elaborazione del sapere teologico, opera una forma di idolatria, contravvenendo allo spirito universale del messaggio cristiano, e alla stessa verità dell’incarnazione divina. Il Verbo, infatti, non si può esprimere che in forma storica, perché i suoi contenuti trascendenti non sarebbero altrimenti comunicabili. Il linguaggio della comunicazione della Parola è quello del sapere del tempo. Assimilare la comunicazione al culto del Verbo, è idolatria, e rappresenta la forma originaria di «passaggio» del sacro al profano operata dalla (struttura istituzionale di potere della) religione cristiana. Idolatrico è il culto della parola della Verità, la quale parola non è la Verità, ma la sua forma storica, mutevole. La Verità, rispetto alla forma storica della sua espressione, è eterna, perché trascendente, e quindi richiede un continuo adattamento formale ai suoi contenuti. Il potere ermeneutico della Chiesa si basa sul monopolio delle forme espressive della Verità, cioè sulla gestione del sapere teologico, nato dalla conversione sacralizzata della filosofia. La crisi della sintesi cristiana si sviluppa attraverso i due congiunti momenti della emancipazione del sapere filosofico dal sapere teologico, e della rottura del monopolio ermeneutico della Chiesa istituzionale, che hanno prodotto rispettivamente il razionalismo teoretico e il fideismo protestante dell’età moderna. Il razionalismo, ossia il sapere razionale emancipato dalle sue radici religiose, si riflette come sapere mondano assoluto, cioè come scienza auto-fondata sulla ragione, anche sul campo dei rapporti pratici, come teoria della società e dello Stato. Lo Stato auto-fondato sulle sue ragioni politiche è infatti la traduzione moderna della concezione cattolica della Chiesa sia come comunità auto-sufficiente che come struttura istituzionale finalizzata alla conservazione e perpetuazione del proprio potere dirigente sulla comunità. L’esito secolaristico moderno della concezione assolutistica della Chiesa apostolica è il machiavellismo, cioè l’idea di Stato che nel proprio fine di potere trova le sue stesse ragioni morali di esistenza. Il fine in sé dello Stato machiavellico è il riflesso secolare della concezione cattolica della Chiesa come apparato monopolistico del potere ermeneutico. Il valore simbolico del potere istituzionale è cambiato, ma non il senso immanente alla sua espressione tecnico-formale di fonte delle decisioni di governo, che non riconosce 276


alcun potere superiore a se stesso. Se si tiene presente il processo di sacralizzazione del sapere e del mondo profani operato nei secoli di mezzo dal cristianesimo a partire da Paolo, si comprende come la modernità consista nella opposta tendenza a ridefinire in termini profani quanto della realtà teoretica e pratica era stato assimilato ai valori e ai fini trascendenti della religione cristiana, il cui concetto di «cattolicità» esprimeva la tendenza universalistica del processo di sacralizzazione, e che puntualmente si riproporrà nei termini altrettanto universali della profana razionalizzazione moderna. Così, alla Chiesa istituzionale, staccata dalla sua comunità e concepita come depositaria unica del sacro valore dell’umanità cristiana, corrisponde lo Stato assolutistico teorizzato dal Principe di Machiavelli, il cui unico fine è di affermare se stesso come realtà di potere. Non è difficile cogliere, a questo punto, l’analogia tra il movimento protestante religioso interno alla cristianità e il movimento liberale interno alla società secolarizzata razionalistica. In entrambi i casi, avviene una dislocazione della fonte ideale della sintesi del valore trascendente e di quello mondano dal luogo istituzionale oggettivo, si tratti della Chiesa o dello Stato, al luogo dell’interiorità soggettiva dell’individuo, rispettivamente, morale e politico. Il fideismo religioso e il razionalismo politico, nei rispettivi campi, operano tale dislocazione in interiore homine del potere spirituale e, rispettivamente, mondano, in polemica verso la struttura istituzionale di riferimento, al fine di neutralizzarne la pretesa assolutistica e totalitaria. Tutta la cultura moderna riflette questa tensione polemica di affermazione del libero sapere profano e di resistenza autoritativa del sacro. Il principio individualistico che si sviluppa a seguito dello scisma protestante, e che contrassegna perciò la rottura culturale e teologica con la tradizione comunitaristica vetero-cristiana e cattolica, viene incongruamente da Scheler, non già indicato come un elemento di discontinuità teologica, ma assurto a simbolo della stessa identità cristiana più evoluta e consapevole, in contraddizione con quanto prima affermato circa l’imprescindibile carattere comunitario della salvezza spirituale. Egli, cioè, non pare rendersi conto che il «concetto di sovranità e di poteri estremi, illimitati» che «il principato assoluto, insieme al movimento borghese del nazionalismo» hanno osato innalzare «al di sopra della legge cristiana e del suo amministratore supremo», erano il frutto di quella rottura teologica dell’unità organica cristiana medievale di cui si è detto, che proprio sull’individualismo poggiava il suo punto di leva. Invece Scheler, affermando la superiorità della cultura dell’individualismo cristiano, la contrappone ideologicamente alla «invasione da parte delle schiere russe», all’Oriente ignaro del «valore dell’anima individuale». A quella generica cultura orientale in cui «la personalità è ancora sommersa dal popolo, dalla stirpe, dalla massa, dal 277


branco», è compreso anche il «cristianesimo ortodosso, che non conosce ancora quella magna carta dell’Europa cristiana, il valore infinito delle singole anime individuali».434 Inoltre, a seguito di questa posizione ideologica, Scheler, pur cogliendo lucidamente il carattere idolatrico delle moderne ideologie sociopolitiche, le quali appunto «rendono lo Stato e la nazione degli idoli», le collega alla negazione dell’ «individualismo cristiano» e del «principio di solidarietà», anziché al prototipo dell’idolatria ecclesiastica della Chiesa apostolica istituzionale, come pure dovrebbe, ricordando egli stesso che «la dottrina sociale cristiana afferma che nessuno, all’infuori di Dio, dunque nessuna istituzione terrena, deve essere ‘signore supremo’ e nessuno deve essere schiavo, ma ciascuno e ogni istituzione deve essere contemporaneamente signore e libero servitore di un Signore superiore», che è Dio, e non il papa e la Chiesa.435 Ma la distinzione medesima di un cristianesimo occidentale e di uno orientale, pur negando implicitamente ogni concetto di cattolicità cristiana, diventa oltremodo problematico in considerazione della dubbia ricostruzione della genesi dello Stato assolutistico moderno come un fenomeno del tutto esterno al processo di sacralizzazione idolatrica della Chiesa istituzionale, che è anteriore al fenomeno statolatrico moderno, attribuendolo a una di quelle «concezioni di comunità sorte al di fuori del terreno delle chiese cristiane»,436 ossia a un retaggio neo-pagano che la millenaria cristianizzazione non era riuscito a scongiurare, anziché a quella «tenebrosa dialettica» interna al mondo cristiano, di cui parlerà a proposito Berdjaev.437 La prospettiva cristiana di Scheler indulge al mito della ricostruzione della «vera Europa cristiana» dopo la catastrofe bellica, che riprende il disegno dei contro-rivoluzionari romantici di ristabilire un ordine nuovo sulle fondamenta di un ordine eterno, che poi è il miraggio di ogni idealismo a partire da Platone. Ma la stessa dichiarazione d’intenti programmatici è di per sé problematica, in quanto la definizione di ciò che era «vera», di ciò che poteva definirsi «Europa» e la sua qualifica di «cristiana» erano questioni aperte e non scontate. Senza considerare che la pur univoca definizione ideale dei tre termini non avrebbe di per sé costituito un valore d’azione senza il supporto decisivo di una forza istituzionale che quell’ideale avesse incarnato. E non soltanto gli Stati

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M. Scheler, Loc. cit., pag. 941. Ivi, pag. 941-943. 436 Ivi, pag. 941. 437 Vedi C. Marco, N. Berdjaev. La coscienza infelice della Russia cristiana, in “Coscienza Storica” n.2. 435

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della cristianità erano divisi e lacerati da insanabili contrasti, ma la stessa «comunità» cristiana era al suo interno storicamente e teologicamente frantumata da secoli di vertenze oppositive. Quanto alla Chiesa, la stessa situazione politica e civile europea ne confermava il fallimento morale e la sua mera sopravvivenza istituzionale. Ciò che infatti andava in pezzi era proprio l’idea di una unità spirituale e politica della comunità cristiana europea che avrebbe reso possibile una Chiesa quale riferimento morale comune, per cui l’ipotesi di una costituzione federale di Stati europei, fondata su «l’idea cristiana di comunità»,438 passava anch’essa attraverso il progetto non nuovo di una potenza politica mitteleuropea che potesse essere il motore di quel processo, e che lo stesso Scheler collegava «con le forze e le idee storiche che avevano sostenuto l’impero germanico medievale».439 La verità era che ogni ipotesi unitaria dell’Europa, sia in campo politico che in quello spirituale, si legava inevitabilmente al superamento dell’età moderna, e quindi alla ripresa di quella identità religiosa comune di cui lo spirito moderno testimoniava la crisi. La fede in un nuovo cristianesimo consisteva quindi nell’idea che quella crisi non fosse irreversibile, e che anzi il processo della modernità fosse nel suo insieme una forma di decadenza spirituale e di imbarbarimento della civiltà cristiana. Ma, seppure l’idea di progresso caratterizzante il razionalismo moderno si fosse effettivamente dimostrato un mito, come tornare a quanto quel mito aveva infranto, e che gli aveva consentito di farlo? In altri termini, come si poteva ripristinare una identità spirituale e politica unitaria poggiandola sulle stesse forze spirituali e politiche che l’avevano infranta, o che di quella dissoluzione erano state la risultanza storica? Ciò che Scheler non coglieva era che qualsivoglia unità spirituale europea poteva sorgere solo in opposizione ideale a una realtà politica frastagliata, ma che non poteva realizzarsi se non come a sua volta opposta a quella realtà storica, ossia facendole violenza. Si trattava, cioè, di contrastare l’esistente in nome dell’ideale con strumenti politici. Infatti, fuori della logica politica, l’unità spirituale poteva sussistere anche in presenza della disunità statuale, anzi proprio a ragione di essa. Perché dunque trasformare la comunità ideale in comunità politica se Cesare e Dio avevano regni distinti? Era questa esigenza trasformativa della realtà storica che aveva sorretto, prima l’utopia totalitaria cattolica, e poi la contro-utopia razionalistica moderna, tendenti a rispecchiare nel mondo reale l’armonia del mondo ideale. E proprio questo rispecchiamento costituiva l’essenza di ogni rivoluzione, tesa appunto a fare del mondo profano un mondo sacro, o viceversa.

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Ivi, pag. 943. Ivi, pag. 945.

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La fede può far credere che «dall’idea cristiana di comunità deriva anche una forza non meno vincolante per ristabilire tra le nazioni i normali rapporti spirituali riguardo alle questioni della cultura spirituale»,440 ma tale presupposto è proprio ciò che mancava e che andava auspicabilmente ripristinato al fine dell’unità dei popoli divisi. La «forza vincolante» moderna per i popoli europei non è più la religione, e ciò in virtù di quella interiorizzazione dell’elemento fideistico che ha superato l’idea della mediazione istituzionale tra anima e Dio. Nel contempo, la pregressa forza religiosa, che si è estinta nelle relazioni tra i popoli, interiorizzandosi nelle singole coscienze, ne ha condizionato i rapporti anche verso il potere politico, sviluppando quell’ideologia liberale di cui si è detto. Ciò vuol dire che, nel nuovo clima spirituale e politico, ogni tentativo di ricostituzione di un potere mediatore centralizzato, di tipo morale o politico, urterebbe contro la nuova sensibilità individualistica veicolata dal cristianesimo riformato, per cui l’ipotesi di una ridefinizione etico-politica dell’Europa post-moderna incontrerebbe la questione della sua identità spirituale; questione che Scheler non considera un problema ma la soluzione da cui partire per superare il nazionalismo. In altri termini, lo spirito dell’utopia neo-cristiana di Scheler non può presupporre alcun dato di realtà storico se non come termine dialettico da superare al fine dell’affermazione dell’ordine nuovo condendo, per cui anche l’atteggiamento delle chiese stabilite all’interno di ciò che era la cristianità europea doveva dismettere la tradizionale prassi testimoniale per assumere una rinnovata funzione profetica di evangelizzazione che dunque costituiva l’obiettivo dell’azione apostolica e non già il presupposto dell’estensione dell’apostolato cristiano nel campo politico. Ma ciò avrebbe comportato la «messa in parentesi», non già del solo orizzonte culturale e politico del razionalismo moderno, ma della stessa identità e prassi pastorale delle varie confessioni religiose e delle relative istituzioni ecclesiali. Ossia, considerare l’intero processo della complessiva civiltà cristiana come un grandioso esperimento mancato. E ciò equivaleva appunto alla sostanziale adesione alle istanze avanzate a suo tempo dalla Riforma, e, ancor prima, dallo scisma d’Oriente, che aveva contestato la pretesa di Roma di rappresentare la Chiesa di Cristo. Ma quale ruolo era possibile alla Chiesa cattolica, una volta escluso ogni suo primato alla direzione delle coscienze cristiane se non quello di difendere tali coscienze dalle indebite pretese del potere di Cesare di sottometterle alle sue ragioni politiche? Non quello, dunque, di combattere da potere secolare contro altri poteri secolari, ma di testimoniare che il potere di Dio non è di questo mondo.

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Ivi, pag. 945.

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Anche la Chiesa, che sola avanza la pretesa di un’unità che comprenda gli uomini (col profondissimo diritto dei valori supremi e indivisibili, che essa e solo essa amministra), anche la Chiesa non deve e non vuole guidare direttamente la cultura spirituale – ed essa neppure lo può se non vuole particolarizzare sé stessa. Essa deve e può solo avanzare una pretesa di difendere la pienezza delle culture originali di fronte ad ogni nazionalismo e imperialismo politici, anche del cosiddetto imperialismo spirituale, e poi di pronunciarsi chiaramente laddove essa veda che i beni religiosi complessivi del Corpus Christi, siano danneggiati o messi in dubbio da un orientamento culturale.441

Ma la premessa da cui partiva Scheler era che «il diritto eterno all’esistenza delle nazioni si trovasse proprio nella sfera culturale (lingua, costumi, letteratura, arte), non nella sfera politica e non in quella economica», ossia che venisse rinnegata sul piano pratico quella forma di comunità che era subentrata a quella spirituale cristiana anche sul piano ideale come risposta correttiva al frazionismo dei gruppi religiosi e all’anarchia delle coscienze individuali. L’obiezione di fondo è che il deposito spirituale cristiano della «sfera culturale» delle nazioni non era un dato originario, ma il portato di un’azione evangelizzatrice che aveva trasformato le antiche identità culturali storiche dei popoli pagani in un nuovo prodotto teologico precipuamente cristiano. Questa nuova identità religiosa dei popoli cristianizzati costituiva un tentativo di superamento della distinzione evangelica tra «ciò che è di Cesare» da «ciò che è di Dio», poiché il cristianesimo aveva cercato di assorbire sul piano culturale il mondo profano di Cesare. Ora, proprio questo tentativo totalitario era andato deluso provocando sia lo scisma fideistico che l’emancipazione razionalistica, e il cui fallimento testimoniava la complessiva cultura moderna, anche religiosa. Pertanto, il «fallimento» del cattolicesimo poteva ben riassumersi nel tentativo mancato, non già di convertire Cesare, ma di cambiare le sue leggi da politiche a morali, da profane a sacre, contraddicendo perciò la stessa distinzione evangelica tra i due regni. Ma l’essenza del cristianesimo, rispetto alle altre religioni storiche, non era appunto l’ammettere che persino Cristo venisse giudicato dalle leggi degli uomini, lasciando ai farisei la responsabilità di utilizzarle per scopi religiosi? Non era la distinzione dei due regni la novità di una predicazione che intendeva sovvertire lo spirito delle leggi, facendo dell’uomo il depositario di una coscienza trascendente le leggi naturali? E allora, perché mai la Chiesa avrebbe dovuto concepire il suo ruolo 441

Ivi, pag. 949.

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spirituale in termini di ingerenza nel campo politico, anziché consacrarsi al fine di testimoniare l’eterna trascendenza dello spirito sulla carne? Questo ruolo di custode dell’ortodossia spirituale era nato, come sappiamo, dalla pretesa della Chiesa di aver realizzato in questo mondo la sintesi del senso divino della parola umana e del senso umano della parola divina che Cristo aveva lasciato come missione escatologica alla sua comunità ecclesiale. La realtà del mondo, che Cristo aveva lasciato a Cesare, si era sostituita alla realtà dell’uomo, lasciando che la sfera del governo spirituale dell’uomo si combinasse con la sfera politica del governo naturale degli uomini, traducendo in termini politici il senso spirituale della «comunità» cristiana, che è comunione in Cristo, e non società cristiana. Una società cristiana, infatti, è concetto contraddittorio quanto una politica cristiana. Cristiana può essere solo la fede in un mondo altro da quello mondano politico, un mondo spirituale e non storico. Se la storia è il mondo dell’esperienza umana, la sua realtà politica non potrà essere negata senza che venga negata nel contempo anche la stessa esperienza umana. L’alterità rispetto a questa non è la trasformazione del mondo; del mondo politico in mondo morale, ma l’assunzione già in esso di una dimensione trascendente e spirituale che resti perennemente distinta, come sfera sacra, dalla sfera profana dei rapporti sociali. Questa sfera sacra il cristianesimo, distinguendola da quella profana, l’ha destinata al cielo, ossia al regno delle idee, alla sfera della coscienza, che abita in interiore homine, e non la terra dei Cesari, regnum Diaboli. La rottura della sintesi cristiana di spirito e materia, di Verbo divino e linguaggio umano, aveva prodotto la modernità e il suo caratteristico stile culturale, opposto allo stile tipico della Chiesa medievale e ostile al suo spirito totalitario. Proprio questa pretesa della Chiesa e del suo vertice, la suprema autorità ecclesiastica, la pretesa di una sorveglianza dall’alto anche sulla vita della cultura spirituale – per quanto riguarda le cose sante – prima della guerra aveva allontanato moltissimo, in tutte le nazioni, l’Europa moderna dalla Chiesa. Così come non si voleva più sapere nulla della legge morale cristiana come principio supremo della politica estera degli Stati, allo stesso modo non si voleva più sapere nulla neppure di una ispirazione delle Chiese cristiane rispetto alla più alta produzione culturale, all’arte, alla filosofia, alla scienza; e proprio perché questa ispirazione viva, unificante degli ambiti della cultura e delle nazioni culturali si era sempre più dissolta nel corso della modernità e fu via via sostituita anche linguisticamente, metodologicamente e stilisticamente da un nazionalismo culturale sempre più aspro, che negava la necessità di completamento di tutte le nazioni, di fatto gli interventi dell’autorità ecclesiastica – là dove avvennero – dovettero risuonare sui rappresentanti di quell’idea di cultura extracristiana come interventi estranei,

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meccanici, esterni. Da parte dei gruppi che governavano nella maggior parte degli Stati fu negato per principio all’autorità ecclesiastica il diritto di interferire con la cosiddetta autonomia della ragione e della cultura nelle questioni della salvezza.442

Ciò che Scheler non spiega è che, nella prospettiva cattolica, tutte le cose del mondo erano considerate «cose sante», per cui il suo intervento diventò di diritto totale, inerente a ogni ambito umano, sia spirituale che sociale. Ed è tale «diritto» che Scheler continua a ritenere antistoricamente legittimo, argomentando che, poiché tutte le attività umane, anche quelle spiritualmente più alte, sono sempre anche attività comunitarie, allora la natura specifica e il contenuto dell’idea di comunità che di volta in volta governa la vita è della massima importanza anche per il progresso, per lo spirito e per il successo di queste attività. Le condizioni umane formano sempre e ovunque una intrinseca unità di stile e di struttura.443

Ciò che Scheler vuol dire è che ogni specifica forma spirituale appartiene a una totalità organica, che nel caso è «l’ideale cristiano di comunità», abolito il quale, «è anche abolita alla radice non solo la fede comune in una Chiesa, ma anche la conoscenza comune, tanto nella successione temporale delle epoche, quanto nella vicinanza spaziale di coloro che cooperano alla conoscenza», contrariamente a quanto avveniva nel Medioevo, quando «intere generazioni costruivano una sola Chiesa – senza far venir meno l’identità stilistica dell’edificio-», oppure «i diversi filosofi di nazioni diverse» contribuivano «alla costruzione di una philosophia perennis, nonostante le diverse sfumature della loro prospettiva».444 Diversamente, nell’epoca moderna, ogni forma spirituale assoluta perde di vista il senso spirituale unitario. Ma questa condizione spirituale del tempo del razionalismo, che da un lato spinge verso il principio del «criticismo soggettivistico» e dall’altro verso il principio nazionalistico, che «spinge le nazioni a lavorare l’una contro l’altra» e le singole scuole nazionali a contendersi una sorta di primato tra di loro, nasce per reazione all’interno di quella tendenza totalitaria, messa in opera dalla teologia della Chiesa cattolica, a trasformare «tutte le attività umane» in elementi «comunitari», secondo un criterio comunitaristico da essa stessa elaborato e custodito, per cui la dimensione del sacro, anziché costituire l’orizzonte spirituale delle 442

Ivi, pag. 949-951. Ivi, pag. 951. 444 Ibidem. 443

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singole manifestazioni spirituali, ne diveniva la premessa autoritativa delle loro espressioni mondane. Sicché, in nome della custodia del fondamento sacro della verità, anche le forme del sacro venivano giudicate conformi o meno al principio stabilito di congruità, e cioè di ortodossia religiosa. In questa prospettiva, essendo sacro il contenuto eterno del Verbo divino, e come tale non soggetto a giudizio critico, la vertenza era sulle forme storiche della sua manifestazione umana, che erano soggette alla cassazione ecclesiastica. La conseguenza fu che si rese necessario, da un lato, negare l’autorità della Chiesa per affermare la centralità della persona umana soggettiva, e dall’altro fare di questo centro spirituale soggettivo la fonte della creazione spirituale anche in senso contenutistico e non solo tecnico-formale, facendo assurgere la ragione emancipata dalla sintesi teologica a valore indipendente e autofondato di conoscenza. La giusta analisi sociologica di Scheler viene però inficiata da una arbitraria ricostruzione delle ragioni dell’affermazione dello spirito assolutistico moderno, che proprio nell’atteggiamento teoretico della Chiesa cattolica aveva il suo paradigma gnoseologico. La «comunità» spirituale medievale nasceva dalla comunanza dell’ispirazione cristiana, nel senso che il fine di ogni attività spirituale rimaneva trascendente a ogni singola manifestazione storica, e come tale non giudicabile che per le forme culturali che lo esprimevano, le quali erano passibili di un giudizio tecnico, ma non dei loro contenuti ideali. Solo a condizione di ritenere immanenti alle forme storiche anche i contenuti della fede fu possibile, per la custode dei valori, affermarli giudicandone la congruità formale, e per il razionalismo successivo giudicare quelle forme storiche alla stregua di valori spirituali eterni. Così, se la Chiesa, volendo vedere Dio in ogni attività umana, giudicava in nome e per conto del sacro ogni forma profana, il successivo razionalismo interiorizzò nello spirito umano personale la presenza di Dio e giudicò rilevante spiritualmente le sole forme profane. Non a caso lo spirito moderno portò all’apogeo le «due scienze mondane» dell’estetica e dell’economica, con cui si esprimeva la cultura desacralizzata postteologica. L’unità comunitaria cristiana era possibile mantenerla solo assumendola come un processo in divenire verso la sua meta escatologica, cioè come unità spirituale trascendente ogni sua storica manifestazione. Posta l’identità tra questa unità spirituale e la Chiesa visibile come istituzione storica, veniva a perdersi il suo carattere sia liberamente comunitario che trascendente. Infatti, il carattere trascendente della comunità spirituale, rispetto a ogni altra forma politica di socialità, era riposto nella sua libera adesione, che implicava sia l’irriducibilità della singola persona ideale al tutto comunitario storico, che la possibilità di riformare le condizioni 284


unitarie sulla base delle mutate sensibilità soggettive. Questo carattere privativo della personalità umana coincide con l’attività stessa della sua ragione, che è lo strumento teoretico della sua libertà interiore. Confondere l’unità spirituale, liberamente cercata e trovata nella comunità ideale, con l’unità istituzionale imposta da una autorità ecclesiastica, significa anticipare, sul piano sacrale, il paradigma di Stato totalitario che si svilupperà in seguito alla secolarizzazione razionalistica come suo modello antitetico ma analogo. La coscienza religiosa cristiana introduce nella cultura umana, soprattutto nelle sue espressioni più direttamente influenzate dalla teologia e dalla spiritualità evangelica, il valore primario e insopprimibile della soggettività, a partire dalla quale diventa problematico il rapporto comunitario delle antiche formazioni sociali organiche, Chiesa compresa, per cui l’affermazione moderna del soggettivismo teoretico non è che lo sviluppo in campo gnoseologico di una tendenza ideale fondamentale, che finisce per connotare la stessa civiltà cristiana e occidentale nelle sue formazioni civili e strutture istituzionali, e che fa interpretare la risposta del potere pubblico contro le istanze coscienzialistiche di Socrate un grave attentato alla libertà morale dell’uomo, anziché, come nel suo tempo, una legittima risposta dello Stato alle minacce di disgregazione sociale del pensiero privato. Con l’affermarsi della coscienza cristiana, non è la fede nella verità la materia della contesa tra i filosofi di opposte dottrine, così come, con l’affermarsi del soggettivismo fideistico, non è la fede in Dio a dividere gli esponenti delle diverse confessioni, essendo la fede nella verità e in Dio il presupposto comune ai contendenti. Una volta determinata la sede della coscienza teoretica e religiosa, ciò che divide in entrambi i campi spirituali è la credibilità e l’autorevolezza della fonte depositaria di quella fede comune. Necessariamente, per intrinseco sviluppo della logica soggettivistica, il patrimonio spirituale del deposito tradizionale di quella fede doveva essere assunto per la coscienza soggettiva come un dato storico non vincolante, per quanto significativo e autorevole, sicché il senso stesso della fede comune doveva svolgersi in una accezione non più tradizionalmente comunitaristica ma comunitaria in senso volontaristico e liberamente collegiale. Con la consegna apostolica della missione universale, la comunità cristiana si sarebbe definita come una collettività aperta, soggetta a continue integrazioni di gruppi e di esperienze nuovi, ognuno dei quali avrebbe offerto il suo contributo di fede e di pensiero alla comunità, che a posteriori ne avrebbe assunto il relativo valore come proprio. La comunità potenzialmente universale è dunque sempre un referente terminale, il compendio di tutte le esperienze che vi si riversano, e non può identificarsi con una struttura chiusa e oligarchica istituzionalmente separata dalla comunità di cui è guida morale. Infatti, questa strutturazione definita in termini non solo 285


funzionali al ruolo carismatico delle guide spirituali della comunità, ma istituzionali, configura una realtà sociale di natura politica, contro la cui logica era sorta la libertà della coscienza religiosa. Ogni forma sociale istituzionalmente strutturata determina, com’è noto, una burocrazia e un potere oligarchici che, dalla Chiesa allo Stato fino al partito politico contemporaneo, distingue la classe dirigente dal resto della comunità sociale. Ma la comunità religiosa non voleva costituirsi sul modello di questa formazione sociale di tipo politico, ma rappresentare un modello alternativo, basato sulla libera adesione dei cuori anziché dei corpi. Non a caso lo statalismo moderno di Hobbes ricupera la dimensione corporale come l’elemento primario della costituzione socio-politica razionalistica. La libertà dei cuori contro l’obbligazione dei corpi era la nuova polarizzazione introdotta dall’etica cristiana dell’amore, configurativa di un ordo amoris distinto da quello giuridicizzato e propriamente sociale in forza della sua libera costituzione e adesione. Rispetto alle forme pattizie di socialità profana, anch’esse volontaristiche, la comunità religiosa poneva come suo discrimine essenziale il sentimento di adesione spirituale a una entità trascendente ogni forma corporea e istituzionale, la quale in virtù della sua trascendenza oltrepassava qualsivoglia individualità soggettiva, umanamente definita. Tale entità trascendente, per la sapienza profana era il pensiero, l’idea, mentre per la coscienza religiosa era lo spirito. E poiché ogni anima singolare ne sentiva in sé la presenza, la comunità delle anime costituiva un collettivo che si riconosceva in quella comune presenza, che era spirituale e non già istituzionale. Ossia una presenza di amore, che legava i fedeli amorosamente, non con la forza della cogenza sociale, cioè politicamente. La conoscenza amorevole, che Scheler chiama «comunicativa», non è di tipo razionale ma è «conoscenza rivelata», e che non le facoltà di pensiero ma «solo l’amore in noi può accogliere». Essa, secondo Scheler, «fu negata per principio» a seguito dell’affermazione di «un ‘pensiero’ individuale per così dire svincolato dalla comunità, anzi da tutte le altre anime», il quale, insieme alle «percezioni sensibili», costituirono «le uniche fonti giustificate della conoscenza».445 Ma fu veramente così? In realtà, la «conoscenza comunicativa», fondata sull’adesione amorevole alla verità, cioè sulla intuizione propria alla fede, era per definizione alternativa alla conoscenza ritenuta profana che dominava la vita pubblica, e che era quindi socialmente garantita dalla forza politica. Questa conoscenza era, come quella filosofica, quindi di natura essenzialmente «privata», perché non pubblicamente riconosciuta e omologata. Ogni «pensiero» per sua essenziale costituzione è «svincolato

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M. Scheler, Loc. cit., pag. 953.

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dalla comunità», proprio perché libero di determinarsi fuori dell’obbligatorietà delle statuizioni pubbliche. Il «pensiero», di cui tratta Scheler qui, ha riguadagnato la sua privatezza, non in quanto «svincolato dalla comunità [dei fedeli]», ma in seguito alla riaffermazione della sua libertà teoretica dai vincoli della comunità politica, a partire dalla comunità ecclesiastica, che era quella che in ambito religioso era la più politicizzata. È nel momento in cui il pensiero diventando pubblico si identifica con la forza conservatrice della socialità, quella appunto politica, esso perde il suo carattere propriamente «privato» e «soggettivo» per diventare patrimonio ideale comune, pensiero comunitario. Tutto questo non è deleterio per il pensiero espresso, per le sue manifestazioni storicizzate, ma lo diventa allorquando la legittima esigenza conservatrice del sistema socio-politico si trasferisce nei contenuti dell’attività del manifestazione, limitandone la libertà di espressione e di ricerca. È in questo momento che il pensiero si snatura e perde la sua fisionomia soggettiva e personale, per essere assunto come dimensione puramente socializzata e collettiva, ossia pubblica. Il pensiero, in quanto soggettivo e personale, può diventare socialmente dirompente e potenzialmente eversivo. A questo rischio il potere pubblico può rispondere in due modi essenziali: o cercare di neutralizzarlo attraverso l’opera repressiva, ovvero assimilarlo come patrimonio comune della società, intesa anche come comunità spirituale. La prima opzione è tipica dei regimi di cultura pagana, che non conoscevano o non riconoscevano il valore della soggettività affermato dal cristianesimo. La seconda opzione è invece propria della sensibilità delle culture sociali cristianizzate, le quali, in modi e forme diverse e non tutte congruenti, hanno quanto meno ammesso il libero dispiegamento del pensiero in aree determinate e circoscritte della conoscenza umana. Ma proprio in ambito cristiano la Chiesa cattolica ha esercitato una funzione repressiva del libero pensiero in nome della salvaguardia dell’ortodossia, identificando sé stessa con la «comunità cristiana», alimentando la moderna reazione razionalistica del «criticismo soggettivo e idealista», di cui parla Scheler.446 Il pensiero moderno nasce quindi come reazione filosofica al «comunitarismo», e non già alla «comunità». Il comunitarismo è infatti la stabilizzazione istituzionale di una comunità storica al fine di salvaguardarne la sussistenza. Ma questo fine politico, legittimo nel suo ambito sociale, era il fine della comunità cristiana? Questo è il punto fondamentale per distinguere la socialità religiosa da quella politica. Punto sul quale l’analisi di Scheler sorvola mostrando di non cogliere l’essenza della questione religiosa moderna.

446

Ibidem.

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Da chi fu sperperato il «capitale interiore» del cristianesimo se non dalla Chiesa, il cui istituzionalismo teologico-politico ridusse «l’universalismo spirituale» nella edificazione del suo potere religioso nel mondo, facendo sì che la reazione ad esso trascinasse inevitabilmente la privatizzazione della fede e la sua scomparsa dall’orizzonte pubblico europeo? L’auspicato «ritorno consapevole alle sante fonti della vita e dello spirito» non possono perciò coincidere, come pur vorrebbe Scheler, con il «ritorno alla Santa Chiesa e all’idea di comunità cristiana, che solo da quella sarebbe correttamente conosciuta e amministrata»,447 perché proprio essa, come avverrà dopo la successiva Guerra mondiale, doveva essere l’oggetto di un profondo ripensamento critico, troppo a lungo ritardato e che perciò di fatto risulterà deleterio anche alla sua pregressa immagine di inflessibile custode del dogma. Se era vero, come sosteneva Scheler, che la nuova stagione storica doveva coinvolgere nel suo «profondo mutamento» spirituale «anche la filosofia, l’arte, la scienza», allora non si poteva porre «l’idea cristiana di comunità»448 come un prius ideologico, depositario del quale era – ancora una volta – la Chiesa, ma bensì come un programma di ricerca di nuove espressioni della fede tradizionale, tale che il coinvolgimento di tutte le forme della cultura umana non avessero un esito predeterminato, ma solo la libertà della loro creativa ispirazione. Solo in questa libertà le forze spirituali potevano ritrovare l’armonia perduta tra «cuore e ragione» in cui si sostanzia il motivo religioso. La «guida», se doveva essere «l’amore», non poteva assegnarsi a una istituzione storica che ne aveva fino ad allora monopolizzato le forme provocando l’implosione fideistica e razionalistica moderna. Era come se, dopo la Rivoluzione, una pur necessaria Restaurazione volesse riprendere il filo della storia, sociale e culturale, dell’Europa dal punto in cui l’aveva lasciato la catastrofe rivoluzionaria. Riprendere quel filo dopo la rottura cruenta del discorso non poteva non apparire alle più consapevoli coscienze un insensato quanto velleitario heri dicebamus. Non sarebbe stato possibile tornare indietro neppure se la Germania avesse vinto la Guerra e avesse potuto essa sola decidere delle sorti comuni dell’Europa, poiché la rimozione delle ragioni profonde di una guerra così devastante per la civiltà europea sarebbe suonata tanto più insensata quanto più pericolosamente esposta a una rinnovata ricerca di senso della crisi morale che l’aveva determinata. Occorreva ragionevolmente partire dalla realtà quale si era venuta sviluppando, non a cagione della perdita della guida spirituale della

447 448

Ivi, pag. 957. Ibidem.

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Chiesa, ma a partire dal potere immenso che essa aveva gestito nei lunghi secoli del suo dominio medievale, e che aveva condotto alla finis Europae. Ossia a partire dal principio cristiano ricordato da Scheler per cui «all’uomo è lecito credere solo in Dio e in nessuna istituzione terrena».449 La chiesa trascendente non poteva dunque identificarsi con la Chiesa istituzionale. Il nuovo corso spirituale doveva invece muovere dalla distinzione cristiana tra sfera sacra e sfera profana, che consentiva la condizione della stessa esistenza del sacro come dimensione trascendente la realtà finita. Questo avrebbe comportato il superamento del progetto razionalistico di costruire un mondo del tutto razionalizzato, ossia totalmente trasformato in Essere che è, senza più alcun divenire, facendo coincidere la ragione universale con la stessa religione universale cui si contrapponeva dialetticamente, poiché la sfera del sacro è la sfera stessa dell’Essere, dell’immutabile presenza di ciò che è uguale a se stesso, che non diviene. La moderna «dialettica dell’Illuminismo», che aveva finito per sacralizzare il mondo emancipato dalla religione, non è infatti che il rovescio profano della dialettica religiosa, che tutto aveva mutato in realtà profana avendo tutto voluto trasformare in sacro. La sfera profana è distinta da quella sacra in quanto dimensione della realtà diveniente, del molteplice che si trasforma in ciò che non-è. Confondere le due realtà, ovvero annullare la loro distinzione ontologica, significa assimilare il diverso allo stesso, trasformando il non-essere in essere, e viceversa. Ma questa trasformazione, nell’atto di realizzare il potere della forza operativa dell’uomo, implica il suo annullamento, poiché il potere pratico si converte sempre in annichilimento ideale quando vuole ridurre l’infinito trascendente nel finito temporale. E proprio questa impossibile metabasi è il fondamento ontologico di ogni discorso razionale, che costituisce la premessa stessa della fede nella verità, quella Verità immutabile ed eterna che per tutti è Dio. Non c’è verità senza il suo principio di verità, ossia il fondamento sul quale la verità poggia. Tale fondamento non è filosofico né scientifico, ma ontologico, in sé sussistente come fondamento oggettivo della verità che su di esso si costruisce e si sviluppa. Ciò comporta che la verità è una nel suo fondamento oggettivo, cioè indisponibile ed eterno, ma è molteplice come forma storica di conoscenza soggettiva, per cui il fondamento veritativo comune a ogni cultura umana non implica l’uniformità delle sue espressioni storiche. E proprio nella relazione di verità della sua espressione storica con il suo principio eterno consiste l’attività della filosofia, quale luogo ideale di tale mediazione. Nondimeno, l’espressione storica della verità, la sua forma sensibile,

449

Ivi, pag. 959.

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estetica, implica una relazione, non solo estetico-letteraria con il principio oggettivo, ma anche estetico-economica, relativa alle condizioni della vita materiale in cui si organizza la cultura storica, sicché le due «scienze mondane» espressive delle forme storiche della verità sono intimamente collegate nella realtà esistenziale dell’uomo, in modo tale che, a seconda dei tempi, una forma espressiva prevalga sull’altra come espressione maggiormente significativa del suo contenuto di valore. Ora, nel mondo moderno, allorquando si è intrapresa la trasformazione della realtà già sacralizzata in realtà profana, le forme materiali dell’attività umana hanno assunto un rilievo che prima non avevano nell’ambito della consacrazione universale del cosmo religioso, per cui ciò che nella dimensione sacrale era la forma liturgica del rito di trapasso dal profano al sacro, che si rifletteva teoreticamente nel suo particolare stile simbolico, nella nuova dimensione profana è diventata attività economica, di trasformazione del mondo desacralizzato, di cui la tecnica è la sua razionale espressione simbolica. Poiché, come afferma Scheler, è «lo spirito [che] si costruisce il corpo», è il «fattore» spirituale che, a dire dello stesso, «forma l’anima intima che unifica anche l’organizzazione esterna e imprime il suo sigillo in ogni azione e forma di esistenza economiche», comunicandosi come «modello» di una «concezione religiosa del mondo».450 Ma ciò che non si evince da queste affermazioni è che lo «spirito» del mondo moderno ha una sua peculiare definizione storica, relativa appunto al movimento rivoluzionario di trasformazione del mondo sacro in realtà profana, per cui ciò che costituiva l’unità religiosa del cosmo sacralizzato si declina modernamente come organizzazione razionalizzata dell’economia mondiale. In questo ambito profano, gli opifici hanno preso il posto che era stato delle chiese, i consigli di fabbrica il posto delle comunità parrocchiali, con i consigli di amministrazione che hanno sostituito i vescovi nel governo della comunità produttiva. Al posto della teologia, la scienza economica, il cui relativo esercizio liturgico avviene nelle borse, i luoghi della moderna trasvalutazione mistica dei beni economici in valori finanziari. In quanto «spirito» del mondo, anche quello moderno è una «religione», e come tale si diffonde universalmente come ragione del mondo. Ma l’ethos dell’economia moderna non è la stessa etica che animava la comunità cristiana medievale, ma è lo «spirito» razionalistico e profanatore del capitalismo, la cui dottrina del laisser faire costituisce il momento confutativo propedeutico alla pianificata conversione profana in termini economici del mondo sacro. Una conversione pianificata richiede

450

Ivi, pag. 961.

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una struttura organizzativa, una interpretazione razionale del mondo e un esercito di burocrati al suo servizio pastorale. In un mondo che va trasformandosi da sacro in profano, che si ri-voluziona, gli economisti sono il nuovo clero di questa religione profana, i depositari della nuova scienza esoterica da loro gestita come il nuovo gergo del potere profano, che risuona come il manzoniano latinorum alle orecchie dell’ignaro popolo dei consumatori della nuova fede. La logica economicistica del profitto, speculare a quella del cristiano «sacrificio», pone il benessere mondano come valore esponenziale al posto della religiosa «rinuncia», per cui la «direzione» impressa a questa profana «concezione del mondo», non può essere semplicemente invertita, cambiata meramente di segno, rimuovendo le ragioni ideali profonde che sottostanno alla sua stessa storica fenomenologia. Non si torna al passato, ri-cominciando daccapo il percorso circolare dell’anaciclosi spirituale, proprio perché ciò che è spirituale, in quanto tale, cioè in quanto diverso per essenza dal ciclo naturale, richiede un fondamento trascendente, senza il quale l’essere spirituale viene omologato a quello naturale, e di conseguenza anche il suo corso ideale viene naturalizzato e reso uniforme a quello biologico. La scienza moderna procede in questa direzione omologatrice e uniformante, secondando la logica della sua universale razionalizzazione del mondo. Direzione che, lo ripetiamo, è speculare a quella della universale sacralizzazione del mondo profano, che si doveva a sua volta convertire, ossia trasformare il suo non-essere nell’essere della verità. Ma non si esce dal ciclo ri-voluzionario della opposta trasformazione senza l’affermazione della fondamentale distinzione ontologica quale principio di ogni forma di verità. Soltanto il principio della oggettiva distinzione essenziale, e quindi della indisponibilità soggettiva dell’essere, può fondare un sapere nuovo rispetto a quello sperimentato dall’umanità, che superi la logica del «passaggio» dal sacro al profano e viceversa, a favore della con-sistenza dei due elementi essenziali del Tutto, e quindi della loro storica con-vivenza esistenziale. Questo a noi pare il senso profondo dell’affidamento a Cesare del mondo che non-è di Dio, l’Essere terno per definizione. Ma ciò implica che tra Cesare e Dio c’è il Nulla a unirli nella loro reciproca esclusione, a mediare la loro esclusiva reciproca essenza. Questo Nulla, che può liberamente secondare Cesare o Dio, che sceglie di essere divino o di morire, è la rappresentazione stessa di Gesù Cristo, il Mediatore per definizione. In questo senso, il nuovo umanesimo postmoderno non può che essere nichilista, e se vuole essere cristiano non può che essere post-cattolico. L’uomo cristiano post-moderno deve superare sia l’universalismo teocentrico cattolico sia l’universalismo antropocentrico moderno, forme opposte dello stesso naturalismo antico, 291


del cui principio ontologico sono riflessi speculari. Infatti, finché l’Essere verrà considerato solo ciò che è, esso varrà come il Tutto, provocando l’opposizione di ciò che Essere non-è e che pure appartiene al Tutto, rivendicando perciò il suo essere negativo, inattuale rispetto all’essere che è attuale. All’interno del fondamento ontologico naturalistico antico, l’Essere è solo ciò che è, ossia soltanto ciò che appare, sicché l’Essere e l’apparire sono i riflessi della stessa unica sostanza. Ed è questo fondamento a giustificare razionalmente il passaggio universale dell’apparire all’essere e viceversa intentato dai diversi saperi storici, creando il dovere della conversione universale e la relativa morale rivoluzionaria. Il paradigma paolino, facendo propria la cultura naturalistica classica, ha pensato il cristianesimo come sacro razionalismo, al quale, dopo la scissione protestante che ha criticato il paradigma cattolico, si è contrapposta la reazione moderna del razionalismo profano. Ma tutte queste forme sono naturalistiche, perché ammettono la sola realtà dell’Essere che è, identificando perciò la verità con ciò che appare, ossia con l’attualità dell’Essere. Ed essendo l’essere attuale tutto ciò che è, il Tutto è la fenomenologia del suo apparire, dell’apparizione dell’Essere, ossia tutto è storia. L’ontologia naturalistica si converte in ontologia storicistica, e reciprocamente la scienza della natura in scienza dello spirito, alternativamente, disegnando così l’anaciclosi della vichiana «storia ideale eterna» dell’uomo pensato come natura spiritualizzata. All’interno, infatti, di questo uni-verso naturalistico, operano le distinzioni delle scienze particolari, ognuna delle quali esprime una ragione di esistenza dell’Essere pensato come Tutto ciò che è. Lo stesso fondamento naturalistico greco ha consentito al cristianesimo protestante, nel criticare la versione storica del cattolicesimo, di tornare alle fonti bibliche, in cui Dio è visto come l’Essere supremo, ignorando che l’idea cristiana di Dio non è la stessa di quella biblica. Infatti, se per il cristiano Cristo è Dio, non si esce comunque dall’idolatria che quell’identificazione rappresenta per ogni monoteismo. Se invece Cristo è Dio incarnato, umanizzato, finitizzato, temporalizzato, allora Cristo non può essere Dio, ma altro dal suo mero essere, e cioè un Dio-che-diviene, che si fa storia umana. Un Figlio che è di Dio, ma che non-è Dio. E’ una essenza divina partecipata all’umanità, che in sé è la stessa di Dio, ma che resta altra da Dio in quanto diviene umana. Il cattolicesimo ha concepito la divino-umanità di Cristo come un passaggio ontologico da Dio a Cristo, per cui Cristo è Dio, pur essendo nato uomo, ossia nel tempo. E questa concezione ha consentito il rovesciamento ontologico, per cui si è

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giunti a divinizzare il finito,451 il Dokema ipostatico sostitutivo del corpo mistico. Ma se Cristo è Dio, Gesù non lo è, in quanto uomo, carne che muore. Sicché Gesù Cristo è spiritualmente Dio e storicamente un uomo. Sono due le nature in una sola persona, nessuna delle quali può convertirsi nell’altra. Così, Gesù muore in croce e Cristo vive in eterno. E se le nature personali sono due, Cristo non-è Dio, anche se Dio è in Cristo, il quale diviene Dio dopo la morte dell’uomo, ma in sé non-è Dio. Il divenire di Dio, non è Dio, ma solo la sua storia mondana, la sua esperienza umana. In quanto Spirito, Dio trascende sempre la forma umana, che muore e si rinnova nel tempo. Se l’essenza e l’esistenza restano distinte, allora nessun passaggio storico può avvenire, alcuna trasformazione operarsi nel tempo, e ciò che è di Dio resta perennemente a Dio, consente all’uomo la libertà di divenire ciò che egli vuole essere. O il cristianesimo rappresenta questa nuova fede religiosa, che coniuga immanenza e trascendenza senza idealmente confonderle e praticamente identificarle, o è un’eresia ebraica, una aberrante idolatria. Ripensare il messaggio di Cristo oltre il cristianesimo storico, significa superare sia la prospettiva cattolica medievale che l’opposto spiritualismo protestante moderno. Oltre il moderno, non c’è l’antico, ma l’eterno. Ma la eternità da sola non spiega il divenire, cioè la storia dell’uomo. Solo col cristianesimo l’eterno e la storia si incontrano intuitivamente nella Differenza. All’età della confusione teologica e a quella della reattiva distinzione razionalistica deve subentrare l’età della amorevole coesistenza. In che senso? In un saggio di questo periodo, redatto presumibilmente tra il 1914 e il 1916, Scheler tratta del Significato normativo e descrittivo dell’ordo amoris, mettendo in luce il «gioco della dinamica del cuore», sulla cui base si determina «ogni modo d’essere della vita e della condotta» umane, in riferimento ai singoli individui, ai gruppi sociali e a ogni piccola o grande «unità storico-sociologica». Al relativo «sistema» di valutazione e di preferenze di valore, Scheler dà il nome di «ethos del soggetto in questione», il cui «centro» delle «passioni dominanti e predominanti» è costituito dall’ «ordine dell’amore e dell’odio», che «tiene insieme» la visione del mondo del soggetto con le sue azioni.452 Il «sistema» ha un carattere sia «normativo», e relativo perciò alla 451

Per la filosofia pagana, ogni realtà (ipostasi) ha una sola natura, definita per distinzione dalle diffeenze specifiche; per il pensiero cristiano, invece, una realtà unica può avere due nature, quali l’anima e il corpo, la natura divina e umana, Ciò rende impossibile la dialettica. Ved. E. Bréhier, p. 49. 452 M. Scheler, Ordo amoris (1914-1916), tr. it. a cura di V. d’Anna, Scritti sulla fenomenologia e l’amore, Milano, 2008, pag. 109.

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conoscenza del «valore interno delle cose», che «descrittivo», ossia relativo «agli atti d’amore e di odio» costitutivi della condotta umana come «moto dell’animo», per cui esso definisce «il nucleo dell’uomo in quanto ente spirituale».453 Il rischio immanente in ogni teoria spiritualistica è quello di isolare l’elemento soggettivo dell’essere umano, il suo «destino» ideale, da quanto lo unisce esistenzialmente e biologicamente dal contesto del mondo-della-vita. Non a caso, per ottenere la rilevanza dei dati coscienziali occorre rimuovere tale contesto attraverso una qualche forma di epochè, che consenta di isolare il soggetto spirituale al fine di ottenere il dato fenomenico della sua soggettività. Ma questo dato, proprio perché derivato da un processo astrattivo, non può sussistere in sé ma solo in relazione al contesto originario dal quale deriva, l’unico che possa animarlo di un significato razionale, cioè metodicamente coerente. Questa relazione, però, è altamente problematica, in quanto costituita da un elemento oggettivo, che è quello storico-contestuale, comune a ogni singolo soggetto spirituale, e da un elemento soggettivo, variabile e relativo alla stessa libera soggettività. Per ovviare a questa discrepanza elementare, i teorici della soggettività hanno cercato variamente di costituire a parte subjecti una qualche forma di oggettività, o di struttura ontologica della soggettività, tale da assicurare alle variabili apparentemente instabili del comportamento soggettivo una regolarità e ponderabilità non dissimile da quella delle strutture oggettive. Ed è proprio questa indebita estensione della oggettività naturalistica al mondo dei soggetti che, come sappiamo, è stata contestata dalla analisi fenomenologica di Husserl tesa alla definizione di una psicologia spiritualistica, non oggettivistica. Anche Scheler tenta la definizione di una struttura oggettiva della soggettività che renda formalmente stabile, cioè razionalmente de-finibile, l’impianto dell’ordo amoris. Come l’idea di un regno, rigorosamente oggettivo ed indipendente dall’uomo, delle ordinate degnità d’amore di tutte le cose, - un qualcosa che possiamo solo conoscere, e non «porre», creare, fare -, anche la «determinazione individuale» di un soggetto spirituale, singolare o collettivo, è qualcosa di rivolto al soggetto – e solo ad esso -, ma tuttavia, per così dire, non di meno oggettivo: non da porre , ma esclusivamente da conoscere.454

Questa ricerca della «oggettività» in campo spirituale è un mutuo della propensione positivistica a fornire «dati» obiettivi indipendenti dal soggetto, che lo spiritualismo ha contratto accettando la sfida della 453 454

Ivi, pag. 110. M. Scheler, Loc. cit., pag. 113.

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definizione scientifica delle questioni spirituali, ammettendo surrettiziamente che solo la scienza potesse garantire un criterio razionale di verità. Le conseguenze di questa impostazione si misurano complessivamente dal bilancio fallimentare di ogni tentativo di definire una struttura oggettiva della soggettività che fosse allo stesso tempo una «filosofia della libertà» e una «scienza dello Spirito». Infatti, una tale definizione muoveva dal presupposto monistico che la verità consistesse nell’unificare nella stessa definizione razionale la molteplicità dei fenomeni naturali o spirituali, assunti appunto come oggetto di analisi scientifica. A tal fine, occorreva primieramente assicurare alla ragione un metodo universale di riduzione del molteplice all’unità, nel quale consisteva propriamente l’approccio scientifico al problema, ossia, in altri termini, eliminare ogni forma di conoscenza del mondo che non fosse sussumibile entro le coordinate assiologiche della conoscenza per causas, non sospettando che tale ricerca si basasse essa stessa su un presupposto di valore di natura fideistica, consistente appunto nella credenza che la verità si identificasse con tale reductio ad unitatem. Il «metodo» scientifico era dunque una sorta di passepartout con cui attraversare la soglia che divideva il mondo profano della molteplice fenomenicità dall’uni-verso delle corrispondenze formali della sua conoscenza razionale. Ma l’ossessione scientifica all’unità cosmica tradiva, sotto le migliori intenzioni, quella «volontà di potenza» che era un retaggio teologico della metafisica creazionistica, che faceva consistere la verità nel potere di assimilare il diverso allo stesso, trovando in esso il punto di fusione tra la conoscenza e la volontà del soggetto creatore. E proprio questo «potere» veniva ritrovato nel campo dello spirito quando si giungeva a definire razionalmente una formula di passaggio che consentiva una (seppur temporanea) risoluzione unitaria del molteplice mondo fenomenico. Sul fondamento della credenza in una tale progressiva riduzione ha proceduto la ricerca moderna della verità, che sperava così di giungere per tal via fino allo schiocco delle dita del Dio creatore dell’universo, a quel fiat che costituisce l’inizio e la fine di ogni ricerca scientifica. Quanto di religioso in senso mitico ci sia in questa credenza scientifica, non è qui il caso di ribadire. Ciò che conta è riscontrare che anche nella descrizione dell’ordo amoris di Scheler permanga il pregiudizio tutto moderno che lo stesso ordine della soggettività sia pur sempre una struttura formale a priori, oggettiva, e non la libera determinazione spirituale di una modalità teoretica diversa da quella razionalistica della scienza, tesa a ritrovare «l’unità di un senso pervasivo che ci si rappresenti come un’affinità essenziale individuale tra il carattere dell’uomo e quel che accade intorno a lui e dentro di lui». 295


A rivelarcisi, in questa univocità di senso del corso di una vita, è un coincidere di mondo e uomo, totalmente indipendente dalla volontà, dalla intenzione, dal desiderio, ma anche dall’accadere casuale, oggettivamente reale, e indipendente dal collegamento e dall’interazione di entrambi. 455

Il «destino» è dunque una relazione di «possibilità di esperienza vissuta» fissate entro un circoscritto «raggio d’azione» in cui si esercita l’«effettivo accadere» dell’esistenza umana, e che stabilisce la modalità essenziale regolativa dell’ordo amoris di un essere umano. Anche l’amore viene pertanto inscritto entro una normativa assiologia che ne determina la fenomenologia effettiva, quasi a deprivare la dimensione spirituale di ogni alone di irrazionale accondiscendenza al caos esistenziale, che liberando l’uomo dalla possibilità di una de-finizione razionale della sua esperienza, lo condannerebbe a una zona grigia sottratta alla luce della ragione. E infatti, che altro è questo ordo amoris se non la modalità affettiva della conoscenza razionale dell’esperienza umana? In quanto amore ordinato, esso rappresenta a parte subjecti il motivo centrale di ogni approccio razionale al mondo, ossia la de-finizione di un rapporto armonico tra realtà opposte. E quale migliore armonia di quella stabilita dalla universalizzazione della realtà fenomenica, che è il compito proprio dell’approccio razionalistico? Ma allora perché l’amore? Perché l’amore è il riflesso sentimentale del potere unificante della ragione, il suo speculum soggettivo, che dalla ragione medesima deriva la sua datità oggettiva. Ed è su questa datità, sottratta alla indeterminazione di una volontà incontrollabile del libero soggetto, che è possibile delineare il discrimine tra «concordanza» e «contrapposizione» della personalità con la sua «struttura ambientale e col suo destino», ormai strettamente connessi. Struttura ambientale e destino sono qualcosa di ormai divenuto comprensibile in modo naturale [sic!] ed in linea di principio: non quindi semplicemente quel che casualmente di volta in volta è reale ed effettivo. Il destino non può, appunto, venir scelto liberamente, come invece vorrebbero certi indeterministi estremi che misconoscono la sua natura, e misconoscono completamente i livelli in noi di libertà e illibertà. Già gli ambiti della scelta – ovvero ciò tra cui l’atto della scelta può esercitarsi – sono determinati dal destino, non il destino è determinato dalla scelta. Tuttavia il destino stesso si erge anche al di sopra della vita dell’uomo e del popolo, la quale si nutre sempre più di contenuto e funzionalizza di nuovo il contenuto che sempre ha la precedenza nel tempo; si forma per la maggior parte nella vita dei singoli,

455

M. Scheler, Loc. cit., pag. 112.

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in ogni caso nella vita della specie. E lo stesso vale poi anche per le strutture dell’ambiente sociale.456

Ogni digressione e variazione sul tema non altera l’assunto fondamentale in base al quale è la «struttura», ossia l’ordo, a costituire il referente normativo di ogni libera determinazione soggettiva, per cui «la determinazione individuale è una essenzialità di valore, di per sé atemporale, nella forma della personalità»,457 ossia la condotta umana è il riflesso esistenziale di un principio assiologico che informa la struttura dell’esistenza oggettiva del contesto storico-sociale-culturale di riferimento. A seconda che il punto di origine del rispecchiamento sia visto nella società o in Dio, si ottiene un relativo e conseguente profilo antropologico dell’uomo. La visuale prescelta da Scheler è quella divina, ma il dato di fondo non cambia: l’uomo, anche nella sua dimensione spirituale, va armonizzato all’unità cosmologica di riferimento strutturale, che costituisce la ratio della comprensibilità di senso, appunto razionale, della sua vita. Insomma, è il riflesso di ogni determinazione molteplice nell’unità di senso strutturale a costituire il criterio della leggibilità razionale delle movenze singolari dell’agire personale e collettivo. Ma non era, questa auto-referenzialità ermeneutica, la condizione della leggibilità di senso religioso delle Sacre Scritture? Non era, cioè, questa circolarità e corrispondenza di senso lo scopo della razionalizzazione universale delle scienze quale risposta simmetrica e polemica all’universalismo religioso? Il comune esito di tali opposte formalizzazioni razionali della molteplice esperienza fenomenica è la coincidenza dell’Essere con il suo riflesso apparente, per cui il senso razionale del mondo è l’essere che appare per ciò che è. La rivelazione della verità consisterebbe dunque nella sua univoca correlazione tra l’Essere e la sua apparenza fenomenica. E su questo modello teoretico del razionalismo greco si è venuta sviluppando la metafisica cristiana che, ponendo Dio come Essere e Cristo come riflesso della sua sostanza, ha sacralizzato l’essere del mondo come il riflesso creativo del Tutto. Processo religioso uni-versalistico che, conservando lo stesso presupposto ontologico, si è riflesso a sua volta nella opposta tendenza secolaristica del razionalismo moderno. Ci vediamo «come» attraverso l’occhio stesso di Dio, e cioè, innanzitutto, assolutamente in modo oggettuale, e in secondo luogo, assolutamente come partecipi di tutto l’universo. […] Tutto ciò che di noi è qualcosa d’altro lo detestiamo: tanto più intensamente quanto più il nostro spirito penetra in 456 457

Ivi, pagg. 114-115. Ivi, pag. 115.

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questa immagine divina di noi, quanto più essa grandiosamente ci cresce dinanzi, e quanto più, d’altro lato, si discosta dall’immagine che, in noi e di noi, troviamo al di fuori dell’immutabilità divina. I magli ideativi, che si plasmano da loro stessi, dell’autocorrezione, dell’autoeducazione, del pentimento, della mortificazione riguardano tutte le nostre parti che esorbitano quella configurazione, che questa immagine di noi davanti a Dio ed in Dio ci trasmette.458

Sostituiamo all’occhio di Dio» quello dello Stato, e avremo ottenuto una vigilanza non meno totalitaria. Ma la coscienza più avvertita e consapevole non può sfuggire alla sua determinazione come coscienza singolare senza riferirsi dialetticamente alla coscienza comune, socializzata, che preme in direzione della sua omologazione. Infatti, la portata non solo psicologica ma esistenziale della coscienza di sé è la sua posizione centripeta e tendente a riportare alla sua soggettività gli elementi oggettivi che costituiscono il contesto storico della sua attività. In questo senso la centralità della coscienza personale contende al destino il senso razionale dell’ordine costituito, sviluppando quel «rapporto tragico» per cui noi vediamo uomini, persino popoli, essere costretti dal loro stesso destino ad operare contro la loro determinazione, laddove vediamo uomini «inadeguati», non solo al contenuto ambientale casuale e momentaneo, ma già inadeguati a quella struttura ambientale – il che li costringe in via di principio alla scelta di sempre nuovi ambienti dalle strutture analoghe. 459

Resta significato che dal rapporto «tragico» qui descritto non si sviluppi una risposta socialmente adeguata, ma solo espressioni reattive individuali alla «struttura ambientale», che la lasciano sussistere come un dato non alterabile, cioè non soggetto a revisione politica. E proprio il momento politico della risposta sociale alla inadeguatezza manca in questo rapporto, tutto piegato in direzione dell’ordine della struttura. Ma tale assenza rappresenta la condizione di esistenza, anzi di funzionalità, del particolare legame relazionale, diverso da quello economicamente associativo, costituito dall’amore, inteso come «azione edificante e costruttiva nel mondo e sul mondo», ovvero «tendenza che cerca di condurre ogni cosa verso la sua propria pienezza di valore».460 Attività che noi possiamo tranquillamente descrivere come «volontà di potenza assimilatrice dell’altro a sé», la quale realizza la propria aspirazione 458

Ivi, pag. 116. Ivi, pag. 117. 460 Ivi, pag. 118. 459

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vocazionale a condizione che «non si frappongano impedimenti»,461 ossia sia eliminata dal novero delle possibilità relazionali ogni interposizione mediatoria di tipo negoziale, che sostanzia appunto il rapporto politico. Da qui l’alterità del rapporto amoroso rispetto a quello meramente associativo, ma da qui anche il carattere incondizionato dell’ordo amoris nella sua tendenza assimilatrice. A questo punto del discorso di Scheler prende spessore la natura mistica del suo ideale comunitario, in cui si costituisce la fusione simpatetica di un «ente» soggettivo con altri enti «intenzionali», formativa di una unità organica di cui i singoli enti «diventano effettivamente parti» del tutto che li comprende. Il carattere mistico di tale organismo comunitario è riaffermato anche dall’analogia dell’«atto originario» che lo rende possibile, cioè l’amore, con la «conoscenza» quale «relazione ontologica», in cui platonicamente interviene la fusione attrattiva della coscienza col mondo, ossia dell’atto teoretico con l’azione volitiva. In questo senso Scheler afferma che «l’amore sempre risveglia alla coscienza e al volere, anzi è la madre [si noti!] dello spirito e della ragione stessi».462 Ed è questa unità cosmica delle coscienze che si amano fondendo la loro molteplice singolarità in una comunione mistica che Scheler indica come «Dio». Quest’uno che prende parte a tutto, senza il cui volere nulla di reale può essere tale, e grazie al quale tutte le cose partecipano in qualche modo (spiritualmente) le une delle altre e sono solidali le une con le altre: quest’uno che le ha generate ed al quale aspirano esse tutte insieme, entro i limiti loro propri ed assegnati, è – in quanto onni-amante (Alliebende) e pertanto anche onnisciente e onnivolente – Dio: il centro personale del mondo, inteso [si noti!] come cosmo e tutto.463

Nelle pieghe di questa identificazione della condizione «spirituale» delle coscienze con la condizione esistenziale delle persone, assimilate a «tutte le cose» che partecipano all’unità cosmica, si nasconde la tendenza universalistica del cristianesimo cattolico, intrinsecamente imperialistico e totalitario nella sua missione di conversione del mondo profano in un cosmo unitario sacro, dove «l’ordo amoris è il nucleo dell’ordine del mondo come ordine divino» e l’uomo è visto come «servo di Dio».464 Per comprendere bene il suo ruolo, bisogna partire dalla sua definizione di «ens amans», che è condizione primigenia rispetto a quella di «ens 461

Ibidem. Ibidem. 463 Ibidem. 464 Ivi, pag. 119. 462

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cogitans» e di «ens volens», perché la sua modalità condiziona la qualità e il valore della conoscenza del mondo, i suoi «ambiti qualitativi». Infatti, per l’uomo che ama, il «nucleo» della cosiddetta «essenza» delle cose si trova, di volta in volta, là dove il suo animo si sente legato. E di volta in volta gli sembrerà «parvente» e «derivato», quel che si allontana da questo oggetto. Il suo ethos affettivo, e cioè le regole del suo preferire e posporre certi valori ad altri, determina anche la struttura e il contenuto della sua visione del mondo, della sua conoscenza del mondo, del suo pensare il mondo e, inoltre, della sua volontà di abnegazione e di dominio. Ciò vale tanto per gli individui quanto per le razze, le nazioni, gli ambiti culturali, tanto per i popoli e le famiglie quanto per i partiti, le classi sociali, le caste, i ceti. Entro i limiti dell’ordine del mondo dell’uomo universalmente valido, sono assegnati ad ogni particolare forma dell’umano determinati ambiti qualitativi di valori, e solo la loro armonia, la loro connessione reciproca nella costruzione di una cultura del mondo comune, permette di mettere in mostra tutta la grandezza e l’ampiezza dell’animo umano.465

Si noti, da una parte, la delocalizzazione del valore significativo dalle strutture oggettive al nucleo della «visione del mondo», che è il soggetto; dall’altra, l’estensione di quel valore normativo alla struttura sociale in quanto tale, senza differenza di grado tra i distinti gruppi umani, sicché la corrispondenza armonica tra i due distinti momenti viene posta in termini di superamento della loro distinzione in vista di una «connessione» funzionale alla «costruzione di una cultura del mondo comune». In altri termini, soltanto la corrispondenza tra intuizione del mondo e forme oggettive di esistenza consente all’ «animo umano» di manifestare la sua «grandezza», con una alternanza simmetrica di «abnegazione» nel servizio di edificazione del valore «universale», e di volontà di «dominio» della sua conservazione. L’amore, dunque, è armonia con ciò che inerisce al proprio mondo di valori, rispetto al quale ogni aspetto «apparente», cioè privo di omogenei contenuti valoriali, e «derivato», ossia non autenticamente conforme al principio valoriale, deve essere trasvalutato dall’azione performativa del soggetto amante, che perciò acquista un significato etico universale. Rispetto al naturalismo greco, dove l’adesione antropologica alla struttura del mondo oggettivo acquistava significato di conoscenza dell’essenza comune agli uomini e alle cose, l’umanesimo cristiano di Scheler tende a ri-formare il mondo in direzione del suo senso intuitivo, culturale, morale, per cui l’armonia universale si dispiega come progetto o missione 465

M. Scheler, Loc. cit., pag. 119.

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umanistica in nome del valore significativo. Insomma, in evangelizzazione e, se occorre, in crociata convertitrice. Ovviamente, l’animus di Scheler è tutt’altro che soggettivamente bellicoso e aggressivi sta, ma nondimeno i postulati della sua visione etica dell’amore come armonia di valori corrispondenti, conducono alle conseguenze logiche dell’uniformità del mondo reale all’immagine ideale del cosmo interiore. L’amore pertanto non è che la coincidenza della forma riflessa alla forma ideale, ossia l’ordine etico del cosmo spiritualizzato. Ed è esattamente questo il senso della ri-voluzione religiosa del mondo, la trasformazione della molteplice realtà profana in unitario cosmo sacralizzato. Ed è esattamente in questo movimento trasvalutativo universalizzato e reso eticamente necessario alla sussistenza dell’Essere come ciò che è, e non altro da sé, la radice della violenza ontologica e pratica del cattolicesimo, prima, e del razionalismo secolaristico poi. Il dominio dell’Eros. Scheler non si avvede che il concetto di ordine etico, comunque formulato, contiene in sé un criterio di discriminazione tra amore sacro («retto») e amore profano («falso») che è di tipo puramente normativo e passionale e non già ontologico-oggettivo. E non perché relativisticamente si dichiari insussistente un qualche fondamento d’ordine ontologico, ma in quanto questo fondamento lo si vuole far coincidere con l’ordine della sua strutturazione etica, ossia l’identificazione di quello stesso fondamento con l’idea della sua essenza unitaria e non dialettica. Da qui la rappresentazione dell’ordo amoris come «regno», cioè appunto come struttura normativa, fondata sull’assunto de-finitorio in base al quale «dall’atomo primordiale e dal granello di sabbia fino a Dio questo regno è un regno».466 E sul fondamento di questo assunto definitorio procede deontologicamente il processum di reductio ad unum di ogni disforme alterità reale. Ed è su queste premesse ontologiche che, come sappiamo, l’idealismo della verità si coniuga con il realismo dell’azione rivoluzionaria, per cui la contraddittoria realtà dell’essere-apparente, o non-essere, va razionalmente condotta all’ordine dell’Essere ideale, l’unico vero, consentendone l’apocatastasi, la sua rigenerazione spirituale. L’ordo amoris è dunque l’orizzonte stesso della religione, che tiene insieme (religare) nel suo Essere di verità unica ciò che originariamente unico non-è ma molteplice. In questa prospettiva inificante, Dio si trova all’inizio e alla fine di tutte le cose, insieme terminus a quo e terminus ad quem della essenza o spirito del mondo. In questo senso, come afferma Scheler, «alla base del pensiero di un ordo amoris vi è già», ossia come

466

Ivi, pag. 120.

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presupposto, «l’oggetto dell’idea di Dio (a partire dalla forma del suo essere)».467 La perdita di questo presupposto, che è anche il fine dell’«anelito d’amore» dell’uomo, comporta lo scadimento dell’atto spirituale dell’amare alla dimensione profana della finitezza dell’amore come «innamoramento», il quale, rispetto alla sua sublimazione trascendente, è «follia», e, rispetto alla «degnità» della sua abnegazione autentica, mondana «idolatria».468 La perdita della dimensione metafisica dell’amare crea un «campo vuoto», in cui si esercita la forma pervertita dell’amore profano, rispetto al quale «l’unità del regno di cui abbiamo parlato sta su di un altro piano».469 Ecco quindi che, così come la con-formità al valore metafisico produce il giudizio di «ragione», la dis-formità rispetto al modello unitario ideale genera il relativo giudizio di dis-valore, sicché la loro rispettiva determinazione etica è tutta interna al presupposto originario di valore di «verità» assunto come fondamento ontologico. Questo «come» costituisce la modalità di dislocazione del luogo ontico dell’idea al luogo ontologico dell’Essere, e si dispiega nei termini razionalistici della logica puramente formale o del «pensato», che ha caratterizzato il percorso di pensiero occidentale fino a Hegel. E proprio sul ripensamento della innovativa logica dialettica hegeliana si sviluppa tanto il pensiero della assoluta attualità del pensare come definitivo superamento di ogni forma di oggettivismo razionalistico prospettiva che in Giovanni Gentile trova la sua espressione filosofica più coerente e profonda -, quanto il metodo fenomenologico di Husserl, che nella fenomenologia come metodo universale ha trovato l’altra possibile modalità di sviluppo del piano logico-gnoseologico dell’idealismo moderno. Ma sia l’indirizzo impostato sull’idea di pensiero come processo del pensare, che l’indirizzo impostato sull’idea di pensiero come intuizione eidetica, risolvono il processo fenomenologico del pensiero in una sorta di «oggettività» dei dati di coscienza, contro la quale i due distinti processi erano insorti. Così, se il più maturo epilogo teoretico dell’attualismo logico-gnoseologico è stato lo «storicismo assoluto» di Croce, che risolve l’essere dello spirito unitario nelle sue distinte manifestazioni storiche, l’applicazione filosoficamente più feconda del metodo fenomenologico ha approdato con Scheler a un piano ontologicometafisico, in cui il mondo-della-vita si rivela alla esperienza intuitiva

467

Ivi, pag. 121. Ivi, pag. 122. 469 Ivi, pag. 123. 468

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nelle sue distinte modalità essenziali d’essere delle cose. Entrambi gli epigoni si presentano nelle vesti di superatori dell’idealismo in una visione totalistica e neo-religiosa dello Spirito, a un tempo liberata dalle pastoie dell’astratto razionalismo ma de-finita entro i confini di una struttura ontologica oggettiva, metodologicamente rassicurante, che fugga ogni deriva irrazionalistica. La fenomenologia, portando in evidenza l’essere delle cose, ne mostra la loro originaria datità, sì che la realtà del loro essere sia anteriore a ogni rappresentazione, che perciò diventa strumentale e succedanea e non costitutiva o mediatrice di senso. La terzietà dell’essere elimina dunque ogni mediazione tra evento e senso, tra intenzione di significato e comprensione, e di converso elimina lo stesso problema ermeneutico della comprensione del valore di senso, che viene inteso come valore in sé, ontologicamente originario, le cui modalità d’essere vengono acquisite per diretta conoscenza esperienziale. Riportando all’origine dell’Essere il suo apparire, viene esaltato l’evento del suo essere-così-come-appare, cioè la modalità del suo essere apparente, del suo mostrarsi, privando il logos concettuale di ogni valore apofantico, e con esso la coscienza come luogo della rivelazione o illuminazione. Essendo le cose ciò-che-sono, i modi del loro apparire sono i modi stessi dell’essere delle cose. Questa identità di Essere e di apparire trasferisce il valore d’essere delle cose sull’evidenza, intesa come il loro modo d’essere originario, per cui ogni apporto ermeneutico conferito dialetticamente su quella evidenza diventa ultroneo e residuale. Ciò vuol dire che il dato di evidenza è intuitivo e indipendentemente da ogni costrutto razionale de re, per cui la conoscenza espressa dalla coscienza del mondo costituisce il relativo culturale rispetto al suo fondamento ontologico essenziale, all’in sé degli enti mondani. La realtà essenziale del mondo non è data dalla conoscenza razionale, ma si dà nell’esperienza, la quale, nondimeno, ossia nonostante la riduzione dell’Essere al suo apparire, non può eludere il fondamentale dualismo insito in ogni atto di conoscenza tra ciò che si conosce e il modo della conoscenza, per cui anche la conoscenza intuitiva si scinde in attività del soggetto che esperisce, e in relazione impersonale con le cose. La distinzione, infatti, è essenziale alla stessa possibilità d’essere delle cose, la cui modalità soggettiva deve contenere ciò che l’essere in sé delle cose non può racchiudere nella sua evidenza originaria, ossia la possibilità del loro non-essere, la loro in-apparenza, l’errore stesso come in-significanza del dato di coscienza. La coscienza dunque è l'orizzonte fenomenologico della realtà significativa per lo spirito. 15. La realtà oggettiva in sé, per un verso, e il concetto di essa, per l'altro, 303


costituiscono la polarità dialettica in cui si articola la conoscenza razionale. Ma questi due poli non esauriscono la possibilità della conoscenza stessa, infatti esiste una «realtà originaria» costitutiva di una «unità più originaria fatta di realtà e dell'esser-presso-se-stessa di questa realtà che è più intensa e più originaria di quella che esiste tra tale realtà e il suo concetto oggettivante (che) include anche un momento fatto di riflessione e quindi universale e spiritualmente comunicabile» con e nel linguaggio. «La tensione tra la conoscenza originaria e il suo concetto non è qualcosa di statico (ma) ha una storia che si muove in una duplice direzione». Da un lato, tende verso la concettualizzazione, funzionale alla comunicazione dell'esperienza; dall'altro, la conoscenza concettuale e il linguaggio si orientano verso la conoscenza originaria, «in cui quel che intendiamo dire e la sua esperienza sono ancora tutt'uno»470 Tale «realtà originaria» costituisce una condizione esistenziale che è ontologica, in quanto inerisce al rapporto originario che ha l'uomo con la Natura, che è determinato dal bisogno di ambientazione, conseguente alla sostanziale estraneità dell'esistenza umana dalla vita organica della Physis. Questo bisogno è all'origine della «cura» (Sorge) che l'esserci umano ha di sé come modo peculiare della sua esistenza nel mondo. Il «prendersi cura» (Besorge) di sé e quindi di stabilire una relazione di cura del mondo, è la «realtà originaria» dell'esistenza dell'uomo in quanto umana. Accanto a questa relazione naturale, e in conseguenza di essa, l'uomo prende coscienza della sua finitezza e dipendenza da un contesto inospitale che tende a legarlo alla sua Necessità, che è la legge di ragione della vita biologica. La Necessità che regola la vita del cosmo naturale è la sua destinazione mortale, la quale, essendo consapevole nell'uomo, lo determina antropologicamente come essere dipendente, la cui dipendenza è costitutiva del suo essere-nel-mondo. La coscienza di sé come essere dipendente lo dispone al rapporto con Dio come Colui che è libero di determinarsi nel mondo senza dipenderne. L'interpretazione dell'onnipotenza divina è in relazione alla propria condizione di inpotenza, che in senso ontologico-esistenziale è condizione di libertà. La Cura, in senso ontologico-esistenziale heideggeriano, è appunto una unità delle «determinazioni d'essere» dell'Esserci, cioè come una «totalità formale esistenziale delle strutture ontologiche dell'Esserci», quale modo proprio del suo essere-nel-mondo.471 Questa totalità immanente della Cura, intesa come «condizione di possibilità di qualsiasi esperienza

470 471

K. Rahner, Grundkurs, pagg. 34-35. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. Di P. Chiodi, Milano, 1976, pag. 241.

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concreta di un qualche oggetto»,472 segna la chiusura dell'agere entro l'orizzonte di senso dell'economia della salvezza mondana, costitutivo del Politico. Proprio della sfera politica è il carattere in-trascendibile della situazione, che è il carattere proprio della Necessità. Necessaria è la situazione interna alla dimensione del sacrificio della decisione; l'economia della decisione è la politica, la prassi della in-trascendenza. Se «essere persona è sinonimo di autopossesso da parte di un soggetto in un rapporto conoscitivo e libero verso il tutto»,473 quella che Tommaso chiamava «redditio completa», le «strutture aprioriche di questo autopossesso» non predispongono la persona alla «pura apertura verso tutto, verso l'essere in generale», come vorrebbe Rahner,474 poiché il «tutto» verso cui si apre l'esperienza della persona è la dimensione della finitezza, ovvero di quella Necessità che domina la sfera del Politico. In questa sfera politica l'uomo non è mai tutto se stesso, ma solo ciò che la Necessità fa di lui un attore irresponsabile, qual è il soggetto conoscente. La parte rimossa della personalità è pertanto ciò che trascende la sua soggettività, non compresa entro la sua conoscenza del mondo, e che è incoincidente con la volontà. Ciò che non coincide con la volontà determinata dalla Necessità è la libertà dell'intenzione, inerente alla sfera in-politica dell'esistenza umana. Tale allotria in-seità del trascendente ricade nella sfera della Possibilità, che è la stessa della alterità rispetto alla sfera politica della Necessità. La dimensione ontologica all'origine della antropologia pre-cristiana era determinata dalla coincidenza della volontà con la libertà attraverso il medium della conoscenza, in cui l'esperienza trascendentale, quale conoscenza di tutti gli oggetti pensabili, coincideva con l'esperienza della trascendenza, ossia con la decisione originaria di assegnare all'Essere l'esclusiva legittimità del reale, che relegava il trascendente nella dimensione dell'in-esistente negativo. Il non-Essere era il Differente negativo rimosso come in-esistente, non partecipe della realtà se non come elemento eventuale di perturbazione divina, come quella che colpì Agamennone nel ratto di Briseide. La completa esposizione dell'Essere al suo apparire fenomenico fa della realtà finita una Finitudine della coscienza, la cui volontà è segnata dalla negazione della trascendenza. Ogni determinazione d'essere è negazione del trascendente. La grande potenza spirituale del Cristianesimo è stata la rivelazione del trascendente come alterità positiva all'Essere quale EssereNon, intesa come struttura arcaica dell'autopossesso spirituale di tipo non conoscitivo. Il carattere in-conoscibile della trascendenza fa di essa la

472

K. Rahner, Grundkurs, pag. 40. Ivi, pag. 53. 474 Ivi, pag. 39. 473

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dimensione del Mystero, dove regna Amore, anziché Logos. La sophia cristiana è conoscenza d'amore. E Amore è trascendenza della finitezza e dei rapporti di necessità che sostanziano la dimensione della sua condizione finita, della Finitudine. Perciò risulta fuorviante l'affermazione di Rahner, secondo il quale «l'uomo, nonostante la finitezza del suo sistema, è già da sempre posto nella sua totalità di fronte a se stesso (e) nel mentre pone la possibilità di un orizzonte semplicemente finito di interrogazione, ha già superato tale possibilità e dimostra di essere l'essere di un orizzonte infinito».475 La tesi di Rahner, infatti, fa della coscienza di sé la «totalità», che invece va intesa come ciò che trascende la coscienza finita, la quale non può porre qualcosa che non dipenda da essa, «l'essere di un orizzonte infinito», che non è un suo oggetto, ma che appunto la trascende. Ciò che può porre la coscienza finita è l'istanza dell'Alterità, la preghiera dell'avvento di ciò che trascende la Finitudine, evocare cioè la Differenza, nutrendo la speranza dell'infinito, del dono d'amore elargito per grazia. L'orizzonte infinito sta ai limiti della coscienza finita, della conoscenza, oltre il confine terragno in cui si avventura la parola poetica liberatasi della struttura necessaria in cui si dipana l'economia della Cura. In questa terra di mezzo la parola smette la sua funzione ricognitiva del senso finito per trascendersi in preghiera, in invocazione d'amore. Ciò che lo spirito sperimenta come «l'orizzonte infinito dell'interrogazione umana» non ha raggiunto ancora l'esito trascendente «l'inquietante infinità delle domande», che nessuna risposta umana può esaudire, ma soltanto conseguire attraverso la Parola rivelata ab externo, dall'alto, ovvero da quella interiorità intuitiva in cui avviene l'incontro col divino. Questo incontro col trascendente non può essere «frutto di una decisione», come pretende Rahner,476 poiché l'atto agapico divino è un dono che non può essere oggetto di una richiesta propiziatoria. Non è un «patto» tra Dio e l'uomo, ma una graziosa elargizione d'amore divino. La gratuità del dono è confermata indirettamente dall'esistenza della disperazione umana, la quale è la condizione del domandare privo di risposta. Le risposte possibili non sono sempre legate alla Possibilità, ma il più delle volte sono derivate dalla condizione inautentica della socialità, in cui le prescrizioni adeguate sono delle risposte comuni a domande individuali. Dalla comunanza razionalizzata delle risposte deriva la forma categoriale del discorso filosofico, che costituisce uno dei modi – tradizionalmente privilegiato dalla sapienza umana – in cui si articola la possibile risposta. Il terzo livello genetico di questa possibilità è rappresentato dalla tecnica scientifica, la quale emancipa il discorso 475 476

Ivi, pagg. 54-55. Ivi, pag. 56.

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filosofico dall'obiezione dialettica, sostituita dalla verifica empirica dei suoi necessari postulati ipotetici. Un modo radicalmente diverso di dare una risposta conseguente all'umano domandare è di confidarla alla Parola di Dio. La remissione alla Parola rappresenta un atto di fede nella sua verità, con la quale fede l'uomo invera la Legge confermandola con l'adesione amorevole. Questo atto di adesione d'amore è l'equivalente del diverso atto di decisione costituito dal giudizio di ragione. Non sussiste alcuna ragione che giustifichi l'atto di fede, il quale pertanto non può essere soggetto ad alcuna verifica empirica o esistenziale, in quanto esso è gratificato dalla sua sola libertà. Ed è in questa reciprocanza di libera destinazione che l'uomo e Dio s'incontrano nell'Amore, trascendendo la Necessità e ogni annesso sinallagma relazionale. Entro la Finitudine, l'uomo, come afferma Rahner, «sperimenta anche la speranza (…) verso ciò che è libero e libera»,477 ma non perciò egli è libero fuori della speranza, la quale diventa appunto il luogo della libertà possibile. Questo locus amoenus non è quello della «storicità» in cui si manifesta l'Essere, ma è il luogo interiore della coscienza attraverso la quale si svolge la sua esistenza spiritualmente storica, cioè situazionale. Le situazioni spirituali sono le condizioni di possibilità in cui si libera l'evento amoroso della coscienza morale, che ha rimesso la sua decisiva risposta nella Parola, di cui l'intenzione morale è ripresa simbolica. Ripresa non «trascendentale», mancandole una struttura aprioristica di autopossesso, ma «analogica». L'analogia è la condizione di comprensibilità del significato veritativo di un evento spirituale ottenuto per relazione simbolica. Il linguaggio analogico, riferendosi sempre alla persona singolare, è strettamente performativo, in quanto espressivo del carattere intenzionale dell'atto volitivo, e non del suo significato razionale. La differenza tra il valore intenzionale e il significato razionale misura la difformità ontologica tra l'azione oggettivamente necessaria, cioè razionalmente conseguente, e la libera determinazione della coscienza morale, la quale può manifestarsi in atti razionalmente significativi ma che non esauriscono nella razionalità il loro valore simbolico. In tal senso, non è possibile stabilire una semantica protocollare delle strutture simboliche, come pure avviene nella ritualità liturgica delle confessioni religiose, ma ogni evento esperienziale di natura spirituale richiama un atto ermeneutico di decrittura simbolica, la quale a sua volta presuppone un grado di immedesimazione nel valore spirituale comune al soggetto interpretato e all'interprete. Tale valore, anch'esso appunto spirituale, non può che essere la stessa fede nella verità trascendente comunicata con la Parola cristica. In tal senso, l'atto 477

Ivi, pag. 57.

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ermeneutico è compartecipe del senso simbolico della fede cristiana confermata storicamente dallo storico contesto ecclesiale. L'attesa della fede riguarda l'inattualità della possibilità d'essere dell'Essere, e pertanto inerisce a ciò che non-è-attuale, al ni-ente, ossia alla dimensione me-ontica nella quale si pone la fede. Tale dimensione è Nulla di fronte all'Essere, sicché asserire, come fa Rahner, che l'anticipazione infinita non è fondata sul fatto ch'essa possa essere un'anticipazione del nulla in quanto tale (…) perché il nulla fonda il nulla (per cui) il nulla non può essere l'orizzonte dell'anticipazione, l'elemento che attira e muove, ciò che pone in moto quella realtà che l'uomo sperimenta come la sua vita reale e niente affatto inconsistente 478

è totalmente fuorviante, in quanto delimita la realtà del possibile al piano dell'immanenza, ossia su quella onto-storicità che è «follia» rispetto alla Verità rivelata, ossia «priva di senso», esattamente come Rahner ritiene essere «l'anticipazione dell'uomo verso l'ampiezza assoluta della trascendenza».479 Infatti, una speranza fondata sull'ente, cioè sull'essereche-è, può anticipare soltanto un movimento perfettibile dello status quo, ma non inserire nel processo avvenimenziale reale il novum che apra escatologicamente al trascendente, e che non riguarda la sola volontà umana, ma consegue a quell'incontro libero che non è razionalmente oggettivabile in un factum fenomenico, ma pur tuttavia costituisce l'evento significativo a partire dal quale l'agire storico dell'attore può essere interpretato secondo la sua intenzione, essendone il criterio di verità e di legittimazione morale. Solo assumendo la possibilità di un valore simbolico allotrio a quello razionalmente contestuale alla situazione onto-logica, che è essenzialmente quella politica, si può trascenderla secondo un piano di referenza assiologica non commensurabile alle strutture formali pre-costituite di legalità. La «verità» di Pilato è la volontà di Cesare, cioè la legalità romana, entro la quale il messaggio escatologico di Cristo non trova la sua contenibile collocazione teleologica, e senza l'apertura della fede esso rimarrebbe «soltanto un'illusione incantevole e ingannatrice»,480non essendo la rappresentazione della realtà avanzata da Gesù assicurata da alcun criterio di ragionevolezza legittimato dal consenso socializzante del Potere. Infatti, l'essere di questa trascendenza non è l'uomo «affidato a se stesso» quale «persona e soggetto»,481 poiché l'uomo come tale non esiste se non 478

Ivi, pag. 57. Ibidem. 480 Ibidem. 481 Ivi, pag. 58. 479

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nella dimensione coscienziale meta-sociale. Non esiste una persona che non sia persona spirituale, mentre esiste l'uomo socializzato; così come non esiste il soggetto individuale, se non come attore imputabile di azioni razionalmente determinabili, ma esiste il soggetto ideale, trascendentale, di cui il soggetto empirico è l'analogon. Se l'uomo fosse affidato a se stesso, la relazione sociale (con l'Essere politico) o spirituale (con l'Essere trascendente) sarebbe una eventualità contingente e non necessaria, laddove la condizione di Finitudine dell'uomo comprende quella relazione nei termini costitutivi del senso (significato/direzione) della vita umana. Esattamente l'assunzione fittizia dell'autonomia dell'uomo nella realtà storica, quale scenario fenomenologico delle sue res gestae, assegna alla sua soggettività un carattere universale che è proprio dell'idea, cioè della rappresentazione ideale della forma razionale della realtà, trasferendo nel soggetto storico, cioè nell'uomo concreto, gli attributi della sua immagine idealtipica, astratta da ogni concreto processo avvenimenziale. E' questa l'essenza ideo-logica del pelagianesimo, contro il quale non a caso si è battuto strenuamente Agostino per affermare l'intervento necessario della Grazia per la salvezza. La necessità di questo intervento costituisce il dato antropologico primario della indigenza originaria dell'uomo (infirmitas), a metà tra la Natura e il Cielo. E' una necessità diversa dalla legge naturale che destina la vita alla morte, in quanto non dipende da una forza esterna all'uomo, e perciò superabile e vincibile, ma dalla costituzione stessa dell'essere umano, la cui incompiutezza è all'origine dei suoi processo culturali e spirituali. Sia la società che la chiesa sono le possibili risposte storico-culturali alla deficienza antropologica dell'uomo. La socialità politica e quella religiosa sono legate a questa privazione originaria e ne costituiscono le varianti culturali imprescindibili, sicché una presunta soggettività storica non la si può giustificare ontologicamente se non attribuendola a una condizione meta-fisica in cui il soggetto non è l'uomo storico ma la sua coscienza trascendentale, la quale comunque è una coscienza di relazione. L'attesa della relazione (con l'altro, col mondo, con Dio) è lo spazio in cui si evince la consapevolezza della propria finitezza, della mancanza originaria, che ha come nota sentimentale l'angoscia. La vertigine del Nulla non è provocata dalla realtà del Nulla, ma dal silenzio della risposta nella coscienza. L'attesa di una risposta presuppone l'apertura all'ascolto, che è a sua volta una relazione della coscienza col Mystero. Misterioso è tanto il bisogno umano che il silenzio divino. Prendendo coscienza del suo bisogno relazionale, l'uomo non si dà ragione di esso senza una qualche risposta. La risposta esterna, è quella socio-culturale dell'integrazione antropica; la risposta interna alla coscienza è l'incontro col trascendente. In entrambi i casi, l'uomo non è mai solo con se stesso; anzi, l'intermezzo di solitudine della condizione contemplativa, è sofferto dall'uomo come angosciante, perché dilata 309


artificialmente una condizione eccezionale dello spirito di sospensione della realtà. Questa epoché del mondo della vita rappresenta il luogo della libertà umana, dove la coscienza decide il tipo di relazione possibile: col mondo o con Dio, con la certezza fenomenica o l'aleatorietà del rapporto mistico. La decisione determina il senso della intenzione, la quale può restare anche chiusa nella coscienza o aprirsi alla sua manifestazione esterna. Nello sguardo si può leggere una intenzione che non ha altre manifestazioni visibili. Anche un gesto può essere significativo di un valore non esplicitamente manifesto. Tutto ciò che trascende la visione manifesta allude al mistero della intenzione, e dunque a quella dimensione di alterità non accertabile sul piano fenomenico e dunque cifra del trascendente. Il Mystero che abita la coscienza è la traccia della presenza del Nulla che invoca l'Essere, il quale può essere la realtà fenomenica e finita, ovvero l'infinito invisibile del divino. La possibilità delle due direzioni confuta in radice la presunta uni-versalità del percorso ontologico sul quale si è costruita la metafisica di matrice greca, in quanto introduce una dimensione di indeterminatezza. La condizione di indeterminatezza è quella della logica a tre valori, che, diversamente da quella a due valori, rifiuta il principio del terzo escluso tra l'esistenza e l'inesistenza, ammettendo uno stato né esistente né inesistente, ma appunto indeterminato, che Severino considera «una contraddizione, giacché l'indeterminato non è l'esistente, e insieme, se non vuol essere un niente, è un esistente», e dunque a suo dire affermare la condizione «significa affermare che la contraddizione esiste».482 Ma confutare con la logica a due valori gli assunti di quella a tre valori significa voler affermare la necessità epistemica del metodo logico col quale sono state pensate le categorie della onto-logia greca. Infatti, nella metafisica aristotelica la potenza (dynamis) è intesa all'interno della necessità che perviene all'atto, ma non è intesa come Possibilità di ciò che può essere e può non-essere senza essere niente, che è appunto la realtà della condizione indeterminata, che per la logica a due valori è «contraddittoria», ma che in sé è invece la condizione originaria di compiutezza della Totalità, che la logica a due valori ha identificato con l'Essere. La condizione di indeterminatezza, che secondo la logica bipolare dialettica è contraddittoria, è quella propria degli dèi, come Socrate denuncia nell'Eutifrone platonico. Nella logica trivalente, la condizione di essere dell'ente non sorge dunque dal niente, ma dall'originario indeterminato che è il Tutto, considerato, rispetto all'Essere, il Nulla, ossia la totalità me-ontica speculare alla realtà ontica. Ciò implica che il divenire è intrinseco alla Possibilità come con482

E. Severino, Legge e caso (1979), Milano, 2020, pag. 52.

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presenza, e non è un passaggio di stato dal non-essere all'essere, ma dall'in-determinato alla determinazione, dal Tutto all'essere qualcosa, un ente. La Possibilità è ciò che Severino chiama Caso, che è lo stato di indeterminatezza in cui si trova la coscienza divina, capace di pensare il Tutto, e la coscienza intuitiva dell'uomo, che vi attinge per divinazione. La realtà del Tutto è la dimensione trascendente della sostanza eterna universale, la cui possibile determinazione ontica non esaurisce la sua possibilità d'essere, e come tale non è mai Tutto. La credenza ontologica secondo la quale l'Essere della realtà finita sia Tutto, e che il suo principio di realtà sia determinato dalla ragione, quale logica utile a conseguire il fine esclusivo del niente con gli strumenti tecnici della dialettica, è quella che fonda il pensiero pratico. L'atto razionale della logica strumentale è la volontà economica, nel cui fine convergono sia l'anticipazione della realtà dedotta dall'ordine del discorso formalizzato, e sia la necessità dell'ordine sociale pre-determinato dalla struttura di senso normativa. La sintesi empirica di tale convergenza delle istanze deontologiche del bios theoretikòs e delle resistenze sistemiche dell'ordine costituito del bios praktikòs, è la sophrosyne, che è lo stato di indeterminatezza nel quale si trova la volontà in atto, i cui effetti non sono mai totalmente prevedibili. La in-prevedibilità dei risultati della volontà è il contrario della previsione scientifico-normativa, verso la quale la critica empiristica agisce come correttivo epistemologico, costretto a restringere l'area della certezza fenomeno-logica in progressione inversa alla rimozione di ogni sua fondazione veritativa. Ma poiché l'intera metafisica di origine greca è pensiero della finitezza, ovvero onto-logia, ragione di ciò che è finito, la tradizione filosofica occidentale è improntata alla logica del finito, la scienza. L'episteme, pertanto, è la stessa condizione ontica intrascendibile in quanto assunta come necessaria. In-controvertibile è la condizione ontologica della realtà finita pensata come totalità immanente degli enti che sono elementi o fenomeni del Tutto. L'intera metafisica greca è una mito-logia fondata sulla credenza ontologica che l'Essere, quale realtà ontica, sia Tutto, il cui Logos è la ragiuone della volontà di potenza sull'ente pensato come oggetto del pensiero/desiderio. Ma questo pensiero della finitezza non è che una rappresentazione ideale (Darstellung) dell'Essere, non già un pensiero di verità, cioè un pensiero della Differenza. La verità è la Differenza tra il piano ontico e quello trascendente, non già il pensiero dell'Essere come la forma dell'ente, cioè come Tutto. Ciò che pensato nella Differenza non è dialettizzabile, cioè riducibile all'altro, che per il pensiero logico è il Sé. Contro il differente non si può esercitare la potenza del Sé, che si manifesta come volontà. La volontà è l'esercizio della potenza logica di ridurre l'altro a Sé, e pertanto di ridurre la Possibilità dell'in-determinatezza alla Necessità ontologica, identificando il Tutto con l'Essere. Questo processo di riduzione 311


ontologica è ciò che chiamiamo «rappresentazione» della realtà come forma ideale (Darstellung). Ogni datità eidetica è un prodotto rappresentativo dell'Essere. In tal senso, la filosofia è stata pensata come la tecnica di tale processo rappresentativo. Per il fatto della sua rappresentazione del mondo, l'uomo non è mai solo. L'intenzionalità della coscienza è la sua relazione. Perché il contenuto della relazione sia un contenuto comune, occorre una mediazione, la quale può essere costituita dalla Necessità, ovvero dall'Amore. Il legame stabilito all'insegna della Necessità è cogente, perché in-personale e astratto, legalmente vincolato a una norma in-disponibile. E' dunque la norma a stabilire il legame necessario, e non il legame la norma. L'elemento socievole del pactum societatis è il pactum, che vincola la volontà. Invece, la relazione ispirata ad Amore è intrinsecamente libera, perché circoscritta ai soggetti in relazione, alla loro intenzionalità, che ne costituisce la condizione di esistenza. Il foedus amoris è una promessa di libertà in quanto sorretta dal vincolo della verità. Non c'è Amore senza verità, poiché la promessa del legame impegna l'intenzione, e non la mera volontà. Il vincolo amoroso è libero e vero perché intenzionale. Senza la verità dell'intenzione, il legame diventa normativo, sociale, e dunque economico ovvero etico. Il vincolo economico è legato alla paura, che è il sentimento della salvaguardia del Sé, cioè dell'egoismo utilitaristico. Il vincolo etico è invece improntato al dovere, ossia alla volontà razionalmente coerente. Il legame d'Amore è spirituale, anziché legale, per cui l'Altro è il destinatario, non di un dovere normativo, ma della responsabilità della «cura» della verità intenzionale liberamente rivelata da chi ama; tale responsabilità è la fiducia che lega gli amanti. La fiducia è la situazione spirituale che elimina dalla coscienza soggettiva la condizione di solitudine propria della esistenzialità umana. Rispetto alla soluzione socialitaria, che vincola l'uomo alla immanente doverosità della condizione comune condivisa, la relazione amorosa si costituisce come liberazione trascendente dalla Finitudine. E' nella fiducia che «l'uomo sperimenta se stesso come responsabile e libero», sicché è nell'affidamento all'Altro, e non «a se stesso», che egli si apre alla trascendenza.483 E perciò ha ragione Rahner quando afferma che «le scienze empiriche dell'antropologia e anche quelle della psicologia possono risparmiarsi la questione della libertà», ma ha torto ad attribuirla alla «esperienza trascendentale del (suo) carattere soggettivo»,484 483

Cfr. la tesi di Rahner in Grundkurs, pagg. 59, 62-63.

484

Ivi, pag. 60.

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confondendo la giuridica «capacità e incapacità di rispondere dei propri atti», cioè la imputabilità causale all'attore di una fattispecie criminosa, con la responsabilità morale di custodire fiduciariamente l'Amore dell'Altro. La vera libertà non nasce mai da una condizione giuridica, la quale può solo riconoscerla o negarla, ma bensì dalla libera disposizione spirituale della coscienza intenzionale di aprirsi all'Altro, rivelando il mystero singolare della propria persona. La domanda paradigmatica che ci rivela all'Altro è «chi pensi che io sia?» Dalla verità della risposta dipende la sussistenza del legame spirituale. Ed è questa risposta singolare e amorevole a rappresentare l'alternativa alla risposta razionale al thaumazein filosofico. Nella relazione d'Amore la risposta non va giustificata da un significato generale e compatibile con il senso comune, ma deve assolvere alla sola richiesta di verità, la quale non è data dalla corrispondenza della parola al suo fondamento ontologico, bensì dalla sin-patia che coinvolge gli spiriti in relazione facendoli partecipi di un'unica anima comune. E' questo il senso originario e radicale della koinonia ecclesiale, che impegna liberamente la fiducia nella verità comune. Il legame ecclesiale non è una invenzione di Gesù, se non nel senso di una rivelazione di quanto già si manifestava come sentimento erotico, oscillante dall'istinto sessuale al rapporto amicale, fino alla divina mania platonica. Ma le cifre della sua manifestazione erano relative ai termini della sua interpretazione interna all'orizzonte della finitezza,485 laddove la concezione cristiana ne ha rivelato il percorso che nella coscienza giunge alla esperienza di Dio. Il passo conseguente alle premesse ontologiche di Rahner viene compiuto nel senso della determinazione della libertà come volontà, anziché come intenzionalità. Egli scrive infatti che quel che qui denominiamo libertà trascendentale – cioè il fatto ultimo che la persona è affidata a se stessa non solo nella conoscenza, e quindi non solo nell'autocoscienza, bensì anche nell'autoazione – non può in fondo, per una genuona antropologia che concepisca l'uomo come uomo concreto e come un'unità reale, rimanere celato in un'interiorità dell'intenzione. Anche la libertà viene sempre mediata dalla realtà concreta dello spazio, del tempo, del corpo e della storia dell'uomo. Una libertà che non potesse manifestarsi in maniera mondana non sarebbe certamente una libertà che c'interessa in maniera particolare, né una libertà tal quale il cristianesimo l'intende. 486

L'equivoco ontologico prosegue a un di presso quando lo stesso Rahner

485

Per un'ampia trattazione della visione greca, ved. R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero dell'antichità classica, Firenze, 1961. 486 K. Rahner, Grundkurs, pag. 61.

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ammette la necessità di una distinzione che non è separazione «tra la libertà originaria e la libertà in quanto passa attraverso la mediazione del mondo e della storia corporea e viene mediata a se stessa», ovvero «tra una libertà alla radice e una libertà nella sua incarnazione concreta e mondana».487 Ma quale necessità spirituale spingerebbe a preferire alla libertà originaria la sua «oggettivazione categoriale» se non una istanza puramente gnoseologica di determinare in termini effettuali ciò che è il travaglio interno dell'incontro col trascendente? Egli pare non avvedersi che la reductio ad entem della relazione ne sospinge il carattere biunivoco verso una polarità dialettica che risolve l'Altro nel Sé, alla maniera appunto della gnosi trascendentale. Il teologo sostiene infatti che «non si tratta di due cose che possono essere separate, bensì di due momenti che costituiscono l'unità della libertà».488 A Rahner sfugge il carattere proprio della Differenza, la sua asinteticità, ovvero la sua irriducibile condizione bi-univoca, tale che la propensione verso l'Altro costituisce il motivo saliente del rapporto. La libertà vera non può che essere quella originaria, poiché la sua mondanizzazione la priva del carattere gratuito della sua intima costituzione, esponendola a quei limiti della condizione umana che si riflettono nella socialità come tensione verso la Necessità, che nega la libertà intenzionale. Se dovesse l'oggettivazione dell'intenzione ridurla alla volontà, non si perverrebbe mai alla esperienza dello scacco che caratterizza la relazione umana col mondo; scacco la cui misura segna appunto la distanza dalla verità dell'intenzione, la quale non può mai essere rinvenuta nella dimensione della fatticità, dove la misura della possibilità coincide con la stessa ragione dell'esistenza, entro un orizzonte ontico in cui ogni entità è vera per il fatto stesso stesso di poter essere com'è. Questo estremo esito panlogistico in cui approda lo spiritualismo hegeliano, è lo stesso in cui approda il monismo materialistico spinoziano, forme entrambe di gnosticismo. Se tutto il travaglio della libertà potesse avvenire all'interno della soggettività, o della inter-soggettività sociale, verrebbe a mancare la mediazione dell'Altro, indispensabile ad esaudire l'apertura verso la trascendenza, che non è riconducibile ad un affidamento a se stesso «sotto forma di un'esperienza apriorica-trascendentale», quale «dato singolo della mia esperienza categoriale spazio-temporale».489 Infatti, l'aleatorietà dell'esperienza mistica della vera libertà contrasta con la datità della sua oggettivazione storica, che dovrebbe essere universalmente riscontrabile, laddove invece «compare» nella realtà di alcuni «o non compare nella 487

Ibidem. Ibidem. 489 Ibidem. 488

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storia di altri uomini».490 Ma l'universalità a cui appartiene la libertà nella prospettiva di Rahner è quella di «una qualità trascendentale dell'unico soggetto in quanto tale», il quale sperimenta idealmente una libertà che si riferisce appunto «all'unico soggetto nella sua totalità e nell'unità di tutta la sua esistenza»491 personale, nella quale però va perduto l'evento singolare, che non è «psichico», materia di ricerca psicologica,492 ma spirituale. L'evento spirituale non è oggettivabile, perché la sua condizione situazionale non è spazio-temporale ma trascendente, e come tale non è databile. Il luogo dell'evento spirituale è simbolico, decontestualizzato, non inerente il «dove» e il «quando», ma il come. La modalità avvenimenziale della situazione amorosa non afferisce alla sequenza di un ordine causale, ma al significato simbolico degli eventi spirituali. Nel famoso ritratto del Caravaggio L'incredulità di S. Tommaso (1601) la potenza iconografica del mirabile dipinto è tutta nella desacralizzazione del gesto che verifica la corporeità del Cristo risorto. In quel gesto profano viene in rilievo la contestualizzazione del factum dell'apparizione come evento storico-mondano, non mistico, che esaurisce in se stesso il motivo fideistico, destinandolo a una trasposizione simbolica rovesciata rispetto al suo valore religioso, in cui il gesto introspettivo di Tommaso non rappresenta l'invisibile indicato in tanti dipinti sacri, ma la colleganza dei sensi umani alla figura divina, tale da confermare la loro coerenza fisicalistica e rimuovendo l'aspetto propriamente fideistico su un piano del tutto avulso da quello contestualmente reale. Se la fede nell'evento cristico fosse condizionata dalla verifica sensibile della sua plausibilità, avrebbe perso ogni valore simbolico di libertà della coscienza, perché il suo senso significativo sarebbe costretto nei termini oggettivi della necessaria corrispondenza razionale degli eventi. La resurrezione di Cristo perde il suo valore simbolico di evento trascendente all'atto della sua assunzione come dato della mera apparizione sensibile. Non la resurrezione di Cristo, dunque, ma l'apparizione di Gesù è ciò che costituisce il motivo iconografico caravaggesco. L'uomo tra altri uomini privato di ogni carisma divino trascendente, si lascia esporre all'esame fisiologico, che esclude il mystero come ragione a sé, acquisendolo come evento razionalmente inspiegabile, miracoloso. Il miracolo non è la resurrezione di Cristo, ma 490

Ivi, pag. 62. Ivi, pag. 63. 492«La vita psichica del singolo individuo rappresenta la materia della ricerca psicologica, ma il fine supremo di questa è però la constatazione dell'elemento comune nella vita psichica degli individui»: W. Dilthey, Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften (1905-10) tr. it. In Id., Critica della ragion storica, Torino, 1954, pag. 62. 491

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l'apparizione fisica di Gesù. Se, come sostiene Rahner, «l'oggetto della libertà nel suo significato originario», nel nostro caso di fede escatologica, fosse «il soggetto stesso, e tutti gli oggetti dell'ambiente sperimentale che devono essere maneggiati fossero oggetti della libertà solo in quanto mediano a se stesso questo soggetto finito e spazio-temporale», la stessa libertà si ridurrebbe alla «facoltà di decidere di sé e di fare se stesso».493 Questo implicherebbe che la relazione di Tommaso col Cristo risorto fosse legata a una decisione della volontà che relegherebbe la fede a un motivo psicologico di convincimento emotivo indipendente dall'atto volitivo conseguente dell'intelletto, laddove la libertà di fede è invece la relazione di verità, che non investe il convincimento razionale del soggetto, ma la sua dedizione al mystero. Il Mystero della resurrezione di Cristo scompare sullo sfondo della scena come un evento extra ambientale, appunto trascendente, ma irrelato dal contesto rappresentativo evocato. Quando il contesto storico coincide con il suo contenuto avvenimenziale, il rapporto del soggetto che attraverso i dati oggettivi media con se stesso è solipsistico e interno alla sua coscienza trascendentale, ossia interno all'orizzonte della Finitudine. In questo caso, la relazione tra le due soggettività di Gesù e di Tommaso è una relazione fattuale e non simbolica, impersonale e non singolare, cioè astratta e oggettiva, priva di implicanze fiduciarie. Non vi è fiducia in Tommaso, ma dubbio; non vi è amore, ma curiosità. Gesù appare ai suoi occhi come un corpo inspiegabilmente presente al suo sguardo, la cui esistenza visibile andava verificata attraverso gli altri sensi. Una credenza condizionata dai sensi, non è fede, bensì verifica empirica di una impressione sensibile, in cui il movente decisivo è la corrispondenza necessaria dei termini di verifica. Non vi è in tale decisione di credere alcuna libertà di relazione fideistica, ma soltanto causalità necessaria. Il Mystero non viene svelato dalla fede, ma confermato dalla ragione. Il riconoscimento del Mystero coincide con il limite della ragione, ossia con il riconoscimento che la ragione giunge sulla soglia della Differenza, che confuta ogni pretesa di assoluta universalità del Logos. Proprio tale riconoscimento del Limite rende improponibile l'ipotesi che l'uomo sia consegnato a se stesso come uomo libero.494 Al contrario, ogni presunta deiezione, in considerazione della Differenza, va assunta come conseguenza della creazione, ossia della partecipazione dell'uomo al disegno escatologico della salvezza. Il percorso soteriologico e il processo storico coincidono solo nella persona, che è la vera realtà spirituale concreta, ma si dissociano nella processione 493 494

K. Rahner, Grundkurs, pag. 63. Ivi, pag. 64.

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dell'umanità, secondo quanto ha rivelato Cristo inverando la Legge nazionalitaria mosaica, per la quale appunto salvezza e destino collettivo erano strettamente congiunti, essendo stato concesso al popolo di Israele «per elezione divina di compiere il salto verso un'armonia più perfetta con l'essere trascendente».495 La dimensione cristiana della salvezza è personale e inerisce alla dimensione della libertà in quanto verità, la quale libertà non può perciò essere una dimensione sociologica e politica, ma solo spirituale. Sicché l'idea di un «compimento del tempo della libertà»496 come «eternità», se affidato alla Cura dell'uomo, non è altro che la proiezione storicistica di untrascendenza» evento spirituale personale. Questo rischio è immanente alla considerazione della libertà come un valore «mondano, temporale e storico», sol perché riferito all'essere personale tributario di quelle condizioni. In tal senso, l'uomo, non «in quanto essere personale», ma nonostante lo sia va considerato problematicamente come «un essere mondano, temporale e storico»,497 coesistendo nella sua esperienza esistenziale la duplice dimensione della singolare personalità e dell'appartenenza al gruppo socio-culturale. Ma la salvezza spirituale, come affermazione del «regno della trascendenza», non può essere un programma umano ma soltanto provvidenziale. Ciò che la prospettiva cristiana consente è di collegare le leges regum alla lex aeterna dello ius divinum, in virtù del quale «l'idea della giustizia e della verità, impressa in noi, non risiede nel nostro essere medesimo (ma) deve esser continuamente irradiata dall'alto mercé un'illuminazione», come per primo aveva considerato Agostino, «il primo filosofo che abbia abbozzato l'idea di Dio non più soltanto intellettualistica, ma spirituale».498 Questo assegnava alla Chiesa un compito di emancipazione della coscienza spirituale dell'uomo dalla sua condizione di schiavo della legge a quella di figlio, poiché reinterpretava l'idea stessa di popolo, dal ciceroniano coetus multitudinis iuris consensu et utilitati communi sociatus, a «moltitudine che è unita dalla comunanza delle cose che concordemente ama», interpretando, con grande progresso culturale rispetto alle concezioni vitalistiche del mondo classico, lo Stato come «società di individualità che va valutato a seconda del grado di vita morale raggiunto dal carattere del popolo», e consentendo così che i potentati terreni venissero sottoposti ai disegni e al giudizio della Provvidenza.499 L'inserzione nella Storia umana del processo di salvezza è legata all'evento cristico, dal 495

E. Voegelin, Order and History, vol. I, Israel and Revelation (2001), tr. it., Milano, 2009, pag. 151. 496 K. Rahner, Grundkurs pag. 65. 497 Ibidem. 498 A. Dempf, Sacrum Imperium (1929), tr. it., Messina-Milano, 1933, pag. 56. 499 Ivi, pag. 60.

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quale dipende l'atteggiamento moralmente consapevole dell'uomo redento dal peccato ma non ancora sollevato dalla sua costitutiva infirmitas originaria, relativa alla sua dimensione itinerante verso la libera salvezza e l'incontro, trascendente quanto intimo, con Dio. Con Dio, non con la Storia. Il mondo è lo scenario esistenziale della salvezza, ma la libertà dell'uomo rimane fuori della mondanità come luogo originario della verità. E' pur vero, come afferma Rahner, che «la soggettività (dell'uomo) e la sua libera autointerpretazione personale hanno luogo precisamente attraverso la sua mondanità, la sua temporalità e la sua storicità o, meglio ancora, attraverso il mondo, il tempo e la storia», e che «la trascendentalità e la libertà vengono messe in atto nella storia», in quanto tale definizione di sé inerisce al rapporto che la coscienza ha col tempo storico; ma asserire che «non è possibile rispondere alla questione salvifica disattendendo la sua storicità e la sua struttura sociale»,500 significa privare la coscienza morale della sua posizione primaria rispetto alla genesi contingente degli avvenimenti storici, la cui ragion d'essere può sempre essere legittimata dalla necessità che ne ha consentito l'esistenza. Questa chiusa rifrazione di ragione e fattualità è esattamente quanto la prospettiva trascendente liberi della sua interna autodeterminazione, consentendo alla coscienza di porsi in una condizione di libertà dalla Storia, quale coscienza della Storia, il cui punto privilegiato di osservazione è quello trascendente, e non mondano. Il carattere della mondanità è quello della dipendenza, ossia della Necessità, e non della libertà. E proprio tale carattere necessario a rendere insufficiente e improponibile la risoluzione filosofica della questione della salvezza entro l'orizzonte storicistico e sociologico della finitezza, ossia l'orizzonte onto-logico. Rahner, in pagine tristi, chiama «illusoria» l'interiorità soggettiva indipendente dal mondo e dalla storia,501 non sospettando che in tale illusione consista la fede nell'invisibile e la condizione spirituale della speranza escatologica. La presenza di Dio nella coscienza è all'origine, come lo è la verità, che l'intelletto dis-vela (a-letheia) e la acquisisce come suo consapevole fondamento. Perciò di Dio non si può fare esperienza. Egli infatti è l'intuizione del «tutto unitario della realtà in quanto tale», ossia della spirituale soggettività umana. Ma in questa intuizione non c'è nella coscienza dell'uomo la sola realtà ontica, il mondo; c'è anche il mystero che la coscienza stessa rappresenta e interpreta, l'in sé trascendente che la presenza del mystero divino avalla. L'uomo, senza tale presenza, «rimarrebbe impigliato nel mondo e in sé, ma non attribuirebbe più quel 500 501

K. Rahner, Grundkurs, pag. 66. Ivi, pag. 68.

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processo misterioso che egli è, e in cui per così dire il tutto del «sistema» ch'egli è insieme al suo mondo pensa rigorosamente se stesso come un tutto unico (...)».502 E' vero, ma proprio perciò quel supposto «tutto» in verità Tutto non è. Porre il tutto del mondo e dell'esistenza davanti a sé, come oggetto della coscienza umana, è l'interrogativo della coscienza noetica, ma non è ancora la posizione della verità, la quale presuppone l'intuizione del fondamento, che è Dio. E dunque «l'uomo esiste propriamente come uomo solo là dove egli, almeno sotto forma di domanda, (…) dice Dio».503 Ma cos'è la domanda se non l'uso rappresentativo del linguaggio, di cui Dio è il fondamento? Il fondamento del linguaggio, ossia di ogni possibile rappresentazione dei contenuti di coscienza, non appartiene al linguaggio ma lo fonda. E' una evidenza arcaica di cui il linguaggio è la sua rappresentazione. La rappresentazione, dunque, della realtà del mondo presente alla coscienza è costituita da contenuti linguistici, i quali esprimono la possibilità attuale del fondamento originario, che, in quanto trascende l'orizzonte linguistico, non può essere determinato verbalmente, cioè essere oggetto di pensiero, ma soltanto evocato come presenza arcaica, dativa di senso verbale. Tale evocazione è la preghiera, ossia la stessa domanda meravigliata con la quale inizia il pensiero; ogni pensiero inizia con una domanda; ogni risposta è la risposta a una preghiera. Non nel rispondere, ma nel domandare noi evochiamo la presenza di Dio. Infatti ogni risposta inizia dalla domanda circa la realtà dell'Essere, ovvero circa la verità di Dio. Tommaso vuole sapere se sia vera quella presenza di Gesù risorto. Egli si interroga sulla realtà di quella immagine che è la presenza di Cristo. Lui vuole sapere se Cristo è vero. La sua è una domanda legittima, che Gesù esaudisce bonariamente, così come la realtà del mondo si lascia esplorare dalla curiosità dell'intelligenza umana. Ma Tommaso agisce ed esplora da filosofo naturalista, affidandosi alla certezza sensoriale. Egli vuole accertarsi della esistenza reale di Cristo. Cerca una risposta alla domanda ontologica: «Chi è costui?» E la risposta sarà: «Egli è realmente Lui». La realtà di Dio è la Sua corporeità fisica, la sua storica mondanità spazio-temporale. Ma se Dio fosse alla stregua del mondo, la Sua realtà coinciderebbe con quella del mondo: sarebbe un ente mondano. La considerazione di Dio come ente è una rappresentazione onto-logica del Mystero, una theo-logia, che manifesta la realtà del Mystero ma non ne dis-vela la verità. In tal senso, ogni rappresentazione di Dio, non potendoLo de-finire oggettivamente, può soltanto descriverlo per immagini analogiche, ossia è una rappresentazione simbolica. E' questa

502 503

Ivi, pag. 76. Ivi, pag. 77

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rappresentazione ciò che Rahner chiama la «conoscenza o esperienza trascendentale di Dio», che è appunto una «conoscenza aposteriorica».504 Ma essa non fonda la verità, bensì ne è fondata. L'atto che infatti fondativo di verità è intuitivo, non trascendentale, e riguarda l'esperienza originaria della coscienza col trascendente. L'intuizione di cui si tratta non è l'intuizione sensibile, la quale, insieme al dato e all'oggetto, forma una «unità strutturale» per cui «l'elemento oggettivo deve in qualche modo essere presente nell'osservazione in cui è dato». A partire da questo carattere di datità, l'oggetto intuito «non può venir mutato, ed esercita una pressione sul soggetto» mediante la riflessione.505 Nel nostro caso, invece, non vi è alcun oggetto sensibile, alcun «dato» oggettivo, ma soltanto (si fa per dire!) l'intuizione di una presenza che incombe sulla realtà finita esperibile come assoluta alterità. L'intuizione della Differenza esperisce la presenza di Dio come assenza dal mondo. Tale presenza assente rappresenta la natura totalistica di Dio, la sua dimensione di totalità. Rispetto all'intuizione sensibile, l'intuizione della verità include l'elemento trascendente ogni oggettività e datità, ossia comprende nella sua totalità il niente; ma non il niente relativo alla opposizione dialettica all'ente, ma il niente assoluto, cioè il Nulla. Un Nulla che è privo di contenuti oggettivamente determinabili ma che è comunque presente alla coscienza come esperienza fondativa di realtà, e dunque come verità che sta su se stessa (epi-steme). Ma, se rispetto a cosa il Nulla è intuito come presenza reale, questo qualcosa è il mondo fenomenico; rispetto a chi tale presenza si pone in relazione, tale chi è l'uomo. E pertanto, l'esistenza dell'uomo, come soggetto coscienziale, è suffragata dalla stessa esistenza di Dio, senza il Quale l'uomo sarebbe a sua volta un mero ente esistentivo. Questa dipendenza della esistenza umana dalla esistenza di Dio costituisce il legame originario del Creatore con la Sua creatura ed è attraverso la realtà di Dio che noi prendiamo coscienza della realtà del mondo, confermandolo nella sua entità. La pura esistenza sensibile del mondo non è indicativa della sua realtà, potendosi anche trattare di un sogno, di un miraggio, di una illusione. La realtà del mondo è infatti il prodotto di un giudizio intellettuale per cui il mondo è reale anziché non. Ma che il mondo non sia semplicemente sentito come reale, e quindi non sia semplicemente esperito come dato di coscienza, occorre che intervenga un giudizio di realtà che è conseguente a un atto di 504

Ivi, pag. 81. W. Dilthey, Op. cit., pagg. 88-89. Rahner stesso ne è consapevole quando afferma che «questa esperienza originaria esiste sempre e non va scambiata con la riflessione oggettivante, anche se necessaria, sopra l'orientamento trascenden tale dell'uomo verso il mistero»: Grundkurs, pag. 82. 505

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fondazione, che appunto l'intuizione di Dio. La conseguenza antropologica più rilevante dell'atto di fondazione della realtà è il radicamento dell'uomo nella realtà del mondo. Dio è la presenza incombente che giustifica il mondo, attribuendogli una legittimità ontologica che altrimenti non avrebbe. In conseguenza della realtà del mondo, l'uomo è chiamato a viverlo nelle modalità proprie della Cura esistenziale. La cura del mondo e la cura di sé sono in relazione esistenziale. E da tale relazione nasce la «visione del mondo» (Weltanschauung). Il mondo può essere guardato da due prospettive diverse: quella interna alla mondanità, e dunque secondo una visione finita; ovvero quella esterna alla realtà finita, secondo la visuale di Dio. L'oggettivazione intellettuale della realtà, se permane all'interno della visione mondana, anche se strutturata razionalmente in termini logicamente coerenti, non offre alcuna garanzia di verità, potendosi pur sempre trattare di una costruzione immaginativa. Come aveva ben intuito Cartesio, soltanto Dio può garantire la verità delle nostre rappresentazioni intellettuali, attraverso la fondazione ontologica. Se non ci fosse Dio, tutto sarebbe possibile, ma non vero. Il criterio di verità è extra metodico, non pertiene alla ragione discorsiva ma la fonda. Il fondamento veritativo dell'Essere non deriva dunque dal Logos ma è fondamentale di ogni discorso razionale. Tale fondamento arcaico, non potendo essere oggetto di giudizio razionale, non potendo de-finirsi ciò che trascende l'argomentazione, può essere solo rappresentato in forma simbolicamente significativa, ossia come narrazione di fede, come Mito, in cui si racconta l'intuizione della realtà trascendente di Dio. In tal senso, la lotta millenaria della filosofia di giustificare se stessa combattendo l'origine divina della verità, rappresenta un parricidio teoretico perpetrato per emancipare il Logos dalla sua paternità fideistica, dalla sua incongrua origine in-razionale. L'esito inevitabile di tale battaglia è che la filosofia, perdendo la sua verità, non sa più giustificare se stessa, riducendosi a mera tecnica dell'argomentazione logica. Questo perché la perdita dell'origine volge la rappresentazione della realtà verso il mondo che, privato del suo mystero trascendente, si volge alla tematizzazione scientifica dei fenomeni della finitezza, perdendo, insieme alla prospettiva escatologica, anche la visione della totalità dell'Essere a favore dell'ente. D'altro canto, l'estroversione, per così dire, dell'analisi intellettiva porta a considerare la relazione possibile tra il soggetto trascendentale e il campo ontico dei molteplici fenomeni stabilita per il medium della volontà, perdendo di vista completamente la natura originaria dell'interna intenzione, dove si consuma l'invisibile processo spirituale dei nostri atti di coscienza più autentici, rimossi i quali la libertà si risolve nella tensione della possibile sopraffazione della volontà sul 321


destino, anticamente di carattere naturale e modernamente di tipo politico, coltivata nell'illusione di poter disporre della propria esistenza, quasi essa fosse il prodotto del pensiero, e non del Mystero. In tal senso, la presunta conoscenza naturale di Dio è solo una Sua rappresentazione, la quale, se ha un valore relativo alle condizioni di tempo e luogo, rischia di omologare in senso razionalistico la presenza di Dio con la Sua conoscenza, confondendo l'intuizione mistica con una intuizione intellettuale, in cui si perde il carattere rivelativo dell'evento trascendente singolare. Anche Rahner concorda che «nella concreta attuazione dell'esistenza (…) non esiste alcuna conoscenza di Dio che sia puramente naturale (poiché) la concreta conoscenza di Dio si trova già sempre, come domanda, come appello cui si assentisce o che si rifiuta, nella dimensione della finalizzazione soprannaturale dell'uomo».506 Infatti, non è la preghiera o l'appello il momento saliente della relazione con Dio, ma la risposta che giunge da Lui in merito alla realtà del mondo. La decisione morale è, in fondo, una fondazione ontologica, in quanto la determinazione verso un atto di coscienza ispirato dalla intuizione della verità, anche riferito a una particolare circostanza esistenziale, conferma comunque la veridicità di quella situazione in relazione alla presenza trascendente di Dio, quale criterio morale di giudizio di realtà, che Heidegger chiama «autenticità». In esso, il mondo viene assegnato alla sua realtà, prima sospesa nel dubbio della sua autenticità, e in tale affermazione la coscienza con-ferma anche la realtà dell'uomo. In questa relazione intenzionale la verità si apre al mondo come decisione ontologica fondamentale. Ma l'apertura veritativa al mondo investe il mondo anche della posizione del soggetto coscienziale, la quale, affermandone la veridicità, trascende la sua realtà ontica nel senso appunto della verità. Nel mondo legittimato nella sua realtà, il dasein personale trascende la sua storica empiricità in soggetto morale, che nella trascendenza perviene alla conoscenza di Dio.507 La trascendenza di Dio non è una «infinità vuota», «puramente formale» e perciò «mediata dalla finitezza»,508 ma è il Tutto rispetto al finito, ciò che lo de-limita e lo rende se stesso, facendolo riconoscere come la realtà che ne dipende, il Mystero originario che non può essere con-preso bensì soltanto intuito nella Differenza. L'intuizione di Dio è l'esperienza della 506

K. Rahner, Grundkurs, pag. 87. Cfr. quanto afferma Rahner in Op. cit., pag. 88, secondo il quale la «esperienza trascendentale di Dio è sempre mediata da un'esperienza categoriale dei singoli dati concreti, mondani, spazio-temporali della nostra esperienza (di tutta la nostra esperienza, e quindi anche di quella cosiddetta “profana”)». 508 Ibidem. 507

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propria finita differenza, in cui non si perviene ad alcuna unità, essendo una relazione mediata dalla Grazia. L'invocazione di Gesù al Padre sta a indicare appunto questa relazione, che è consustanziale all'uomo e a Dio. Nella Sua infinita alterità trascendente, Dio, fuori della relazione con l'uomo, è ciò che Rahner chiama «il mistero santo», che è «fondamento assoluto di tutti gli esistenti determinati (e) ciò che è distinto da tutto il finito, l'infinito».509 Ma tale fondamento non è inteso da Rahner come l'elemento trascendente della relazione Finito / Infinito, ma come l'àpeiron di Anassimandro o l'Umgreifende di Jaspers, ossia come un orizzonte unitario che ingloba tutte le rappresentazioni del mondo e della vita in una totalità che è però immanente alla realtà ontica, poiché, come afferma Jaspers, «è l'Essere che è tutto, nel quale e grazie al quale noi stessi siamo, oppure è l'Essere che noi stessi siamo e nel quale ogni modalità determinata dell'essere, anche tutto l'esser-mondo può apparire .510 Proprio l'idea di una totalità unitaria e inglobante presuppone l'omogeneità ontologica che consente l'oggettivazione dei contenuti di pensiero, e quindi la pensabilità di Dio come l'Essere infinito di Anselmo. Come scrive Rahner, L'orizzonte della trascendenza, il suo traguardo, ciò verso cui tende, si delimita sempre essenzialmente in forza di se stesso – in quanto si estende come ciò che è irraggiungibile e crea così lo spazio dei singoli oggetti della conoscenza e dell'amore in ordine alla loro conoscenza – di fronte a tutto ciò che appare al suo interno come oggetto della comprensione. In questo senso ovviamente la distinzione di questo orizzonte ineffabile da tutto il finito non solamente deve essere attuata, bensì costituisce l'unica distinzione originaria che viene sperimentata in linea generale, perché è la condizione della possibilità di qualsiasi distinzione degli oggetti sia nei confronti dell'orizzonte della trascendenza che tra di loro. Ma in tal modo tale orizzonte ineffabile viene appunto posto come ciò che non è delimitabile, perché la condizione della possibilità di ogni altra distinzione e di ogni altri distanziamento categoriale non può a sua volta essere delimitata da altri con i medesimi mezzi di distinzione511

La funzione di Dio è quella del Logos che funge da parametro di differenziazione degli enti tra loro e rispetto all'infinito. Ma ciò che differenzia tra loro gli enti è il loro non-essere altro da sé, ovvero di nonessere altro che sé stessi, sicché è la loro relazione che li rendi reciprocamente positivi secondo il medium. Ciò vuol dire che la nuova

509

Ivi, pagg. 92-93. K. Jaspers, Von der Wahreit (1947), tr. it. Milano 2015, pag. 97. 511 Ivi, pag. 93. 510

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determinazione d'essere comune a tutti loro costituisce una posizione alternativa alla condizione originaria negativa comune. Con la differenza radicale che, mentre ogni determinazione mediana positiva conferma a contrario quella comune negativa, tale che qualunque affermazione d'essere si pone in opposizione allo stesso non-essere, la posizione comune originaria negativa sussiste indipendentemente da ogni determinazione d'essere comune ai molteplici enti, ossia a ogni categoria essenziale. Ragion per cui, se la koinonia divina viene intesa come essenza di natura determinativa, la sua posizione non potrà mai essere inclusiva di ogni altra posizione regionalmente universale, dovendo necessariamente ammettere il pluralismo delle idee o categorie. Viceversa, se Dio viene inteso, alla maniera di Barth, come il «totalmente Altro», allora l'ineffabilità di Dio non è legata alla Sua infinitezza, ma alla Sua in-determinazione in quanto assoluta realtà negativa. Il carattere totalistico della realtà di Dio è pertanto di natura negativa, tale che la Sua trascendenza sia la Sua stessa in-possibilità di una Sua riducibilità a una qualche determinazione ontica. La Rivelazione cristica rappresenta dunque la kenosis del Divino Nulla come entità storico-umana segnata dalla finitezza ontologica. Per cui, la condizione della possibilità di qualsiasi distinzione onto-logica entro il finito non può prescindere dall'Incarnazione di Dio, ossia dalla storicità del Cristo che è il termine finito della infinitezza di Dio, e come tale, sia nella differenza verso il Dio trascendente, che nella differenza tra gli uomini. Da qui la centralità di Cristo sia in senso storico, cioè entro il finito, e sia in senso metastorico nella relazione col trascendente. E' chiaro che, data la natura spirituale dell'uomo, la precipua mediazione cristica è anch'essa di natura spirituale, coinvolgendo la libertà del rapporto con Dio, che, diversamente dal rapporto tra enti naturali, non è un rapporto necessario. Libertà non significa in-differenza, poiché la comunione di Dio con l'uomo avviene in quanto Dio stesso, per donarsi all'ascolto, deve entrare in relazione con la coscienza umana, ossia deve essere accolto liberamente. Ciò comporta che la fede non determina solo la volontà umana, ma neppure l'intenzione, il libero convincimento umano. Questa condizione di relazione tra Dio e l'uomo rende possibile la differenza tra lo stato di grazia e il peccato, e tra l'assolutezza divina e la libertà umana. Dio, infatti, può sussistere nella sua inseità senza l'uomo, mentre l'uomo non può spiritualmente determinarsi senza la relazione a Dio. L'assolutezza di Dio, pertanto, non va intesa in senso geometrico o matematico, ma in senso me-ontico, per cui la Sua trascendenza «si sottrae non solo fisicamente, (e) logicamente a ogni disposizione del soggetto finito», ma anche ontologicamente, per cui può evitarsi la considerazione sibillina e fantasiosa circa una ontologia come «evento misterioso in cui le ultime misure si mostrerebbero come a loro volta non 324


misurabili e in cui l'uomo si sa misurato».512 Il Mystero divino risiede infatti nella sua originarietà rispetto a l'ontologia, ma non vi fa parte, non vi è compresa come componente misteriosa: semplicemente è Altro. E come tale, nella sua assolutezza, non può essere condizionata dalla «possibilità di una conoscenza categoriale e non per sé sola», come vorrebbe Rahner,513 La relazione Dio-uomo non è categoriale ma intuitiva e pre-categoriale; categoriale è invece la «conoscenza» di Dio, secondo le forme culturali della tradizione occidentale, ma non vi è alcuna preclusione verso altre forme di rappresentazione della trascendenza non categoriali. L'adozione delle forme della metafisica greca ha inteso tale conoscenza nei termini della oggettivazione dei suoi contenuti, e dunque della riduzione anche della trascendenza di Dio in ente di ragione, comportando, data la sua impossibilità, il ricorso alla formula misteriosa per cui «noi non abbiamo Dio come un oggetto singolo tra altri oggetti, bensì sempre solo come l'orizzonte della trascendenza, che perviene a se stessa unicamente nell'incontro categoriale (in libertà e conoscenza) con la realtà concreta (che proprio di fronte a questo Dio il quale si sottrae in maniera assoluta appare come mondo)».514 In verità, Dio non media punto tra il trascendente e il mondo naturale, dominato dalla Necessità, che costituisce la condizione stessa della sua autonomia biologica, ma soltanto tra il Sé e la coscienza singolare dell'uomo, la cui libertà, rivelando la presenza trascendente di Dio, rivela anche sé stessa. Ma in questa rivelazione la presenza intuitiva di Dio è reale, veritiera e, nella metabasi spirituale della fede, anche concreta. Dio si esprime attraverso la coscienza dell'uomo, non attraverso il filosofo. E l'Uomo per antonomasia è il Cristo, il Quale non anticipa alcuna de-finizione di Dio, ma semplicemente lo manifesta come Parola, si manifesta come la Parola del Verbo, cioè dello Spirito, che, essendo trascendente, è Santo. La Parola della fede diventa santa in quanto partecipa della verità spirituale del Verbo che è la sua santità. Santo è ciò che nella Finitudine trascende il finito.515 Rispetto al ciò che è sacro, la santità riveste un carattere esistenziale, non meramente spaziale, ma storico. La santità è una condizione interna alla Finitudine, senza essere coinvolta dalla finitezza, condizionata dalla sua necessità. Il modello di santità è quello di Gesù, l'Uomo che viveva la sua santità come libertà dalla ragione politica, la quale libertà, nella sua prospettiva escatologica, si è rivelata molto più storica dello storicismo realistico di Pilato, che per la sua logica della necessità nega «lo spazio d'azione illimitato» della 512

Ivi, pag. 95. Ivi, pag. 96. 514 Ibidem. 515 Ivi, pagg. 97-98. 513

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libertà, la quale pertanto, per la sua natura spirituale e trascendente, «è sempre la libertà di un altro soggetto che sta in una comunicazione interpersonale con altri soggetti».516 Occorre però distinguere il piano di comunicazione sociale, che ha come medium la legalità politica, di natura formale e perciò cogente, dal piano della relazione spirituale, che è sostanzialmente libera e dunque non anticipabile, laddove l'anticipazione è lo scopo funzionale all'ortoprassi socializzata attraverso la normativa giuridica. Quanto dunque affermato a proposito da Rahner va riferito al rapporto di libertà. Come egli asserisce, essa è necessariamente libertà di fronte a un altro soggetto della trascendenza, la quale non è anzitutto condizione della possibilità di una conoscenza oggettiva, bensì la condizione della possibilità che un soggetto ha di esserepresso-se-stesso e, nella stessa maniera originaria, presso l'altro soggetto. Ma la libertà di un soggetto affidato a se stesso, la quale assentisce a un altro soggetto, in fondo si chiama amore,

Nondimeno, va precisato che la condizione della relazionalità spirituale, proprio perché libera e diretta verso l'amore dell'altro, comporta una mediazione relativa che salda le due soggettività personali in relazione. Una relazione di santità spirituale fa capo al Mediatore divino che è Cristo, attraverso il Quale si costituisce l'unio mystica della ekklesia, che è la fede, il fondamento unitivo della koinonia ecclesiale. Questa unione trascendente non compromette inevitabilmente la relazione politica fondata sul principio di socialità, se non quando questo pretenda di fungere anche da collante religioso, tale da costituirsi prioritario rispetto al fondamento trascendente divino. Il principe diventa cristiano nell'atto di rinnegare tale pretesa, mantenendo la sua potestà civile entro i limiti del suo laico esercizio della volontà, senza mai invadere lo spazio santo della libertà di coscienza. In tal senso, nessuna libertà, in quanto relativa, cioè inerente a una relazione, è mai «assoluta». Non lo è quella sociopolitica neppure del principe, e a maggior ragione non lo è quella inerente alla relazione con Dio. E ciò perché nella relazione di libertà, la libertà è l'Altro, non il Sé, come invece avviene nella relazione logica, in cui l'alterità è antitetica e oppositiva, da negare. Nella relazione di libertà, di contro, l'Altro per condizione spirituale è libero, non soggetto ad alcun vincolo che non sia liberamente assunto. Non vi è alcuna stabilità giuridica, ma tutto è rimesso alla fiducia, alla fede condivisa nell'Altro, l'appello al quale si manifesta come preghiera di esaudizione. Così come la relazione con Dio non è sinallagmatica e propiziabile con offerte votive od opere buone, anche la relazione fra chi ama ed è amato si fonda sulla 516Ivi,

pag. 97.

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reciproca fiducia nella verità del sentimento, della sua libera intenzionalità, al cui appello «Mi ami?» può corrispondere soltanto un «Si» fiduciario, con-fidenziale tra i due con-fidenti nell'amore. Nella relazione d'amore, santificata dalla fiducia, la reciproca libertà che mutuamente si ri-conosce si dispone all'estasi trascendente la finitezza personale delle proprie storie singolari,517 pervenendo alla dimensione dell'eternità. L'amore di Dio all'uomo si dispiega tra gli uomini come relazione estatica, in cui il tempo ontologico viene trasceso dalla temporalità escatologica, non dominata dal Logos. Nella relazione estatica d'amore viene trasceso, insieme al Logos, anche l'Eros, la cui dynamis agisce al servizio del Sé, non dell'Altro. Solo quanto parte e giunge al Sé è concettualmente definibile, mentre l'apertura all'Altro rendendo in-definito il rapporto lo lascia libero alla contemplazione della propria e della sua libertà, che è la condizione in cui viene trasceso il tempo e sospeso nell'attesa. La sospensione è il tempo della contemplazione, che lascia che il mondo sia com'è, senza alterarlo dialetticamente.518 L'alterazione dialettica in realtà è una operazione di assoggettamento dell'ente al suo fondamento arcaico, originariamente theo-logico, e in seguito onto-logico. Il mytho-logein ineriva agli ideali o miti di fondazione, intorno ai quali i poeti potevano narrare in termini di verosimiglianza.519 Tali miti costituivano i fondamenti della legittimazione del Potere, ossia quell'universale consenso culturale al significato, condiviso dalla comunità, del mondo, inteso come totalità vivente (zòon teleon), ossia appunto come Essere. L'Essere originariamente era distinto in «sacro», per la parte sottratta all'uso comune, separata dalla parte che invece era disponibile al Potere politico, che costituiva il «profano». In seguito al cambio di paradigma assiologico, la antica sacertà venne sostituita dalla nuova razionalità del Logos attraverso un procedimento dialettico di astrazione dell'essenza dal concreto fenomeno (apheresis) e conseguente essenzializzazione e Rahner giustamente afferma che «ogni esperienza della trascendenza è un'esperienza originaria, mai derivata»: Ivi, pag. 98. 518 «Secondo la vecchia immagine stoica, la dialettica era fatta per difendere e attaccare, per ridurre un avversario al silenzio, assai più che per provare; e per questo attacco essa prende le mosse da un principio accettato dell'avversario (…). La dialettica, sotto i suoi due aspetti, classificazione di concetti e mezzo di difesa contro un avversario, era dunque, fin dai tempi greci, l'ancella della filosofia»: E. Bréhier, La philosophie du Moyen Age (1937), tr. it., Torino, 1952, pag. 47. 519 Platone, Repubblica, 379 a-b. 517

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omologia dell'ente all'Essere. Il rito di passaggio dal sacro al profano, la «profanazione» era rappresentato dal sacrificio e dal gioco, laddove la transizione del toglimento dell'inessenziale del discorso mitico all'essenza del discorso onto-logico avveniva attraverso la dialettica, la quale può definirsi come la tecnica della rappresentazione concettuale del mondo fondato sull'Essere, cioè su quella «positività» che per Hegel era costitutiva delle forme del Potere. La mediazione tra la fonte della legittimazione e il concreto esercizio del Potere è ciò che Foucault chiama «dispositivo», costituito da quelle pratiche e da quei meccanismi istituzionali funzionali a uno scopo di realizzazione del comando politico, ossia del governo. Il cambio di paradigma dal mytho-logein alla onto-logia determinò un processo di razionalizzazione delle forme conoscitive che, avendo a modello il cosmo naturale, si riflessero in ambito esistenziale come istanze soprattutto politiche di razionalità del governo. La vera dissoluzione del mondo antico intervenne allorquando i Padri della Chiesa come Tertulliano, Ippolito e Ireneo introdussero il concetto teologico di Dispositio, il modo d'ordine del discorso, che dall'ambito retorico fu esteso analogicamente al senso della salvezza provvidenziale ovvero della tàxis o oikonomia del governo degli uomini, il quale concetto dissocia il fondamento divino dalla pratica di governo, rompendo quella consequenzialità di ontologia e prassi che, secondo alcuni, avrebbe introdotto una schizofrenia nella cultura occidentale.520 In realtà, la Dispositio cristiana rompe la soggezione del subiectum aristotelico e la soggezione al quale lo costringe il soggetto, che è l'omologia dell'ente al punto originario essenziale (pròte ousìa = upokeimenon) dell'Essere, quale fondamento (positum).521 La Dispositio non è, come pensa Agamben, la pura attività di governo, senza fondamento nell'Essere, bensì l'inserzione della Grazia mediatrice tra il fondamento divino e l'attività di governo del principe, tale che la struttura di formalizzazione dei significati socializzati, ossia delle forme istituzionali di controllo del sapere significativo, socialmente riconosciuto di valore universale, passi dall'imperium, intesa come potestas inclusiva del governo religioso, alla auctoritas del Dòkema ecclesiastico, in funzione di mediazione nel contesto assiologicamente significativo tra coscienza individuale e struttura socio-politica del gruppo. Questo contesto significativo è il luogo pubblico del riconoscimento dei significati di valore comune. Il riconoscimento è atto del Potere che governa i significati, in cui consiste l'attività del Governo giuridico della 520 521

G. Agamben, Profanazioni, Roma, 2005. Ved. G. Agamben, Che cos'è la filosofia?, Macerata, 2016.

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Parola, del Logos comunitario che diventa Bonum. Le rationes boni, cioè le qualità morali della volontà, sono conseguenti alla giustificazione del bene per cui esse vengono attivate. Il loro pondus ad bonum (Agostino) è dato sempre dalla distinzione dell'intelletto rispetto alle rationes mali, ma il valore della libertà in senso cristiano trova ora il suo campo d'esperienza nella coscienza, la quale non è una essenza ma una realtà assoluta del soggetto morale, che è storico in senso di storia spirituale del singolo, ma la cui coscienza trascende le singole determinazioni di quella storia, che non è quella di una esistenza assoluta, emancipata dalla sua essenza, ma una coscienza cosciente di sé, dei suoi limiti, della sua umana finitezza. La realtà assoluta della coscienza non è la sua esistenza storica. La coscienza infatti vede vivere il soggetto, si vede esistere come soggettività, come storia personale del soggetto esistenziale. La esistenza in quanto finita e storica, legata a kronos, non può essere perfetta, così come il mondo non può riflettere la perfezione dell'Essere, come pretendeva l'aristotelico Tommaso. L'Essere stesso è una rappresentazione ideale del creato astratta del divenire, che è la condizione di instabilità di ciò che è in-perfetto. La theo-logia cristiana, nella consapevolezza della natura derivata dell'Essere, inteso come totalità del vivente, implicitamente ne asseriva la sua astratta determinazione di falsa totalità, in quanto privata della concretezza della singolarità, considerata come non-essere, come ni-ente. Da ciò deriva che la posizione onto-logica dell'Essere posto a fondamento della realtà ontica (upotidénai) è per i cristiani una superstiziosa posizione fideistica, così come «superstiziosa» è per Wittegenstein la credenza nella legge causale, che sorreggerebbe appunto la corrispondenza necessaria tra il modello ontologico e la prassi. E' dunque alquanto fuorviante l'asserzione di Rahner, secondo il quale «possiamo incontrare qualcosa di reale in quanto tale proprio solo nella conoscenza; e un'affermazione su un qualcosa di reale che vedesse in esso qualcosa in linea di principio e in partenza sottratto alla conoscenza, sarebbe un concetto che annulla se stesso».522 Ciò dà per scontata l'identità di verità e concetto, che l'esperienza mistagogica cristiana smentisce per sostenere il carattere trascendente della verità rivelata. Nel Fedro Platone afferma che l'anima è una realtà «che si muove da sé», cioè è principio (arché). Tale principio del proprio movimento, nella prospettiva ontologica, corrisponde al Cogito cartesiano. Ma se il Cogito è pensiero, cioè ratio, è già logos distinguente, è rappresentazione (Darstellung) del mondo. Esso va invece inteso come intuizione, cioè immagine dell'intelletto, visione d'insieme in-distinta della realtà presente alla coscienza. Qualunque sia il giudizio che di tale realtàsarà fornito

522

K. Rahner, Grundkurs, pag. 99.

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dalla ragione, nell'atto intuitivo essa è la coscienza stessa come mondo, appunto come immagine. E non possiamo dubitare della realtà della coscienza. L'immagine del mondo è l'immagine della coscienza del mondo, ossia della coscienza come mondo. Ogni immagine del mondo è l'immagine della coscienza che lo intuisce. L'intuizione della coscienza del mondo è la rappresentazione del mondo intuito dalla coscienza: la rappresentazione immaginifica del mondo è la realtà della coscienza intuitiva. La teoria cartesiana del Cogito come res cogitans reintroduce nella cultura filosofica europea la teoria dell'unità della coscienza umana come essenza universale, già professata anticamente da Macrobio, che nel suo Commentario, scriveva: Come un solo volto può riflettersi in più specchi, come più volti possono rispecchiarsi in un solo specchio, così un'unica anima si trova in tutte le cose, e, dappertutto, essa è in possesso di tutte le sue potenze, benché essa le eserciti diversamente nei diversi corpi secondo l'attitudine di ciascuno di essi.523

Facendo del pensiero la sostanza dell'anima, la realtà sostanziale è lo stesso contenuto della coscienza, qualunque sia. Sicché la realtà assoluta e indubitabile della coscienza è la coscienza stessa, base di ogni sapere e condizione di possibilità di ogni scienza. La coscienza rimane la stessa, cambiano solo i suoi contenuti. Ma proprio perché unica e universale, la coscienza può avere gli stessi contenuti. Da queste premesse muove la potenza omogeneizzante della ragione, il principio totalitario della coscienza universale razionalistica, che può giustificare l'olismo statolatrico antico e moderno. Questa gabbia della necessità cosmica viene divelta dalla libertà cristiana, che pensa la verità come relazione della coscienza singolare col Dio unico trascendente, come apertura dunque all'Infinito, a una unità spirituale trascendente e non storicizzabile in termini sociologico-politici. L'affermazione di Rahner risuona dunque di una incomprensione assoluta del dramma della libertà, la cui assolutezza risiede nella in-oggettivazione della sua esperienza in interiore, garantita dalla sola fides del destinatario d'amore, quell'Altro che per tutti è il Cristo. Scrive Rahner: il non ancora conosciuto e il puramente pensato sono modi deficienti, posteriori dell'oggetto della conoscenza, che in linea di principio e in partenza tendono al reale in quanto tale, perché senza questo presupposto non potremmo dire niente a proposito di quel che il reale in quanto tale significa.

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Macrobio, Commentario, cap. XIV, libro I; cit. da E. Bréhier, Op. cit., pag. 80.

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L'orizzonte dell'esperienza e della conoscenza trascendentale, e quindi originaria e avvolgente, è perciò posto in partenza in essa come l'autenticamente reale, come l'unità originaria del «che cosa» e del «che».524

Se la conoscenza potesse stabilire l'autenticità della realtà, commisurandola solo al pensiero conoscente, non sarebbe possibile alcun giudizio invalidante circa tale autenticità, che è propriamente quanto si propone di fare il valore trascendente della fede nella verità con le determinazioni mondane della volontà umana, comunque razionalmente giustificate e propugnate. Con Rahner non siamo solo di fronte a una «svolta antropologica», secondo la notazione di Cornelio Fabro, 525 ma a un tentativo di ripensare la verità cristiana all'interno di una dimensione cristologica già tentata dalla teologia protestante, con esiti demitizzanti non edificanti per la fede e soprattutto perseveranti su un percorso ontologicamente accidentato che condurrà la teologia post-conciliare in un labirintico Holzweg storicistico, in cui la Parola interpretata dai teologi assorbe la verità del Verbo divino, fino a risolverlo in una questione puramente ermeneutica.526 L'ermeneutica della libertà, che costituisce hegelianamente il luogo proprio dello spirito moderno, si concentra, giustamente, non nella supposta arbitraria «facoltà, attraverso cui egli (l'uomo) potrebbe fare o tralasciare questa o quella scelta arbitraria (...) posta a monte di una temporalità semplicemente storica esteriore, fisica, biologica», cioè in senso categoriale gnostico, ma sul carattere di «responsabilità» che «il soggetto in quanto tale e nella sua totalità» ha nei confronti di sé stesso.527 La «totalità unitaria dell'esistenza umana» è intesa, tuttavia, non nel senso di una partecipazione integrale all'evento storico di liberazione, ma come «una libertà del soggetto sopra se stesso»,528 irrelata da ogni fonte veritativa trascendente, ma immersa in una «temporalità che essa stessa pone al fine di essere se stessa» al fine di riflettersi come attività del soggetto assoluto. Infatti, scrive Rahner, la libertà è libertà in e mediante la storia spazio-temporale e proprio qui e così è libertà del soggetto nei confronti di se stesso. (…) Essa possiede – benché in senso alla temporalità e alla storia – un atto unico e irripetibile, l'autoattuazione del soggetto unitario stesso, che deve sempre e dappertutto passare attraverso una mediazione oggettiva, mondana e storica delle singole

524

K. Rahner, Grundkurs, pag. 99. C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Milano, 1974. 526 Ved. S. Fontana, La nuova Chiesa di Karl Rahner, Verona, 2017, pagg. 40-44. 527 K. Rahner, Grundkurs, pag. 132. 528 Ibidem. 525

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azioni, ma che intende e attua un'unica cosa: il soggetto unitario nella totalità irripetibile della sua storia.529

La totalità del soggetto, dunque, coincide con la sua assolutezza, che si confronta col mondo e nel tempo nella stessa dimensione della sua finitezza, per cui il senso cristiano della liberazione dal mondo attraverso l'atto di fede nell'eterno, viene del tutto a cadere in favore di una storicità paga di sé. Rahner coglie il carattere unitario della libertà, che la concezione attualistica parcellizzava in «azioni» singole e decisive, prive di alcuna teleologia meta-empirica,530 ma la consapevolezza della impraticabilità di una libertà intesa come riproduzione indefinita di atti che ponendosi si dissolvono, non è supportata da quella relazionalità del soggetto con il trascendente che costituisce l'unica garanzia che «la libertà sia l'evento dell'eterno».531 Infatti, il carattere avvenimenziale della libertà, che costituisce anche la sua datità oggettiva, perché possa trascenderla in senso valoriale e simbolico in relazione al significato meta-empirico e totale per la storia spirituale del soggetto personale, non può costituirsi come «l'eternità che noi siamo e diventiamo», poiché il carattere di eternità, e quindi di trascendenza, della libertà non è nella disponibilità dell'uomo, che non potrebbe rispecchiarla nel tempo, ma risiede nell'apertura a cui la storia personale si espone per non chiudersi in se stessa, nella soggettività, quale «momento del soggetto stesso»,532 in una autoreferenzialità assiologicamente sterile, della quale l'esperienza trascendentale è la trascrizione umanistica. Se la libertà è un evento «eterno», essa non è «un evento del soggetto», bensì è un atto di verità della coscienza, e come tale relativo all'Amore. Non vi è libertà spirituale che non sia atto d'amore, trascendente la soggettività autorale. Attribuire al soggetto trascendentale l'evento concreto in cui si manifesta la libertà, la depriva del suo carattere totalitario, che inevitabilmente ne coinvolge la verità, che non è mai soggettiva, cioè del soggetto, ma sempre relativa, ossia correlata all'Altro. Solo l'atto di coscienza d'amore è veramente libero. E cosa sarebbe la libertà se non il trascendimento della Necessità in cui l'esperienza finita dell'uomo lo pone nella situazione storica? Tale trascendimento non è dato dall'essere del soggetto presso di sé, ma nell'amore dell'Altro, nella relazione al quale la storia personale s'invera, 529

Ivi, pag. 133. Si pensi alla versione positivistica della concezione attualistica, quella crociana della libertà come sequenza di “fatti” singolari, ognuno dei quali aventi in sé la sua qualifica trascendentale distinta da ogni piano di sviluppo complessivo e diacronico. 531 Ivi, pag. 134. 532 Ivi, pag. 135. 530

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inverando la finitezza storica in senso spirituale di storia personale. Lo storicismo cristiano è in questa assunzione dell'esistenza umana come storia della verità spirituale del singolo, che nella sua vicenda mondana riconosce le tracce simboliche della Storia di Cristo. L'Incarnazione di Cristo non trova il suo valore storiologico nella figura del Messia in quanto «figlio di David», figliolanza per altro contestata dalla tradizione giudaica,533 ma in quanto rappresentazione eponima della Persona, intesa non tanto e solo come soggettività singolare, condizione che anche altre realtà viventi potrebbero condividere a vario titolo idealtipico, quanto come precipua di una coscienza trascendente la soggettività in senso sacrale,534 che trascende cioè la boeziana «rationalis natuarae individua substantia», che la dottrina pura del diritto ha «dissolto» in kantiana «funzione»535 e la filosofia ha «risolto» nell'opera, quale «sistema simbolico delle attività umane».536 La coscienza personale trascendente è ben più del Soggetto cartesiano, legislatore della natura, e kantiano, legislatore morale,537 in quanto è il fondamento di «tutti gli atti essenzialmente diversi»538 dell'uomo, sia nel senso inteso da Scheler come «un essere illimitatamente aperto al mondo»,539 che, nella nostra prospettiva, di coscienza intuitiva del trascendente e soggetto relazionale. L'apertura al mondo, la mondanità, è relativa alla dimensione della Finitudine, entro la quale opera la volontà, che è appunto l'agire nel mondo per il mondo, ispirato da un pensiero del mondo. Vale per la volontà ciò che vale per la ragione: la significatività entro l'orizzonte di senso della finitezza. Nella relazione con il trascendente, la volontà, così come la stessa ragione, non sono idonei ad agire e a pensare in considerazione della realtà della Differenza, ma tendono ad omologarla al parametro gnoseologico possibile per la conoscenza razionale, quello della onto-logia, che è appunto quello stesso della finitezza. Ciò che pertanto, nella prospettiva della metafisica occidentale, è andato obliato non è l'Essere, come sostiene Heidegger, ma la realtà che lo trascende. Il «salto nell'Essere» (leap in being) della civiltà europea, e segnatamente la greca, comportò infatti, con la perdita dell'orizzonte simbolico del 533

Ved. Ch. Guignebert, Jésus (1933), tr. it., Torino, 1950, pagg. 323-355. Ved. S. Weil, La personne et le sacré (1943), tr. it., Milano, 2012. 535 Ved. H. Kelsen, in Kelsen H. Treves R., Formalismo giuridico e realtà sociale, Napoli, 1992, pag. 216. 536 E. Cassirer, An Essay on Man (1944), tr. it., Roma, 2004, pag. 144. 537 Ved. V. Possenti, Il nuovo principio persona, Roma, 2013. 538 M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1921), tr. it., Milano, 1996, pag. 473. 539 M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos (1927), tr. it., Roma, 1997, pag. 146. 534

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Mito, l'organizzazione razionale della «esistenza societaria dell'uomo», la quale, come ribadito da Voegelin, «ha una storia innanzitutto perché, al di là delle dimensioni dell'esistenza umana, le sono proprie quello dello spirito e della libertà», costitutive dell'ordine sociale, il quale dunque rappresenta «un modo di sintonizzarsi con l'ordine dell'Essere».540 La dimensione politica, riflesso di quella ontologica, è l'orizzonte della finitezza razionalizzata per il dominio della Natura, di cui l'ordine politico è parte integrante. La caratteristica di tale ordine razionale è la separazione di Spirito (sacro) e Libertà (profana), prima frammisti e operanti sullo stesso piano di realtà esistenziale, e successivamente, a partire simbolicamente dall'Eutifrone platonico, destinati a due campi di realtà incomunicanti. Il «salto» segna una frattura antropologica rivoluzionaria di grande portata epistemologica, in quanto, con la perdita della intierezza della verità, si determina anche una scansione del tempo distinto in passato e presente, senza più la compattezza sincronica del tempo mitico.541 Ciò che la dimensione onto-logica della realtà guadagna in coerenza sistematica e in funzionalità nel controllo della realtà antropico-politica perde in termini di complessità tragica della visione della realtà, costruita sulla rimozione della contraddizione come elemento negativo e opposto alla positività ontica e assisi determina anche una scansione del tempo distinto in passato e presente, senza più la compattezza sincronica del tempo mitico. Il patrimonio noetico di tale rimozione onto-logica verrà recuperato sotto forma di rappresentazione fantastica della realtà, desacralizzata di ogni contenuto valoriale e teoretico.542 Ma il resto dell'Essere, ciò che rimane, non è un residuo mnestico di una dimensione onirica, bensì il senso stesso della vita umana, la possibilità di decifrarla e giudicarla dal punto di vista dell'eternità, ovvero nella relazione veritativa della Differenza, rimossa la quale, tutto il processo antropo-logico si risolve in una dialettica interna al molteplice, a una dinamica della storia del Logos, in cui l'umanità viene rappresentata dal Soggetto trascendentale, quale sua trasposizione concettuale unitaria. Ma l'unità possibile al Soggetto è quella dell'Essere, non la coscienza della totalità.

540

E. Voegelin, Order and History, vol. II, The World of the Polis, tr. it., Milano, 2015, pag. 8. 541

Ivi, pag. 9.

542

«Da Esiodo a Platone, quando il salto nell'Essere ha conquistato l'aletheia, la verità dell'esistenza, il vecchio mito diventa pseudos, falsità o bugia, la non-verità dell'esistenza nella quale visse chi ci precedette»: E. Voegelim, Loc. cit., pag. 11.

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