Coscienza Storica n.5

Page 1

5

Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: A. Gehlen (1904-1976).

Coscienza Storica

2


Coscienza Storica Nuova Serie 5

L’essere e l’ente: uomo e mondo tra natura e cultura Parte I

pag. 5

Parte II

pag. 136

3


4


L’ESSERE E L’ENTE UOMO E MONDO TRA NATURA E CULTURA

I

1. Sia Heidegger che Gehlen, nella loro diversa prospettiva teorica, mossero entrambi da un dato sotterraneo ma essenziale dell‟esperienza umana, che è il suo “disagio” (Freud), o “angoscia” (Heidegger) di vivere, intesi come l‟ansia di un essere biologicamente instabile (Nietzsche) e incompiuto (Gehlen). Si potrebbe facilmente notare, se fosse rilevante, che gli autori sunnominati sono tutti di cultura o di origine tedesca, e che essi in qualche modo si rifacciano all‟idea del “peccato originale” dell‟uomo come essere decaduto e soggetto alla sua natura lapsa. La stessa nazionalità culturale non implica una coappartenenza religiosa, si sa, ma nell‟Europa cristiana riformata, dove più che altrove ha pesato il confronto con l‟eredità ebraica sottesa all‟emancipazione dalla sintesi cattolica della sua polarità teistica rispetto alla cultura naturalistica classica, l‟ansia è divenuta una “inquietudine cronica”, per usare un‟espressione di Lasch riferita alla società consumistica, 1ma che noi possiamo indicare sommariamente come “l‟inquietudine critica” subentrata alla metafisica dogmatica scolastica a opera di Kant. 1

Ch. Lasch, L‟io minimo, tr. it. cit., pag. 16.

5


Se noi allargassimo la visuale filosofica degli ultimi secoli, non potremmo fare a meno di notare che i più significativi indirizzi di pensiero, pur prescindendo dalla nazionalità degli autori, interessano l‟area protestante dell‟Europa. A questo punto la notazione religiosa diviene più che un dettaglio erudito, ma forse costituisce una questione culturale primaria per la stessa definizione dell‟identità spirituale europea. Infatti, sogguardata da una prospettiva storicoculturale, la tematica filosofica della condizione umana moderna si congiunge strettamente alla crisi della identità cristiana, la cui antropologia aveva sostituito la cosmologia antica incentrata sull‟impero romano, del quale la Chiesa cattolica fu la sua sostitutiva forma istituzionale, simbolicamente rappresentativa della sua perduta unità etico-politica, ma anche la custode della sua “coscienza” insieme razionale e divina, che era stata ancora il fondamento della metafisica kantiana. Ora, la critica ai dogmi della metafisica cristiana fu l‟epilogo filosofico della Riforma teologica protestante, che avviò il processo della secolarizzazione della cultura medievale, per cui la perdita della unità cristiana, spirituale e identitaria, metafisica ed istituzionale, è strettamente congiunta alla problematica epistemologica della scienze anti-dogmatiche moderne, le quali garantiscono all‟uomo una conoscenza settoriale del mondo, utile al suo controllo pratico e alla sua sicurezza economica, ma forniscono un sapere razionalistico che manca di ogni destinazione finale delle stesse potenziali acquisizioni, mancando, appunto, di quella unità metafisica che è andata perduta nell‟età post-cristiana e di cui la cultura critica moderna risente la sua mancanza. Che sia una mancanza culturale di un bisogno universale dell‟uomo, nulla toglie alla sua cogenza, che è di carattere religioso, poiché religiosa è la visione unitaria che dell‟Essere ha l‟uomo. Da questa prospettiva, la tensione dello spirito moderno verso il progresso della conoscenza, è una tensione verso la definizione di una nuova unità metafisica del mondo, di una nuova religione; rispetto alla quale, il processo delle conoscenze scientifiche sembrò andare in 6


senso opposto, ossia nella direzione della frantumazione del sapere in ambiti specialistici sempre più ristretti e sempre più lontani da quella visione unitaria dell‟essere che la coscienza moderna ambiva avere per riconquistare una sua nuova, per dirla con Gehlen, “stabilità pulsionale”. L‟accenno a Gehlen ci consente di ricordare che la sua visione antropologica, per quanto elaborata e non superficiale, sfugge però dal dare una risposta esauriente alla domanda identitaria dell‟uomo postcristiano, perché elude la questione culturale essenziale, che ha consentito la continuità della sintesi cristiana con la cultura antica dopo la crisi della cosmologia pagana, quella relativa alla natura razionale dell‟uomo. Sfugge nel senso che, alla maniera nietzscheiana, sostituisce alla tradizionale idea di una consustanziale “facoltà” umana di rapportarsi sia alle leggi della natura che a quelle divine, una ipotesi di civiltà come processo casuale di derivazioni pulsionali stabilizzate in forme istituzionali in virtù non già di un fine razionale immanente, ma di una forza propulsiva autonormativa, razionalmente indeterminata, e perciò soggetta a qualunque storica determinazione volitiva. Un‟ipotesi che ubbidisce al criterio di neutralità scientifica verso i valori, ma che non risponde alla domanda che l‟ha suscitata: “chi è l‟uomo?”, che è diversa da quella che si interroga sul “come egli organizza la sua esistenza”. Da qui il senso di deluso sconcerto che trasale dalla lettura delle sue pagine, estremamente vaghe nel delineare il senso razionale dei mutamenti culturali, anche rilevanti, rappresentati tutti come meri trapassi inerziali da un ordine organico a un caos decostruttivo, la cui unica soluzione di continuità è costituita dal guscio abitudinario delle istituzioni, forme gratuite non meno delle scienze private di fondamento razionale, ossia di una loro intrinseca necessità. Un numero incalcolabile di processi interpersonali collettivi complessi assumono i dati di situazioni oggettive esterne e si semplificano, e si “alienano”, a loro volta, in una istituzione che si svincola da tutti i processi che portano ad essa.

7


I condizionamenti psicologici, storici e razionali entrati a far parte di una istituzione, e che la sovradeterminano, possono perdere quasi completamente la loro struttura, resasi autonoma, tanto più che questa stessa tende a schematizzarsi e a poggiare su criteri formali, così che possono penetrare in essa motivi del tutto nuovi. In tal modo avvengono le migrazioni delle istituzioni così come dei beni culturali, e con loro migrano intere sequenze di regole comportamentali codificate. […] Tuttavia, lo spirito con cui l‟istituzione viene gestita può essere infinitamente diverso, così come il senso concreto del suo funzionamento entro il contesto sociale.2

Comunque la si chiami questa gratuità o non necessità, essa è la proiezione teorica della libertà fondamentale della filosofia esistenzialistica. Ed essendo una libertà essenzialmente negativa, priva di determinazioni assolute, essa si avvicina alquanto all‟idea che ne aveva Berlin. Anche la libertà, come già le scienze in genere, restano mute di fronte alla domanda “perché la libertà” e non l‟opposto? Perché la scienza? Ed esse stesse sono domande riconducibili alla questione essenziale del “perché l‟essere anziché il nulla?”, da cui è partita la riflessione di Heidegger. Senza una preventiva definizione dell‟Essere, ogni risposta risulterà in tal senso negativa. Una risposta che si dà, e il cui oggetto quindi è, ma è, appunto, come un essere negativo. L‟essenza del negativo è la sua relatività al positivo cui si contrappone, per cui la “libertà da” si definisce dal potere contro cui si oppone, così come la scienza si definisce attraverso la sua opposizione alla credenza nella verità, che per la scienza è mito o religione o filosofia, insomma Weltangschauung, ma che per il credente è solo quella conoscenza dell‟Essere di cui è priva la scienza. Ed è questa conoscenza essenziale che egli chiama “valore” e che dà senso a ciò che vive. Il relativismo è la stessa conoscenza dell‟Essere nei suoi soli modi esistentivi, come realtà fenomenica. Questa conoscenza “relativa” è il contenuto delle scienze empiriche, il cui sapere è quindi relativo all‟assenza di una conoscenza essenziale (o religiosa o metafisica) 2

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pagg. 93-94.

8


dell‟Essere. L‟Essere conosciuto nella sua mera esistenzialità è, come sappiamo, la realtà del mondo-della-vita, che precede ogni sua futura determinazione essenziale per chi difetti di questa conoscenza essenziale. Si vuol dire con ciò che la precedenza dell‟esistenza sull‟essenza, che è il postulato dell‟ontologia esistenzialistica, è una condizione relativa alla mancanza di valori essenziali, che si verifica quando la “visione complessiva” della vita non è più un presupposto della conoscenza, ma un obiettivo teoretico da conseguire. Nel frattempo la conoscenza dell‟Essere diventa “scienza” delle sue modalità fenomeniche, ossia un sapere che assume come suo oggetto le forme storiche dell‟Essere. Se ben guardiamo, ci accorgiamo che queste forme storiche dell‟Essere altro non sono che le istituzioni di Gehlen, ossia le strutture normative di una visione del mondo non più creduta e vissuta come verità, e perciò ridotta a vuota e neutra volontà d‟essere, a struttura formale. Sono dunque le istituzioni di una società a impostare sulla durata l‟agire rivolto all‟esterno e il comportamento reciproco. Anche le più alte sintesi spirituali, le “idées directrices”, vivono solo fintanto che durano le istituzioni al cui interno esse vengono vissute. Questa stabilizzazione consiste nel fatto che gli uomini optano di volta in volta per contenuti del mondo esterno, della loro stessa natura umana e del pensabile del tutto determinati, prospettici, e che trattengono questi punti fermi appunto attraverso le proprie istituzioni. E l‟opzione è già tutta nell‟accogliere produttivamente ciò che si impone […].3

La “verità”, o il fondamento della conoscenza, ritenuta assente, quella che per Kant era la “coscienza normale”, è stata sostituita da Gehlen da una analisi dei processi formativi delle strutture della convivenza umana, come forme “oggettive” di organizzazione della prassi esistenziale, le istituzioni appunto, che sarebbe più corretto denominate “strutture fenomeniche”, ossia forme esistentive che diventano “oggettive” solo a seguito di un atto di conoscenza che le 3

Ivi, pagg. 97-98.

9


assuma come suoi contenuti. Gehlen esclude che quest‟atto sia un “giudizio sintetico” in senso kantiano, poiché ritiene una “autoillusione” una “comprensione” delle civiltà passate fuori della “disposizione d‟animo” interna ai valori istituzionalmente stabilizzati, giudicando l‟atto del comprendere meramente “soggettivo” ed “empatico”, fondamentalmente “estetico”.4 E‟ comprensibile che la soggettività del giudizio, privata del suo fondamento oggettivo razionale, che è la coscienza trascendentale, appaia una attività meramente soggettiva in senso aleatoriamente empatico. Le categorie ideali della conoscenza antropologica non sono a priori bensì quelle “neutre” forme che abbiano incontrato nella nostra disamina, al contempo empiriche e generalizzanti come ogni forma del sapere scientifico, e che sussumono nei loro costrutti razionali gli enti fenomenici sui quali formulano ipotesi di relazioni presentate come un “apparato concettuale” fenomenologico nel senso heideggeriano di “attinente al modo di mostrare e di esplicare” una “indagine” sulle “strutture fenomeniche”. 5Questa libertà teorica delle scienze è immanente alla stessa ricerca di senso ipotizzato dal sapere empirico, che non può giovarsi del fondamento necessario delle essenze ontologiche (a cominciare dalla universale ragione umana, fonte della oggettività di ogni rappresentazione soggettiva) e che quindi si rapporta all‟essere degli enti in modo congetturale, provvisoriamente valido fino a futura smentita a opera di una teoria più probante. In ogni caso, la ricerca scientifica non costituisce più una riflessione determinata sui fondamenti ontologici dell‟Essere, ma rappresenta in sé un‟affermazione del potere razionalizzante dell‟uomo che si esercita sul mondo per possederlo e controllarlo, non potendolo più veramente conoscerlo nella sua essenza. La libertà di ricerca e la libertà di dominio sono risvolti complementari di un unico 4 5

Ivi, pagg. 95 sgg. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. cit., pag. 57.

10


atteggiamento pragmatico dell‟uomo di scienza costruttore di senso e ideatore della realtà. Dalla libertà di significato alla volontà progettante, il passo è breve e dal relativismo del pensiero negativo si giunge così all‟assolutismo rivoluzionario, alla volontà cioè che la realtà debba essere ciò che di essa ha pensato la ragione umana che sia. L‟ipotesi è diventata verità voluta, ideologia. La scienza eleva il contingente a verità, mentre l‟ideologia vuole realizzare la verità del contingente. La dialettica del relativismo scientista è il dogmatismo rivoluzionario: da Hegel venne Marx, ma fu l‟economia classica che generò il marxismo. Contingente è l‟esistenza umana, l‟Esserci, e su di esso Heidegger costruì la sua analitica, pensandola come ontologia fondamentale, come l‟essere dell‟esserci, l‟essenza del contingente, della fatticità, dell‟esistenza. Anche Gehlen parte dall‟esistenza e l‟analizza restando nell‟esistente, ma non discettando sull‟essenza del suo fondamento ontologico, ma sulla genesi dei fenomeni complessi relativi alla specie umana, ai suoi fondamentali antropologici, con ciò credendo di superare ogni forma di idealismo e di soggettivismo metafisico, ma anche ogni prospettiva storicistica, che, come abbiamo visto, circoscrivendo il sapere e la civiltà dell‟uomo al suo tempo, lascia a suo dire l‟adito al relativismo. Quella d Gehlen è, a suo modo, anch‟essa una “fenomenologia” nel senso in cui l‟intese Heidegger come “scienza dei fenomeni” che “si riferisce esclusivamente al come viene mostrato e trattato ciò che costituisce l‟oggetto di questa scienza”, 6e insieme, “considerata nel suo oggetto reale”, come “scienza dell‟essere dell‟ente: ontologia”. 7 La fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell‟ontologia. L‟ontologia non è possibile che come fenomenologia. Il concetto fenomenologico di fenomeno intende come automanifestantesi l‟essere dell‟ente, il suo senso, le sue modificazioni e i suoi 6 7

M. Heidegger, Op. cit., pag. 55. Ivi, pag. 58.

11


derivati. L‟automanifestazione ha caratteri suoi propri e non ha nulla in comune con l‟apparire. L‟essere dell‟ente non può assolutamente essere inteso come qualcosa “dietro” cui stia ancora alcunché “che non appare” . “Dietro” i fenomeni della fenomenologia non si trova assolutamente nulla, a meno che non vi si celi qualcosa di destinato a divenire fenomeno. E‟ proprio perché i fenomeni, innanzitutto e per lo più, non sono dati, che occorre la fenomenologia. Esser-coperto è il concetto contrario di “fenomeno”. 8

La nota Auseinandersetzung tra Husserl e Heidegger verteva fondamentalmente sulla possibilità (sostenuta da Husserl) di conservare alla riduzione fenomenologica un ego che fosse “il presupposto assoluto per qualsiasi trascendenza”. L‟obiezione di Heidegger è che il soggetto concreto che opera l‟epoché non sia lo stesso soggetto trascendentale scoperto dalla riduzione, 9lasciando chiaramente intendere che ormai l‟unità metafisica della soggettività fosse essa stessa un problema, e non più un presupposto atto a consentire la conoscenza dell‟oggetto della coscienza. Senza quel presupposto metafisico, non rimane che l‟esperienza del soggetto mondano, l‟Esserci umano, quell‟ente in cui essere “è totalmente diverso da tutti gli enti e che, in quanto tale, racchiude in sé la possibilità della costituzione trascendentale”, e che dunque non può essere messo tra parentesi in quanto non è Vorhandenes (“semplicemente presente”), come pretende Husserl, “ma esiste” (“Sondern existiert”). Dall‟affermazione del carattere esistenziale dell‟uomo si sviluppa il problema della definizione di un‟ontologia fondamentale affrontato in Essere e tempo, 10che apre la ricerca di un nuovo fondamento, sostitutivo di quello espresso dalla tradizione filosofica occidentale ritenuta compiutasi con la fine della metafisica classico-cristiana. 8

Ivi, pag. 56. Ved. E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio (1927), a cura di R. Cristin, Milano, pag. 37. 10 Ivi, pag. 41. 9

12


Il criticismo inizia già dalla domanda, peraltro comune all‟empirismo, figlio anch‟esso della cultura protestante, “che cosa l‟uomo può veramente conoscere”? Una domanda che implicitamente esclude non solo il problema di Dio quale verità data cui attingere per partecipazione, sentimentale o razionale, ma esclude ogni “presupposto” che pure sta “all‟inizio e alla “fine” di “ogni filosofia”. 11

Ma, pur escludendo il presupposto della coscienza quale fondamento del filosofare, tale presupposto, che Heidegger individua nell‟ (essere dell‟) Esserci, in realtà risale ancora oltre, nello stesso interrogarsi filosofico, in quel cogito che nasce dalla meraviglia filosofica e che è diventato “un enigma” ma che deve pur riferirsi, prima che all‟oggetto del pensare, al cogitatum, a un pensante. Che questo pensante non sia la tradizionale “coscienza” ma sia l‟Esserci, in ogni caso è nella sua facoltà la ragione stessa della sua “diversità” rispetto a ogni altro ente mondano. Diversità che segnava tradizionalmente la presenza nell‟uomo di Dio, la sua divino-umanità, che i classici indicavano come logos e ratio, tradotta nelle lingue moderne come ragione, ossia la modalità propria del filosofare. Da qui la rivisitazione dell‟intera tradizione filosofica quale peculiare “comportamento” teoretico dell‟uomo che “non appartiene mai alla positività della semplice presenza”, 12e del quale la fenomenologia rappresentava la interpretazione trascendentale del rapporto soggetto-oggetto. Il problema dell‟oggetto, dunque, facilmente si converte in quello del soggetto, la cui attività teoretica non è data più dalla partecipazione all‟unica Verità ma dalla scoperta della verità possibile. La sicurezza dogmatica dell‟oggetto implicava la sicurezza del soggetto conoscente, mentre con la rimozione della Verità rivelata anche il 11

M. Heidegger, Tempo ed Essere. Lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel.(1930-1931), tr. it. di E. Mazzarella, Napoli, 1988, pag. 72. 12 M. Heidegger, cit. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 40.

13


soggetto si perde nel problema stesso della conoscenza, che diventa gnoseologia, ossia metodo, più che contenuto, di conoscenza. L‟oggettività e la soggettività della conoscenza diventano i due poli dell‟indagine metodicamente condotta della conoscenza critica. Poli che implicano una relazione, appunto da definire. La differenza rispetto al sapere dogmatico risiede nel fatto che ora la verità non è un dato originario della coscienza cui giungere per via di ragione, ma è essa stessa un aspetto del problema della conoscenza. Non è perciò esatto affermare, come hanno fatto tra gli altri Heidegger e Jaspers, che Dio fosse un “ente”. No, Dio era la Verità stessa quale presupposto della conoscenza, non il suo scopo, per cui anche l‟idea di Gentile che la religione rappresentasse il momento oggettivo ed esteriore della sintesi ideale non coglie appieno il significato della Verità come dato originario della coscienza e fondamento della conoscenza. Anche Mannheim,quando afferma che il sapere teologico scolastico era una conoscenza “oggettiva”, per distinguerlo dal soggettivismo moderno, non afferra che la polarità soggettivo/oggettivo è conseguente e succedanea alla crisi della verità teologica, non uno dei suoi momenti formali. Quando Kant pone la coscienza normale come fonte dell‟oggettività, presume, da credente, quel fondamento della Verità che il suo criticismo sta già superando come dato originario. Né è un caso che quella polarità critica si riproponga come una costante del pensiero post-dogmatico fino a Husserl e a Heidegger, e caratterizzi il tipo di approccio teoretico che si voglia “oggettivamente” scientifico. Il vuoto che si apre nella filosofia post-kantiana è quello lasciato dalla rimozione della coscienza come dato originario e proprio dell‟impostazione dogmatica, che ancora sopravviveva in Cartesio. L‟idealismo di Hegel tradusse l‟in sé del dato originario kantiano in processo logico dello Spirito assoluto, il cui sapere non poteva ammettere niente fuori di sé, nessun residuo ontologico. Ma dell‟impostazione kantiana Hegel mantenne l‟idea della sintesi come

14


giudizio trascendentale, sia pure intesa come processo fenomenologico della sua logica dialettica. La logica dialettica eliminò il fondamento della coscienza come dato sintetico originario, sostituendogli il processo fenomenologico dei suoi astratti elementi formali, già ritenuti sostanziali dalla metafisica dogmatica. Il passo critico ulteriore era dunque quello di ridefinire i contenuti formali di quella che era stata la coscienza sensibile kantiana, lo spazio e il tempo, ora anche fuori della sintesi dialettica, nel cui processo Hegel aveva dissolto la logica formale che sorreggeva i giudizi categoriali dell‟intelletto. Husserl affrontò la questione dello spazio, criticando l‟impostazione coscienzialistica di Cartesio, mentre Heidegger quella del tempo, criticando l‟impostazione che ne aveva dato Kant, mantenendo l‟impostazione idealistica della fenomenologia intesa come processo della coscienza teoretica soggettiva ma cercando di superare la riduzione kantiana del sapere filosofico a gnoseologia e a critica della ragione. Ma se Husserl cercò appunto di mantenere l‟assolutezza della coscienza fenomenologica, Heidegger si spinse nel senso della dissoluzione della sua unità trascendentale attraverso un‟analitica che chiamò “esistenziale”. Il soggetto universale o trascendentale poteva costituire il fondamento della conoscenza oggettiva, a condizione che quella stessa conoscenza fosse garantita dalla veridicità della sua corrispondenza con la ragione del mondo, e cioè di Dio che l‟aveva creato. Il fondamento soggettivo, anziché oggettivo, della conoscenza asserito da Kant aveva tale corrispondenza, a suo modo dogmatica, come presupposto. Venuto questo meno, anche la soggettività ebbe bisogno di essere poggiata su alcunché, su leggi assolute, che ormai nessuna fede metafisica più garantiva. L‟oggettività, in conseguenza della dissoluzione del fondamento soggettivo, divenne anch‟essa un problema in quanto non più garantita dalla assolutezza della coscienza, per cui i due elementi sono sempre corrispondenti, non solo nel giudizio sintetico ma anche nella loro opposizione. In questo senso, l‟affermazione della oggettività non può 15


essere disgiunta dalla questione circa la fondatezza della soggettività, e anche le scienze empiriche, nell‟atto di affermare la convenzionalità della conoscenza ipotetica, negano la assolutezza di ogni fondamento metafisico sul quale stabilire l‟essenza della verità, costituito appunto dalla coscienza. Senza soggetto, non c‟è sintesi, ossia rapporto con l‟oggetto, e allora il mondo fenomenico, che prima gravitava sulla soggettività universale, diventa mera realtà esistentiva, e la sua conoscenza empirica deve dunque prescindere da ogni valutazione ideale, aggiuntiva di ciò che i fenomeni siano in sé. Ma che cosa è andato perduto con la coscienza della verità? E perché le scienze empiriche non soddisfano il bisogni che le ispira, ossia l‟organizzazione della realtà fenomenica in leggi universali? Perché, in altri termini, l‟ignoranza noumenica, della “cosa in sé”, crea quel senso di insoddisfazione metafisica di sopra ricordato? La risposta è: perché si è perduta l‟unità dell‟esperienza umana, nella quale consiste appunto la verità. Il bisogno di concretezza ispirato e a un tempo presupposto dalla conoscenza critica, non è idealmente diverso da quello che spinge la sociologia del sapere a indagare i fenomeni culturali dalla distanza che li separa dalla loro immanente concezione del mondo, che costituisce l‟unità di senso del loro essere. Anche una concezione del mondo, al pari della coscienza o dello spirito, non si può cogliere in sé, ma solo in relazione ai suoi prodotti fenomenici. 13 Con ciò si vuol dire che ogni conoscenza particolare è conoscenza del particolare, che rimanda a ciò che parte non è ma un tutto. Allo stesso modo, gli atti intenzionali della coscienza presuppongono una unità assoluta, un Io, per cui secondo Husserl “non si può parlare di una cosa nei termini di qualcosa che in una certa maniera esiste al di fuori della coscienza e indipendentemente da essa”. 14Se dunque era 13

Ved. K. Mannheim, Il carattere specifico della conoscenza sociologico-culturale, tr. it. cit., pag. 71. 14 F.J. Wetz, Edmund Husserl (1995), tr. it., Bologna, 2003, pag. 61.

16


vero, come sosteneva Kant, che la metafisica dogmatica aveva perso i contatti con la realtà sensibile – che è poi l‟accusa che ogni storicismo muove al razionalismo -, è altresì vero che la conoscenza empirica, fuori della sua relazione a una unità in sé assoluta, perde di validità oggettiva e diventa una mera ipotesi in attesa di smentite. Il limite del criticismo consiste proprio nella affermazione della relatività della conoscenza scientifica, la cui asserita intrascendibilità denunciava il limite così della stessa ragione umana, ossia della filosofia. Pertanto la conoscenza sintetica della relazione soggetto-oggetto diventa un prodotto interno alle forme della coscienza soggettiva, che da Kant in poi ha perduto la sua validità universale e assoluta, e diviene dunque relativa per tempo e per luogo, e di cui fa fede una intuizione sensibile, mancando la quale la conoscenza non ha valore scientifico ma soltanto ideale. Ma lo stesso heideggeriano “cammino attraverso la fenomenologia nel pensiero dell‟essere” dell‟Esserci, risultò, come già aveva visto Husserl, un “antropologismo”.15.] Infatti, che l‟esistenza determini l‟Esserci, non chiarisce punto la questione essenziale del processo costitutivo di tale determinazione, che è appunto il processo del pensare, ossia l‟elemento a partire dal quale può dirsi costituirsi un atto umano, quale sintesi di sensibilità e pensiero. Husserl aveva concentrato giustamente la riflessione su tale attività, mentre Heidegger si sofferma sull‟esistenzialità quale “costituzione d‟essere dell‟ente che esiste”, ossia “trasferisce o disloca sul piano antropologico la chiarificazione costitutivamente fenomenologica di tutte le regioni dell‟ente e dell‟universale, dunque della regione „mondo‟ nella sua totalità”, per cui “l‟intera problematica rappresenta una traduzione: all‟ego corrisponde l‟Esserci, ecc.”. 16 Husserl coglie l‟aspetto fondamentale dell‟analitica esistenziale di Heidegger, consistente appunto in quella che egli chiama “traduzione” 15 16

Cit. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 45 Ivi, pag. 48.

17


della coscienza trascendentale in coscienza mondana, empirica e storica, e che riflette nel suo caso particolare la tendenza generale del pensiero anti-metafisico, immanentistico e critico, da noi più volte indicata come “riduzione ontologica”, la quale sta all‟origine del “rispecchiamento” rivoluzionario, e che consiste appunto di comprendere l‟esperienza umana non “a partire dalla filosofia”, al modo indicato da Husserl, 17cioè dalla struttura categoriale, cioè dal presupposto dell‟essere, ma “a partire dal mondo”, ossia dalla esistenza o “in-essere”, la analisi della cui struttura ontologica costituisce per Heidegger il contenuto dello stesso pensiero filosofico come analisi della costituzione esistenziale dell‟Esserci. 18è Il percorso immanentistico cui approda il razionalismo critico, non ha soltanto un esisto strictu sensu storicistico nella filosofia della vita di Dilthey, ma anche una corrente antropologico-filosofica di cui quella ontologicoesistenzialistica di Heidegger è una diramazione trascendentale, mentre l‟antropologia di Gehlen è l‟altra matrice, variante di quella “scienza ingenua dei fenomeni” oggetto della critica di Husserl, 19il quale invitò esplicitamente a “prendere una decisione di principio scegliendo tra antropologismo e trascendentalismo”. 20Alla “oscura

17

Ved. E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pagg. 49 sgg. 18 Non si tratta beninteso di “un semplice trasferimento di concetti da un piano coscienzialistico a uno esistenzialistico”, ma, come dice Fink, di una “apertura dell‟uomo all‟essere”, che però è “preliminare” nel senso dell‟Esserci, anziché dell‟essere, e se tale operazione non la si vuole indicare come una “concretizzazione dell‟astratto concetto di coscienza di Husserl”, il senso esistenzialistico indubbiamente questo. Ved. E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 54 n. 74. 19 Ivi, pag. 50 20 E. Husserl, Fenomenologia e antropologia, conferenza del 10 giugno 1931 presso la “Kant-Gesellschaft” di Berlino, cit. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 57.

18


mistica della filosofia dell‟esistenza”, 21Husserl ci tiene a contrapporre la sua idea di filosofia come “scienza universale e „rigorosa nel senso più radicale”, che recupera “l‟idea più originaria della filosofia, che sta alla base, a partire dalla sua prima salda formulazione da parte di Platone, della nostra filosofia e della nostra scienza europea”, e che tende a realizzare “un‟Idea” la quale “continua a vivere nelle nostre scienze positive, per quanto poco esse la realizzino, appunto per il genere della loro fondazione”. 22Per vincere la “scepsi che minaccia di screditare il proposito di una scienza rigorosa e, in termini universali, di una filosofia”, il “ grande compito” che Husserl si è proposto attraverso il metodo fenomenologico è di elaborare sistematicamente un “metodo di analisi dei presupposti ultimi della conoscenza” che ci ponga “di fronte all‟ “essere soggettivo che è presupposto, già in linea prescientifica, da tutte le teorie”, consentendoci quindi di risalire alla “soggettività trascendentale […] quale sede originaria di qualsiasi conferimento di senso e di qualsiasi verificazione dell‟essere”, con l‟intenzione di ottenere così la “scienza di un nuovo cominciamento” filosofico, 23il cui metodo, precisa Husserl, è stato preparato a partire da Cartesio, anche se, alludendo a Heidegger, non ha niente a che vedere con alcun “antropologismo trascendentale”. 24Né tantomeno con una qualche forma di antropologia empirica, dal momento che l‟esperienza trascendentale “diventa possibile soltanto attraverso una modificazione di quell‟atteggiamento in cui avviene l‟esperienza naturale, mondana”, che si realizza appunto col metodo della 21

Così si esprime Husserl sprezzantemente a proposito della prospettiva di Heidegger in una lettera a K. Löwith del 22 febbraio 1937, cit. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 58. 22 E. Husserl, Postilla alle “Idee” (1930), tr. it. in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (3 voll., 1913-1928), tr. it. a cura di E. Filippini, Torino, 1965, vol. III, pagg. 915-916. 23 24

Ivi, pag. 916. Ivi, pag. 917.

19


“riduzione fenomenologica”, 25o epoché, la quale rende possibile l‟esclusione e la perdita della validità d‟essere di “tutti i giudizi basati sull‟esperienza naturale e riguardanti questo mondo”, che è “dato” ma non “interrogato”, e con esso di “tutte le scienze positive che si basano su quella fonte di verificazione che è costituita dall‟esperienza naturale-mondana”, per giungere a “guardare liberamente il fenomeno universale”, ossia il “mondo della coscienza puramente come tale”, il “regno della soggettività pura o trascendentale”. 26 La cosa essenziale per comprendere la diversa posizione di Heidegger, è che questa dimensione pura o trascendentale è per Husserl precedente “qualsiasi essere mondano”, il quale “solo nell‟io [trascendentale] assume una validità d‟essere”. 27Questo contenuto teoretico, derivato da “una scienza che si rifà al mondo già dato”, non è un in sé filosofico, ma lo diventa allorquando “diventa oggetto di una scienza filosofica fondamentale”, il quale è “qualcosa di diverso per principio da ciò che cerca la scienza positiva”, perché diverso è l‟atteggiamento filosofico rispetto al “dominio teoretico, raggiunto attraverso l‟esperienza, sul mondo già dato”. 28 Diverso è, questo “idealismo fenomenologico-trascendentale”, anzi “rigorosamente opposto”, rispetto a ogni “idealismo psicologistico”, 29 e a ogni “realismo filosofico” che da esso fosse confutato, essendo per Husserl entrambi un “controsenso filosofico”. 30Infatti egli chiarisce che Rispetto a un pensiero ricco di presupposti che ha come premesse il mondo e la scienza, oltre che numerose altre abitudini metodiche di pensiero derivanti dalla tradizione scientifica, nella fenomenologia viene praticato un vero radicalismo 25 26 27 28 29 30

Ivi, pag. 918. Ivi, pag. 921. Ivi, pag. 922. Ivi, pag. 923. Ivi, pag. 925. Ivi, pag. 926.

20


dell‟autonomia conoscitiva, n virtù del quale qualunque cosa già data come ovviamente essente viene sospesa nella sua validità per risalire a ciò che è già implicitamente presupposto da qualsiasi presupposto, da qualsiasi domanda e da qualsiasi risposta e che quindi è già sempre necessariamente e immediatamente, come un che di primo in sé. Ciò viene posto espressamente e liberamente come primum, e in un‟evidenza tale che precede e sostiene tutte le possibili evidenze.31

Ma il “vero e proprio filosofare”, comincia solo con la “riduzione fenomenologica”, la quale “deve trasformare questo radicalismo in un lavoro consapevole”, e che non consiste quindi in una “teoria” utile “a fornire una risposta al problema storico dell‟idealismo”, o in una altra “tesi filosofica particolare”, bensì in una “scienza in sé fondata e assolutamente autonoma, anzi l‟unica scienza assolutamente autonoma”, 32che si costituisce come un “idealismo universale realizzato come scienza”.33 Questo ambizioso programma di Husserl, nella sua radicalità, nasconde però una intrinseca debolezza teorica, che ha fatto dire a Heidegger che Husserl aveva cominciato a filosofare “dal tetto”, in quanto La cosa percepita in modo meramente sensibile è essa stessa derivata; non ci sono prima le cose percepite con i sensi e poi le stesse cose in quanto valutate o in grado di influenzarci. La nostra comprensione primaria del mondo non è una comprensione delle cose come oggetti, ma ciò che i greci indicavano come pragmata. L‟orizzonte all‟interno del quale Husserl aveva analizzato il mondo della comprensione prescientifica era la pura coscienza come essere assoluto. Heidegger poneva in questione questo orientamento riferendosi al fatto che il tempo interno appartenente alla pura coscienza non può essere compreso se uno fa astrazione dal fatto che questo tempo è necessariamente finito, e perfino costituito dalla mortalità dell‟uomo.34 31

Ivi, pagg. 926-927. Ivi, pag. 927. 33 Ivi, pag. 928. 34 L. Strauss, Introduzione all‟esistenzialismo di Heidegger, tr. it. in Gerusalemme e Atene, cit., pag. 359. 32

21


In altri termini, il problema fondamentale era che, dopo Cartesio, non esisteva più un mondo, ossia una unità metafisica che riunisse l‟essere e i fenomeni mondani, ma questa unità, o era definitivamente perduta (Nietzsche), o andava ricercata, a seconda degli indirizzi, nel mondo (realismo) o nel soggetto (idealismo). Il problema della conoscenza si spostò dal mondo, come realtà creata da una coscienza divina, al cogito, ossia alla attività di una coscienza umana, finita e sempre più lontana dalla consustanzialità della Coscienza originaria. Sia Kant che Hegel ridefinirono il cogito in termini creazionistici, individuando nel pensare il luogo della soluzione dell‟unità sintetica. La riforma della logica in senso dialettico da parte di Hegel, va considerata in questa prospettiva, che continuò a chiamarsi “idealistica”, ma che più correttamente doveva essere indicata come “logica del concreto”. Ora, poiché il luogo di tale concretezza venne da Hegel indicato come Idea, essa implicitamente (e neppure tanto) indicava come “irreale” la realtà comune, quella del mondo-della-vita, la quale, dopo la fede in Dio, fu abbandonata anche dalla fede metafisica in una verità, e lasciata in preda teoretica alla scienza, ossia alla ragione astratta. Ma questa fuga dal campo della realtà, fu opera della filosofia, non già una conquista delle scienze empiriche, le quali quel campo lo ereditarono da orfane del pensiero. Il pensiero scientifico, che sviluppò una sua metafisica positiva, era certamente imperfetto, ma era pur sempre l‟unico pensiero oggettivo di fronte alla soggettività del pensiero altro, intento alle idee anziché alla chiarificazione del mondo esistente. Dalle parole di Husserl, possiamo facilmente renderci conto che anch‟egli risolve nel metodo la questione della verità, asserendo idealisticamente che questa non corrisponde alla realtà. Né può bastare l‟apparente correttivo della asserita “assolutezza” del suo primato teoretico rispetto alla relatività delle succedanee scienze mondane, poiché il problema ontologico non è la fondatezza del sapere empirico, ma la fondatezza ontologica del mondo, che le scienze conoscono, si sa, imperfettamente. Il problema filosofico, insomma, non è quello di fondare le scienze, ma se il 22


mondo nella sua unità ideale ed esperienziale sia o non una realtà univoca di senso. Se il pensiero non riesce a dare unità al mondo, a cosa serve? Il pragmatismo nasce come pensiero servente le ragioni del mondo, conosciuto dalle scienze. Esso è la filosofia di un mondo conosciuto scientificamente, nel quale, cioè, la verità è scientifica. La verità, dunque, “è” nel mondo, come scienza. Il primato moderno della scienza sta nella circostanza del suo servizio al mondo, e quello del pragmatismo nel suo servizio alla verità della scienza. Il destino della filosofia, dunque, non è quello di invenire la verità, ma di servirla, poiché la verità è tale se esiste prima ed indipendentemente dalla filosofia, così come il mondo è reale prima di essere conosciuto dalla scienza, la quale lo conosce perché crede nella sua realtà. E‟ questa fede di realtà del mondo, questa creduta verità, che fa della scienza una conoscenza vera, a sua volta credibile. Se invece fosse la conoscenza a qualificare il suo oggetto, questo non esisterebbe senza di essa. Questa è la pretesa di ogni idealismo, che spontaneamente provoca una reazione realistica, e dalla costola di Hegel si originò Marx. Il Marx di Husserl è stato Heidegger, il quale contesta al maestro che possa qualificarsi come “scienza” una verità che si costituisca come un sapere “assoluto”, una radicale negazione dell‟esperienza mondana. Un sapere scientifico non è mai assoluto, per statuto epistemologico, ma sempre relativo alla verità del mondo. Un sapere assoluto è un sapere altro dalla scienza, ma tale supposta alterità della verità, contestando la scienza ne contesta anche il suo oggetto, ossia il mondo, e quindi si prospetta come una alterità dal mondo reale, dall‟esistenza, quella dimensione comune che lega l‟uomo all‟esperienza degli altri uomini, e che gli fa intendere, o almeno sentire, l‟unità dell‟Essere. Essere nel mondo, significa infatti essere nell‟unità dell‟Essere. Essere, ed essere nell‟unità, sono tutt‟uno. Mentre la filosofia, con la sua rinnovata pretesa di condurci nel mondo vero, ci allontana dall‟unica realtà che tutti gli uomini conoscono.

23


La reazione di Heidegger è dunque comprensibile, ed era prevedibile. Ma come ogni pensiero reattivo, anch‟esso, pur cogliendo il problema, ne fa ancora parte nell‟atto di affrontarlo. Al pari di Husserl, che restò impigliato nella fondazione delle scienze nell‟atto stesso di contestarne la validità teoretica. Infatti, la questione del metodo, ossia del come della conoscenza della verità, deve presumerla e non fondarla. Ciò che si dà nella coscienza teoretica è un essere che già esiste, altrimenti esso si crea, non si conosce. La profonda intuizione di Vico non è nella indicazione metodologica, per cui ogni factum sia verum, da cui discende la conversione relativistica che l‟unico verum sia il factum, per cui basta realizzare questo per assicurare quello. L‟intuizione profonda di Vico è che l‟unico verum sia ciò che per l‟uomo è factum, ciò che non è da farsi,non è in suo potere fare, ma ciò che lui trova già “fatto”, ossia il mondo stesso, la realtà in cui l‟uomo si trova a vivere, e che venendo prima di lui e di ogni sua creazione, non è prodotto umano. Ci si può dividere se il mondo sia naturale ovvero divino, ma resta la verità che esso sia vero in quanto non creato dall‟uomo. Da qui la sua infinitezza, la sua verità, la sua realtà superiore a ogni umana finitezza. La filosofia non può fondare il mondo, non può creare la verità che vorrebbe conoscere, altrimenti crea e crede solo in se stessa. L‟idolatria della coscienza è il surrogato filosofico della fede perduta nella realtà dell‟Essere, che appunto “è” prima di essere conosciuto. L‟identificazione di questo essere con la sua esistenza, non è un atto filosofico, di conoscenza, ma un atto di fede, il vero a priori del pensiero, l‟unico suo fondamento, senza il quale il metodo diventa un esercizio intellettuale, un vaniloquio “sul tetto”. Ma che a fondamento della verità ci sia un atto di fede, è un portato della fede stessa, e non della verità. nel senso che l‟identità di verità e di fede non è originaria, ma l‟assunzione di quella immensa responsabilità metafisica che incombe sull‟uomo quale essere religioso e di ragione, che cerca un autore del mondo per credere in questo. Questa immane responsabilità può anche essere revocata in 24


dubbio, lasciando l‟uomo nello sconcerto e nell‟angoscia di un‟esistenza assoluta, solitaria, in cui l‟esistere sia dissociato all‟essere. Lo sforzo di Heidegger di trovare una verità senza fede non è da meno dell‟orgoglio filosofico di Husserl di dare un senso a ciò che è prima di ogni senso. Entrambi sono figli orfani di Dio creatore e lontano. Tutta la ricerca filosofica moderna, tutto il pensiero critico, disegna un percorso che è un nostos verso il Padre, il viaggio di Telemaco, figlio creato e abbandonato. Un viaggio che non può avere alcun approdo, dal momento che lo smarrito non è il padre ma il figlio, per cui il mare che egli solca è in realtà dentro di lui. Anche Husserl tenta la traversata, nocchiero e nave, con precise carte in mano ma senza orientamento. L‟idealismo fenomenologico – egli scrive – non nega l‟esistenza reale del mondo (e innanzitutto della natura) quasi pensando trattarsi di una mera apparenza a cui, anche se inavvertitamente, il pensiero naturale e scientifico positivo soggiaccia. Il suo unico compito, e il suo unico merito, è quello di chiarire il senso di questo mondo, precisamente quel senso secondo cui vale per chiunque, conformemente a una reale legittimità, come realmente essente. Che il mondo esista, che sia dato come un universo essente nell‟esperienza che di continuo converge verso la concordanza, è perfettamente indubbio. Una cosa completamente diversa è cercare di capire questa indubitabilità, che sostiene la vita e le scienze positive, e di chiarirne il fondamento di legittimità. 35

Quella di Husserl è una grandezza tragica, pietosa nella hybris, destinata inevitabilmente allo scacco, perché contraddittoriamente sospesa tra la certezza dell‟essere del mondo e il bisogno di una sua “legittimità”, ossia di un riconoscimento d‟essere un mondo vero. Se infatti il mondo è “indubitabilmente dato” come un “universo realmente essente”, donde il bisogno di “capire questa indubitabilità” se non dal desiderio di revocarla, di smentirla, di giustapporvene altra, più vera, al modo delle scienze empiriche. Se il “capire” il mondo è “una cosa completamente diversa” dal fondamento della sua certezza, 35

Ivi, pag. 928.

25


vuol dire che quel capire è diverso dal mondo stesso, dal viverne l‟esperienza che “sostiene la vita e le scienze”. In questa endiadi riposa la forza del sapere che non dubita sulla legittimità della fede nella verità del mondo. Da questo punto di vista [ossia quello del fondamento della legittimità teoretica del mondo] le argomentazioni contenute nel testo delle Idee prospettano come un elemento filosoficamente fondamentale il fatto che il continuo progresso dell‟esperienza nella forma di una concordanza universale sia una mera presunzione, per quanto legittimamente valida, e che perciò, anche se finora il mondo è stato concordemente esperito, rimane pensabile la sua inesistenza.36

Non conta, dunque, la realtà del mondo, ma la sua interpretazione, il cui valore stabilisce la differenza tra un‟esperienza presuntiva e una vera. La verità del mondo si disloca dunque nel luogo della verità, che è il ricetto logico della coscienza trascendentale, diventando verità sul mondo: atto, non ricezione. Ed è infatti tale ricezione sensibile che “finora” si è universalmente affermata come “esperienza concorde”. Ma da questo momento in avanti, interviene il tribunale della ragione trascendentale a stabilire nuovi parametri di validità e di invalidazione. Su queste pieghe sottili del razionalismo s‟insinua, in forma mite o irruenta, ogni volta l‟istanza rivoluzionaria, che sul dubbio ontologico fonda la sua azione disperatamente derassicurante: esiste o non il mondo? 37Egli appare, dice Husserl come ogni idealista, 36

Ibidem. La natura rivoluzionaria del dubbio metodico fu chiara già al Vico, il quale, a proposito della querelle des anciens et des modernes, prende “una via media”, riconoscendo, con gli indubbi vantaggi derivati dai moderni progressi scientifici e tecnici, anche gli “inconvenienti inerenti agli stessi vantaggi, che infirmano la posizione dei moderni. Così la critica, simboleggiata dal dubbio cartesiano, che abbatte ogni opinione per appagarsi solo di principi assolutamente veri e certi, e svolgerli poi col ragionamento scientifico, annulla tutta la vasta zona del verosimile, da cui si forma il senso comune, cioè quel complesso di giudizi non ragionati, che pur formano il prezioso appannaggio della società umana. Perciò è da temere che i giovani, educati a un eccessivo criticismo, perdano contatto coi modi di vedere e di 37

26


ma occorre fondare il suo essere. E sulla realtà certa di questa apparenza costruisce le sue ragioni ogni forma di realismo, su questa esistenza fonda il suo pensare l‟esistenzialismo di Heidegger. Ma torniamo a Husserl. Il risultato del chiarimento fenomenologico del senso del modo d‟essere del mondo reale e di un mondo reale pensabile in generale è questo: soltanto la soggettività trascendentale ha il senso d‟essere di un essere assoluto, soltanto essa è “irrelativa” (cioè relativa soltanto a se stessa), mentre il mondo reale è, sì, ma è in un‟essenziale relatività alla soggettività trascendentale, perché può avere il senso di un mondo esistente soltanto in quanto formazione intenzionale di senso della soggettività trascendentale. Solo in questo la vita naturale e il suo naturale avere-il-mondo sono limitati; non per questo questa vita soggiace all‟inganno per cui, continuando a vivere nella sua “naturalezza”, non avrebbe motivi di passare a un atteggiamento trascendentale […]. Ma tutto ciò trova il suo pieno senso quando […] l‟esperienza, che [l‟epoché] implica, di altri soggetti, viene ridotta all‟esperienza trascendentale […].38

Non vi è dunque necessità di emanciparsi dall‟ “inganno” della vita “naturale”, poiché questo in realtà, essendo realtà universale, inganno non è, ma solo il modo d‟essere di un mondo che in verità non è “reale”, perché reale è solo il mondo pensabile come vero. La verità, cioè l‟essere del mondo, viene distinta dal suo possesso, e “avere-ilmondo” viene equiparato alla condizione “naturale” dell‟uomo. Basta sostituire qualche espressione perché si abbia la teologica dicotomia tra la realtà del mondo e quella della fede, cui non si accede per le vie normali ma solo attraverso i sentieri privilegiati della verità trascendentale, il cui metodo tra svaluta il valore del mondo così come trasfigura l‟essenza del fedele. L‟uomo è chiamato alla “decisione” pensare tradizionali del proprio ceto, del proprio paese e di tutto il genere umano, diventando troppo aggressivi e insocievoli. E questo è un danno, non solo per il comportamento pratico, ma anche per la formazione intellettuale […]” : G. De Ruggiero, Da Vico a Kant, in Storia della filosofia, VI, Bari, (1940), 1972, pagg. 3435. 38 Ibidem.

27


della conversione al “trascendentalismo” o di rimanere nel “naturalismo” (o “antropologismo”). Si può anche vivere da miscredenti, ma certo la nuova fede apre orizzonti veramente universali. Nell‟intersoggettività trascendentale si costituisce dunque il mondo reale, il mondo obiettivo, il mondo essente per “chiunque”. Il mondo reale ha questo senso sia che noi possediamo un esplicito saper in merito sia che non lo possediamo. Ma come possiamo possedere questo sapere prima della riduzione fenomenologica, che sola propone allo sguardo dell‟esperienza la soggettività trascendentale come un essere universale assoluto? 39

Il nuovo idealismo costituisce “il mondo” in quanto ne costituisce il “senso”, che coincide con “il vero essere della soggettività trascendentale”, sicché la stessa “operazione intenzionale” costituisce sia il senso del mondo che il mondo medesimo, superando così a un tempo l‟antica questione del realismo e il superamento dell‟idealismo “psicologico”, nel quale si era mossa la tradizione idealistica del sec. XVIII. 40 La questione si muove entro i dati della coscienza, non nel mondo, nell‟in-essere di Heidegger, per cui “il necessario cominciamento” del rinnovato filosofare “coincide con l‟interrogazione della propria coscienza” psicologica, per risalire quindi al “chiarimento dei modi del rapporto coscienziale tra la conoscenza e il suo oggetto”, 41al fine di presentarsi, kantianamente, “come scienza”. 42 Se le scienze positive “si insediano sul terreno già dato, e presupposto come ovviamente essente, dell‟esperienza del mondo”, rimanendo “travagliate da problemi riguardanti i loro fondamenti” conoscitivi, che non saranno mai “ultimi”, invece “la filosofia può radicarsi 39 40 41 42

Ivi, pag. 929. Ibidem. Ivi, pag. 933. Ivi, pag. 934.

28


soltanto in una riflessione radicale sul senso e la possibilità dei suoi intenti”, che sono quelli di “impadronirsi autonomamente del terreno assoluto e peculiarmente suo dell‟esperienza pura”, o “non è una filosofia”. 43 Nell‟atto stesso di rinnegare il mondo e il suo sapere scientifico attraverso il radicalismo di una posizione estrema, Husserl rinnega lo stesso pensiero filosofico, che sino ad allora si era mosso all‟interno di un universo ideale pre-scientifico in senso trascendentale, come se l‟intelligenza del mondo si aggirasse comunque, al di là di ogni specifico sforzo, all‟interno della caverna platonica. Infatti, fino ad ora “una simile riflessione, realmente radicale” circa il “vero cominciamento”, tale da garantire un “terreno assoluto”, inteso come “il presupposto assoluto di tutti i presupposti ovvi”, non è “mai stata attuata”, per una ragione all‟apparenza tutta contingente, ma che decisiva sulle sorti della civiltà universale: poiché “mancava quel radicalismo senza il quale la filosofia non può essere né cominciare”. 44

Il filosofare viene da Husserl inteso come un opporsi alla realtà del mondo, un pensare-contro i “presupposti della positività” e il “modo ingenuo” di rappresentare la realtà, al fine di assidersi quindi su “un terreno autonomamente acquisito”. 45Quasi che il proposito di fondare una nuova scienza, organizzata come una distinta e riconosciuta disciplina accademica, fosse superiore a quello di giungere a un pensiero autenticamente inclusivo della particolarità dei saperi specialistici, e cioè universale. Ma è questo il proposito del vero filosofo? Lo scopo, cioè, del filosofare? Una “scienza” che sia al contempo “assoluta” e “fondamentale” è contraddittoria. O è assoluta dalle altre scienze, o ne costituisce il fondamento ed è quindi ad esse omologa. La filosofia non può costituirsi come una scienza dei 43 44 45

Ibidem. Ivi, pag. 935. Ibidem.

29


fondamenti dell‟essere se il suo presupposto è che l‟essere sia senza fondamenti. D‟altronde Husserl, parlando del “territorio della vera filosofia” come della “terra promessa”, da lui agognata dopo lunga “lotta per trovare il cominciamento di una nuova filosofia”, 46tradiva un afflato profetico che non poteva essere quello di un filosofo ma di un dottrinario. La religiosità del filosofare, infatti, come abbiamo pur ripetuto, è inclusiva, non esclusiva, per cui l‟atto del con-prendere è opposto a quello dell‟ex-pellere, come il riflettere è opposto al decidere, e la filosofia alla politica. Comprendere, significa partecipare a ciò che già esiste, entrando razionalmente nel suo essere. Questa “partecipazione dell‟uomo all‟essenziale” è l‟aspetto ancillare della filosofia, già messo in luce da Scheler. 47 2. La fenomenologia, scrive Husserl per la voce omonima della Encyclopaedia Britannica, “indica sia un metodo descrittivo” che “una scienza a priori, da esso derivata, che si propone di fornire l‟organon dei principi relativi a una filosofia rigorosamente scientifica e di rendere possibile […] una riforma metodica di tutte le scienze”, 48 a partire dalla psicologia, che da “scienza dello psichico” va intesa come “psicologia fenomenologica”, fondamento a priori di quella empirica. La psicologia moderna, per la sua “concreta connessione con le realtà spazio-temporali […], offre agli uomini e agli animali l‟esperienza”, per cui essa è “un ramo dell‟antropologia concreta, ovvero della

46 47

Ivi, pag. 936. M. Scheler, L‟essenza della filosofia, tr. it. cit., pagg. 243 e sgg.

48

La versione inglese apparsa nel 1929 è alquanto manomessa e considerata dal Landgrebe un testo non autentico. Il testo qui riprodotto riprende quello originale che si trova in E. Husserl, Phaenomenologische Psychologie, a cura di W. Bimel, vol. IX della Husserliana, Den Haag, 1962, di cui la tr. it. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 79.

30


zoologia”. 49Ma va detto che “una ricerca psicologica in senso puro non sia stata ancora realizzata”, a partire dalla “chiarificazione di ciò che è peculiare dell‟esperienza, in particolare dell‟esperienza pura dello psichico”, 50attraverso la riflessione, per mezzo della quale noi cogliamo gli Erlebnisse soggettivi in cui le cose del mondo appaiono alla coscienza come “fenomeni”, il cui “carattere essenziale più generale è quello di essere coscienza-di” singole cose, progetti, pensieri, etc., costitutivo della “relazionalità” che sta alla base della “intenzionalità” della coscienza. Da qui la conclusione che il “carattere essenziale immanente” agli Erlebnisse è il loro essere “intenzionali”, 51L‟intenzionalità, in quanto riferita a ogni singolo fenomeno, è “molteplice”, ma in quanto diretta alla percezione dello stesso oggetto, è “sintetica”, per cui i contenuti intenzionali sono relativi ai rispettivi modi della percezione, l‟insieme dei quali costituisce una “intenzionalità fluente”, 52di cui la psicologia fenomenologica ha il compito di “ricercare in modo sistematico le forme tipiche”, che sono poi quelle degli stessi Erlebnisse intenzionali in ogni loro possibile strutturazione, anche se resta ancora da chiarire “se un‟esperienza fenomenologica esclusiva e coerente riesca a procurarci un campo conchiuso dell‟essere, tale per cui possa svilupparsi una scienza riferita esclusivamente ad esso e staccata nettamente da qualsiasi considerazione psicofisica”. 53 Qui Husserl dissolve l‟unità sintetica dell‟Erlebnis così come l‟aveva concepito Dilthey, distinguendo dalla struttura formale gli atteggiamenti dai contenuti. Egli cita Brentano quale scopritore dell‟intenzionalità, 54senza mai citare Dilthey né altri autori del neo49 50 51 52 53 54

Ivi, pag. 80. Ivi, pag. 81. Ivi, pag. 82. Ivi, pag. 83. Ivi, pag. 84. Ivi, pag. 85.

31


criticismo quali Cohen, fondatore della Scuola di Marburgo, che aveva espresso l‟idea di una logica che fosse, non più scienza della riflessione ma scienza dell‟origine (Ursprung) e “fondamento” (Grund) delle scienze. 55L‟idea centrale di Dilthey, che compendia del resto tutte le distinte posizioni neo-kantiane in materia di gnoseologia, è che, per quanto siano variegate le forme metodiche particolari di approccio al mondo fenomenico da parte delle singole scienze, in ogni caso “il processo conoscitivo è uno solo”, per cui “gli stessi grandi contrasti che dividono i ricercatori positivi quanto al modo di concepire questi sistemi, possono trovare una soluzione solo con l‟aiuto d‟una psicologia veramente descrittiva”. L‟insostenibilità della separazione tra ricerca filosofica e ricerca positiva discende semplicemente dal fatto che sia i concetti di cui si servono tali conoscenze […] sia i principi elementari a cui esse pervengono o da cui partono […], si possono accertare in misura sufficiente solo col concorso della psicologia. […] Questi singoli sistemi e il loro connettersi nella vita della società si possono scoprire solo nel nesso delle stesse ricerche di cui qui ci troviamo alle soglie. Intanto chi li prende in considerazione, se li trova di fronte come fatti oggettivi che si danno all‟intuizione con una certa imponenza. 56

55

“Il neo-criticismo di Cohen, è sostanzialmente riconducibile a due postulati: l‟eliminazione di ogni contenuto empirico dal processo conoscitivo, e il conseguente rifiuto di ammettere per la ragione umana la possibilità di attingere la cosa in sé. Muovendo infatti dall‟analisi del metodo e dei risultati delle scienze matematiche, per Cohen si può concludere che il pensiero risulta criticamente fondato solo per quanto riguarda i contenuti immanenti della conoscenza trascendentale. Un tale procedimento rifiuterà perciò tutti gli aspetti soggettivi e psicologici provenienti dall‟esperienza sensibile, in quanto radicata al di fuori della universale e necessaria oggettività dell‟apriori conoscitivo”: A. Rigobello, Dal Romanticismo al Positivismo, Milano, 1974, pag. 228. 56

W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito (1883), tr. it. a cura di G.A. De Toni, Firenze, 1974, pagg. 82 e 83.

32


Il presupposto unitario della conoscenza venne implicitamente contestato da Husserl nell‟atto stesso in cui si metteva in discussione il postulato fondamentale della teoria gnoseologica neo-criticista, asserita originariamente da Windelband e poi confermata anche da Rickert e dagli altri esponenti delle diverse scuole neo-kantiane, secondo cui la differenza metodologica che distingueva le scienze nomotetiche da quelle idiografiche non riguardasse il contenuto oggettivo delle scienze, per cui la stessa realtà umana si poteva conoscere attraverso entrambi i procedimenti. 57Una volta definiti i metodi dell‟analisi fenomenologica, l‟attività “veramente descrittiva” non veniva più demandata alla psicologia empirica, ma alla fenomenologia pura, e da qui la necessità di una critica radicale dell‟oggettivismo psicologistico, che impegnò le migliori energie di Husserl. Nel saggio husserliano qui in esame si afferma esplicitamente che il “metodo della riduzione fenomenologica è il metodo fondamentale della psicologia pura, il presupposto di tutti i suoi specifici metodi teoretici”, per cui il fenomenologo “deve inibire, mentre compie la riflessione fenomenologica, qualsiasi implicazione delle posizioni oggettive esercitate nella coscienza irriflessa e anche ogni intervento giudicativo nei confronti del mondo per lui direttamente esistente”58Non si trattava più dunque di purificare la psicologia attraverso un metodo “veramente descrittivo”, ma di fondare un metodo universale capace di porre in parentesi “qualsiasi maniera di coscienza oggettivamente diretta”, pur conservando lo stesso oggetto di pensiero. E da qui “il problema” sollevato da Heidegger e posto al

57

W. Windelband, Geschichte und Naturwissenschaft (1894), cit. da A. Rigobello, Op. cit., pag. 221. 58 H. Husserl, Fenomenologia, tr. it. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 85.

33


centro della riflessione di Essere e tempo: “qual è il modo di essere dell‟ente nel quale „il mondo‟ si costituisce?”. 59 Secondo Husserl, L‟epoché universale riguardo a quel mondo che diventa presente alla coscienza (la sua “messa fra parentesi”) esclude dal campo fenomenologico il mondo semplicemente essente per il soggetto in questione e al suo posto subentra il mondo presente alla coscienza in maniera determinata “come tale”, il “mondo fra parentesi” (il mondo percepito, ricordato, giudicato, pensato, valutato ecc.) o, il che è lo stesso, al posto del mondo (ovvero della singola cosa meramente mondana) subentra il singolo senso della coscienza nei suoi diversi modi (senso della percezione, senso del ricordo ecc.). 60

Ma la epoche fenomenologica presuppone che l‟autore, il “soggettoio”, sia lo stesso tanto nella “esperienza interna” che quale oggetto dell‟analisi come “esperienza dell‟estraneità”. Il problema di Heidegger è appunto di “mostrare che il tipo di essere dell‟Esserci umano è totalmente diverso da quello di tutti gli altri enti e che esso, in quanto tale, racchiude in sé la possibilità della costituzione trascendentale”, il che richiede “un‟ontologia fondamentale dell‟Esserci”. 61 La risposta di Husserl circa la possibilità di una psicologia riferita esclusivamente al campo fenomenologico, esclude l‟impiego di “una scienza di fatti empiricamente pura”, poiché solo una “scienza a priori” può consentire “di passare universalmente dalla attualità alla forma essenziale (eidos)”, la quale, per essere tale, “deve permanere, attraverso qualsiasi possibile essere psichico, nelle singolarità, nelle associazioni sintetiche e nelle totalità conchiuse”. La stessa pensabilità dell‟eidos include la possibilità di una sua rappresentazione intuitiva, per cui “la fenomenologia psicologica deve senz‟altro essere fondata

59

M. Heidegger, “Lettera a Husserl” del 22 ott. 1927, cit. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 76. 60 Ivi, pag. 86. 61 M. Heidegger, “Lettera a Husserl” cit. in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 76.

34


in quanto fenomenologia eidetica: essa è infatti diretta esclusivamente alle forme essenziali invarianti”. 62 E‟ la forma psicologica pura a costituire il “fondamento necessario per costruire una psicologia empirica esatta”, dai primordi ricercata sul “modello della scienza naturale fisica” e sulle sue “forme a priori” autonomamente disciplinari, il cui sistema consente alle scienze empiriche di “elaborare concetti e leggi razionali in grado di sostituire tutti i concetti e le regole altrimenti indefiniti”, trovando il “proprio rigore (la propria esattezza) soltanto nella razionalità di ciò che è essenziale”. 63Ma come si accede dalla “psicologia pura” alla “filosofia autentica”? “il problema trascendentale”, spiega Husserl, “si sviluppa nell‟ambito di un rivolgimento universale dell‟atteggiamento naturale nel quale persistono sia il complesso della vita quotidiana sia le scienze positive”, costitutive di quell‟ “universo ingenuo delle realtà, già stabilmente date in una semplice e aproblematica presenza”, in cui universalmente si danno le “nostre attività pratiche e teoretiche”. Ma, non appena l‟interesse teoretico abbandona l‟atteggiamento naturale e, mediante un rivolgimento universale dello sguardo, si dirige verso la vita di coscienza nella quale il mondo è per noi appunto “il” mondo, vale a dire il mondo che è a portata di mano, noi ci troviamo allora in una situazione conoscitiva del tutto nuova. […] una volta che in questa piena universalità il mondo è stato rapportato alla soggettività della coscienza, nella cui vita si manifesta come “il” mondo relativo al singolo senso, la sua forma d‟essere complessiva acquista allora una dimensione di incomprensibilità, o meglio: di problematicità.64

Il superamento dell‟atteggiamento “naturale” ci emancipa dalla “vuota universalità” della coscienza ingenua del mondo, conducendoci all‟esperienza intenzionale, in cui “coscienza e fenomeno coincidono” e “il mondo reale, per noi a portata di mano, trovi senso e validità”. 62 63 64

Ivi, pag. 88. Ivi, pag. 89. Ivi, pagg. 93 e 94

35


65

Dunque tale validità e tale senso non sono nel mondo, ma questo, “essendo sempre intenzionato da noi, non può aver trovato e non può continuare a trovare senso e validità in nessun altro luogo se non in noi”. 66E‟ questo presupposto idealistico che consente che quanto sia inerente alla trascendenza della coscienza soggettiva venga “elevato alla dimensione di principio”, in ragione del quale “l‟evento del nostro mondo” diventi, “per necessitò eidetica”, ossia per necessaria chiarificazione trascendentale, il modello relazionale di “ogni mondo pensabile”. 67Per la sua paradigmaticità di “soggettività possibile”, dunque, “la soggettività di coscienza, che in quanto psichica costituisce il tema della psicologia, non può trovarsi nella condizione di dover sottoporsi per via trascendentale a una domanda retrospettiva”, 68ma “presuppone un terreno d‟essere aproblematico”, nel quale “si costituisce un mondo possibile in generale come semplicemente presente”, che non va però confuso col mondo “semplicemente assorbito nell‟atteggiamento naturale”, per cui “la soggettività e la coscienza alle quali ricorre la questione trascendentale non possono in realtà essere la medesima soggettività e la medesima coscienza di cui si occupa la psicologia”. 69 Dunque Heidegger aveva visto giusto? Husserl non chiarisce qui la questione, limitandosi ad affermare che la fenomenologia “è eo ipso scienza a priori di tutti gli enti pensabili”, compreso “l‟essere della soggettività trascendentale”. 70Lo farà in qualche modo nella Crisi, come vedremo, la quale costituisce in generale una sorta di risposta alle tesi di Essere e tempo. Qui gli preme invece ribadire il carattere universale della fenomenologia e la possibilità da essa offerta di essere 65 66 67 68 69 70

Ivi, pag. 94. Ivi, pag. 95. Ibidem. Ivi, pag. 97. Ivi, pag. 98. Ivi, pag. 104.

36


quella “fondazione” a priori che manca alle scienze empiriche, che sono “diventate a priori storicamente, cioè nell‟ingenuità trascendentale”, ma che possono “giustificarsi dal punto di vista metodico, solo tramite una fondazione fenomenologica”. 71La possibilità di una “fenomenologia empirica” può giustificarsi solo in conseguenza di “quella eidetica” su cui sarebbe fondata,ma non può pretendere quella oggettività pura e universale che solo una “scienza universale derivata da una auto giustificazione radicale” può offrire, costituendo la unica vera scienza nel senso in cui l‟intese Platone, comprensiva di “tutti i problemi razionali [che] tradizionalmente si caratterizzano come problemi filosofici”. 72Da questo le deriva la “funzione dell‟autoriflessione universale dell‟umanità (trascendentale) che è al servizio di una prassi universale della ragione”, che è “aspirazione” alla “perfezione assoluta”, coincidente con una vita umana vissuta “completamente in verità e autenticità”. 73 Con l‟avvento universale del nuovo metodo, tutte le diatribe storiche del pensiero filosofico troveranno la loro composizione e la loro relativa giustificazione, come in una parousia teoretica in cui a ciascun filosofo sarà dato il giusto, cioè la sua parte di vero, e l‟inizio del pensiero si congiungerà alla sua fine, dal momento che “la filosofia fenomenologica si riconosce, nel proprio metodo complessivo, come conseguenza pura delle intenzioni metodiche che hanno mosso la filosofia greca fin dai suoi esordi”. 74 Un‟epilogo a dir poco sconcertante se pensiamo alle defezioni immediate dei migliori suoi allievi, tutti alla ricerca di un proprio percorso teoretico, aggiuntivo e non risolutivo della crisi filosofica che è causa e insieme effetto della crisi di civiltà che stava dissolvendo l‟Europa. Ma lo sconcerto appare ancora più disarmante alla luce della 71 72 73 74

Ivi, pag. 105. Ivi, pag. 106. Ivi, pag. 107. Ivi, pag. 109.

37


corrispondenza di principio, correlata al fatto storico della decadenza europea, tra la crisi della civiltà occidentale e quella del suo pensiero, sì che la constatata impossibilità storico-politica di affermare una filosofia universale sia stata interpretata come l‟evidenza della “debolezza” stessa del pensiero filosofico che aveva sostenuto quella civiltà in declino. Ma l‟idea di questa corrispondenza è in realtà il segno stesso della crisi filosofica, comprensiva del pensiero di Husserl che vi soccombe, sia pure in senso enfatico e non pessimistico; crisi che si rivela in quella corrispondenza fattuale, che assegna alla ragion pratica, e non alla teoretica, il primato spirituale, tale che finalmente è la realtà fenomenica a designare nella sua autonoma oggettività il criterio di veridicità della teoria. Le sorti del mondo contemporaneo, al cui destino Heidegger aveva aderito con sentita, anche se breve, partecipazione, hanno archiviato il vaticinio husserliano, riaffermando di contro il primato universale delle scienze empiriche, che sembra aver rimosso nell‟inattualità la crisi del loro fondamento, a segno ulteriore dell‟irrilevanza progressiva della sfera teoretica al cospetto della potenza degli eventi mondani e del loro controllo pratico. Proprio tale corrispondenza, o, come a noi piace dire per eco marxiano, “rispecchiamento”, del teoretico nel pratico e viceversa, assunto come necessità intrinseca al filosofare anziché come compito morale, e cioè pedagogico, ha negato l‟autonomia del pensiero noetico da ogni gravame d‟incombenza pratica legato al controllo pratico di un mondo abbandonato alla sua ingenua spontaneità fenomenologica. Infatti, l‟asserita autonomia di una scienza assoluta è parsa costretta ad assumere il mondo a suo oggetto, anziché farne un compito statutario, cercando da esso un mutrioso congedo, anziché fare di esso il terreno della propria ambizione a ergersi come il luogo ideale del suo appello razionale. Il conflitto delle interpretazioni, che è la cifra teoretica del relativismo gnoseologico, è la condizione di uno status metafisico pre.gerarchico, in cui non si è risolta la questione del “riconoscimento” dell‟ordine ontologico, che si produce come fondamento dell‟ordine pubblico. 38


Non c‟è ordine sociale, per Hegel, senza Anerkennung, senza cioè il “riconoscimento” del Servo del dominio del Signore. Se ogni coscienza ha un peso teoretico e morale eguale a quello di ogni altra, chi potrà derimere i conflitti di coscienza? Se manca un appello giudiziale, la soluzione è delegata agli stessi contendenti, che ripetono sul piano delle interpretazioni del mondo quella “guerra di religione” che è indistinguibile empiricamente dalla guerra pre-civile hobbesiana. Così, volendo eliminare il conflitto assimilando come vorrebbe anche Husserl, il diverso allo stesso, lo si trasferisce all‟interno dell‟astratta unità ontologica, che pertanto produce per intima contraddizione, il suo polo dialettico, il suo Molteplice. Solo nella permanenza del diverso in se stesso è possibile stabilire una relazione ideale che medii tra l‟Essere unitario dell‟Idea e gli enti molteplici di cui la scienza ricerca l‟armonia fenomenica, ossia i controllo pratico. Concepire, come fa ancora Husserl sulla scorta del criticismo, la filosofia come scienza dell‟Essere, contrapponendola alle scienze empiriche del Molteplice, ha provocato la risoluzione idealistica del Molteplice nella unità categoriale, mentre nelle posizioni realistiche la riduzione del pensiero a funzione della prassi, a metodologia o tecnica della assimilazione del diverso allo stesso. Inoltre, riconducendo l‟intera realtà fenomenica all‟unità del pensiero, lo stesso rapporto dialettico è stato concepito come interno all‟Essere, riproducendo nell‟Unità la Molteplicità delle categorie ideali. Ma l‟unità è tale in quanto opposta alla molteplicità, e non opposta in sé. La molteplicità delle categorie dell‟intelletto è insuperabile se non riportando il molteplice all‟unità dell‟Essere pensato come pensiero puro o universale, ma in realtà operando una trasformazione ontologica (indebita e impossibile, e perciò contraddittoria e insostenibile) dell‟essere molteplice in essere unitario, ossia in altro da sé. La conseguenza di questa assimilazione del molteplice all‟Essere unitario è stata l‟incomprensione della realtà storica, il cui divenire è stato concepito come momento di un processo logico, ossia fenomenologia del pensiero trascendentale. In verità, l‟Essere, in 39


quanto realtà unitaria, non può divenire alla stregua del Molteplice, il quale diviene proprio in quanto non-è l‟Essere, che semplicemente è. Solo l‟Essere è, mentre il Molteplice diviene, è storico. Altra conseguenza dell‟idealismo è l‟incomprensione della stessa filosofia, come pensiero dell‟Essere, le cui rappresentazioni storiche determinate sono state assimilate al divenire della storia, al processo del Molteplice. Ma il pensiero non diviene, bensì resta sempre se stesso. Ciò che cambia storicamente è la coscienza che esso ha di sé. La libertà dalla metafisica, che ha sostituito e svilito la antica libertà metafisica, ha inoltre ispirato l‟idea che la filosofia fosse “la” scienza dell‟Essere, cioè relazione tra categorie, ovvero metodologia storiografica, o epistemologia trascendentale. Ma per quanto ascritta a una purezza trascendentale nobilitante, non può darsi “scienza” dell‟Uno, cioè dell‟Essere, ma solo del Molteplice, cioè degli enti, poiché scientifico è il nesso causale tra fenomeni omogenei, e quindi astratti dal loro concreto divenire, e perciò non può stabilirsi alcun nesso tra ciò che è unitario con se stesso. Per ottenere questa dialettica, l‟idealismo è costretto a sdoppiare l‟unità dell‟Essere facendo del Molteplice (cioè del non-essere) il prodotto dello stesso Essere, provocando un autismo logico che è correlativo formale dell‟empirismo relativistico. La scienza è possibile entro il Molteplice, e non entro l‟Uno, per cui può darsi ragionevolmente solo una scienza del Molteplice, una fenomenologia, che è appunto scienza dei fenomeni molteplici, ma che non è pensiero della verità, cioè pensiero dell‟Essere, bensì ipotesi di correlazione causale tra enti fenomenici, che verrà superata col divenire del Molteplice. La filosofia non è scienza di fenomeni, e non produce ipotesi destinate a essere confutate col passare del tempo, nel corso del divenire del Molteplice, e non ricerca perciò “leggi” generali entro cui sussumere la realtà che diviene, quasi a fermarne il corso. Compito della filosofia è di stabilire relazioni ideali tra ciò che è e ciò che diviene, tra l‟Essere Uno e il Molteplice fenomenico divenire. Tali relazioni mutano col mutare dei

40


contenuti del divenire, ma solo le stesse con riferimento all‟unità dell‟Essere. Questa asimmetria tra la totalità dell‟Essere e la molteplicità delle manifestazioni degli enti non è componibile a unità armonica, in una forma universale, senza assimilare il Molteplice all‟Uno, facendo del primo l‟apparenza dell‟altro. Tale assimilazione ha condotto alla confusione dell‟ente con l‟essente, della storia come fenomenologia del Molteplice, con la storia come categoria unica dell‟Essere, convertendo l‟Uno nel Molteplice e viceversa. Ma la confusione della storia con la filosofia, e del pensiero con la prassi, sono espressioni di un errore ontologico che è all‟origine di ogni dottrina totalitaria, teoretica e pratica, idealistica quanto realistica, che ha fatto sorgere la reazione criticistica all‟unità della conoscenza e ai vari relativismi moderni, a loro volta ispiratori di varie risoluzioni essenziali o fondamentali. Perdendo la sua funzione di collegamento tra l‟Essere e il Molteplice, la filosofia ha così invaso dapprima il campo della teologia, che è la sfera dell‟intuizione dell‟Essere unitario elaborando dottrine della unità dell‟Essere, e poi ha invaso il terreno della scienza, dedita alla scoperta dei nessi causali tra gli enti fenomenici, nel tentativo di fondarla su leggi assolute. Questa indebita ingerenza della filosofia in campi alotrii, tralignando dalla sua funzione critica e relazionale, ha provocato la crisi del pensiero filosofico come chiarificazione della totalità dell‟Essere, e conseguentemente del ruolo del filosofo nella società. Chiamato a dare risposte definitive, il filosofo resta muto perché egli non le può dare, non essendo suo compito. Chiamato poi a risolvere questioni tecniche relative ai problemi che nascono dal divenire di essi nel tempo, egli resta egualmente muto, perché non può usurpare il ruolo dello scienziato, artigiano specializzato nelle questioni inerenti alla manipolazione degli enti fenomenici. La filosofia non dice delle cose prime ed ultime dell‟Essere, perché essa non intuisce l‟unità contemplandone l‟essenza spirituale, alla maniera mistica, né intuisce la molteplicità portandola ad armonia fisica, alla 41


maniera dell‟arte. Essa neppure stabilisce nessi causali tra i fenomeni chiarendo la loro origine empirica, necessaria o contingente e casuale. I compito della filosofia è di ricercare la relazione sapiente (ossia logica) tra ciò che necessariamente è e ciò che solo diviene, ossia tra ciò che è e(s)terno all‟uomo, e quindi divino, e ciò che è prodotto umano, e perciò finito e transeunte. Ciò che è eterno, ha in sé la sua ragion d‟essere, per cui ogni suo mutamento apparente è relativo al suo stesso essere ciò che è. Ciò che invece è umano, è destinato ai fini umani, che sono teleologicamente razionali. Un fine che non sia umano ha un valore trascendente in sé, un valore assoluto, che non può essere “prodotto” (in tal senso non è umano) né quindi manipolato, ma solo pensato. Il pensiero dunque partecipa dell‟essere assoluto trascendente, rappresentandolo ma non creandolo. La differenza ontologica tra ciò che è prodotto umano, e ciò che è idealmente umano, non è eliminabile, e presso di essa si colloca il pensiero filosofico, che distingue e mette in relazione logica i due campi essenziali dell‟esperienza umana: quello ideale e quello fenomenico. Filosofare, amare la sapienza, vuol dire propriamente stabilire il rapporto che il processo del molteplice divenire stabilisce storicamente, cioè nel tempo, con l‟Essere eterno, che, in quanto esterno alla produzione umana, non diviene ma è. Pensando il rapporto tra l‟Essere e gli enti, la filosofia chiarisce sia le ragioni d‟essere dell‟Uno, che le ragioni relative del molteplice, mettendo in relazione logica (non causale, perché tra realtà eterogenee) la necessità che regna nell‟unità dell‟Essere, con il libero dispiegamento della vita umana, la cui libertà consiste nella mancanza di una intrinseca necessità biologica, ossia di essere ciò che non è. La relazione tra ciò che è (ideale) e ciò che diviene (quale ente fenomenico, che in quanto tale esiste ma non è) ne stabilisce la distinzione, preservando la reciproca confusione e l‟assimilazione del diverso nello stesso. Filosofare significa dunque pensare non solo l‟Essere in quanto è, né solo i fenomeni nel loro divenire, ma pensare il Tutto che li 42


comprende. Il pensiero filosofico è “dialettico” proprio in quanto pensiero di relazione, logica e non empiricamente causale o misticamente arbitraria, dell‟Essere, che è indipendentemente da ogni divenire e dallo stesso pensiero, e del Molteplice, che diviene anche senza la ragione che ne spiega il suo divenire, per cui il suo dire può anche mancare, senza che gli enti esistano come ciò che sono e divengano ciò che non sono. La sua funzione consiste nel porre in relazione logica ciò che è (divino, e che fa sì che si creda che l‟Essere sia) con ciò che non-è (divino, ma umano e dipende dall‟uomo), al fine di stabilire l‟ordine ontologico e non infrangerlo facendogli violenza. La violenza dell‟errore, cioè della confusione ontologica, non è mai solo metafisica, ma sempre anche storica, ripercuotendosi nell‟esistenza fenomenico del Molteplice, per cui la filosofia, impedendo di trattare il diverso come lo stesso, impedisce la guerra, ossia lo scontro tra stessi che ricercano l‟ordine nel riconoscimento di sé come ragione dell‟altro, che è l‟Anerkennung del Signore da parte del Servo. E quindi salvaguarda, con la pace, la stessa armonia sociale, ossia la giustizia e la verità. Armonia, Giustizia e Verità sono i valori di riferimento dell‟azione umana, della sua Volontà. Valori che trascendono le azioni empiriche e che perciò sono l‟Uno rispetto al Molteplice delle singolari volontà umane, perché tutti si convertono nell‟Essere che non diviene e che si oppone, in quanto essere,a ciò che diviene. Armonia estetica, Giustizia morale e Verità logica, sono i contenuti ideali della umana Volontà economica tesa a conseguire il proprio particolare effetto. Fuori di tale rapporto logico, l‟Essere mantiene la sua distanza ontologica dalla vita degli enti come fede religiosa nel suo essere ciò che è e non appare. La filosofia non può sostituirsi alla fede senza usurparla e senza perdersene, così come non può mutare il divenire delle cose umane. La sua non è una funzione supplente, ma servile. Essa infatti può soltanto custodire quei valori ai quali l‟uomo crede mettendoli in relazione logica con le loro azioni, mostrandone la coerenza o viceversa l‟incoerenza. Questa sua funzione, 43


apparentemente povera perché né afferma il Vero né trasforma il Molteplice, è in verità essenziale e decisiva, in quanto essa sola consente all‟Essere di essere ciò che è, e al divenire di non divenire invano, ossia privo della luce dell‟Essere che ne orienti il senso valoriale. Un Essere senza Molteplice divenire, è un dio senza gloria, una verità che rimane misteriosa e non si manifesta come valore partecipabile. Viceversa, un divenire che procede come vortice senza centro e senza fini, è una Molteplicità che non coglie mai la sua unità trascendente, la sua forma ideale, il suo modello armonioso, virtuoso e veridico. Una volontà cieca senza luce superna, caratterizza una vita umbratile e platonicamente cavernosa. La sapienza filosofica rende la presenza di Dio vicina al senso delle cose umane, della loro finitezza, che è degli uomini, chiamati dalla vita a pensare e ad agire per vivere. Chiarire perciò il senso della vita, mettendola in relazione armonica coi suoi valori trascendenti, non è opera meno che sublime, poiché sublime è il legame che corre tra Dio e gli uomini, dando voce alla sua distanza e senso ai clamori umani. Al filosofo sia appella il magistrato che decide e l‟artigiano che produce; il produttore immerso nel suo lavoro di trasformazione e il potente che decreta sul bene dello Stato. La saggezza filosofica, in sé inutile, offrendo il suo servigio, diventa dunque la virtù dei potenti e la libertà dei poveri, e cioè una ricchezza sociale. 3. La intersoggettività trascendentale di cui ha parlato Husserl egli stesso la distinse chiaramente dall‟ “io e il noi che ritroviamo nell‟atteggiamento naturale della quotidianità e delle scienze positive”. 75Ora, proprio questa intersoggettività, come “con-essere quotidiano” è un problema che riporta al “modo di essere” del “Chi dell‟Esserci”.76 Il “mondo dell‟Esserci” è un ente che, “non soltanto è 75

E. Husserl, Fenomenologia, in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, cit., pag. 99. 76 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. cit., pag. 152.

44


diverso dai mezzi e dalle cose”, ma è “nel” mondo “nel modo di essere dell‟essere-nel-mondo e come tale è incontrato nel mondo”. Ossia “non è né un utilizzabile né una semplice-presenza, ma è così com‟è l‟Esserci che lo comprende: anch‟esso ci è con. Se si volesse quindi identificare il mondo in generale con l‟ente intramndano si dovrebbe dire che il „mondo‟ è anche Esserci”.Da qui discende la personalizzazione dell‟ “incontro con gli altri”, che deve sempre considerare in partenza che l‟Esserci è “sempre di qualcuno”. 77 Heidegger in questo luogo importante della sua opera stabilisce la distanza dall‟impostazione idealistica di Husserl, contestando la pretesa di isolare preventivamente l‟io “per tentare poi un passaggio da questo soggetto isolato agli altri”, 78procedendo dunque a definire chi siano “gli altri”. Anzitutto, essi non sono coloro da cui “ci si distingue”, ma al contrario, rispetto ai quali “si è anche”, ma va precisato che il “conesser-ci con essi, non ha il carattere ontologico” di una mera compresenza nello stesso mondo, ma è una coesistenza che va intesa “esistenzialmente, non categorialmente”, 79nel senso che la coappartenenza al mondo non è una condizione accidentale, legata alla presenza fisica di altri in uno stesso luogo, ma fa parte della struttura esistenziale del con-essere di cui l‟Esserci è esistenzialmente costituito. La prospettiva di Husserl è rovesciata. Non si parte più dal soggetto coscienziale o empirico per un rapporta mento agli altri, ma il conessere si situa “a partire dal mondo in cui l‟Esserci […] ambientalmente si mantiene essenzialmente”, per cui “l‟incontro con gli altri ha luogo nell‟ambientalità mondana”, in cui “l‟Esserci trova „se stesso‟ innanzi tutto in ciò che sta facendo, in ciò di cui ha 77

78 79

Ivi, pag. 153. Ibidem. Ibidem.

45


bisogno, in ciò che si aspetta, cioè nell‟utilizzabile intramondano di cui si prende cura innanzi tutto”. 80Da qui la conclusione che “l‟altro si incontra nel suo con-Esserci nel mondo”. 81 Questa condizione esistenzialmente comune comporta che l‟ente umano che l‟Esserci incontra è anch‟egli un Esserci, per cui il rapporto “non ha il modo di essere del mezzo utilizzabile”, sicché “l‟altro Esserci non è incontrato nel quadro del prendersi cura ma dell‟aver cura”, che è il modo proprio dell‟essere dell‟Esserci in quanto con-essere. 82Questo modo ha due “possibilità estreme”, quella del “riguardo” nel sostituirsi all‟altro che domina, “intromettendosi”, e quello della “indulgenza” per istradare l‟altro al fine di renderlo “libero per la propria cura”. 83In ogni caso, “la comprensione dell‟essere dell‟Esserci include la comprensione degli altri, e ciò perché l‟essere dell‟Esserci è con-essere”, per cui essa “non è una semplice nozione conoscitiva, ma un modo d‟essere originariamente esistenziale”. 84 In queste pagine, Heidegger delinea essenzialmente sia la originarietà della condizione sociale dell‟uomo, sia la possibilità di una modalità gerarchica di co-esistenza, e sia infine il carattere pratico-economico del rapporto inter-umano quale “maniera di essere” nel mondo che “è proprio” degli uomini “a partire da ciò che è utilizzabile in esso”,85 e che rende possibile la “conoscenza reciproca”. 86Ancora un‟inversione rispetto all‟unità trascendentale di Husserl del noi come estensione dell‟io. Heidegger giudica infatti “priva di consistenza” la “proiezione „in un altro‟ del proprio rapportarsi a se stesso”, poiché il rapporto 80 81 82

83 84 85 86

Ivi, pag. 154. Ivi, pag. 155. Ivi, pagg. 156-157. Ivi, pagg. 157-158. Ivi, pag. 159. Ivi, pag. 159. Ivi, pag. 160.

46


esistenziale col sé è diverso dal rapporto con l‟altro. 87Né questo rapporto “può essere inteso come il risultato della somma di più „soggetti‟ […] trattati come „numeri‟ ”, che è il modo “irriguardoso” di “contare” gli altri senza “contare su di loro”. 88 La “ispezione fenomenologica della totalità delle strutture dell‟esserenel-mondo” ha il compito tanto di “aprire la via alla determinazione dell‟essere originario dell‟Esserci” che è “la Cura”, 89quanto di “non rompere il fenomeno e di conservarne integro il contenuto fenomenico” per riportarlo alla luce della sua evidenza ontica dopo che è stato reso “irriconoscibile ad opera dell‟impostazione tradizionale del „problema della conoscenza‟ ”. L‟ente “la cui essenza è costituita dall‟essere-nel-mondo” è il “Ci” dell‟Esserci, che costituisce la sua “spazialità esistenziale” e ne “determina il posto” nel mondo, 90secondo le due modalità ontologiche della “situazione emotiva” e della “comprensione”. 91 Occorre partire dalla circostanza per la quale “l‟Esserci è sempre in uno stato emotivo”, 92che peraltro non va confuso con una particolare condizione psicologico-umorale, ma è legato al “carattere dell‟essere dell‟Esserci” di essere effettivamente “consegnato” o “gettato” al suo “Ci”. 93Il carattere della “effettività” dell‟essere-gettato è la condizione della situazione emotiva dell‟Esserci, la quale è una “determinazione esistenziale” e non una semplice-presenza, indicata 87

Ivi, pag. 161. Ivi, pag. 162. Modo di “contare” gli altri che è quello tipico delle democrazie, in cui ogni qualità personale viene annullata in ragione della considerazione rilevante della maggioranza numerica. Alla luce di questo concetto esistenzialistico di convivenza va interpretata la teoria ella rappresentanza di Schmitt come “rappresentanza esistenziale” e non “formale”. 89 Ivi, pag. 168. 90 Ivi, pag. 170. 91 Ivi, pag. 171. 92 Ivi, pag. 172. 93 Ivi, pag. 173. 88

47


col termine di “fatticità”, la quale “è accessibile solo alla constatazione intuitiva”, mentre nella sua situazione emotiva l‟Esserci non si coglie attraverso un‟autopercezione, bensì nella forma di “autosentimento situazionale”, in cui egli “incontra se stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca”. 94 Della situazione emotiva non si può “screditare” la sua evidenza “mediante il confronto con la certezza apodittica che caratterizza la conoscenza teoretica delle semplici-presenze”, e neppure “falsificarla” confinandola nell‟ “irrazionale”, poiché la tonalità emotiva è ontologicamente un “modo d‟essere originario” anteriore a “ogni conoscere e volere” e anche “al di là” della loro possibilità di “aprire” l‟Esserci e se stesso. 95Infatti la sua origine non è interna o esterna all‟Esserci, e quindi rimuovibile come uno stato psicologico, ma “sorge nell‟esser-nel-mondo stesso come una sua modalità”. 96La pura intuizione, “anche se penetrasse nelle più intime strutture dell‟essere di ciò che è semplicemente-presente”, non potrebbe cogliere le affezioni che sottostanno alla situazione emotiva “della paura o della intrepidezza” che ci fanno avvertire l‟ente che incontriamo come “minaccioso”, 97e che “stanno a indicare che l‟Esserci, in quanto essere-nel-mondo, è „spaurito‟ ”. 98 Gli stessi sensi non sarebbero allertati dalla condizione affettiva se questa non fosse legata alla originaria tonalità emotiva propria dell‟ente che è nel mondo, e mai quell‟affezione “potrebbe mai aver luogo come semplice risultato dell‟urto e della resistenza”, che sono le tipiche modalità della logica causalistica meccanicistica. Al contrario, “sul piano ontologico fondamentale dobbiamo affidare la scoperta 94 95 96

97 98

Ibidem. Ivi, pag. 174. Ivi, pag. 175. Ivi, pag. 176. Ivi, pag. 181.

48


originaria del mondo” proprio alla “semplice tonalità emotiva”, 99di cui il primo trattatista fu Aristotele nella Retorica e da allora nessun passo avanti è stato fatto fino all‟indagine fenomenologica, che ha smentito la collocazione degli affetti e dei sentimenti “tra i fenomeni psichici” di terzo rango “dopo la conoscenza e la volontà”. 100 L‟altra struttura esistenziale del “Ci” è, come sappiamo, la “comprensione”, di cui lo “spiegare” è un “derivato esistenziale”. 101La comprensione, “procede sempre secondo possibilità”, 102in quanto “l‟Esserci non è una semplice-presenza che, in più, possiede il requisito di potere qualcosa, ma,al contrario, è prima di tutto un esser-possibile”. 103La possibilità è legata alla comprensione in quanto questa “ha in se stessa la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto”, il quale non è “l‟escogitazione di un piano mentale” al quale l‟Essere dovrebbe conformarsi, ma è il modo d‟essere del “carattere di possibilità” proprio dell‟essere dell‟Esserci, che ne costituisce quel di “più” rispetto a ogni considerazione che lo assumesse come semplicepresenza, in quanto “l‟Esserci, in quanto tale, si è già sempre progettato e resta progettante finché è”, per cui “ciò che nel suo poteressere esso non è ancora, esistenzialmente lo è già.” 104 99

Ibidem. [Ivi, pag. 177. Heidegger cita, dopo i temi stoici, gli studi di M. Scheler sull‟affettività (Essenza e forme della simpatia, 1913; Il risentimento nell‟edificazione delle morali, 1912; Gli idoli della conoscenza di sé, 1912; Pudore e sentimento del pudore, 1913; Pentimento e rinascita, 1917), ma tace del tutto sul Systemfragment (1800) di Hegel del periodo francofortese, dove le accidentalità (Zufaelligkeiten) dell‟esperienza umana vengono unificate dall‟atto positivo dell‟amore, mediatore tra valori e pluralità delle singole realtà concrete della vita, gli organismi. Ved. la tr. it. a cura di E. Mirri in G.G.F. Hegel, scritti teologici giovanili, Napoli, 1972, pagg. 473479.] 100

101 102 103 104

Ivi, pag. 182. Ivi, pag. 184. Ivi, pag. 183. Ivi, pag. 185.

49


L‟aspetto problematico di queste affermazioni sta nel riferimento elittico della comprensione di sé come essere-nel-mondo alla comprensione del mondo stesso. Infatti, afferma Heidegger, che poiché “nella comprensione del mondo è sempre con-preso l‟inessere; la comprensione dell‟esistenza come tale è sempre una comprensione del mondo”, 105che è una pretesa non minore di quella avanzata da Husserl circa il rapporto io-noi nella coscienza trascendentale. La stessa possibilità, in quanto condizione esistenziale aperta, cioè non definibile sulla base di una situazione accidentale e removibile, non richiama la comprensione come conoscenza risolutiva di una mancanza essenziale (come nel caso di Gehlen), ma è costitutiva della comprensione come tale: “la comprensione, in quanto poter-essere, è interamente dominata dalla possibilità”. 106Ma se ciò è vero, non può darsi “autenticità” contrapposta ad “inautenticità”, poiché lo scarto tra le due modalità rinvierebbe alla possibilità che l‟Esserci possa cogliersi esistenzialmente e non solo teoreticamente “come se stesso”, ossia mettendo tra parentesi il suo in-essere mondano, il suo “Ci”, che è poi quanto lo lega alla realtà del mondo. L‟ammissione di questa possibilità, al di là di ogni smentita, interduce nell‟esistenza riflessiva, cioè nella comprensione di sé, la negazione ontologica dell‟altro-da-sé, destinando l‟Esserci alla alienazione del suo essere esistente dal suo “Ci”, attraverso la quale si perviene alla “visione” trascendentale della “trasparenza” dell‟essere dell‟esistenza, e non dell‟essere e dell‟ente, come vorrebbe Heidegger. Come si può “ricavare un termine universale valido per ogni accesso all‟ente e all‟essere”, senza presumerne quell‟indeterminazione onticoontologica dell‟Esserci già stigmatizzata a proposito dell‟epoché husserliana? 107

105 106 107

Ivi, pag. 186. Ivi, pag. 186. Ivi, pag. 187.

50


Tutto l‟impianto di Essere e tempo è, va da sé, collegato alla analitica fenomenologica di Husserl. Ma non si spiegherebbe né la sua derivazione né la sua distanza da questa se non si tenesse conto dello sfondo problematico che sia Husserl che Heidegger assumono in termini metafisicamente polemici, costituito dal pensiero di Hegel, e segnatamente dalla sua Fenomenologia. “Fenomenologia” è analisi logico-descrittiva dei fenomeni, intesi non come astratte “cose” (Sachen) ma come prodotti spirituali (Dinge), ossia opere razionali del soggetto, conosciute dalla sua coscienza come sue forme, i cui contenuti sono storici. La analisi dei fenomeni della coscienza razionale è dunque ricostruzione dei processo spirituali che ne costituiscono la sua storia, la storia della coscienza. Storia di fenomeni concreti, che richiede perciò una logica del concreto (della Vernunft), e non astrattamente formale (del Verstand), quella appunto dialettica. La differenza essenziale tra i due momenti conoscitivi (l‟astratto e il concreto) è nell‟atteggiamento della coscienza verso il suo oggetto. La coscienza empirica, sensibile o scientifica, stabilisce solo legami formali, estrinseci rispetto alla concreta individualità organica dei fenomeni. Mentre Hegel ricercava nel processo fenomenologico il livello di superiore unità in cui i fenomeni empiricamente conosciuti conseguono nell‟autocoscienza del soggetto, Husserl, e con lui Heidegger, ricercano il fondamento (Grundlage) del reale non nel giudizio sintetico concreto (Wirklichkeit), ma nell‟essenza (Wesen) di quel fondamento, che per Husserl è l‟attività stessa della coscienza trascendentale, mentre per Heidegger consiste nell‟analisi ontologica delle determinazioni esistenziali del Dasein. Ossia, in Husserl, in un processo coscienziale senza opposizione di quanto era stato posto in parentesi (la realtà della storia), mentre in Heidegger in una oggettività pre-coscienziale, esistenziale. Ma in entrambi i casi in una analisi formale, pre- o a-sintetica. Il senso della posizione di Heidegger, derivata sia da critici come Kierkegaard che come Marx, era che il fondamento dell‟analisi della 51


coscienza fosse extra-coscienziale, e dovesse rinvenirsi non in una qualche sintesi idealistica o fenomenologica ma ell‟esistenza. Questa posizione non intendeva fondare l‟idealismo su basi assolute (Husserl), ma più decisamente negare la possibilità di ogni idealismo soggettivistico. Infatti, nella critica all‟idealismo si ritrovarono tanto gli spiritualisti già ai tempi del romanticismo, che i realisti e gli esistenzialisti poi. Il “destino” (Schicksal) dell‟idealismo dialettico era visto da Hegel in uno spirito di “riconciliazione” (Versoehnung) degli elementi altrimenti permanenti nella tradizionale “scissione” (Trennung) metafisica che opponeva l‟uomo alla natura e il finito all‟infinito. Questa ritrovata unità metafisica realizzava anche lo “spirito del Cristianesimo”, che offriva nella figura e nell‟amore di Cristo l‟agognata “unificazione” (Verenigung) del senso ebraico di colpa col senso greco dell‟armonia cosmica. Il pensiero posthegeliano respinse questa conciliazione metafisica, ripartendo dalla dicotomia kantiana di ragione e mondo. In questo senso va intesa la posizione storico-filosofica dell‟esistenzialismo, che si valse polemicamente di molti concetti hegeliani presenti nella Fenomenologia, a partire da quello di “accidentalità” (Zufaelligkeit) e finendo in quello di “coscienza infelice” (unglueckliches Bewusstsein). Ma la stessa heideggeriana “deiezione” (Verfallen) è un ripensamento esistenzialistico del concetto hegeliano dell‟ aufheben. 108 Va d‟altronde aggiunto che senza l‟opposizione anti-hegeliana, dal 108

Non si può condividere il giudizio di E. Bloch sull‟esistenzialismo, il quale, a suo dire, “malgrado plagi Kierkegaard, non caratterizza un campo di opposizione contro Hegel”: Soggetto-oggetto. Commento a Hegel (1949), tr. it. a cura di R. Bodei, Bologna, 1975, pag. 403. L‟esistenzialismo fu infatti fondamentalmente una critica della ragione dialettica, già intrapresa dal neo-criticismo. Pertanto neppure è del tutto condivisibile il giudizio di Bloch sul neo-kantismo post-hegeliano come il movimento che “rese possibile l‟arte di riflettere sul mondo senza entrare in conflitto con esso”: Ivi, pag. 397. Infatti il criticismo, proprio perché astratto razionalismo, poteva narcotizzare con la metodica storicistica l‟istanza universalistica della filosofia, ma ispirava perciò un nuovo assolutismo della ragione che ne superasse il relativismo.

52


tardo Schelling a Kierkegaard e a Marx, l‟esistenzialismo non avrebbe trovato dissodato un terreno che la critica a Hegel aveva reso “privo di fondamento” (Ungrund) e che il neo-kantismo non avrebbe mai potuto bonificare. Se il fondamento dell‟essere è l‟esistenza, la struttura esistenziale ha preso il luogo della relazione. Ma anche le forme esistenziali devono potersi fondare su un elemento su un elemento rispetto al quale la forma strutturata è forma-di. Heidegger ha indicato tale elemento nell‟Esserci, intorno al quale ruota tutta l‟esperienza fenomenologica, sia come oggetto e destinatario di essa che come “comprensione” e “progetto di possibilità”. Questa duplicità si riflette dunque nella scomposizione dell‟essere dell‟Esserci e del suo “Ci”, che diventa ciò che era la natura di fronte alla coscienza. Questo ente impersonale, oggetto dell‟esperienza della coscienza, è il mondo della percezione sensibile delle “cose alla mano” (vorhanden) che costituiscono la realtà del “campo visivo” che si “coglie” attraverso “un sapere che però non ha nulla del pensare concettuale”, ma che nondimeno “è anche un esperire che include una conferma”. 109Tale mondo “conpresente” alla percezione è indipendentemente dall‟atto percepito, che è finito e “determinato” a fronte dell‟ “orizzonte di realtà indeterminata” che è il mondo “oscuramente consaputo”. [Ibidem.] Il “cerchio della determinatezza” può allargarsi, ma in ogni caso resta che “l‟oscura indeterminatezza si popola soltanto di possibilità”, che sono appunto le percezioni attuali, per cui “solamente la „forma‟ del mondo come „mondo‟ riesce a disegnarsi”, mentre il “resto infinito” resta un “orizzonte nebuloso mai completamente determinabile” ma che nondimeno “c‟è necessariamente”. 110

Questa risposta fu tentata prima da Dilthey e poi da Husserl, e quindi radicalizzata nella negazione dello stesso razionalismo da Heidegger. 109 E. Husserl, Ideen, tr. it. cit., I, § 27, pag. 58. 110 Ibidem.

53


Questo “mondo circostante” (Umwelt) è l‟oggetto delle “spontanee attività di coscienza”, sia quella “teoretizzante” sia quella relativa ai “multiformi atti e stati del sentimento e della volontà”, che costituiscono insieme quanto “è racchiuso nell‟espressione cartesiana cogito”. 111 Da quanto detto, emergono per Husserl due essenziali aspetti. Il primo riguarda l‟unità del mondo. Nella coscienza desta, mi trovo sempre, e senza mai poter modificare questa situazione, in rapporto con un solo e medesimo mondo, per quanto mutevole nel suo contenuto. Esso i è costantemente “alla mano”, ed io stesso sono un suo membro. E mi è dinanzi non soltanto come un mondo di cose, ma, con la medesima immediatezza, anche come mondo di valori, mondo di beni, mondo pratico. 112

Il secondo aspetto essenziale è l‟eterogeneità degli atti di coscienza nell‟ “atteggiamento naturale”, in cui si realizza “ogni vivere attuale”.113 I due aspetti, ci chiediamo, riguardano lo stesso mondo? Ferma restando l‟obiezione di Heidegger di cui sopra, l‟unità del mondo quale orizzonte indeterminato, e quindi aperto alle mie determinazioni, da quale “necessità” è garantito per essere ciò che appare alla mia percezione? Non può essere garantito dalla mia coscienza, se non limitatamente ai suoi atti attuali, per cui la sua necessità deve trovare nel suo stesso essere la sua fondatezza. E qual è il carattere di questa fondatezza? Il cogito può al limite garantire il cogitare, e quindi il “sum” della coscienza, ma non può garantire l‟ “est” del mondo. Eppure Husserl afferma che esso “c‟è necessariamente”. Tale necessità, se non è legata agli atti di coscienza, dev‟essere quindi legata alla coscienza in quanto tale, ossia in quanto coscienza indeterminata. Ma cos‟hanno in comune il mondo 111 112 113

Ivi, § 28, pag. 59. Ivi, § 27, pag. 59. Ivi, § 28, pag. 59.

54


indeterminato e la coscienza indeterminata se non appunto la loro indeterminazione? La quale non è altro che la stessa possibilità d‟essere della loro eventuale attualità. Se è così, la “unità” del mondo è la stessa unità della coscienza, la quale vive incessantemente “un nuovo cogito”, ma lascia immutata la realtà unitaria del mondo non cogitatum. Ciò può voler dire solo che la “unità” che unisce la coscienza e il mondo non è il cogito attuale, ma il cogito possibile, ossia l‟atto che non-è attuale, e che rispettoal cogito è solo possibile. In altri termini, non è una unità costituita dal pensiero e nel pensiero quella che unisce l‟io al mondo, ma la comune possibilità loro riservata come modo d‟essere del loro con-essere. Questa possibilità e questa modalità sono negative, nel senso che ineriscono non realtà attuali ma possibili. Ciò vuol dire che l‟esser-ci, o con-essere, dell‟io e del mondo “è” nell‟atto dell‟attualità del cogito, ma per tutto il resto della loro possibilità d‟essere, il loro essere indeterminato non-è fondabile che sulla credenza della sua necessità. Ciò significa che necessario è solo il cogito attuale, la percezione del mondo quale è determinata dalla coscienza adesso. Ogni altro atto di coscienza, ogni altra generica percezione, e persino ogni cogito in genere, rimanda la sua necessità alla sua possibilità d‟essere attuale. E questo rimando non fa parte della necessità, che è di là da venire col cogito attuale, ma è un atto di fede. Una credenza che è speranza d‟essere, possibilità. Futuro. Quando Husserl afferma che solo la “forma” del mondo è “mondo”, ed aggiunge che “se questo vale per il mondo nel suo ordinamento di presenza spaziale[…], non diversamente avviene per il mondo considerato nell‟ordinamento della successione temporale”, 114fa una affermazione dogmatica, perché niente garantisce che “questo mondo, che adesso, in ogni „adesso‟ di veglia, mi è alla mano, ha il suo orizzonte temporale bilateralmente infinito, il suo passato e il suo futuro, noto od ignoto, vivo o privo di vita”, sia. 114

Ivi, § 27, pag. 58.

55


Questo Husserl in qualche modo lo ammette quando scrive nella Crisi che la singolarità – per la coscienza – in sé non è nulla [poiché] la percezione di una cosa è percezione della cosa nel suo campo percettivo [per cui] la cosa singola della percezione ha un senso soltanto entro un orizzonte aperto di “percezioni possibili”. […] La cosa è una cosa nel gruppo complessivo delle cose percepite in modo realmente simultaneo, ma questo gruppo, dal punto di vista della coscienza, non è per noi il mondo: in esso il mondo si rappresenta; esso, in quanto campo percettivo momentaneo, ha sempre per noi il carattere di un ritaglio “del” mondo, dell‟universo delle cose di percezioni possibili. Questo è dunque il mondo vota per volta presente. 115

Ma non ne trae la conseguenza che il “mondo circostante naturale” non è punto “oggettivo” fuori dell‟atto di coscienza, e perciò l‟ “orizzonte di realtà indeterminata” che avvolge gli atti di coscienza attuali è una realtà negativa, inerente cioè la sua sola possibilità d‟essere, la cui certezza è solo creduta. Ma è proprio questa “conpresenza oscura”, di un mondo che attualmente “è” ma che potrebbe anche “poi” non essere, alla radice dello “stato emotivo” dell‟Esserci che “vede” il mondo, la “paura” originaria che accompagna ogni sua “visione”, che può garantire solo il suo momentaneo essere adesso. Tradizionalmente, è stato il monoteismo filosofico a rappresentare l‟ordinamento cosmico come una unità formale garantita da Dio, per cui “il mondo è mondo (e non caos) e il mondo è un mondo soltanto, se e perché è il mondo di Dio – se e perché il medesimo spirito e la medesima volontà infinita sono attivi ed efficaci in ogni ente”. 116Ciò vuol dire che l‟unità del mondo è una realtà già garantita da una essenza (sia essa la volontà di Dio, o la ragione, o lo spirito), la cui presupposto d‟essere è un atto di fede, quello stesso che sostiene l‟unità della coscienza. Tale unità, essendo il senso dell‟ordine che si 115

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. cit., pag. 189. 116 M. Scheler, Von Ewigen im Menschen (1920), tr. it. cit., pag. 319.

56


oppone alla molteplicità caotica degli enti, non è la totalità di questi enti, che non è conseguibile senza un‟ipotesi di finitezza delle esperienze possibili, ma è ciò che li trascende, così come la coscienza trascende ogni possibilità attuale dei suoi atti. La trascendenza della coscienza è la stessa condizione della comprensibilità del mondo fuori della sua attualità, ossia la condizione della comunicazione delle esperienze umane. E la comunicazione è l‟espressione ideale della vita in comune, cioè della socialità. Come afferma Husserl, nella vita in comune ognuno può partecipare alla vita degli altri. Perciò il mondo non è soltanto per l‟uomo singolo ma anche per la comunità umana, e ciò già attraverso l‟accomunamento di ciò che è semplicemente percepibile. In questo accomunamento, attraverso rettifiche vicendevoli, ha luogo anche una costante evoluzione delle validità. Nella reciproca comprensione, le mie esperienze e i risultati delle mie esperienze si connettono con quelle degli altri [producendo] la concordanza intersoggettiva della validità, e perciò un‟unità intersoggettiva nella molteplicità delle validità e di ciò che in esse è valido. 117

Il linguaggio, dunque, è la cifra semantica di un universo che prima di essere simbolico è un mondo. Il mondo umano è dunque un mondo espressivo. Nel linguaggio, dunque, di condensa l‟essere unitario del mondo umano, ossia il senso simbolico della stessa trascendenza. Ed è questa la profonda verità dell‟incipit del mondo come logos. E‟ il “verbo” a costituire la forma della realtà dell‟essere unitario del mondo umano. Tale forma, come ormai sappiamo, è, in generale, la “istituzione”, la mediazione sociale per eccellenza, per cui nel linguaggio si realizza l‟unità formale, cioè simbolica, di ciò che è uno. All‟interno del divenire, ossia nella storia, ciò che è Uno rispetto alla molteplicità degli enti fenomenici, è la coscienza. E il sentimento della coscienza è lo stesso sentimento religioso come co-appartenenza all‟unità mistica del Tutto. Husserl da per “cosa certa” che 117

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. cit., pag. 190.

57


Attraverso il commercio reciproco e la critica si pervenga all‟unità dell‟accordo e che quest‟accordo sia perseguibile da parte di chiunque [in modo tale che] nella coscienza di ognuno e nella coscienza più adulta e comprensiva della comunità il mondo perviene a una stabile validità e in questa validità [esso] rimane continuamente, [per cui] è sempre un unico e medesimo mondo […] comune a tutti gli uomini, delle cose realmente essenti. 118

Ma questa fede non appartiene al solo filosofo. Essa è una certezza comune a tutti gli uomini. Ognuno “sa” di vivere nell‟orizzonte degli altri uomini,, e di poter entrare con essi in una connessione ora attuale e ora soltanto possibile; ora in una comunità attuale e ora in una comunità potenziale. Egli sa che nella connessione attuale sia lui che i suoi compagni sono diretti sulle stesse cose dell‟esperienza, tanto che ciascuno coglie aspetti diversi, lati diversi, prospettive diverse della cosa, ma sempre a partire dallo stesso sistema complessivo di molteplicità, di cui ciascuno ha coscienza come di qualcosa che è identico e come orizzonte di una possibile esperienza di questa cosa. 119

Nella molteplicità e differenza dei modi di apparizione di ciò che da ognuno è esperito in modo veramente originale, la cosa della percezione si trasforma in una mera “rappresentazione di”, nella “apparizione di” ciò che è obiettivamente essente […]. “La” cosa è propriamente ciò che nessuno ha visto realmente, perché è continuamente in movimento per chiunque; per la coscienza, è la unità della molteplicità aperta e infinita delle mutevoli esperienze proprie e altrui e delle cose dell‟esperienza. 120

Il sapere di “ognuno”, essendo coscienza dell‟unità, non può essere quello relativo alla molteplicità dei fenomeni, cioè il sapere scientifico. Ma, in quanto sapere “ingenuo”, non può neppure essere il 118 119 120

Ivi, pag. 191. Ibidem. Ibidem.

58


sapere riflesso dell‟analisi fenomenologica, e in genere il sapere filosofico. Nessun uomo pensabile, comunque possa trasformarsi, potrebbe esperire il mondo attraverso modi di datità diversi da quelli di una relatività in costante movimento, di un mondo che è dato alla sua vita di coscienza, la quale è accomunata a quella degli altri uomini. L‟ovvietà ingenua, la quale è portata a ritenere che ognuno veda le cose e il mondo in generale così come gli appare, occulta un ampio orizzonte di singolari verità, che finora la filosofia non ha mai considerato nella loro peculiarità e nella loro connessione sistematica, [non divenendo mai] il tema di una peculiare scientificità. Tutti [i filosofi del passato, infatti,] rimasero impigliati nell‟ovvietà della constatazione che qualsiasi cosa ha un aspetto diverso per i diversi soggetti.

Nell‟esperienza possibile, dice Husserl, ogni essente ha i suoi modi soggettivi di datità, per cui ogni cosa esperita si trova in una correlazione necessaria con i suoi modi di validità. 121

L‟esperienza, l‟evidenza non sono vuote generalità […]. Ciò che è, in qualsiasi senso, concreto o astratto, reale o ideale, ha i suoi modi di datità, e, dalla parte dell‟io, ha i suoi modi intenzionali, i modi di validità e gli inerenti modi di evoluzione soggettiva dell‟intenzione stessa, nelle sintesi soggettive e intersoggettive della concordanza e della discordanza. […] Questa tipologia della correlazione [multiforme e differenziata,] non è un mero fatto […]; anzi, nella sua attualità si annuncia una necessità essenziale, che attraverso un metodo adeguato può essere tradotta in generalità essenziali, in un poderoso sistema di verità a priori di nuovo tipo [secondo il quale] ogni essente è indice di una generalità ideale di modi […] di datità […] che continuamente riempie l‟intenzione esperiente e che si realizza a partire da questa molteplicità totale. […] Per ogni soggetto questa intenzione è il cogito, il cui cogitatum, secondo il che cosa e il come, è costituito dai modi di datità, i quali, dal canto loro, portano in sé alla “rappresentazione” di una cosa una e medesima che costituisce la loro unità. 122

121

122

Ivi, pag. 192.

Ivi, pag. 193.

59


E‟ solo il caso di aggiungere che questa operazione è “un‟operazione intenzionale complessiva e graduata di ogni soggettività”, non solo di quella “isolata, bensì della totalità dell‟intersoggettività che si è accomunata in questo stesso operare”, fino a costituire “un‟unità universale della sintesi”, attraverso la quale “si consolida l‟universo oggettuale, il mondo così come è dato nella sua concretezza e nella sua vitalità (e che è presupposto di qualsiasi prassi)”. Si può dunque parlare di una “costituzione intersoggettiva” del mondo, attraverso la quale “il mondo che è per noi diventa comprensibile, diventa concepibile come una formazione di senso basata su intenzionalità elementari”. 123 Husserl identifica dunque la “comprensione” con l‟indicazione della “intenzionalità”, per cui “risalire alle origini intenzionali e alle unità della formazione di senso significa attingere una comprensione che, una volta raggiunta (almeno idealmente), non lascerebbe in sospeso nessuna domanda provvista di senso”. 124 Il quadro sembra piuttosto chiaro. Ogni singola esperienza percettiva rimanda a una modalità implicita di senso che rimanda a una struttura unitaria comune che garantisce la comunicazione e la comprensione di ogni possibile esperienza. Il movimento della coscienza ingenua parte dal sapere unitario e giunge alla molteplicità delle esperienze del mondo-della-vita. Viceversa, la coscienza critica parte dalla molteplicità delle esperienze per risalire all‟unità di senso che vi è sottesa. La domanda è: perché questo doppio movimento per raggiungere un fondamento di sapere non decisivo ai fini della accertabilità dell‟esistente? La risposta è: perché il sapere ingenuo dell‟esperienza del mondo, non è lo stesso sapere conseguito risalendo alle origini intenzionali. Il primo sapere, infatti, come abbiamo rilevato sopra, non è né scientifico né filosofico, in quanto la rilevazione percettiva del mondo 123 124

Ivi, pag. 194. Ibidem.

60


riguarda “soltanto il modo temporale del presente, il quale a sua volta rimanda, come al proprio orizzonte, ai modi temporali del passato e del futuro”. 125 Questo “rimando” non è un dato della coscienza percettiva ma della coscienza immaginativa, la quale stabilisce dei nessi di senso tra i diversi atti percettivi, che però non sono comprovati fuori della loro attualità dell‟ “adesso” (Jetzt), e che rimandano appunto al “continuo delle ritenzioni e delle protensioni”, rimaste “nascoste”, cioè non esplicitate, e che riemergono nella “rimemorazione, che si fonda su di esse”, in cui “il passato – il presente che è già passato – diventa oggettuale in un‟intuibilità originaria”, ossia nuova rispetto a ogni situazione intuitiva. Questo passato è anch‟esso un “essente” [che] ha i suoi molteplici modi di datità, i suoi modi di pervenire originariamente, in quanto passato, all‟auto-datità (all‟evidenza immediata). Così l‟attesa, l‟anticipazione memorativa (Vorerinnerung) nel senso di una modificazione intenzionale della percezione (per cui futuro vuol dire presente che sopravverrà), costituiscono la formazione di senso originaria da cui sgorga il senso d‟essere del futuro come tale […]. Ciò prefigura una nuova dimensione della temporalizzazione e del tempo, col suo contenuto temporale. […] qualsiasi costituzione dell‟essente, di qualsiasi genere e di qualsiasi grado, è una temporalizzazione che assegna al senso peculiare dell‟essente in un sistema costitutivo la sua forma temporale, mentre soltanto attraverso la sintesi universale onnicomprensiva in cui si costituisce il mondo, tutti questi tempi si connettono sinteticamente nell‟unità di un tempo. 126

Ora possiamo rispondere alla domanda lasciata in sospeso circa il sapere né scientifico né filosofico della percezione. Esso ha per contento una “intuizione”, intesa come una “sintesi in virtù della quale le molteplici apparizioni portano in sé, quale „polo oggettuale‟, l‟

125 126

Ivi, pag. 195. Ivi, pag. 195.

61


„essente‟: non realmente, bensì intenzionalmente, ciò per cui, ciascuna secondo un certo modo, è apparizione”. 127 L‟unità del mondo percepito è dunque un‟unità intuitiva, che costituisce una datità propria, quella del “mondo naturale”, che costituisce “il tema di una scienza peculiare, di un‟ontologia del mondo-della-vita in quanto mondo dell‟esperienza (cioè del mondo che è intuibile unitariamente)”. 128Attraverso la scienza fenomenologica è possibile “indagare le strutture invariabili del mondo-della-vita”, il quale “comprende in sé tutte le formazioni pratiche”. Ma, per quanto “immerso nella costante evoluzione delle relatività” e si “evolva” e “continuamene si rettifichi, esso mantiene la sua tipologia essenziale, a cui rimangono legate la vita e tutte le scienze, di cui essa è „terreno‟ ” 129 Questo mondo “naturale” è percepito in una sua unità sintetica, l‟intuizione, la quale diventa sia il contenuto delle formazioni pratiche che delle scienze empiriche, il cui orizzonte fenomenico costituisce il mondo-della-vita. Ora ci è chiara la differenza rispetto alla realtà desunta fenomeno logicamente. Solo questa ha un fondamento assoluto, che manca al mondo pratico, che è immerso nella relatività e nel divenire. Da qui la differenza tra la sfera pratica del mondo-dellavita e dei suoi saperi empirici, e la sfera teoretica delle essenze ontologiche. Ma anche la sfera pratica ha una sua “ontologia che dev‟essere attinta sltanto in una pura evidenza”, cstitutiva di una “scienza a priori” il cui senso “si contrappone radicalmente a quello tradizionale”. Infatti, dice Husserl, la filosofia moderna e le scienze obiettive sono dominate dal concetto costruttivo di un mondo vero in sé, di un mondo sustruito in forma matematica, perlomeno per quanto riguarda la natura. Perciò il concetto di una scienza a priori, e infine di una matematica universale (logica, logistica) non può arrogarsi la dignità di una reale 127 128 129

Ivi, pag. 197. Ivi, pag. 199. Ivi, pag. 200.

62


evidenza, cioè di una visione intellettuale essenziale attinta a una diretta datità (a una intuizione esperiente), che esso tende tuttavia ad attribuirsi. 130

Attraverso l‟epoché, ovvero entro “l‟atteggiamento trascendentale”, il mondo-della-vita “si trasforma nel mero „fenomeno‟ trascendentale”, il quale è una “componente” della “concreta soggettività trascendentale”, tale che “il suo a-priori si rivela uno „strato‟ nell‟apriori universale della trascendentalità”. 131 Anche le teorie rientrano nella sfera dei “fatti” del mondo-della-vita, il quale, per quanto possa apparire diverso dalle aspettative, “è sempre mondo esistente”, la cui superficiale “sapienza empirica” può in ogni caso essere approfondita dalle “scienze dell‟atteggiamento naturale”, che sono appunto le scienze “positive”, cioè quelle della “positività naturale”. 132 Al fine di procedere a un superamento dell‟atteggiamento naturale e di “mutarlo radicalmente”, dobbiamo pur sempre partire dai dati di fatto pervenutici dalla intuizione ingenua del mondo-della-vita, che non possono essere messi in dubbio da un atto di coscienza che nello stesso tempo attribuisca esistenza al loro “substrato”, per cui non si può “simultaneamente mettere in dubbio e tenere per certa la medesima materia di essere”. Ciò che si può fare è “neutralizzare” o “mettere in parentesi” quell‟Erlebnis, trasvalutandolo nel senso della “modificazione dell‟antitesi” attraverso la “introduzione del nonessere” quale correlativo del dubbio metodico cartesiano, senza però caricarlo di alcun valore negativo universale, ma solo di un valore sospensivo di giudizio, “compatibile con l‟indiscussa, o magari indiscutibile ed evidente, convinzione della verità”. 133Con la epoche, non si nega il mondo alla maniera sofistica, mettendo in dubbio il suo 130 131 132 133

Ivi, pag. 200. Ibidem. E. Husserl, Ideen, tr. it. cit., I, § 30, pag. 62. Ivi, § 31, pagg. 63-65.

63


essere alla maniera scettica, ma semplicemente “non si attua più alcuna esperienza del reale in un senso ingenuo e diretto”, per cui Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all‟essenza dell‟atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia sotto l‟aspetto ontico: dunque l‟intero mondo naturale, che è costantemente “qui per noi”, “alla mano”, e che continuerà a permaner come “realtà” per la coscienza, anche se a noi talenta di metterlo in parentesi [allo scopo di provarci del] terreno del mondo dell‟esperienza. 134

Senza questo “terreno”, il mondo circostante viene privato anche “di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell‟essere e dell‟essere-così e di tutte le modalità d‟essere dell‟esistenza spazio-temporale del „reale‟ ”, neutralizzando di conseguenza “tutte le scienze riferentisi al mondo naturale”, senza metterne in dubbio il valore, e neppure cercando di depurarle dei loro pregiudizi, alla maniera positivistica, ma semplicemente non facendone “assolutamente alcun uso”. 135Mettere tra parentesi la realtà naturale “sospende la validità dell‟universo” e consente la pura “esperienza interna” della coscienza, e ottenere così il “senso di una sfera assoluta dell‟essere”, una sfera “assolutamente autonoma” dall‟essere o dal non-essere del mondo e degli uomini che vivono in esso, la sfera della “soggettività assoluta o trascendentale”, che attraverso la “costituzione intenzionale”, porta in sé “l‟universo reale, oppure tutti i possibili mondi reali”, dischiudendo “quel terreno dell‟essere […] che le conferisce il senso di una scienza assoluta” e nuova, finora “sconosciuta” o solo “sospettata”. 136 Il principio generale è che “ogni accadimento individuale ha la sua essenza, che è afferrabile in purezza eidetica”, per cui i singoli Erlebnisse sono “assunti come reali fatti umani, quali si danno nell‟atteggiamento naturale” e quindi su di essi “afferriamo e fissiamo 134 135 136

Ivi, § 32, pag. 66. Ivi, § 32, pagg. 66-67. Ivi, § 33, pagg. 70-71.

64


in una adeguata ideazione le essenze pure che ci interessano, [così che] i fatti singoli e il carattere fattizio del mondo naturale scompaiono dal nostro sguardo teoretico”, 137e noi possiamo “afferrare intuitivamente un „contenuto‟ che può essere considerato nella sua intrinseca peculiarità […] escludendo quindi tutto ciò che nella cogitatio stessa non si conforma alla sua essenza”. 138 Dalla cogitatio si può estrarre tutto ciò che “si trova nello sfondo oggettivo” per concentrarsi al solo oggetto di coscienza che è il contenuto del nostro atto, per cui “la cogitatio è in sé cogitatio del suo cogitatum e che quest‟ultimo è come tale, e così com‟è, inseparabile da essa”. 139E se, come cogito nella sua attualità, non è oggettivabile, come cogitatio essa può diventare oggetto di “uno sguardo riflessivo nella forma di una nuova cogitatio”, che ha un carattere “immanente”, perché riferita allo stesso flusso di coscienza, formando così una unità immediata, diversamente da un Erlebnis intenzionale di oggetti esterni alla propria coscienza, che interessa una percezione “trascendente”. Non si è abbandonato il terreno degli accadimenti naturali, e con esso la coscienza ha un “duplice intreccio”, in quanto coscienza di un uomo reale, empirico, e in quanto “coscienza di questo mondo”. 140Una “trasformazione della vita immersa nell‟interesse naturale per il mondo in una considerazione „disinteressata‟ ”, ha la conseguenza di una “radicale trasformazione della nostra disposizione verso il mondo”. 141Ma qual è il “vero senso” delle nostre indagini? E‟ quello di superare, attraverso l‟epoché, l‟orizzonte di validità del mondo prodotto intenzionalmente dalla umanità in quanto soggettività, impedendoci di “qualsiasi interesse volto alla conoscenza teoretica del 137

Ivi, § 34, pag. 72. Ivi, § 34, pag. 73. 139 Ivi, § 35, pagg. 74-75. 140 Ivi, § 39, pag. 83. 141 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. cit., pag. 201. 138

65


mondo, ma anche qualsiasi interesse pratico nel senso abituale, legato alle premesse delle sue verità di situazione”, 142pertanto “nella nostra scientificità no rientra alcuna verità obiettiva, né n un senso scientifico né in un senso pre-scientifico, nessuna nozine intorno allessere obiettivo, né quale premessa né quale conclusione”. 143 Una prima difficoltà riguarda la questione se “accanto alla verità obiettiva può esistere un‟altra, una verità soggettiva”. L‟esito sorprendente […] delle nostre indagini dall‟interno dell‟epoché [è] la constatazione che la vita obiettiva e naturale del mondo è soltanto un modo particolare della vita trascendentale, della vita che costantemente costituisce il mondo:perciò, fintanto che la soggettività trascendentale vive in questo modo particolare, naturale, non può diventare cosciente degli orizzonti costitutivi, non potrà ma penetrarli. Essa vive nella “occlusione” (verschlossen) [il cui superamento richiede] un totale cambiamento di atteggiamento e la riflessione. La verità obiettiva rientra esclusivamente nell‟atteggiamento della vita naturale umana nel mondo. Essa sorge originariamente dalla esigenza della prassi umana, dal proposito di garantire l‟essente semplicemente dato (il polo oggettuale anticipato come permanente nella certezza d‟essere) contro le possibili moralizzazioni della certezza. […] Nel rivolgimento dell‟epoché nulla va perduto, nulla degli interessi e dei fini della vita mondana, nulla, perciò, dei fini della conoscenza. Semplicemente, di ciascuno di essi viene esibito il suo correlato soggettivo; ciò rende possibile rilevare il vero e ieno senso d‟essere dell‟essere obiettivo e così di qualsiasi verità obiettiva. 144

Nel “rivolgimento” della epoché, afferma in altri termini Husserl, si reintegra, sia pure a un livello puramente eidetico, la dialettica di una “scienza” che voglia essere veramente “universale”, nel senso della concretezza di una vita comprensiva della duplice polarità, oggettuale e trascendentale. Senza l‟inserzione di questa polarità soggettivotrascendentale, lo stesso sapere filosofico rimane limitato alla sua conoscenza obiettiva del mondo. 145 142 143 144 145

Ibidem. Ivi, pag. 202. Ivi, pag. 202. Ibidem.

66


A questo punto la seconda difficoltà. Se “nella vita semplicemente naturale tutti i fini terminano „nel‟ mondo e tutta la conoscenza termina in ciò che è realmente essente e che ne costituisce la verifica”, l‟epoché “trasforma completamente il modo della tematica e, successivamente, riplasma il senso d‟essere complessivo del fine della conoscenza”, passando dal “mondo” alla “soggettività” che “pone i fini”. Ma il mondo resta “il terreno di tutti gli altri fini, che possono concernere l‟essente”, e la tematizzazione di essi è solo in funzione della relazione tra questi stessi fini e “il nascosto agire soggettivo” che li realizza, per cui questo atteggiamento teoretico “costituisce qualcosa di fondamentalmente diverso dalla trasformazione, che avviene nell‟ambito del mondo naturale stesso, dei „fini ultimi‟, in premesse per nuovi fini mondani”.146 Infatti, l‟epoché è il metodo col quale “ogni obiettività si è trasformata in soggettività”, ma non “nel senso che l‟epoché contrapponga il mondo e la rappresentazione umana del mondo”, come fa la psicologia, ma “essa produce un atteggiamento mirante puramente alle correlazioni, e il mondo, l‟obiettività, diventano una soggettività particolare”. 147 Ma qui sorge la terza difficoltà. Qual è, se c‟è, il “modo in cui nell‟epoché il „fiume eracliteo‟ della vita costitutiva può essere trattato descrittivamente nella sua fatticità individuale”? la risposta di Husserl è inequivoca. Una scienza del‟essere e della vita trascendentale analoga alla scienza empirica dei fatti, “descrittiva”, una scienza induttiva basata sulla mera esperienza, che intenda stabilire le correlazioni trascendentali individuali così come compaiono e scompaiono di fatto non può esistere. […] La piena e concreta fatticità della soggettività trascendentale universale è afferrabile scientificamente in un altro senso […] attraverso un metodo realmente eidetico [che indaga] la forma essenziale delle operazioni trascendentali in tutto l‟arco di tipicità delle operazioni singolari e delle 146 147

Ivi, pag. 203. Ivi, pag. 205.

67


operazioni intersoggettive, cioè la forma essenziale complessiva della soggettività che opera trascendentalmente, in tutte le sue forme sociali. 148

Il mondo, nell‟atteggiamento dell‟epoché, diventa un “fenomeno trascendentale”, che rivela “il correlato delle apparizioni e delle intenzioni soggettive, egli atti soggettivi e delle facoltà soggettive in cui esso ha costantemente il senso mutevole della sua unità e in cui ne assume progressivamente altri”. Se dal mondo, “il cui modo d‟essere è quello di un‟unità di senso”, passiamo a interrogarci “sulle forme essenziali di queste „apparizioni e intenzioni di‟, esse diventano „modi soggettivi di datità‟ ”. 149 Se poi , attraverso un nuovo ritorno [al mondo], rendiamo tema di un‟indagine essenziale i poli egologici e tutto ciò che hanno di specificamente egologico, essi diventano l‟elemento soggettivo del mondo, e anche dei suoi modi di apparizione. Ma il concetto generale dell‟elemento soggettivo nell‟epoché include tutto, sia il polo egologico e l‟universo dei poli egologici, sia e molteplicità delle apparizioni, sia i poli oggettuali e l‟universo dei poli egologici. 150

Che la soggettività, essendo un “polo”, possa includere “tutto” non pare così scontato se lo stesso Husserl si chiede come possa “una struttura parziale del mondo”, quale appunto è “la soggettività umana del mondo, costituire l‟intero mondo”, quale sua “formazione intenzionale”. 151Ma la soluzione di ciò che egli chiama il “paradosso” dell‟epoché, la quale deve considerare il mondo ovvio come problematico, ovvero, che “gli uomini sono soggetti per il mondo (del mondo che è il loro mondo di coscienza) e insieme oggetti in questo mondo”, non è una soluzione “logica”, dal momento che “nel campo dell‟epoché, la logica, come qualsiasi a-priori e qualsiasi dimostrazione filosofica di stile tradizionale, non ha nessuna autorità [e] come tutte le altre formazioni scientifiche, essa costituisce un‟ingenuità che soggiace all‟epoché”, la cui “peculiarità essenziale” è 148 149 150 151

Ivi, pag. 204. Ivi, pag. 205. Ivi, pag. 206. Ibidem.

68


di costituire “una filosofia che intende ricominciare da capo”. 152Se infatti la “vecchia filosofia” presuppone “un terreno di ovvietà già compiuto”, quello del mondo-della-vita, il metodo fenomenologico “esclude di principio qualsiasi terreno di questo tipo”, cominciando “dapprima senza alcun terreno”, ma poi trasforma il “mondo ingenuo” in un “universo di fenomeni”, 153sicché l‟io, nella intersoggettività, si trasforma in “io altro”, “noi tutti”, dissolvendo “l‟ovvietà” della determinazione empirica del “noi uomini reali” in “fenomeni”, in “poli di una problematica trascendentale”, che mette tra parentesi la loro realtà umana psicofisica. La conclusione estrema la trae lo stesso Husserl allorquando ammette che essendo il soggetto ad attuare l‟epoché, anche quando assieme all‟io ci sono anche gli altri, tutta la realtà degli altri rientra nella epoché del soggetto, per cui essa “crea una singolare solitudine filosofica, che è l‟esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale”. 154 L‟uomo, attraverso la considerazione fenomenologica di sé, diventa un‟obiettivazione dell‟io trascendentale […]. Perciò al di là della prima epoche ne occorre una seconda; la epoche dev‟essere cioè trasformata coscientemente in una riduzione all‟ego assoluto, all‟ego in quanto centro funzionale ultimo di qualsiasi costituzione. Ciò determinerà d‟ora in poi tutto i metodo della fenomenologia trascendentale155

Il “tutto” dunque è la superfetazione dell‟io trascendentale che ingloba nel suo atto l‟intera realtà, già messa tra parentesi, rendendo il senso autentico della “riduzione” fenomenologica del mondo all‟io. E‟ l‟estremo e più radicale epilogo del soggettivismo coscienziali stico, il cui esclusivo scopo è quello di rifondare il mondo già dato a partire dalla struttura ontologica della soggettività “assoluta”, 152 153 154 155

Ivi, pag. 207. Ivi, pag. 208. Ivi, pag. 210. Ivi, pag. 213.

69


solipsisticamente intesa come liberata dalla banalità e contraddittorietà del mondo, messo in parentesi per lasciare campo aperto alla sua libera e onnicomprensiva attività strutturante. L‟affermazione della soggettività dipende dal grado di rimozione del mondo-della-vita da parte dell‟epoché. “All‟inizio dell‟epoché”, afferma Husserl, “l‟ego è dato apoditticamente, ma in quanto concrezione muta. Questa concrezione dev‟essere esplicita ed espressa attraverso una „analisi‟ intenzionale sistematica che parta dal fenomeno del mondo”. 156La “apoditticità dell‟ego e di tutte le nozioni trascendentali attinte su questo fondamento trascendentale” nasce dalla circostanza che, “approdati all‟ego, ci si rende conto di trovarsi in una sfera di evidenza, [per cui] il tentativo di indagare al di là di essa sarebbe un non-senso”. 157Husserl non specifica che tale “nonsenso” sarebbe relativo solo alla posizione dell‟ego, ma lo estende all‟intera realtà esterna a quella sfera di evidenza trascendentale, sicché “tutte le evidenze naturali, quelle di tutte le scienze obiettive (comprese la logica formale e la matematica) rientrano nel regno dell‟ovvietà e hanno in realtà un sottofondo di incomprensibilità”. 158 Proprio ciò che dovrebbe indurre a una considerazione critica circa la valenza “universale” del metodo analitico trascendentale, acquista in Husserl lo spessore di una forma di sapere alternativo al sapere tradizionale, la cui specularità rispetto a quello empirico diventa nella sua considerazione acritica, non il limite della sua portata gnoseologica, ma la cifra valoriale della sua assoluta superiorità teoretica. In altri termini, Husserl pare non rendersi conto che la duplice leggibilità del mondo derivi dalla peculiare prospettiva gnoseologica del punto di osservazione, né che l‟originario dualismo ontologico dell‟unità e della molteplicità dell‟Essere non possa essere 156 157 158

Ivi, pag. 213. Ivi, pag. 214. Ivi, pag. 215.

70


superato, ma solo riconfermato, dalla assolutizzazione di uno dei due termini metafisici. Infatti, i contenuti della verità metodica vengono riguardati sul fondamento dei “preambula fidei”, e non dimostrati nel confronto con le false determinazioni, confutate solo in riferimento alla incompatibilità delle posizioni assertoriamente preminenti, per cui non abbiamo una dialettica nell‟unica verità, ma due verità che si differenziano per la procedura dimostrativa, ognuna delle quali pone il “differente” insussumibile come “infondato” rispetto all‟affermato come “vero” e “reale”, e perciò falso e assurdo. E ciò perché la verità viene pensata in termini di assolutezza, e non di relazione, scambiando il “suo” essere con l‟Essere totale, che per essere tale comprende anche la negazione dell‟essere per sé, cioè determinato. E in questa negazione della negazione da parte dell‟essere, si vuole vedere la verità dell‟essere “in sé”, intesa coma la kantiana “ragione comune”, i cui “giudizi segreti”, che la filosofia dovrebbe “smembrare”, ossia analizzare nei loro contenuti impliciti per esplicitarli (portarli al loro essere, appunto), vengono invece “espulsi” dal metodo della “scienza filosofica”. Bisogna riuscire finalmente a capire che nessuna scienza esatta e obiettiva spiega seriamente, né può spiegare, qualcosa. Dedurre non equivale a spiegare. Prevedere, oppure riconoscere e poi prevedere le forme obiettive della struttura e dei corpi chimici o fisici – tutto ciò non spiega nulla, anzi ha bisogno di una spiegazione. L‟unica reale spiegazione è la comprensione trascendentale. Tutta la sfera dell‟obiettività pone l‟esigenza della comprensione. Il sapere intorno alla natura, che è proprio delle scienze naturali, non equivale a una conoscenza veramente definitiva, a una spiegazione della natura, perché le scienze naturali non indagano la natura nella connessione assoluta in cui il suo essere proprio e reale dispiega i suo senso d‟essere; le scienze naturali non affrontano mai nematicamente l‟essere della natura. Con ciò […] l‟essere del mondo obiettivo nell‟atteggiamento naturale, e l‟atteggiamento naturale stesso, non vanno affatto perduti per il fatto di venire compresi nella sfera d‟essere assoluta in cui in definitiva e veramente sono.159

159

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. cit., pag. 215.

71


Ogni verità intesa come ricerca dei fondamenti originarii, come genesi dei fenomeni storici, perde nel risalire alle origini il valore e quindi il significato del cambiamento dei fenomeni nel tempo, per cui quel metodo ha per condizione un pensiero della temporalità che non è evoluzione di uno svolgimento ma come mera successione di attimi assoluti, che ripetono lo stesso fenomeno anch‟esso assoluto. E‟ questa assolutezza che viene intesa dalla “scienza filosofica” come verità dell‟essere del fenomeno. Ciò che indichiamo come “cambiamento” di un fenomeno, sta a indicare che il fenomeno in realtà non esiste, ma la sua esistenza si dà come processo, come realtà in divenire, ossia come pluralità di enti fenomenici. Quel determinato fenomeno in divenire è un fenomeno solo astraendo dal suo divenire, cioè dalla realtà in cui esso appare come “fenomeno”. Questa realtà viene posta “tra parentesi” nell‟analitica trascendentale, e si ottiene l‟essere del fenomeno. Ma questo essere è ideale, cioè è un‟essenza, non è un fenomeno. Se dunque è legittimo “espellere” dalla considerazione idealistica la realtà fenomenica in cui l‟oggetto del pensiero è storicamente immerso, non è legittimo asserire che l‟essenza del fenomeno quale contenuto dell‟idea (ovvero del giudizio trascendentale) coincida con160 l‟essere di quel fenomeno, senza specificare la natura determinativa di quell‟essere stesso, la cui “verità” ideale “è” nella 160

“Molto più essenziale per lo studio della filosofia e per la riflessione filosofica è scorgere come le cose ovvie siano l‟autentico problema della filosofia, „i giudizi segreti della ragione comune‟. E forse si vede come la filosofia durata finora sia ancora ragione filosofica solo in pochi ambiti e in piccola misura, mentre più in là essa sia dominata dalla ragione corrente, e come essa soltanto, nella misura in cui la ragione comune è espulsa da quella filosofica, può avanzare la pretesa di essere scienza e scienza fondamentale”: M. Heidegger, Logik. Di Frage nach der Wahrheit, tr. it. cit., pag. 132.

72


negazione della storicità di quel fenomeno, cioè del suo divenire reale. Ed è questa negazione che conduce a negare conseguentemente ogni sapere fenomenico. Lo sviluppo moderno delle scienze empiriche è una conseguenza della rimozione dell‟unità ideale del mondo, cioè della secolarizzazione della cultura, che non vede più l‟uomo nella sua univoca essenza spirituale, ma scorge le sue manifestazioni reali, i suoi atti e le sue azioni. Perduto il senso dell‟unità trascendente dell‟idea di uomo, restava il suo corpo e il divenire delle sue manifestazioni. Ora, a questa riduzione fenomenistica dell‟esperienza umana, non si può replicare con un‟idea di uomo assolutamente spiritualistica senza commettere una opposta riduzione ontologica del suo essere concreto, che appunto è duplice. Essendo l‟unità de mondo una realtà garantita da Dio, un pensiero che intenda emanciparsi da ogni presupposto teologico e assolvere la filosofia da ogni ruolo ancillare, è inevitabile che la esponga a una universalizzazione dei suoi postulati che tende a stabilire i fondamenti stessi della sua indagine razionale, ossia a fondarsi su se stessa. Questa idea di filosofia come scienza universale, e cioè “assoluta”, viene ereditata da Husserl ma fu già di Hegel, come sappiamo. La conseguenza è che il posto di Dio viene preso dal mondo, il cui pensiero, in chiave filosofica, viene declinato come panteismo, e in termini scientificistici come umanità. Il panteismo – ogni panteismo, sia quello “nobile”, che Hegel chiama in riferimento a Spinoza “acosmismo”, che quello ateista che Scheler chiama “volgare” 161– nasce come conseguenza della “omousia”, ossia della “uguaglianza essenziale tra natura divina e natura umana”, che produce a sua volta la tendenza a “divinizzare nella maniera più superba l‟uomo”. 162E‟ da queste premesse che nasce la dottrina della “coscienza in generale” quale presupposto universale di ogni sapere razionale, che trovano in Kant il suo maggior teorico nella teoria della appercezione sintetica 161 162

M. Scheler, L‟eterno nell‟uomo, tr. it. cit., pagg. 321-323. A.J. Moehler, Symbolik (V ed. 1838), tr. it., Milano, 1984, pag. 78.

73


trascendentale, dalla quale derivano il panteismo del primo Fichte e il sistema di Hegel). Tutte queste correnti “possiedono il tratto distintivo del panteismo: l‟individualità spirituale dell‟uomo è ridotta o, come in Averroè, ai limiti che in tutti gli uomini il corpo pone al soggetto conoscente, o al mero contenuto fenomenico contingente della coscienza empirica”. 163 La fenomenologia trascendentale di Husserl prosegue e approfondisce la dottrina di Kant attraverso la pretesa di Hegel che la filosofia non si arresti ai confini dell‟essere in sé della realtà, ma giunga, “attraverso un chiarimento delle sorgenti ultime di senso, a un sapere attorno a ciò che è reale e al suo senso ultimo e riposto”, abbracciando l‟idea che “solo in quanto priva di presupposti e definitivamente fondata, la scienza è tale, è filosofia”, e non “arte teorica”. 164 L‟idea è che la vera filosofia non sia quella che si è prodotta nel corso dello svolgimento del sapere, ma quella delle origini, che “deriva dalla filosofia” e il cui senso “rimane occulto e non può essere indagato attraverso la mera tecnica metodica e attraverso la sua storia”, ma può solo essere “ridestato soltanto dal vero filosofo”, che, ovviamente, è il “filosofo trascendentale”, 165il cui gran merito è di confutare le pretese dell‟ingenuo obiettivismo moderno e così rimediare al “deplorevole sganciamento dell‟arte teorica dalla filosofia”, 166attraverso “un procedimento assolutamente nuovo, quello che occorreva a una scienza trascendentale priva di qualsiasi orientamento nell‟ordine delle analogie”. Inizialmente, tale chiarimento avvenne sotto forma di “anticipazione istintiva”, come quella, per intenderci, che aveva occupato le riflessioni di Kant e dei romantici come Schelling, che avevano risvegliato la scienza dal suo “sonno dogmatico”, imponendo 163

M. Scheler, L‟eterno nell‟uomo, tr. it. cit., pag. 323. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. cit., pag. 219. 165 Ivi, pag. 219. 166 Ibidem. 164

74


una riflessione fondata sulla soggettività ed elaborando “una considerazione del mondo puramente spirituale”. 167Ma la contiguità con la psicologia non giovò al suo chiarimento, avviluppando Kant e successori “in un‟oscura metafisica, in una mitica” che ne determinò la sua “penosa situazione” che l‟impigliarono “in concetti e in costruzioni che rinunciavano a fondarsi su evidenze originarie” e che fondavano il oro metodo “sull‟esempio delle scienze naturali” che guidavano “l‟ideale della filosofia moderna” di “una scienza obiettiva e perciò concreta”, trascurando “di indagare il senso del compito che per essenza le era imposto in quanto scienza universale dell‟essere psichico” 168Ma a questo punto la coscienza critica non può fermarsi alle mezze misure. Infatti, Il completo rivolgimento dell‟atteggiamento naturale di fronte alla vita,, la sua trasformazione in un atteggiamento “innaturale” impone estreme esigenze di radicalità e di consequenzialità filosofica. L‟intelletto umano naturale, e l‟obiettivismo radicato in esso, sentirà la filosofia trascendentale come uno smarrimento, sentirà la sua saggezza come un‟inutile follia, oppure la interpreterà come una psicologia che immagina di nn essere tale. Nessun uomo sensibile alla filosofia si è mai spaventato di fronte alle difficoltà. Ma l‟uomo moderno, l‟uomo plasmato dalla scienza, esige un‟intuibilità intellettuale, la quale, come rivela con esattezza l‟immagine del vedere, esige a sua volta l‟evidenza della “visione” dei fini e delle vie che portano ad essi, e, lungo queste vie, l‟evidenza dei singoli passi [e] le grandi filosofie trascendentali [del passato] non rispondevano all‟esigenza scientifica di queste evidenze, e perciò i loro modi di pensiero furono abbandonati. 169

Ora, però, sembra dire implicitamente Husserl, è giunta finalmente l‟ora della “svolta”, la metànoia che riporterà alla luce il senso riposto dell‟antica verità, del quale il nuovo filosofo trascendentale, quasi novello Adamo della teoresi, è il messia. Si noti la citazione paolina della “follia” nuova opposta alla “saggezza” antica. Il compito chiaro 167 168 169

Ivi, pag. 226. Ivi, pag. 227. Ivi, pag. 225.

75


è quello di superare la prospettiva di una psicologia fondata sulla “idea moderna di una scienza universale obiettivistica costruita more geometrico e dal dualismo psico-fisico che essa comportava”, poiché una psicologia scientifica nel senso moderno […] a partire da Hobbes e da Locke – non può partecipare alle operazioni teoretiche che costituiscono il compito della filosofia trascendentale, non può fornire alcuna premessa per la loro attuazione. Il compito posto alla psicologia moderna, e che essa aveva assunto, era quello di diventare la scienza delle realtà psico-fisiche degli uomini e degli animali in quanto esseri unitari ma articolati in due strati reali. Il pensiero teoretico si muove qui sul terreno di un mondo di esperienza ovviamente già dato, del mondo della vita naturale, e interesse teoretico è puntato solo su uno degli aspetti reali di esso, sulle anime, mentre l‟altro lato è considerato già noto o comunque conoscibile nel suo essere-in-sé obiettivamente vero da parte delle scienze esatte della natura. 170

Il mondo “già dato”, non essendo più fondato teologicamente, è un puro “mondo di esperienza”, non fondato su alcun principio di verità e quindi non distinguibile dal mondo della natura. In tal senso la datità del mondo-della-vita, “con tutte le sue verità di situazione e con la relatività degli oggetti che sono in essa”, per la filosofia trascendentale “sono diventate un problema, l‟enigma degli enigmi”, costituito dalla stessa “ovvietà in cui c‟è per noi costantemente un mondo prescientifico”, che a sua volta è “titolo per l‟infinità di tutte le ovvietà che sono indispensabili alle scienze obiettive”. 171La perdita del fondamento teologico ha lasciato un vuoto, che per la filosofia si presenta come un mistero da risolvere. Come? Sostituendo all‟atto della creazione divina un atto umanissimo, anche se celato, di coscienza trascendentale per il quale “tutte le datità e le operazioni naturali assumono un senso trascendentale”. 172E alla verità di questa rivelazione filosofica chiamo ogni pensiero già naturalistico ed

170 171 172

Ivi, pag. 228. Ivi, pag. 229. Ivi, pag. 230.

76


empiristico ad aderire come alla nuova e definitiva fondatezza ontologica della scienza. Tutta la filosofia moderna, nel suo senso originario di scienza universale radicalmente data, almeno dopo Kant e Hume è determinata dalla lotta tra due idee della scienza; l‟idea di una filosofia obiettivistica sul terreno del mondo già dato e quello di una filosofia sul terreno della soggettività trascendentale assoluta […]. A questo grande processo di sviluppo partecipa costantemente anche la psicologia [la quale] è il vero campo delle decisioni. 173

Husserl ne parla in termini di conversione teoretica alla fenomenologia, con la quale si attua “un‟importante evoluzione”, 174 che è appunto il “superamento dell‟ingenuità” 175filosofica, al cui “atteggiamento naturale” si potrà tornare per realizzare “gli interessi vitali teorici o di altro genere”, ma senza più ritrovare la “vecchia ingenuità” perduta, tutt‟al più per “comprenderla”. 176 Per indagare la storicità trascendentale, dalla quale in definitiva derivano le esperienze di senso e di validità, occorre dirompere l‟ingenuità attraverso il metodo della riduzione trascendentale. Persistendo l‟ingenuità, nell‟ambito della quale si mantiene qualsiasi psicologia, qualsiasi scienza dello spirito, qualsiasi storia umana, io, il psicologo, come chiunque altro, sono continuamente nella semplice autoappercezione e nell‟appercezione d‟altri […]. Io posso interrogare il mio e l‟altrui sviluppo, ripercorrere nematicamente, per così dire, la storia della memoria collettiva, ma tutte le riflessioni di questo genere restano nell‟ambito del‟ingenuità trascendentale, nell‟ambito di una già compiuta appercezione del mondo [mentre] il correlato trascendentale, l‟intenzionalità fungente, che è l‟appercezione universale […] che conferisce loro il senso d‟essere di Erlebnisse psichici di questo o di quell‟uomo, rimane completamente occlusa. Nell‟atteggiamento ingenuo della vita mondana, tutto è appunto mondano[…].177

173 174 175 176 177

Ivi, pag. 232. Ivi, pag. 234. Ivi, pag. 235. Ivi, pag. 234. Ivi, pag. 233.

77


A partire dall‟uomo e dalla sua corporeità, che nel campo percettivo funge da “espressione”, nella cui comprensione “io esperisco un uomo come persona”, secondo un‟esperienza che non è naturale ma “un‟esperienza dello spirito”. Infatti, per conoscere “le persone in generale nel loro proprio essere, nulla mi è meno necessario della natura, e, nel caso della conoscenza scientifica, della scienza naturale”. 178Il metodo naturalistico pareggia in linea di principio il corpo e l‟anima, le quali, “attraverso questo pareggiamento diventano due strati reali del mondo dell‟esperienza, reali e realmente connessi come le due parti di un corpo. Perciò essi sono concretamente estranei l‟uno all‟altra, separati e insieme congiunti secondo certe regole”. 179 Ma “questo pareggiamento formale contiene un controsenso; esso è contrario all‟essenza propria dei corpi e delle anime, che si dà nell‟esperienza del mondo-della-vita, e ciò determina il senso autentico di tutti i concetti scientifici”. 180La natura fisico-matematica è “obiettivamente vera” solo “nel senso della scienza naturale galileana”, ma questa natura, quale si determina attraverso l‟immagine offerta dalle scienze esatte, “non è la natura realmente esperita, la natura del mondo-della-vita”, ma è “il prodotto di una idealizzazione, un‟idea sustruita alla natura realmente intuitiva”. 181 Anche in questo luogo, come in altri ricordati, l‟analisi di Husserl trapassa da una considerazione della validità dell‟intuizione del mondo-della-vita ai fini sia dell‟esperienza comune che di ogni successiva analisi teoretica a opera della scienza nata sul suo terreno, a una considerazione dell‟immagine scientifico-naturalistica del mondo come una deviazione dall‟intuizione ingenua della realtà, il cui metodo “riguarda soltanto i corpi”, volto com‟è a “escogitare teorie e 178 179 180

181

Ivi, pag. 505. Ivi, pag. 238. Ivi, pag. 239. Ivi, pag. 243.

78


formule „esatte‟ applicabili nell‟ambito della prassi che si muove nel mondo dell‟esperienza reale”. Ma il “dualismo cartesiano”, fondato sul “parallelismo tra mens e corpus”, conduce “a un‟implicita naturalizzazione dell‟essere psichico, e perciò a un parallelismo delle metodiche corrispondenti”, 182che alimento la speranza di una “precisa tecnica metodica” nel campo della psicologia che però “andò delusa” a ragione della sua impraticabilità “per motivi essenziali”, legati al fatto che L‟elemento psichico, considerato nella sua essenza propria, non ha una natura, non ha un in-sé pensabile nel senso naturale, nn ha un in-sé causale idealizzabile e matematizzabile nella dimensione spazio-temporale, non ha leggi del genere di quelle naturali; per l‟ambito psichico non possono esistere teorie riferibili, come quelle delle scienze naturali, al mondo-della-vita intuitivo, non possono esistere osservazioni ed esperimenti la cui funzione sia uguale a quella che esercitano nelle teorizzazioni delle scienze naturali. 183

Se una “psicologia esatta”, analoga alla fisica, non può darsi, in quanto “è un controsenso”, di conseguenza “non può esistere nemmeno una psicologia descrittiva analoga alla scienza naturale descrittiva”, per cui in nessun modo, e quindi nemmeno mediante lo schema “descrizione-spiegazione”, una scienza delle anime può lasciarsi guidare dalle scienze naturali, accettarne i suggerimenti metodici. Essa può lasciarsi guidare soltanto dal suo tema, dopo averlo chiarito nella sua essenza propria [e giungere così alla spiegazione del suo fenomeno]. Appunto in quanto operazione di grado più alto, la spiegazione non è altro che un metodo che travalica l‟ambito descrittivo, il quale è realizzabile soltanto attraverso una visione realmente esperiente. Ciò avviene sulla base della conoscenza descrittiva e si attua come metodo scientifico attraverso un procedimento che attinge all‟evidenza e che infine si verifica sulle datità descrittive. In questo senso formale-generale, in tutte le scienze esiste un grado fondamentale descrittivo e un grado esplicativo più alto184 182 183 184

Ibidem. Ivi, pag. 244. Ivi, pag. 245.

79


Il compito della filosofia, dice Husserl, non è certo quello di seguire il fisicalismo delle scienze esatte entrando nell‟orbita della sua sfera matematicamente idealizzata, ma di confutare, per ragioni essenziali,il dualismo cartesiano e la conseguente metodica fisicalista. Al contrario, la filosofia esiste proprio per togliere i paraocchi alla prassi scientifica, , e per risvegliare, anzi per preservare la coscienza di ciò che la scienza deve realizzare secondo il suo senso originario. Perciò non possiamo evitare di risalire al terreno generale da cui sorgono i compiti propri […] di qualsiasi scienza obiettiva, il terreno appunto dell‟esperienza comune, su cui si muovono le scienze sperimentali, e a cui dunque si richiamano, quando – nel rifiuto di qualsiasi “metafisica” – pretendono di ubbidire soltanto alle assolute esigenze dell‟esperienza. 185

Essendo questa esperienza, per quanto detto, il prodotto di una (indebita) idealizzazione della scienza naturale, segnatamente della fisica, “ha le sue radici in una conseguente astrazione in virtù della quale essa, nel mondo-della-vita, non vuole vedere altro che la corporeità”. Questa astrazione, secondo una “via” percorsa “soltanto” dalla “epoca moderna”, se “conseguentemente e universalmente applicata”, riduce il mondo “alla natura astratto-universale”, che diventa “tema della pura scienza naturale”, e quindi la “fonte da cui sgorga il senso dell‟idealizzazione matematica e di tutte le altre teorizzazioni matematizzanti” che “si fondano sull‟evidenza dell‟esperienza esterna, che in realtà è un‟evidenza astrattiva”. 186Ma quando riguardiamo il contenuto concreto di questa evidenza, ci avvediamo che “concretamente esperiti sono soltanto gli uomini”. Soltanto dopo „astrazione della loro corporeità – nell‟ambito dell‟astrazione universale che riduce il mondo a un mondo di corpi astratti – sorge il problema del 185 186

Ivi, pag. 247. Ivi, pag. 249.

80


“lato opposto”, delle astrazioni integranti […], il compito appunto di sottoporre l‟aspetto psichico a una trattazione teorica corrispondente, e in una corrispondente universalità. […] 187Come insegna l‟astrazione correlativa, l‟uomo è infatti una realtà a due strati, come tale è dato nella pura esperienza del mondo-della-vita […]. Gli uomini sono concretamente distribuiti nella spazio-temporalità del mondo; le loro anime possono essere distinte soltanto per via astrattiva e sono incarnate nei corpi, i quali, considerati in quanto tali e da un punto di vista puramente naturale, costituiscono un universo che dev‟essere ritenuto totale. Le anime, in virtù della loro inerenza al corpo, sono nell‟estraneità reciproca; il loro strato astratto non costituisce un universo totale parallelo. Quindi la psicologia non può essere che una scienza della generalità delle singole anime […]. Questa psicologia individuale dovrebbe essere poi di base per una sociologia, e per una scienza della spiritualità concreta e della cultura concreta (Sach-Kultur), il cui senso rimanda all‟uomo come persona, cioè alla vita psichica. 188

L‟analisi scientifica dell‟esperienza dell‟uomo non si avvede del “residuo metafisico” costituito dal fatto che la natura che si crede osservata nella sua originaria costituzione d‟essere, è in realtà una astrazione, che è poi divenuta “tema scientifico”. Di conseguenza, “anche alle anime viene attribuita una certa sostanzialità, anche se non sono autonome e, come insegna l‟esperienza, possono presentarsi nel mondo soltanto connesse ai corpi”. 189 La persona ha sì una sua posizione nella spazio-temporalità – ma soltanto in virtù della sua corporeità propria […] ma non è realmente e propria nella spaziotemporalità, non è in essa un che di unico […]. Essa ha la sua unicità in se stessa, in quanto persona, e questa unicità è connessa con quella del suo corpo proprio. Tematizzarla in ciò che è, tematizzarla in quanto persona nel suo “mondo personale” e nel suo modo di vita nel mondo, tematizzarla scientificamente nella sua generalità, non significa interrogarla secondo le causalità naturali, bensì esclusivamente in ciò che di spirituale avviene nello spirito e secondo quelle motivazioni che creano un‟unità della motivazione. Considerare la motivazione come una specie di causalità, pensare che la causalità si estenda dalla natura all‟anima […] è un controsenso. Occorre anche considerare che la conoscenza indiretta delle persone attraverso la 187 188 189

Ivi, pag. 249. Ivi, pag. 250. Ibidem.

81


comunicazione e attraverso al comunicazione linguistica ed espressiva delle persone non comporti affatto l‟esigenza di penetrare nel modo della scienza naturale quei processi naturali che pure hanno qui sicuramente luogo. 190

Non soltanto la psicologia naturalistica non può essere pareggiata con l‟opposta astrazione della “percezione interna” parallela a quella esterna, ma “qualsiasi dualismo che si richiami puramente all‟intuizione esperiente” e che affermi “una duplicità di lati o di strati nelle scienze dell‟uomo”, dev‟essere posto “seriamente in discussione”. 191 A questo punto è chiaro che all‟origine del fenomeno psichico, di qualsiasi Erlebnis di coscienza che si dà nella esperienza interna dei cogitata qua cogitata, “si scopre l‟autentica sintesi intenzionale, la sintesi di più atti in un solo atto, in virtù della quale, attraverso un modo particolare di connessione tra un senso e un altro, non si produce soltanto un tutto, un‟associazione le cui parti siano appunto sensi, bensì un unico senso, in cui i sensi siano inclusi in un secondo senso”, costituendo “l‟inizio della fenomenologia”. 192 Con la fenomenologia si supera la falsificazione della psicologia empiristica e delle sue forme di naturalismo risalenti a Hobbes e a Locke, che hanno avuto “l‟ingenuità di ritenere le datità dell‟esperienza psicologica uguali a quelle dell‟esperienza corporea” e determinandone così la “loro reificazione” e la considerazione del “dato interno come un atomo psichico”, il cui complesso andava trattato, in analogia alle scienze empiriche, secondo un nesso di causalità. 193 Diverso è il caso di una “relazione reale” tra la persona e le altre realtà del mondo ottenuta “quando esperiamo direttamente un uomo, astraendo da qualsiasi natura”. In questo caso “troviamo uomini che 190 191 192 193

Ivi, pag. 506. Ivi, pag. 252. Ivi, pag. 255. Ivi, pag. 252.

82


sono in una relazione intenzionale con le cose, con gli animali, con le case, con i campi, etc., che subiscono affezioni da questi oggetti”. 194 Dalla semplice esperienza di questa relazione percettiva dei soggetti egologici possiamo attingere alla “pura essenza di questi soggetti” attraverso la “epoché dalle validità […] posta dalla persona che stiamo considerando”, 195evitando di prendere qualsiasi posizione riguardo ad esse, qualsiasi “cointeressamento” che possa deviare la psicologia descrittiva dal suo tema specifico, che è “l‟essenza propria della persona come tale, che è soggetto di una vita in sé esclusivamente intenzionale, e che specialmente in quanto anima singola, dev‟essere considerata un nesso puramente intenzionale”. 196Tematizzando le persone nel “puro atteggiamento interno dell‟epoché”, la psicologia descrittiva attinge il suo tema, che è “l‟anima”, partendo dalle intenzionalità dell‟atteggiamento naturale dei comportamenti degli uomini, fatte di “azioni” e di “rinunce”, e, “sospendendo la loro validità, essa coglie innanzitutto la „sfera interiore‟ degli uomini”, anche se “non ha ancora raggiunto i suo campo di lavoro” costituito appunto dalla “pura anima”. 197 Questa purezza viene conseguita, dunque, operando una “astensione dalla partecipazione a quelle validità che tutte le persone attuano nella loro relazione con la realtà del mondo obiettivo, nei modi della vita quotidiana naturale”, al fine di giungere al “mondo interiore del soggetto”, che è “essenzialmente unitario e in sé assolutamente concluso”, il quale costituisce la sua “totalità universale della vita intenzionale: la sua propria vita nell‟originalità originaria”; ma non solo essa, bensì “anche la vita di coloro che vivono accomunati con lui”. 198Viene conseguita, cioè, prescindendo, o meglio, astraendo, da 194 195 196 197 198

Ivi, pag. 256. Ivi, pag. 257. Ivi, pag. 258. Ivi, pag. 259. Ivi, pag. 260.

83


tutto il contesto di validità che caratterizza la posizione del soggetto come persona storica determinata nel mondo-della-vita. Ossia prescindendo dalla sua esistenza come soggetto ideale. Infatti, il risultato della epoche dai valori che cosa ci consegna? L‟immagine speculare a quella astratta corporeità che è oggetto delle scienze empiriche, che pure era stata espressamente esclusa, come abbiamo visto, in quanto “idealizzazione” della realtà. Ma la contraddizione fondamentale, da cui discendono tutte le singole contraddizioni che si possono riscontrare alla lettura dei brani riportati, consiste nella definizione di “totalità della sfera interiore” come un insieme vuoto di ogni valore, in quanto il valore viene inteso come un elemento perturbante la definizione della soggettività. Ma il valore non è soltanto il Sollen della “coscienza normale”, all‟origine dei “giudizi di valore” (Beuerteilungen), bensì è soprattutto una “presa di posizione” (Anerkennung) che dirige la stessa intenzionalità del soggetto, senza la quale le strutture della medesima intenzionalità sono determinate da una necessità universale (muessen) del tutto analoga a quella dei fenomeni della natura. In altri termini, ogni “idealizzazione” rinvenuta nei fenomeni della coscienza costituisce una rappresentazione, ossia una validità soggettiva, del mondo. Tale “soggettività” si può espungere dalla considerazione astratta della personalità del soggetto tema di ricerca, solo a condizione di riferirla a un “valore” trascendente la personalità e soggettività stessa, ma negli atti di coscienza quella “soggettività” valoriale rende il senso direttivo della sua intenzionalità, che si rivolge a uno anziché altro nucleo di realtà proprio in virtù della rappresentazione del mondo propria del soggetto esperiente e che determina il suo “atteggiamento”, cioè “lo stile abitualmente definito della vita volontaria e che determina già lo stile complessivo delle direzioni pretracciate della volontà o degli interessi, gli scopi finali, le

84


operazioni culturali”, 199che è stato oggetto delle analisi filosoficoantropologiche di Gehlen. Ogni soggettivismo gnoseologico – di tipo idealistico o empiristico tende a espungere dalla relazione soggetto-oggetto la mediazione dei valori, al fine di attingere, come anche nel caso di Husserl, a una “purezza” rappresentativa considerata il fondamentale terminus a quo di ogni atto soggettivo. In realtà, tale espulsione, la si chiami “epoché” oppure Wertfreiheit, o “eliminazione dei generi letterari”, non è altro che la purezza di ciò che non-è reale, ma appunto solo ideale. Ed è questa idealità assoluta da ogni rapporto reale a costituire una “totalità” che però, come abbiamo detto, è “vuota” di concrete determinazioni, e perciò astratta e irreale. Essa è la versione teoretica di ciò che è l‟economicismo nella sfera pratica, ossia l‟idea di un rapporto umano originario e primitivo di relazioni ottenuto dalla rimozione di ogni espressine culturale superiore alla fenomenicità puramente “naturale” degli uomini, fondata sull‟esistenza finita e conclusa del gruppo (familiare, tribale, comunitario) legato a motivi di ordine biologico e generativo. Questa idea di “vita naturale caratterizzata da un vivere diretto e ingenuo del mondo, in quel mondo che in certo modo è sempre presente come orizzonte alla coscienza, ma non tematicamente”, 200è anche di Husserl, il quale, come ogni idealista, è costretto a rinnegare il proprio monismo introiettando all‟interno della soggettività originariamente data come “totalità”, una distinzione tra una “prassi naturale”, caratterizzante “l‟atteggiamento pratico” che è “analogo a quello del politico” e “mira al benessere comune e quindi, nella sua prassi, si propone di servire al benessere di tutti”; da un “atteggiamento teoretico”, il quale “è del tutto nonpratico”, fondato com‟è “su un‟epoché volontaria da qualsiasi prassi”, e perciò anche da quella che “si proponga di servire alla dimensione

199 200

Ivi, pag. 339. Ivi, pag. 339.

85


naturale”. 201Salvo poi a rettificare questa “scomposizione della vita teoretica da quella pratica”, “prove di nessi e semplicemente alternative”, consapevoli che ciò porterebbe, “dal punto di vista sociale” alla “nascita di due sfere culturali spiritualmente irrelate”, e affermando la possibilità di “una terza forma di atteggiamento universale”, consistente in “una sintesi dei due interessi che si attua durante il trapasso dall‟atteggiamento teoretico a quello pratico”, che nel caso di Husserl sarebbe addirittura “chiamata a servire in modo nuovo l‟umanità”, quell‟umanità, egli aggiunge ecumenicamente dopo averla sminuita, “che vive innanzitutto un‟esistenza concreta e quindi anche sempre naturale”. 202 Prima di questa sintesi dell‟universalità teoretica e della prassi universalmente interessata, esiste un‟altra sintesi di teoria e prassi – quella dell‟applicazione dei risultati limitati della teoria, delle scienze specialistiche limitate, delle scienze che nella specializzazione hanno smarrito l‟universalità dell‟interesse teoretico, alla prassi della vita maturale. Qui dunque [nel terreno della scienza applicata, tecnologica], l‟atteggiamento originario-naturale e quello teoretico si congiungono.

L‟alternativa a questa sintesi tecnologica la offre la filosofia, portatrice di “una cultura ideale che conosce compiti infiniti”, laddove “la cultura extra-scientifica, la cultura non ancora sfiorata dalla scienza, è un compito e un‟operazione dell‟uomo nella finitezza” del suo mondo ancora “controllabile” che “non si è ancora dischiuso” al compito infinito di una “progressiva trasformazione che finisce con l‟attrarre nel proprio ambito tutte le idee della finitezza e perciò la cultura spirituale complessiva e l‟umanità che la rappresenta”. 204 Infatti, come nel puro stile idealistico, Husserl ribadisce che “l‟esito dell‟attività scientifica non è un che di reale ma di ideale”, 205per cui 203

201 202 203 204 205

Ivi, pag. 341. Ivi, pag. 341. Ivi, pagg. 341-342. Ivi, pag. 337. Ivi, pag. 336.

86


La cultura scientifica retta dalle idee dell‟infinità equivale a un rivoluzionamento della cultura complessiva, un rivoluzionamento dei modi dell‟umanità in quanto umanità creatrice di cultura. Essa equivale anche a un rivoluzionamento della storicità, che si trasforma ora nella storia del venir meno, nel divenire di un‟umanità a cui incombono compiti infiniti, dell‟umanità finita. 206

Ma l‟idea di servizio richiama inevitabilmente quella di prassi, e infatti questa terza via dello spirito assume la forma di una prassi di genere nuovo, di una critica universale di qualsiasi vita e di qualsiasi fine della vita, di tutte le formazioni culturali e di tutti i sistemi culturali che già sono sorti nel corso della vita dell‟umanità e dei valori che li reggono espressamente o implicitamente; inoltre, una prassi che mira ad innalzare, attraverso la ragione scientifica universale, l‟umanità, mediante multiformi norme di verità, a trasformarla in un‟umanità radicalmente diversa, capace di una responsabilità di se stessa assoluta e fondata su intuizioni teoretiche assolute. 207

Viene ribadita la visione escatologica che Husserl ha della filosofia come sapere “rivoluzionario”, palingenetico, riabilitando così la funzione prometeica del razionalismo già affermata dall‟Illuminismo. In questo senso, la visione di Husserl costituisce una risposta non soltanto allo scientismo, ma alla stessa critica filosofica all‟Illuminismo, a quell‟idealismo che culmina in Hegel teorico del sapere assoluto e della logica storicistica come anamnesi del vissuto e mera ricognizione del passato, priva perciò di quella proiezione futuristica rivendicata dal marxismo, il quale acquisisce il metodo “vivo” della dialettica e rigetta il “morto” sistema pan logista, non a caso rivalutando, contro la Logica, la Fenomenologia. 208 206 207

Ivi, pag. 338. Ivi, pag. 341.

208

La “necessità di rifare i conti con la concezione storicistica hegeliana dello spirito vivente” viene avvertita da tutto l‟ambiente fenomenologico, e comunque da Heidegger sin dalla sua dissertazione su Duns Scoto per la libera docenza. Ved. K. Löwith, Saggi su Heidegger, tr. it. cit., pag. 61.

87


Si può affermare dunque che il metodo fenomenologico, che costituirebbe la seconda “svolta” filosofica dopo quella della filosofia greca, rappresenti una transvalutazione radicale della fenomenologia dialettica hegeliana, ben più radicale e rivoluzionario dell‟inveramento marxiano di essa. In questo senso filosofico universale, la fenomenologia di Husserl si pone, come risposta radicale e originale alla crisi del pensiero post-hegeliano, anche come transvalutazione teoretica della tradizione classica tedesca. Ma, per le sue imprescindibili derivazioni dalla teoresi greca, la radicalità del metodo fenomenologico interessava inevitabilmente l‟intera tradizione greco-cristiana ereditata dallo hegelismo, per cui, molto più del marxismo, la prospettiva di Husserl risente di un afflato mistico e profetico di derivazione vetero-testamentaria ebraica. Resta sottaciuto che “un‟umanità radicalmente diversa” e “fondata su intuizioni teoretiche assolute” deve poter contare su un apparato istituzionale conforme a quei dettami “assoluti”, e perciò a suo modo “assolutistico”. La definizione storica e sociale di un organismo rappresentativo di un atteggiamento “assoluto” e insieme aperto a “un compito infinito” quale il perfezionamento teorico, non potrebbe che strutturarsi in termini organici – tali cioè da costituire la sintesi teoretico-pratica – e totalitarii – tali cioè da non lasciare fuori di quella sintesi universale alcun residuo mitico-religioso. Ma è esattamente questa pretesa a inibire ogni movimento dialettico alla storia umana, vanificando gli sforzi del razionalismo moderno a sciogliere le ipoteche accese tradizionalmente dal platonismo e dalla logica antica pre-dialettica. L‟atteggiamento mitico-religioso si produce semplicemente quando il mondo diventa tematico in quanto totalità, praticamente tematico; il mondo: cioè quel mondo che vale concretamente e tradizionalmente per una certa umanità, la quale lo appercepisce miticamente. […] Lo sguardo che li abbraccia tutti nella loro totalità è uno sguardo mitico [custodito ed elaborato da] un clero [che] diffonde un “sapere”

88


linguisticamente definito attorno alle forze mitiche [che] assume spontaneamente la forma di una speculazione mitica. 209[…]Da questo atteggiamento universale, ma mitico-pratico, si stacca decisamente l‟atteggiamento “teoretico”, non-pratico in tutti i sensi, l‟atteggiamento del , a cui […] Platone e Aristotele fanno risalire l‟origine della filosofia [in cui l‟uomo] si stacca da tutti gli interessi pratici e […] non persegue e non produce altro che una pura teoria [diventando così] un filosofo[…]; su questa base la vita si apre alla motivazione, che è possibile soltanto in questo atteggiamento, per nuovi fini e metodi di pensiero, per cui infine sorge la filosofia ed egli diventa un filosofo. 210

Husserl si rende conto che l‟atteggiamento teoretico è un prodotto culturale che “ha una sua motivazione di fatto nel contesto concreto degli accadimenti storici”, che nasce dall‟esigenza di oltrepassare le forme di verità vigenti ereditate dalla tradizione e di preparare un “nuovo contegno conoscitivo”. L‟atteggiamento filosofico contesta la realtà della rappresentazione del mondo tradizionale, accusandola di essere appunto irreale o mitico-religiosa. E‟ dunque un atteggiamento scettico che, rivelando “la differenza tra la rappresentazione del mondo e il mondo reale, pone il nuovo problema della verità”, non già quella “quotidiana vincolata alla tradizione”, ma della “verità in sé”, produttiva di una “nuova forma culturale” e rappresentativa di “una nuova umanità”, 211 che abbandona “le norme dell‟empiria ingenua quotidiana e della tradizione” per accettare solo quelle della “verità obiettiva” o “ideale”, che diventa così “un valore assoluto” determinando una “profonda trasformazione dell‟intera prassi dell‟esistenza umana”, la quale viene “modificata in senso universale”, sovvertendo tutte le “verità relative” delle norme tradizionali “del diritto, della bellezza, della finalità, dei valori personali riconosciuti”, etc. 212 209 210 211 212

Ivi, pag. 342. Ivi, pag. 343. Ivi, pag. 344. Ivi, pag. 345.

89


Questo atteggiamento riabilita l‟Aufklarerei, ma non i suoi errori, essendo Husserl “persuaso che la crisi europea affonda le sue radici in un razionalismo erroneo”, anche se resta altresì convinto che “la razionalità […] nella sua forma matura, è chiamata a guidare tutti gli sviluppi successivi”, e che essa non sia affatto “una calamità o che rivesta un‟importanza soltanto subordinata per l‟umanità”. 213Per Husserl l‟uomo è un essere razionale, e non un animale, in quanto “agisce razionalmente”. Si noti: non in quanto pensi, ma in quanto agisca. Ciò presumerebbe che ogni atteggiamento umano sia razionale, e non solo quello indotto dallo sviluppo della ragione filosofica. Ma Husserl chiarisce che nell‟ambito generico dell‟atteggiamento razionale, “la ragione filosofica rappresenta un nuovo grado dell‟umanità e della ragione”, che per realizzare i suoi fini superiori deve tradursi in una nuova prassi. Infatti, egli aggiunge, “il grado dell‟esistenza sub specie aeterni, è possibile soltanto nell‟assoluta universalità”, ossia conseguentemente alla rivoluzione culturale introdotta dal nuovo pensiero, la quale “è implicita fin dall‟inizio nell‟idea della filosofia” ma storicamente è un “fenomeno parziale nell‟ambito della cultura europea”, da cui dipende “l‟autenticità della [sua] spiritualità”. 214 In altri termini, la nuova prospettiva filosofica, in quanto “assoluta”, e quindi non più evolvibile, si prefisse spontaneamente un compito storico universale, che è quello appunto di trasformare nella sua universalità ogni cultura tradizionale, nella consapevolezza che un conto è la filosofia storica, altro “l‟idea di un compito infinito” di una “autentica filosofia”. 215 213

Ivi, pag. 349. Ibidem. 215 Ibidem. Questo atteggiamento di un “pensiero preveggente e retrospettivo” che inerisce “il carattere di decadenza dell‟epoca nostra che orienta verso il futuro il pensiero dell‟essenzialità”, era comune sia a Hegel che a Marx e a Kierkegaard e lo sarà allo stesso Heidegger, il quale, “come tutti i critici radicali dell‟Ottocento pensa al margine estremo di una tradizione ancora appena sussistente, che egli mette in 214

90


L‟idea di una filo filosofia “autentica” e “infinita” richiama quella di una filosofia “ingenua” e “finita” quale quella delle “singole filosofie concrete storiche”, le quali “rappresentano sempre un tentativo più o meno riuscito di realizzare l‟idea dell‟infinità o addirittura la totalità delle verità”. Ma gli “ideali pratici” nati da queste filosofie particolari “sono semplicemente anticipati in un‟ambigua generalità” che provoca indeterminatezza e contraddizioni. “Da ciò i contrasti tra i grandi sistemi filosofici che affacciano grandi pretese e che pure sono inconciliabili”. 216 La loro unilaterale relatività è anche la loro “razionalità pericolosa”, che consiste nel ritenere che il campo d‟indagine specialistico di una scienza determinata “impedisce di riconoscere che il compito infinito di indagare teoreticamente la totalità dell‟essere ha ancora altri aspetti”, che solo il filosofo può scandagliare, consapevole che “nessuna linea conoscitiva, nessuna verità singola dev‟essere assolutizzata e isolata”. Soltanto n quest‟estrema auto-coscienza, che diventa a sua volta una delle componenti del compito infinito, la filosofia può esercitare la sua funzione, la funzione di realizzare se stessa e perciò un‟autentica umanità. Ma anche questo rientra nell‟ambito conoscitivo della filosofia giunta al grado di un‟estrema riflessione su se stessa. Soltanto attraverso questa costante riflessione la filosofia diventa una conoscenza universale. […] La via che la filosofia deve percorrere è quella che porta al di là dell‟ingenuità. 217

questione dalle radici”: K. Löwith, Heidegger Denker in durftiger Zeit (1960), tr. it., Torino, 1966, pag. 51. 216 Ivi, pag. 350. 217 Ibidem. L‟atteggiamento di Husserl evoca quell‟Alleinherrscheft del Vernunft che doveva caratterizzare secondo il giovane Feuerbach la nuova era filosofica schiusasi con la metafisica hegeliana, che avrebbe riportato Tutto all‟Idea e alla Ragione. Cit. in C. Fabro, Introduzione all‟ateismo moderno, Roma, 1964, pag. 625 n. 11.

91


Questa “ingenuità”, che parrebbe essere il carattere della visione “naturale” del comune mondo-della-vita, e che sembrava costituisse “il terreno” dell‟atteggiamento pratico e di quello tradizionalmente scientifico, non investe soltanto “l‟irrazionalismo” negatore dell‟universalità della filosofia, ma anche quel razionalismo che in genere viene scambiato per la razionalità filosofica, che del resto è effettivamente caratteristico dell‟intera filosofia a partire dal Rinascimento e che si considera in vero, universale razionalismo [in cui si] sono impigliate tutte le scienze, che già nell‟antichità erano pervenute a un certo grado di sviluppo. Più precisamente: il titolo generale per designare quest‟ingenuità è l‟obiettivismo, che si manifesta nei diversi tipi di naturalismo e di naturalizzazione dello spirito. Gli antichi e i nuovi filosofi furono e rimangono obiettivistici. 218

Insomma, “irrazionale” in quanto “ingenuo” è l‟intero pensiero filosofico pre-fenomenologico, senza distinzione tra pensiero pratico e attività teoretica, in quanto visione del mondo obiettivistica. Solo all‟interno del suo orizzonte il momento cosmologico poté svilupparsi attraverso la “scoperta dell‟infinità”, 219che, sia pure “nella forma di una idealizzazione delle grandezze”, trasformarono “la natura intuitiva e il mondo” in un “mondo matematico”, diventando così “la stella polare delle scienze di tutte le epoche successive”. 220 Ma se così è, non si può distinguere, all‟interno della pre-istoria filosofica, il momento della “spiritualità”, in cui, “a partire da Socrate, l‟uomo viene tematizzato nella sua specifica umanità, in quanto persona, in quanto uomo nella vita spirituale della comunità”, 221 poiché lo stesso atteggiamento socratico è un prodotto culturale che “ha una sua motivazione di fatto nel contesto concreto degli accadimenti storici”, che nasce dall‟esigenza di oltrepassare le forme 218 219 220 221

Ivi, pag. 350. Ivi, pag. 351. Ivi, pag. 352. Ibidem.

92


di verità vigenti ereditate dalla tradizione e di preparare un “nuovo contegno conoscitivo”. E anch‟esso apparve ai suoi detrattori come un pensiero “ideale”, rispetto a quello concretamente “reale” incarnato dalle istituzioni. Ma Husserl non ha il minimo sentore del senso utopico del pensiero inattuale, per cui non si avvede che la genesi dell‟idea socratica di spirito risiede nella stessa critica filosofica del mondo reale, non altrimenti aggredibile che in termini teoretici, ossia “ideali”, per cui “soltanto se lo spirito recede da un atteggiamento rivolto verso l‟esterno, soltanto se ritorna a sé e rimane presso di sé, esso può dar ragione di se stesso” 222attraverso un atteggiamento che rompe la compattezza psico-fisica dell‟immagine tradizionale di uomo, che necessariamente è estroiettata in forme obiettive rispetto a ogni pensiero critico. Ma, a ben vedere, questo è l‟atteggiamento dello stesso processo fenomenologico, che per questo riguardo non si differenzia da nessun altro atteggiamento spiritualistico. Infatti, con la fenomenologia trascendentale, a detta dello stesso Husserl, “si supera l‟obiettivismo naturalistico e qualsiasi altro obiettivismo in generale [c.d.a] nell‟unico modo possibile: il filosofo parte dal proprio io, che produce tutte le sue validità e diventa lo spettatore disinteressato di queste stesse validità”. 223Ed è questo stesso atteggiamento che divenendo oggetto della riflessione viene elevato a “fenomeno” autonomo, custode di una sua “totalità” intesa come soggettività egologica. In questo atteggiamento è possibile costruire una scienza autonoma dello spirito, nella forma di una conseguente auto-comprensione e di una comprensione del mondo in quanto operazione spirituale. Lo spirito non è più spirito nella o accanto alla natura; la natura viene bensì riassorbita nella sfera dello spirito. Allora l‟io non è più una cosa isolata accanto ad altre cose analoghe nel mondo già dato; anzi cessa l‟estraneità e la contiguità delle persone egologiche e si produce una reciproca inerenza interna. 224 222 223 224

Ivi, pag. 356. Ivi, pag. 356. Ivi, pag. 357.

93


Interna alla coscienza, evidentemente, la quale pur deve distinguere nel cogito il sé dal suo contenuto oggettivo, dal cogitum, che è l‟oggetto del pensiero della coscienza che lo trascende. Ma Husserl assolve l‟atteggiamento di Socrate e condanna l‟analogo atteggiamento di Cartesio. Per Cartesio, con la “scoperta” del problema della conoscenza che avviene nell‟immanenza dell‟anima e che si allarga per via presunttiva alla trascendenza extrapsichica, e del problema della giustificazione di questa trascendenza, tutto il problema della fondazione della conoscenza autentica e apodittica, cioè il problema del metodo della vera scienza, della vera filosofia, subisce una trasformazione. Eo ipso gli assiomi immediatamente apodittici non sono più fondamenti ultimi per la filosofia, perché nelle scienze del mondo essente essi esercitano una funzione obiettiva e implicano già sempre, come la matematica pura, la possibilità di essere applicati al mondo fattuale. 225

Ma questa “applicazione” non era stata teorizzata da Husserl come una conseguenza intrinseca alla stessa universalità del pensiero filosofico? Certo, cambiano i contenuti fondamentali della “universale verità”, ma non cambia l‟atteggiamento razionalistico di trasformare il dato “ingenuo” extra-metodico in elemento del processo metodico, in partenza affermato apoditticamente come il “fondamento primo in sé su cui si fonda tutta la conoscenza”, 226il quale deve risolvere nella sua totalità assoluta ogni dato esterno relativo. Nell‟atteggiamento originario teoretico-scientifico e nella prima posizione dei suoi compiti, tutti gli assiomi sono fndamenti apodittici ultimi e per la scienza universale [= filosofia = conoscenza obiettiva razionale del mondo] essi costituiscono il fondamento totale unitario: su di esso deve fondarsi una autentica filosofia, mediante un metodo analogo a quello della matematica e delle scienze naturali. 227

225 226 227

Ivi, pag. 425. Ibidem. Ibidem.

94


Fin qui l‟atteggiamento universalistico dello scientismo, che, prima della sua critica fenomenologica, è l‟atteggiamento “filosofico” toutcourt del pensiero non solo moderno. Il paradigma cambia con la nuova prospettiva filosofica, che contesta l‟originaria apoditticità ritenendola a sua volta “arte del pensiero”, ossia “mitologia”. Con la scoperta che qualsiasi conoscenza da parte di un soggetto conoscente è un evento intra-psichico, e con la scoperta dell‟inerente problema di una validità trascendente, sorge una nuova apoditticità: l‟apoditticità dell‟ego, l‟apoditticità, per il soggetto conoscitivo, del proprio essere in quanto soggetto di tutto il suo conoscere, l‟apoditticità del fatto che tutto il suo conoscere, tutta la sua vita di coscienza in generale è una connessione assolutamente conclusa del suo essere psichico.

Cartesio non differisce da altre consimili posizioni “assolute”, ponendo i giudizi intuitivi colti dal pensiero riflessivo come “premesse” della nuova “scienza del mondo”, che Husserl definisce, dal suo punto prospettico, “un deplorevole fraintendimento” soggetto a una “trasformazione di validità” che interessa il suo presuntivo “dubbio universale”, cui va riconosciuto il “merito essenziale” di aver operato una “epoché dall‟essere dell‟intero mondo”, ma che nondimeno va riportato alla sua reale dimensione puramente singolare, ovvero “dall‟essere all‟apparenza”, 229secondo il movimento proprio di ogni filosofia critica. E qui Husserl tocca in chiusura della sua trattazione il punto nevralgico da cui siamo partiti, ossia la costituzione dell‟essere del mondo-della-vita come un non-essere, che è il movimento proprio di ogni epoche, compresa quella di Cartesio. 228

Cartesio compie sforzi che tendono a rendere intuitivamente evidente come sia possibile che l‟intero mondo, il mondo dell‟esperienza, della vita umana, in quanto passibili di dubbio, nn siano, anche se noi li esperiamo costantemente nella certezza 228

229

Ivi, pag. 425.

Ivi, pag. 427.

95


d‟essere . eppure noi possiamo attuare i rivolgimento cartesiano: inaccessibile alla posizione del non-essere del mondo, completamente intatto, rimane il mio essere proprio, in quanto essere dell‟io che pone questa possibilità […]. Anche se io riuscissi a un tentativo di dubbio universale […], sarei sempre io a dubitare, sarei sempre io a decidere volontariamente questa posizione (e quindi l‟io rimane); sia che si tratti di un‟ipotesi possibile o di una ipotesi impossibile, controsensa, io sono l‟io di questa posizione e perciò non posso porre il mio non-essere. 230

Ed è questa l‟assolutezza dell‟Io, il suo porsi come totalità. Ma che è una totalità astratta da ogni realtà fattuale, oggettiva, reale, storica, in quanto la sua posizione dipende dalla coscienza dell‟altro, l‟unico che possa negare l‟essere dell‟io, e quindi limitarlo e confutarlo nella sua asserita universalità e infinitezza. In verità, la posizione di Husserl è più cartesiana di quanto egli sospetti, in quanto la sua supposizione della verità come evidenza assoluta, somiglia molto all‟Essere perfetto di Cartesio cui vanno commisurate tutte le verità particolari dei filosofi storici, che vengono negate in virtù di quell‟assolutezza. Ora, la negazione delle teorie particolari comporta l‟affermazione che nessuna di esse è rinvenibile nel mondo-della-vita, il quale perciò dev‟essere trasceso perché si consegua la verità. in questo senso, il metodo fenomenologico è una forma di trascendimento della realtà empirica, che afferma la trascendenza della verità filosofica rispetto al mondo “naturale” e della sua conoscenza “ingenua”. A tal proposito va aggiunto che se per Husserl il “fenomeno originario” dell‟Erlebnis dell‟uomo è l‟intuizione eidetica del mondo, ossia un atto trascendente la realtà “naturale” o storica, per cui la chiarificazione dell‟esistenza può avvenire solo attraverso un rapportarsi della coscienza meta-storica a se stessa, la fondazione ontologica della storia da parte di Heidegger ripone il “fenomeno originario” al livello della esistenza pre-istorica, che per lui è la vera storia, quella “propria” rispetto all‟altra reale, per

230

Ivi, pag. 428.

96


lui “impropria”, del tempo “volgare”. 231La teoria di Husserl, a ben vedere, sia per il suo monismo, che nega la necessità dell‟opposizione del mondo-della-vita, dalla quale soltanto poteva nascere la posizione filosofica, e sia per il fondamento pratico che ripone la validità del metodo fenomenologico in una volontaria “decisione”, e non nel necessario sviluppo del processo teoretico del filosofare, è una forma di nichilismo, che riduce la programmatica tendenzialità alla totalità dell‟ego a un tendenziale nulla, poiché tendente a sopprimere quella opposizione che ne stabilisce la ragione stessa della sua posizione, ponendo al posto della necessità delle ragioni dello spirito la volontà della sua affermazione universale. Senza contraddizione, cioè senza differenza ontologica, lo stesso filosofare resta sospeso al nulla, per cui la sua supposta auto-fondazione è solo l‟affermazione di un sé sospeso sul se medesimo, senza alcuna certezza circa la necessità della sua verità. e questo solipsismo è appunto l‟esito della intrinseca natura nichilistica della fenomenologia come “scienza assoluta”, la cui “universalità” viene declinata non come “necessità” ma come “libertà dal mondo”. La prima ed essenziale “rivoluzione” proposta dalla fenomenologia è la trasformazione, peraltro già operata da Cartesio, del fondamento, che tradizionalmente era nell‟essere, e che il coscienzialismo moderno ha riposto nel cogito. Proprio in quanto l‟atto di coscienza ha i suoi contenuti, la trasformazione consiste nel privare il mondo dato dei contenuti suoi, che appunto sono dati e non posti dalla coscienza. Da qui lo svuotamento del mondo-della-vita in progressione inversa al riempimento dei contenuti di coscienza, per cui il mondo reale diventa, dal punto di vista del cogito, un mondo “vuoto” di determinazioni, una realtà negativa , un essere che esistenzialmente è, 231

Lukàcs ha visto giusto quando afferma che “con l‟apparente fondazione ontologica della storia, Heidegger distrugge in fondo ogni storicità”: La distruzione della ragione, tr. it. cit., II, pag. 519.

97


ma è onticamente, mentre come essere è negativo, perché fuori della coscienza che lo pone in essere: un essere-non. Questo ente positivo, il cui essere è però negativo, è l‟oggetto extra-coscienziale al quale, prima del Discours di Cartesio, si adattava dogmaticamente il pensiero. 4. Rispetto al realismo, che considera l‟unico essere quello della realtà sensibile, l‟idealismo moderno, in cui rientra anche la fenomenologia husserliana, considera l‟essere realistico un essere astratto dal suo fondamento ontologico, che deve perciò essere salvato dalla sua naturale “ingenuità” e ricondotto all‟autenticità del suo essere fondamentale, alla sua verità. La missione irenica della filosofia sarebbe dunque di realizzare la verità riportando il mondo al suo fondamento ontologico e destarlo dal suo sonno dogmatico. Ma come può un‟idea del mondo sussistere senza il mondo, se, come rilevò Hegel, neppure Dio sarebbe senza il mondo? Per cui la negazione del mondo è infine la negazione stessa della coscienza, da cui consegue appunto il nichilismo tendenziale. La critica a Cartesio è la contestazione di un residuo dualismo metafisico entro il cogito e la definitiva conversione di ogni realtà dell‟essere all‟atto di pensiero. Ciò rappresenta un rovesciamento speculare della posizione realistica di Spinoza espressa nell‟Etica, circa l‟equivalenza dell‟ordine ideale con quello reale (“Ordo, et connexio idearum idem est, ac ordo, et connexio rerum”), e l‟opposta affermazione dell‟ordine reale con quello ideale attraverso la negazione di ogni ordine naturale, considerato “ingenuo”, ossia non conforme a ragione. Significativa resta in Husserl l‟equiparazione dell‟ordine “naturale” con il sistema del mondo-della-vita, entrambi “terreno” delle scienze empiriche e quindi soggetti alle stesse leggi regolative essenziali, per cui la funzione teoretica del soggetto non è quella di individuare quelle leggi unitarie, ma di superarle a favore dell‟unica considerabilità “scientifica” delle leggi di coscienza, del suo “ordine interno”. L‟immedesimazione spinoziana di Dio alla natura 98


(“Deus sive natura”) viene negata attraverso l‟assoluta distinzione di ciò che appartiene al mondo reale e ciò che invece costituisce la verità dell‟ordine ideale. Al panteismo (o “acosmismo”) di Spinoza si contrappone il pampsichismo di Husserl, che sono però i risvolti della stessa immagine assoluta di un Dio creatore tradotto in ordine naturale (Spinoza) ovvero in ordine coscienziale (Husserl). E‟ in realtà in Husserl, però, che si compie la definitiva umanizzazione del pensiero, attraverso la sostituzione di Dio con il cogito assoluto, che realizza per intero l‟umana conoscenza. La ricerca di un‟identica necessità nella natura e in Dio, dava in Spinoza per scontata l‟appartenenza dell‟ordine umano a quello divino, e si trattava solo di estenderlo anche alla natura attraverso il metodo del razionalismo naturalistico, ossia a partire dall‟ordine naturale. In Husserl, di contro, non vi è alcuna ricerca di unità cosmica, alcuna equazione di necessità e libertà, ma solo la messa in mora di quanto non viene disposto secondo le sole leggi necessarie della coscienza assoluta, a partire dalla quale incipit viva nova, sarà possibile definire un nuovo ordine, autentico e definitivo, di libertà, annunciato dal messia-filosofo moravo. Dall‟immanenza assoluta, alla trascendenza assoluta si dispiega per intero il percorso del moderno monismo filosofico. 232Nel concetto di natura di Spinoza si esprime l‟idea della necessità, e nel pensiero di Dio quella di libertà, per cui la loro identificazione comporta in Spinoza l‟identità di necessità e libertà, di pensiero e volontà. Il 232

Se può dirsi che il panteismo sia “un residuo della concezione della fede teista”, per cui nasce sul presupposto di una religione positiva “i cui fondamenti e radici si sono dimenticati” (M. Scheler, loc. cit., pagg. 319-321), il pampsichismo può dirsi il “residuo” della religione positiva della coscienza, i cui presupposti di validità universali risalenti a Cartesio vengono ammessi al fine della costituzione del mondo “naturale” o “ingenuo” della vita, per essere quindi rimossi in sede trascendentale in virtù della negazione del suo dualismo metafisico, che è all‟origine dell‟oggettivismo naturalistico.

99


monismo teoretico si traduce in monismo pratico per la perfetta corrispondenza di pensiero e azione. La rilettura di Cartesio a opera di Husserl, di basa anch‟essa sulla negazione del dualismo, come quella di Spinoza, ma in chiave trascendentalistica e non immanentistica. Tra le due opposte e speculari prospettive monistiche, non c‟è tanto Kant (il Cartesio illuminista) ma Hegel (lo Spinoza idealista), il quale ha offerto un pensiero fenomenologico dell‟essere come pensiero. Husserl, giungendo alla fine di questo percorso teoretico, confuta il dualismo cartesiano, che ha condotto al modello gnoseologico scientista, proponendo una fenomenologia del pensiero come essere, dimostrando che ogni monismo negando il dualismo metafisico tende a ribaltarsi nel suo opposto, producendo in se stesso quel dualismo che aveva negato in partenza. 233 Il carattere ambiguo, o indeterminato, del concetto di esistenza in ogni monismo razionalistico (di Spinoza come di Husserl), per cui resta imprecisato se l‟oggetto della coscienza sia o non reale, è dovuto al fatto che entro il cogito l‟esistenza è in realtà il suo concetto, ossia il concetto di esistenza, l‟esistenza ideale, e non l‟esistenza di fatto, che viene messa tra parentesi. Se la coscienza trascendentale è assoluta, essa è il Tutto, e non può confondersi con la coscienza in atto avente un suo oggetto particolare, poiché questa coscienza empirica è molteplice al pari dei suoi atti e non è il Tutto. In quanto l‟essere si fa 233

In Italia la rivisitazione attualistica di Hegel da parte di Gentile si è convertita nel prassismo gramsciano, che rappresenta il suo opposto speculare, così come lo spiritualismo assoluto di Croce si converte nel suo assoluto storicismo, per cui gli eventi storici sono i “modi” (cioè le forme di esistenza, oggetto delle scienze categoriali particolari) dell‟unico spirito, che non è più il Dio degli scolastici o il Geist di Hegel, ma la Storia. Ogni monismo conduce all‟indifferentismo dei valori, al relativismo per cui ogni azione, essendo spirituale, è uguale all‟altra. Per ovviare a questo relativismo dei valori, si è costretti e reintrodurre il dualismo della discriminante tra valori-veri e valori-falsi, tutti spirituali ma non tutti uguali e con ciò reintrodurre un principio di trascendenza all‟interno del sistema immanentistico attraverso la distinzione-movimento degli atti universali dalle rappresentazioni empiriche.

100


oggetto della coscienza, questa, come atto di coscienza, può anche non sussistere, mentre l‟essere non può non esserci. Ed essendo l‟essere necessario e la coscienza transitoria, questa è fondata su quello, e non viceversa. Ciò comporta che il rapporto ideale tra l‟essenza e l‟esistenza, quale deduzione a priori, è un puro rapporto di concetti, nel quale l‟essenza e l‟esistenza si immedesimano in quanto pure tautologie. 234 Nella realtà di fatto, l‟essenza non può essere graduata perché ogni esistente, nel suo essere o non-essere, risolve tutta la sua esistenza. Sicché “o” è “o” non-è. Se è, il suo essere è tutto ciò che è. L‟essere dell‟ente è tutto il suo essere. Diverso il caso delle determinazioni essenziali nell‟ambito ideale, dove non si tratta più dell‟essere ma dell‟essenza. Qui l‟esistenza ideale è reale: è esistenza di pensiero, in quanto tutto l‟essere è l‟essere di pensiero. Da qui la reazione esistenzialistica all‟idealismo (di Hegel, con Kiergegaard; di Husserl, con Heidegger). Non si può parlare di rapporto dialettico fin quando la contesa si mantiene sullo stesso piano ontologico, nel qual caso si tratta di lotta economica e politica tra enti, ovvero di scontro di princìpi ideali, ossia di totalità non suscettibili di ulteriori integrazioni, come le diatribe religiose. La dialettica si sviluppa necessariamente tra realtà distinte, oltreché diverse, in cui il rapporto non parte né giunge all‟uguaglianza, ma parte e conferma la diversità dei termini dialettici in rapporto. Solo tale diversità può consentire che nel rapporto gli elementi non perdano la loro identità assimilandosi all‟altro-da-sé, annullandosi. La ricerca del fondamento del processo del pensiero (nella prospettiva idealistica) e dell‟azione (nella prospettiva materialistica) nasceva proprio dalla necessità di stabilire una relazione logica o esistenziale 234

E‟ questo il senso della critica di Kierkegaard a Spinoza, ricordata da C. Fabro in Introduzione all‟ateismo moderno, cit., pagg. 156-159.

101


tra enti entrambi finiti ed ontologicamente equivalenti, nella cui definizione si consumava il tentativo di mediare la loro condizione di enti finiti con l‟infinito movimento del pensiero, della storia o della vita. Questa definizione costituiva l‟essenza stessa della realtà, l‟Urwesen dell‟essere universale. Con la fine della fondazione teologica dell‟Essere, la filosofia come mediazione tra Uno infinito e realtà molteplice degli enti mondani, si trovò a dover assolvere anche al compito di fondare il rapporto, oltre che definirlo, essendo il rapporto stesso privo di principio e di fine, sospeso in sé stesso. Questa sospensione è conseguente con la posizione assolutamente umanistica del soggetto ideale emancipato da ogni dipendenza metafisica o Assoluto, quale rappresentato dall‟antropologia di Feuerbach critico della Filosofia del diritto hegeliana. Hegel, come sappiamo, aveva distinto la “persona” giuridica dal “soggetto” morale e dal “membro della famiglia”, come qualità pubbliche compresenti nello stesso uomo empirico, soggetto reale membro della concreta “società civile”. Tale distinzione tra l‟uomo reale e le sue qualità pubbliche si fonda su un‟idea dell‟uomo ancora teologicamente fondata, in relazione alla quale è possibile distinguere “ciò che uno è „in quanto uomo‟ da ciò che è ad esempio come pensatore, artista, giudice e così via, in genere cioè dalle sue qualità pubbliche”. 235Infatti, essa promana a sua volta dalla fondamentale distinzione di “natura” e “spirito” propria della tradizione cristiana, che mette in relazione dialettica l‟essere creaturale e l‟essere storico, la definizione teologica dell‟uomo e la sua esperienza culturale e mondana. Il fondamento teologico dell‟uomo come creatura divina, se da un canto costituisce la garanzia ontologica della sua esistenza, che è andata perduta nel pensiero critico del moderno umanesimo e che il naturalismo greco non contemplava, dall‟altro canto ha introdotto nella metafisica occidentale quella che Heidegger considerava l‟interrogativo fondamentale “perché c‟è l‟ente 235

K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli, 1966, pag. 92.

102


piuttosto che il nulla?”, 236che costituisce la premessa di ogni filosofare, sancendo la possibilità di pensare il nulla come altro da l‟ente mondano e dall‟essere assoluto. In questo senso, con la metafisica cristiana si supera il dualismo classico tra “essere” ( ) e non-essere (), introducendo il negativo come possibilità e contingenza per definire la totalità del mondo spirituale. La tricotomia, superando il problema classico dell‟essere o del non essere, non solo introduce l‟idea di movimento e di progressione finalistica nell‟essere, ma consente anche l‟astrazione dei singoli termini dalla totalità, per cui lo sviluppo metafisico del pensiero postcristiano viene configurandosi come progressiva emancipazione dell‟uno dagli altri elementi della totalità, così che, volta a volta, la teologia, il naturalismo scientista e l‟esistenzialismo possano autofondarsi su se stessi per giustificare la propria differenza ontologica come essenza assoluta, costitutiva della loro relativa “verità”. Una assolutezza relativa al Tutto, equivale alla possibilità che il Tutto non venga pensato come tale, ma appunto o come essere, o come ente o come nulla. Ciò vuol dire che la fondazione onto-teologica dell‟essere include la possibilità che l‟essere relativo sia pensato come niente (oltre che come Essere e come ente), come un essere-non, il quale non è un non-essere, cioè un opposto, ma un essere negativo, un niente, cioè un distinto. Se il non-essere è pensato nella sua relazione col suo opposto di cui è la negazione, il distinto è pensato come totalità, avente in sé il suo opposto. Questa è la condizione perché il negativo venga pensato come essere assoluto, cioè fuori della sua relazione col Tutto, rispetto al quale è niente, e non essere. Questa possibilità di pensare il niente come essere negativo è preclusa al pensiero dicotomico classico, e non già perché non sia possibile scegliere tra distinti esseri, ma in quanto ogni scelta d‟essere non è una modalità dell‟essere totale, ma è una totalità, che esclude altre totalità. In questo senso, solo nell‟ambito della metafisica cristiana è possibile “dare a 236

M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1953), tr. it., Milano, pag. X.

103


Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, ossia astrarre, come fa Hegel, l‟essenza spirituale dall‟esistenza empirica. Nell‟Etica Eudemia, dove Aristotile sostiene che “tre sono i tipi di esistenza che scelgono tutti coloro che ne hanno la possibilità: quello politico, quello filosofico, quello edonistico”,237ogni possibilità di esistenza esclude le altre possibilità, per cui la modalità, poniamo, politica non è una modalità di essere, cioè una forma esistentiva, ma una modalità dell‟essere, cioè una totalità esclusiva di altre. Questa è la ragione per la quale Cesare, che stava dalla stessa parte di Dio, non poteva essere servito che come dio. Nello stesso senso, nella logica antica era impossibile salvare (la coscienza di) Socrate senza rinnegare (il potere di) Cesare. Socrate, infatti, rappresentava quell‟opzione d‟essere possibile, che non veniva contemplata nella logica dicotomica classica, che sull‟essere, e non sulla possibilità del niente, fondava l‟esistenza. Socrate intendeva invece distinguere l‟essere umano, quale ente acosmico, dall‟esistenza comune, cosmica degli enti naturali. Il naturalismo classico, lo spiritualismo cristiano l‟esistenzialismo moderno costituiscono le tre modalità ontologiche di pensare il Tutto come essere, cioè come essenza dell‟ente. Ognuna di tali modalità ontologiche, fondandosi su di sé, perdono l‟essere del Tutto, la totalità, che è il Sein di Heidegger rispetto al Seiende e al Dasein. Da qui inoltre la distinzione tra l‟Essere totale (l‟esse teologico) e l‟essere storico (il sum del cogito e i suoi oggetti di coscienza). Se noi a Essere sostituiamo Natura, a ente Storia e al Niente l‟uomo, noi abbiamo i tre elementi essenziali del Tutto. L‟Essere è ciò che permanentemente “è”; l‟ente è il factum, ossia ciò che emerge dall‟Essere come prodotto umano nella sua contingenza e non necessità, per cui potrebbe anche non essere così come non è stato e non sarà; infine il Niente è l‟uomo, la sua coscienza e la sua prassi, 237

Aristotile, Etica Eudemia, 1215 a, 35-1215 b,1-4, tr. it. di A. Plebe, in Opere, vol. III, Roma-Bari, 1973, pag. 808.

104


che consente all‟ente di divenire e all‟Essere di essere come ente, ossia come evento storico. Il Niente non è un “ciò” ma è un “colui” che non-è né un ente e neppure l‟Essere. In lui, nella sua opera, l‟Essere diviene ente emergendo dalla sua stasi necessaria per diventare ciò che diviene, cioè un prodotto umano costituito da materia d‟Essere increata, naturae, e attività trasformatrice, pregna di umana nientità, che fa sì che l‟ente nel suo essere divenga. Il Niente è la condizione del divenire, la mediazione tra Essere ed ente che costituisce la loro sintesi ideale-effettuale. Che la Natura sia creata da Dio, e che l‟uomo sia un essere-di-natura, non toglie che il suo posto in essa e con essa o contro di essa sia altro da quello naturale. La Storia, ha di naturale la sua oggettualità estrinseca, ovvero la sua insuperabile dipendenza dagli elementi costitutivi della sua effettualità; ha di umano la sua destinazione finale, nel duplice senso di un razionale telos intrinseco alla sua realtà di oggetto mondano o prodotto di una trasformazione, e di una destinazione caduca di prodotto transeunte e temporaneo, destinato prima o poi a rientrare nell‟Essere da cui è stato tratto e trasformato dallo spirito umano. I due elementi della Storia, quello naturale e quello umano, costituiscono i fondamenti del suo processo d‟essere diveniente o Essente. L‟Ente è un che di Essere che diviene attraverso il Niente: un ni-è-nte. Un essere che è non, ovvero un essere inscritto nel tempo. L‟ “oblio dell‟Essere” di cui parla Heidegger, è l‟inconsiderazione dell‟elemento permanente e non-umano dell‟ente, che non è soltanto destinato al niente in quanto prodotto umano, ma è inscritto anche nell‟essere dell‟Essere. Ed è questo oblio a rendere la storia umana obliosa della sua dipendenza originaria dall‟Essere, ossia dal suo legame col Creatore della natura, che ne ha stabilito la sua costituzione e le sue eterne leggi. Queste leggi sono circolari, come ogni ciclo naturale, mentre il telos umano, interrompendo il ciclo d‟essere dell‟Essere, introduce in esso una destinazione extra-naturale, spirituale, rubando il fuoco agli dèi, cioè utilizzando per scopi proprii le forze o l‟energia insita nella natura. 105


La determinazione positiva dell‟Essere come ente, e la conseguente considerazione dell‟ente come realtà assoluta, è possibile solo all‟interno della considerazione dell‟uomo come ente anch‟esso naturale, e quindi partecipe delle stesse qualità di ogni ente inframondano. L‟oblio dell‟Essere è la conseguenza della corrispondenza di ogni ene finito alla sua natura, alla natura dell‟Essere, per cui ogni ente era nient‟altro che la determinazione finita del‟unico Essere che tutti li comprendeva. A seguito della consapevolezza della coscienza eidetica come luogo di determinazione dell‟essere, la soggettività è andata costituendosi come il polo dialettico dell‟Essere naturale, rispetto al quale Essere eterno e immutabile si determinava come possibilità d‟essere, ossia come forza del negativo, come Niente. La dialettica della logica classica era esclusivista (essere o non essere), per cui il luogo della coscienza si determinava come altro rispetto al lugo della fenomenologia dell‟essere mondano, nell‟iperuraneo mondo delle idee, alternativo a quello fenomenico dell‟Essere naturale. Essendo le idee nel mondo noetico ciò che erano i fenomeni sensibili nel mondo naturale, la eternità delle prime venne contrapposta alla caducità dei secondi, per cui il “vero mondo”, quello eterno, divenne platonicamente il mondo ideale. Il recupero aristotelico dell‟infinitezza del mondo reale avvenne attraverso la definizione di una metafisica naturalistica in cui anche l‟ente partecipava della eternità dell‟Essere naturale, per cui la sintesi reale dell‟Essere e degli enti garantiva anche la Molteplicità degli enti finiti della universalità e della infinitezza proprie dell‟Uno naturale. all‟interno della fisica aristotelica, anche l‟uomo era ente tra enti, e non quella mediazione ontologica che diverrà a seguito della metafisica cristiana, la quale, come abbiamo visto, sollevò l‟essere naturale dalla sua totalità d‟Essere, elevando Dio a Tutto, e facendo dell‟essere naturale un elemento derivato dalla creazione, e dell‟uomo, o meglio della sua coscienza, il luogo elettivo della verità, definita dal suo rapporto privilegiato con Dio. La sintesi mediatoria si delocalizzò 106


dalla Natura aristotelica e dalla dimensione noetica platonica allo spirito cristiano, il cui modello onto-teologico è la figura del Cristo. L‟idealismo trascendentale moderno emancipa tale sintesi ontologica da ogni riferimento teologico, assolutizzando la figura della coscienza noetica sia rispetto all‟Essere naturale che rispetto alla totalità divina, facendo con Fichte della coscienza il luogo della totalità, la cui cifra rivelatrice d‟essenza infinita non è più la fede teologica ma la ragione. Da questa posizione assolutistica della ragione umana (o umanodivina) nasce l‟idea di una filosofia come linguaggio della totalità. Il punto di vista naturalistico, per il quale il mondo è una realtà sensibile, differisce dal punto di vista trascendentale, che trasforma il mondo in un “istituto morale”, che diventa il campo operativo dell‟attività umana. Per dirla con Fichte, Nel primo caso la ragione è obbligata ad arrestarsi all‟essere del mondo, inteso come assoluto; il mondo è semplicemente perché è, ed è così perché semplicemente è così. Se si rimane a questo punto di vista, la ricerca prende le mosse da un essere assoluto e tale essere assoluto non è nient‟altro che il mondo; i due concetti sono quindi identici. Il mondo diventa un tutto che fonda se stesso, compiuto in sé, e perciò organizzato e organizzante, un tutto che contiene in sé e nelle sue leggi immanenti il fondamento di tutti i fenomeni che avvengono in esso. Spiegare il mondo e le sue forme secondo i fini di un‟intelligenza, solo in quanto il mondo e le sue forme devono essere realmente spiegati, e in quanto perciò ci troviamo nell‟ambito della pura – dico della pura scienza naturale, è completamente senza senso. Inoltre la frase seguente: un‟intelligenza è l‟autore del mondo sensibile, non ci aiuta affatto e non ci fa procedere neppure di un passo; infatti tale frase non ha la minima chiarezza, e ci offre qualche parola vuota in luogo di una risposta alla questione che non avremmo dovuto sollevare.

Diverso è il punto di vista trascendentale, che risolve tutte queste aporie, in quanto non si vede più nel mondo “un mondo sussistente per sé [ma] in tutto ciò che vediamo, vediamo soltanto il riflesso della nostra attività interiore”. Sicchè “il mondo soprasensibile è il nostro luogo natale e il nostro unico punto stabile; il mondo sensibile ne è

107


solo il riflesso”. 238L‟attività totalistica della ragione si esplica riducendo ogni ente mondano-sensibile e metafisico in suo oggetto, ossia in un derivato o emanazione della sua attività creatrice, prendendo il posto che era stato della classica e del Dio cristiano. La fonte dell‟Essere non è più né la Natura né Dio ma l‟Io stesso, sulla base della quale realtà fondante va giustificato il mondo, divino e sensibile, quale prodotti della coscienza trascendentale. Se la Natura “è”, la coscienza, similmente al Dio cristiano, “crea”. E determinando sé, nega l‟altro-da-sé. Ogni assolutismo teoretico è una forma di nichilismo metafisico. Il “Dieu perdu” cristiano non si è a sua volta imposto negando gli altri dèi del naturalismo classico, così come le divinità olimpiche si erano imposte contro i titani? L‟umanesimo moderno si dispiega come il deicidio di una cristologia mondanizzata, che al posto del Padre onnipotente e creatore pone il Figlio parricida che è in ogni uomo, in ogni ente umano creato della stessa sostanza del Padre ma senza più la di lui dipendenza. In questo senso, l‟umanesimo ateo moderno è una forma di cristianesimo adulto, emancipato dalla tutela divina del Padre creatore. 239Non va dimenticato che la negazione o l‟usurpazione di Dio a opera dell‟idealismo va di pari passo con la negazione della realtà del mondo, in quanto l‟assolutizzazione della coscienza trascendentale consegue alla negazione della mediazione umana tra Dio e Natura. Come è stato ben detto, “la diferenza tra l‟idealismo fichtiano e l‟idealismo critico di Kant consiste nel fatto che per Fichte l‟uomo non è solo la „copula‟ tra Dio e il mondo, ma è invece un Io assoluto, in relazione al quale sia Dio sia il mondo sono creazioni dell‟uomo in quanto Io. L‟idealismo trascendentale e il cristianesimo per l‟autocoscienza post-cristiana di Fichte sono conformi”. 238

Cit. da K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pagg. 46-47. “Solo chi, in virtù della coscienza cristiana, si sa libero di fronte al mondo, ha anche la possibilità di volerlo dominare imponendosi su di esso”: K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 59. 239

108


L‟assolutezza ontologica dell‟Essere è la condizione della necessità metafisica delle forme reali del suo essere, per cui le leggi di Dio hanno la stessa necessità per la fede di quelle della Natura per il mondo, così come le leggi della ragione per la coscienza. La scoperta dell‟assolutezza dell‟Io, delle leggi della coscienza, richiedeva una metafisica della soggettività o della coscienza trascendentale che costituirà il travaglio teoretico di tutto l‟idealismo moderno, da Kant a Husserl, e che disegnerà la parabola di pensiero della metafisica del soggettivismo moderna. Altra caratteristica dell‟assolutismo ontologico, per il quale l‟Essere (della Natura, di Dio o della coscienza trascendentale) è il Tutto, è la convertibilità dell‟Essere determinato nel suo opposto reale, per cui, nel caso dell‟idealismo, l‟atto di ragione si converte in realistica azione pratica, e il coscienzialismo in pragmatismo, l‟attualismo in prassismo, il razionalismo in nichilismo. Questo avviene in quanto l‟assolutizzazione dell‟Essere, tendendo alla trasformazione dell‟altroda-sé nel proprio sé, tende anche ad annullare non solo il suo altro ma anche il sé, poiché l‟attività del sé è condizionata proprio dalla realtà d‟essere dell‟altro, per cui tanto più l‟altro “è”, tanto più il sé tende ad annullarlo nel sé, assumendo la sua negatività; e poiché l‟essere dell‟altro, rispetto al sé, è un “non-essere”, l‟attività del sé è un‟attività nullificante, auto-dissolutoria. Da qui il passaggio ideale da un‟epoca metafisica ad altra, e il conseguente relativismo teoretico. Per ovviare a questo, l‟idealismo trascendentale più maturo, quello di Husserl, ha stabilito una epoche fenomenologica, tale da mettere in parentesi preventivamente ogni opposizione reale alla coscienza, lasciandola pertanto essere solo ciò che è secondo le sue leggi ontologiche, affermando la sua assolutezza e necessità attraverso l‟eliminazione preventiva di ogni datità mondana e cioè di ogni entità pre-esistente alla sua determinazione ontica di oggetto della coscienza 240

240

K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 46.

109


trascendentale. Così, il soggettivismo moderno, dove aver eliminato Dio dalla sua coscienza e Dio stesso dal mondo, ha proceduto ad eliminare anche il mondo dopo avere eliminato la coscienza del mondo in vista della assoluta affermazione del suo Essere sé e nient‟altro che sé, ossia l‟assoluto Essere sé come Niente. Ed è per scongiurare questo inevitabile esito che la coscienza di sé si converte nella coscienza dell‟altro, del suo oggetto di creazione, e come Dio si è manifestato in Cristo, così l‟atto di coscienza si converte in azione, in atto di realtà, in fenomeno, assicurando per questa via di esistenza alla coscienza il suo essere reale oltre che la sua realtà d‟essere. E dalla fede in Dio si passa ala fede nella realtà, “che permette di superare sul piano pratico il nulla”, 241al quale era giunto l‟autocoscienza dell‟Io. In fondo all‟Io vi è dunque il mondo e Dio, che esso aveva negati e che ora ritrova per quell‟intimo processo dialettico che abbiamo indicato come “conversione ontologica”. La caratteristica della Natura è la necessità, ossia la intima volontà del Tutto a essere se stesso, una unità. Ogni ente viene naturalmente riportato alla sua congiunzione col Tutto. Rispetto alla libertà, che si oppone all‟unità del Tutto attraverso la diversità di ognuno, l‟unità è il Niente, la morte di ciò che è diverso dall‟Uno, il Molteplice. Il logos dell‟Uno, della Natura, è la necessità di condurre ogni cosa verso il suo fine unitario. Tale unità si consegue negando a molteplicità del diverso per affermare la necessità dell‟Uno. La negazione del Molteplice è la morte del distinto per l‟affermazione dell‟indistinto Uno. La vita dell‟ente si distacca dalla vita dell‟Uno solo se astratta dalla necessità di tornare all‟unità originaria e mortale. L‟intermezzo tra la nascita e la morte è il percorso dell‟ente come distinto molteplice rispetto all‟unitario Tutto. La finitezza e mortalità dell‟ente è dunque la sua essenza, il destino della sua esistenza, la sua necessità o destino naturale. La sua libertà è dunque circoscritta alla sua temporalità 241

K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 51.

110


negativa rispetto all‟eternità unitaria del Tutto. Libertà, volontà, molteplicità e finitezza sono tutti attributi dell‟ente distinto dall‟Essere unitario, e tutti si riassumono nel concetto di mortalità. Anche l‟uomo partecipa di questa essenza mortale, ma,a differenza dell‟ente inanimato, egli progetta la sua libertà definendola come un destino alternativo a quello mortale e necessario. Questo destino umanamente alternativo a quello necessario della Natura è la Storia. La Storia è quanto l‟uomo crea durante la sua vita mortale per negare l‟unità naturale della necessità, opponendo a questa la resistenza della ragione, con la quale definisce un ordine alternativo a quello naturalistico, improntato alla sua libertà di essere distinto dall‟uguale. Al di là delle definizioni storiche della diversità umana, ogni società umana è il disegno di un destino altro da quello necessario della natura. Ed è questa alterità antropologica a fare della vita umana un‟esperienza spirituale e dell‟uomo un essere spirituale. Il mondo umano, la sua storia, si può servire a scopo negativo verso la Natura di due metodi: o quello derivato dalle stesse leggi naturali piegate alla volontà umana, ovvero delle leggi proprie all‟essere umano, quelle morali, ricavate dalla sua immagine del mondo ideale in quale vorrebbe vivere e abitare e che vorrebbe costruire in alternativa a quello cosmico naturale unitario. Il naturalismo e lo spiritualismo sono le due metodologie alternative possibili per definire l‟esperienza umana. La prima poggiantesi sulla ricerca di ciò che la natura è in sé; l‟altra su ciò che l‟uomo può immaginare d‟essere. L‟intera vicenda umana si articola nel confronto della necessità cosmica e della libertà ideale. Una Storia definita secondo criteri puramente naturalistici, fa dell‟uomo un‟espressione infinitesimale del Tutto, dal quale bisogna dipendere per distinguersene, manipolando le sue forze e così piegando ai voleri umani la sua invincibile necessità. Piegare la necessità significa vincerla senza negarla, ma solo cambiandone la destinazione necessaria, e perciò rimanendo pur sempre nel‟ambito dell‟umana volontà di libertà.

111


La Storia definita in termini spiritualistici comporta che l‟uomo astragga dalla necessità della sua dipendenza naturale per definirsi solo in quanto portatore di valori razionali. A tal fine, la vita diventa spiritualmente orientata verso la libertà dalla natura, e cioè una preparazione alla vittoria sulla morte, che è identica come sappiamo alla necessità di tornare all‟Uno. La religione è la vita oltre la necessità della morte, la continuazione della libertà oltre il limite fisiologico della vita naturale. Ma lo stesso valore ha in genere la cultura e tutto ciò che viene “creato” dal solo uomo e che non si rinviene in natura: dai nomi delle cose e delle persone, alle poesie, ai sogni e alle narrazioni fantastiche o mnemoniche. Lo spirito è, in questa prospettiva, la produzione umanamente indipendente dalla necessità della Natura, che è anche natura umana, e come tale viene presa ad oggetto della sua creazione ideale. Se il materialismo è il progetto fisico della realtà umana, lo spiritualismo è la contemplazione metafisica della realtà umana. Il “fare” e il “pensare” sono entrambi umani, e quindi consustanziali alla sua realtà antropologica, ma opposti reciprocamente come le ragioni della necessità e quelle della libertà. Questa è la ragione per la quale ogni materialismo è storicismo al pari di ogni spiritualismo, essendo entrambi espressioni della stessa umana libertà. La scienza della natura, non è infatti la conoscenza teoretica della Natura, ma “l‟indagine di essa interamente a servizio della storia umana”, 242sicché non è l‟oggetto della contemplazione a determinare e qualificare la natura dell‟attività umana ma la sua disposizione ideale, nel caso teoretico volta al mero intendimento, anziché, come nel caso della circospezione, tesa a uno scopo pratico di utilità, in cui si orienta in genere la scienza applicata alla trasformazione della realtà naturale attraverso il lavoro e la tecnica.

242

K. Löwith, Gesammelte Abhadlungen. Zur Kritik der geschichtlichen Existenz (1960), trad. it. Critica dell‟esistenza storica, Napoli, 1967, pag. 349.

112


La contemplazione teoretica astrae da ogni scopo pratico, ma non dalla soddisfazione di conoscere, che è uno scopo umano anch‟esso, volto a distinguere la vicenda umana dalla necessità naturale, dalla quale appunto si astrae. In questo senso, anche il  ha uno scopo umanistico e non naturalistico, quello di accrescere la distanza spirituale dell‟uomo dalla passività degli altri enti di natura, per cui ha ragione Heidegger ad asserire che la conoscenza del mondo è sempre relativa all‟esperienza umana,243 nel senso appunto che il progetto essenziale dell‟uomo è il suo auto-definirsi altro rispetto alla necessità naturale, cioè il suo costituirsi come essere-di-libertà. Tanto la contemplazione teoretica quanto la circospezione pratica sono attività umane, e come tali vanno considerate rispetto alla posizione antropologica dell‟uomo nell‟Essere come Tutto, che comprende non solo la Natura, ma anche l‟uomo e la sua Storia. Non è esatto affermare, come fa Loewith, che “con questo guardare, che prescinde da un‟intenzione, solo per amore dell‟intendimento, inizia il filosofare come  senza scopo”. 244 Lo scopo, infatti, c‟è, ma non è “pratico”, ossia volto alla trasformazione delle condizioni di esistenza economica, ma è volto invece alla trasformazione delle condizioni di vita spirituale dell‟uomo. Sono metodi diversi per raggiungere lo stesso fine umanistico di libertà. L‟atteggiamento pratico percepisce il mondo con la circospezione di chi sa di doversene difendere e di utilizzarne la forza ai propri fini, mentre l‟atteggiamento teoretico guarda al mondo con la meraviglia di chi è consapevole di non farne parte. L‟intuizione non è la stessa perché cambia l‟atteggiamento ideale, la disposizione d‟animo del soggetto ma non lo scopo finale. L‟idea che il cristianesimo abbia inserito “la distinzione tra uomo e mondo, onde l‟uomo, in quanto immagine di Dio, è essenzialmente più vicino al creatore che non tutte 243

“L‟Esserci esiste in vista del mondo”: M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes (1929), tr. it., Milano, 1987, passim. 244 K. Löwith, Loc. cit., pag. 343.

113


le altre creature”, mentre “per il pensiero naturale dei Greci l‟opera suprema della natura non era l‟uomo mortale, ma gli astri con il loro eterno movimento circolare”, 245non è del tutto pertinente, poiché già la definizione aristotelica dell‟uomo come “animale provvisto di parola” e “animale politico” poneva la figura umana in una dimensione di razionalità e socialità ben distinta da quella di ogni altra specie naturale, per cui la stessa conoscenza della natura da parte dell‟uomo lo costituiva come un essere capace di astrarre dalla sua naturalità e di contemplare la sua posizione nel mondo. La teoria è sin dall‟inizio il modo tutto umano di superare la finitezza della sua natura e di raggiungere idealmente l‟infinitezza dell‟Essere con propri mezzi, non naturalistici. Le scienze moderne, ricche di questa possibilità, hanno tentato di conseguire lo stesso risultato per via naturalistica, distinguendo vieppiù ciò che della teoria era soltanto il prodotto dell‟immaginazione umana da quanto invece corrispondeva alle ragioni intime della Natura e delle sue leggi, fondando la loro credibilità teorica su questa essenziale distinzione, riproponendo a oro volta quanto la filosofia aveva operato nei riguardi della mitologia e della poesia arcaiche. Il pensiero moderno assume tendenzialmente e perloppiù della Natura solo quanto può essere confermato empiricamente, tralasciando quanto invece risulti frutto della mera immaginazione fantastica dell‟uomo. Ciò vuol dire che la Natura, e non la contemplazione umana, è l‟Essere antonomastico per la scienza come sapere moderno, per cui la teoria scientifica ha preso modernamente il posto di quella ideale. La conseguenza teoretica di questa ridefinizione del concetto di “realtà” è stata la delocalizzazione della verità dal logos metafisico all‟experimentum pratico, ossia dalla letteratura alla prassi. Dalla dimensione dell‟idem sentire della partecipazione ideale, si è progressivamente giunti al consensus communis quale criterio di verificazione della verità. non più la parola, dunque, ma l‟azione 245

K. Löwith, Loc. cit., pag. 357.

114


indica il medium della sintesi dell‟esperienza umana, da sempre tesa ad affrancarsi dalla sua condizione naturale. Il cristianesimo, inserendo il concetto del Dio creatore, ha divinizzato la Natura e l‟uomo in quanto creature partecipi della sacertà del Creatore, spostando la fonte della religiosità dall‟Essere naturale all‟Essere divino. Di conseguenza, l‟uomo cristiano assunse una fisionomia divina che non era più naturalistica ma mistica, senza peraltro perdere la sua natura partecipata all‟Essere divino. Non a caso, la fine dello homo religiosus coincide con la fine della divinizzazione anche del cosmo, che era perdurata anche oltre la fine della cosmologia pagana, dal momento che questo era una concepito come una realtà creata e non originaria. Pertanto è improprio dire sia che “il cristianesimo ha dissacrato il cosmo vivente, ignorando il mondo in quanto cosmo”, e sia che “il passaggio dal mondo greco a cristianesimo si configura come una frattura netta e decisiva”, 246in quanto la concezione creaturale del mondo e dell‟uomo garantiva della loro natura divina. Con la secolarizzazione e la “morte di Dio”, la Natura non è tornata ad essere il luogo della sacertà pagana, ma, al pari dell‟uomo, essa è rimasta senza fondamenti epistemici, priva di quella certezza d‟essere che era garantita da Dio, la cui esclusione rende, a detta di Barth, la stessa esistenza del mondo una “ipotesi contestabile”. 247 Ma anche l‟idea che l‟uomo si sia sostituito al Dio assente, o “morto”, va intesa cum grano salis, poiché è vero che l‟uomo secolarizzato ha escluso la creazione divina dal mondo, ma con essa ha perduto anche la sua teleologia, per cui non imita affatto “l‟originario progetto divino del mondo”, 248ma utilizza la sua conoscenza scientifica fuori di ogni “disegno” che non sia il mero esercizio della sua potenza. Se, infatti, è 246

K. Löwith, Critica dell‟esistenza storica, tr. it. cit.., pagg. 359 e 358. K. Barth, Dogmatik, III, 1, cit. da K. Löwith, Schoepfung und Existenz (1955), tr. it. in Id., Storia e fede, Roma-Bari, 2000, pag. 73. 248 K. Löwith, Critica dell‟esistenza storica, tr. it. cit.., pag. 359. 247

115


stato possibile inverare la cosmologia greca nella teodicea cristiana, nel mondo moderno la perdita del sommo Garante ha determinato il ripiegamento dell‟uomo nella sua annientante distanza dall‟Essere come apoteosi della sua libertà resasi assoluta nel perseguire il suo solo fine umanistico di essere l‟Essere-non rispetto all‟Essere naturale, il puro Niente. La distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa, o quella baconiana tra filosofia “speculativa” e “operativa” intendono riferirsi al diverso atteggiamento umano verso la Natura, che però, come detto, non incide sullo scopo finale comune. L‟equivoco di considerare la filosofia come una scienza disinteressata, la destina a una gratuità che ne snatura il telos originario della ricerca del sapere, che è quello di pervenire a una definizione dell‟uomo per via spirituale. La filosofia non intende trasformare la Natura, o meglio le sue forze, nella consapevolezza che essa ed esse servono un fine che le trascende e che le rende, nella loro necessità, “divine”. La divinizzazione della Natura non risiede nella superstiziosa credenza nella sua natura antropomorfa o zoomorfa, ovvero, come nel cristianesimo, nella sua credenza creaturale, ma nella sua posizione sacrale, ossia di Essere non disponibile e mutabile a capriccio umano come gli enti. La visione spiritualistica si fonda su questo presupposto sacrale fondamentale, che manca invece alla dimensione propria del sapere praticoscientifico, teso a conseguire l‟emancipazione dell‟uomo dalla Natura attraverso il dominio delle sue stesse forze. Sono due modi diversi e alternativi di concepire lo stesso fine di libertà: il modo economico e il modo spirituale, ognuno di essi fornito di un suo sapere, di proprie forme di conoscenza. La visione pratica non distingue l‟Essere unitario della Natura dalle sue manifestazioni sensibili, cioè dai suoi fenomeni, attribuendo a questi lo stesso valore che a quella. L‟indistinzione di Essere ed ente, denunciata da Heidegger, riguarda in realtà il solo pensiero pratico, dal quale si è sviluppato il sapere scientifico desacralizzato, ma non interessa la conoscenza filosofica del mondo, che su quella distinzione fonda tutto il suo logico 116


argomentare. Nondimeno, la denuncia di Heidegger ha la sua plausibilità nella circostanza che il pensiero moderno si è desacralizzato o secolarizzato, e non riesce più a pensare il mondo come Essere trascendente, avente cioè un fine non equivalente a quello proprio degli enti fenomenici. Ma perché questo è avvenuto? Perché, insomma, la filosofia ha smarrito (“obliato”) la dimensione sacrale dell‟Essere? La risposta può parere facile: perché ha confuso l‟Essere con l‟ente, considerando l‟Essere come la totalità degli enti, e Dio stesso come il sommo Ente. Tutto questo è vero, ma non si è con ciò risposto al “perché” si sia giunti a questa confusione ontologica o a questo oblio dell‟Essere. La risposta, infatti, la si deve cercare nella definizione di Essere, che abbiamo detto coincida con quello di Natura. Ma non è questa la definizione che ha in mente Heidegger quando pensa l‟Essere, né è quella che ha in mente Hegel quando pensa lo Spirito; e neppure coincide con la definizione cristiana, che sopra la Natura ripone Dio. Da questo punto di vista, l‟idea di Spirito hegeliana e l‟idea di Dio cristiana sono un progresso rispetto al pensiero greco dell‟Essere come Natura, dalla quale identità esso inizia a riflessione filosofica attraverso lo strumento della logica oppositiva, in grado di discernere solo ciò che “è” da ciò che “non è” (da cui deriva il celeberrimo dilemma amletico circa lo “essere o non essere”). Con il cristianesimo, e l‟idea di un Dio che sta oltre l‟Essere maturale e idealmente lo comprende, inizia il percorso che condurrà alla logica dialettica, la quale, rispetto a quella antica, supera la dicotomia classica, diciamo pure amletica, introducendo tra l‟Essere e gli enti il divenire, ossia scoprendo la potenza del Negativo, la presenza del Niente, che sappiamo essere quella propria dell‟uomo. L‟introduzione del negativo nel pensiero dell‟Essere come Natura, costringe a pensare un Essere ancora più inclusivo di quello naturale, che includa cioè il Niente all‟interno del divenire degli enti. Quest‟idea di Dio è l‟idea del Tutto, che comprende l‟Essere così come l‟Essere naturale comprendeva l‟uomo secondo la cosmologia

117


classica. Qual è, dunque, l‟idea di Essere che ha in mente Heidegger? Quello di Natura o quello di Tutto? La differenza tra la res cogitans e la res extensa risiede non solo nel fatto che “quel che io vedo esternamente di me è palesemente distinto dal principio pensante che è in me”, ma anche nel fatto che se anche “tutto lo spirito sembra unito a tutto il corpo, tutta via è certo che se un piede o un braccio o qualche altra parte viene recisa dal mio corpo, nulla però sarà staccato dal mio spirito”, 249ossia nel fatto che “ogni essere corporeo è per natura divisibile, mentre lo spirito, o l‟anima, non lo è”. 250Ciò vuol dire che l‟idea dell‟Uno e quella dell‟anima sono la stessa idea, e poiché la Natura può pensarsi come unità solo se si astrae dalla sua fisica determinazione molteplice, l‟Essere, quale idea unitaria della Natura, non può essere la Natura stessa, ma appunto la sua idea. Stabilito che l‟Uno sia un‟idea, e che questa idea non possa essere la Natura, non può neppure darsi una idea naturale, ma solo una Natura ideale, che è altra dalla Natura sensibile, che invece è Molteplice. Ma la Natura molteplice è quella degli enti naturali, sicché l‟idea aristotelica di in quanto cosmo unitario, è l‟ipostasi di una realtà che empiricamente è molteplice e che perciò non si dà mai in realtà come Uno. Ciò vuol dire che l‟idea della Natura come Unità non è la Natura, che è Molteplice, per cui, sia in quanto idea che in quanto Niente, la  aristotelica implica l‟esistenza del soggetto teoretico che la pensa, senza il quale la Natura non potrebbe essere un ente unitario ma solo quella realtà Molteplice che si dà ai sensi. In questo senso, la Natura come idea unitaria non sarebbe senza l‟uomo, mentre l‟uomo può pensare un‟idea che non sia quella della Natura. Se l‟idea di Natura è un‟ipostasi, essa non è un‟idea reale, poiché a essa non corrisponde alcuna realtà unitaria. Nella realtà noi non incontriamo o percepiamo la Natura, ma le sue manifestazioni 249 250

Cartesio, Med. 74. K. Löwith, Dio, Uomo e Mondo da Cartesio a Nietzsche, tr. it. cit.., pag. 26.

118


molteplici. Ciò vuol dire che se l‟idea della Natura non è reale, la Natura reale è quella che Hegel chiama “aggregato di finitezze”e non può essere quella dell‟idea, cioè un Essere unitario. Ed è esattamente su questa premessa, cioè sulla constatazione che l‟idea di una Natura unitaria è una credenza ma non è la verità, è stato possibile offrire un‟idea unitaria dell‟Essere che non fosse quella fittizia della Natura, e questa idea vera è l‟idea di Dio come idea dell‟Uno-Tutto, che può contenere sia il Molteplice naturale che il Niente umano. Secondo Schelling, La metafisica antica si spiegava, già mediante il suo nome, come una scienza che veniva dopo la fisica e quindi, in un certo senso, anche risultante da essa, non però come una semplice continuazione, bensì come una elevazione. La filosofia moderna sciolse completamente il legame conduttore con tale fondamento. Portando oltre le esigenze di un mondo superiore, essa non era più metafisica, bensì iperfisica. Invece di innalzarsi al soprannaturale, finì col cadere solo nell‟innaturale… 251

Con la metafisica cristiana si supera l‟autonomia antica della realtà della Natura, realtà che viene fatta derivare col cristianesimo dalla volontà di Dio. Dal platonico “dio visibile” il cosmo naturalistico antico perde la sua posizione di esse per diventare una mera condizione, e come tale mutevole, la cui forma temporale è quello che viene chiamato nella I Lett. ai Cor. uno “schema”. 252 La Natura, nella nuova prospettiva metafisica cristiana, diventa la materia della volontà di Dio, che è libertà pura, così come la vita fisica è l‟eterna sostanza (id quod substat) senza fini né indirizzi, che sempre ruota nel suo ciclo vitale. La libertà dell‟uomo, fatto a immagine di Dio, consiste nella sua volontà di emanciparsi dalla necessità eterna del ciclo naturale, diventando il “Logos” del mondo e il fine della creazione. 253In Schelling viene alla coscienza il problema della 251 252 253

Cit. da K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 58. Ved. K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 60. Ivi, pag. 62.

119


relazione tra la Natura e Dio, indispensabile per superare sia il naturalismo ateo che il teismo anti-naturalistico. Egli propende per un teismo naturalistico, per il quale la Natura fa parte della realtà divina, anziché essere un corpo estraneo, che l‟idealismo cercò di negare e la teologia di ignorare. All‟uopo occorre partire dal naturalismo per giungere al teismo, e non viceversa, per cui occorre fondare i cristianesimo proprio sul paganesimo antico, che egli riuscì a soppiantare liberando l‟umanità dalla “potenza delle tenebre, che durante il paganesimo dominava il mondo”, per cui “la realtà del cristianesimo non si può conoscere a fondo, senza aver prima conosciuto in certo modo anche la realtà del paganesimo”.254 Anche a Hegel la dicotomia di Cartesio tra mondo (res extensa) e uomo (res cogitans) pareva insostenibile, e auspicava che “contro la filosofia cartesiana come contro la civiltà generale da essa portata ad espressione, ogni aspetto della natura vivente, e quindi anche la filosofia, doveva cercare una via di salvezza”. 255E‟ stato notato che “l‟idealismo metafisico è sorto nella diaspora protestante, ossia in un clima di religiosità svincolata da ogni autorità esterna e da ogni dipendenza storica e tutta intenta o tentata a riconoscersi, senza inciampi e differenze, nelle esperienze religiose più varie […]”.256 Ma occorre ricordare che ai tempi di Schelling e di Hegel, anche presso i teologi, le dottrine fondamentali del cristianesimo avevano perso di credibilità, per cui, come sosteneva Hegel, “non era più necessario distruggere i dogmi mediante la filosofia, perché l‟esegesi critico-storica aveva già sbrigato questa faccenda [per cui] come teologia ecclesiastica e come forma della storia universale, il cristianesimo tradizionale si era concluso”.257 La tesi di Hegel era che la teologia avendo assunto in sé la critica dell‟Illuminismo, cercava di 254 255 256 257

Ivi, pag. 66. Ivi, pagg. 71-72. C. Fabro, Op. cit., pag. 462. Cit. da K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 73.

120


giustificarsi filosoficamente attraverso la ragione, e perciò “la fede cristiana non viveva più in una coscienza religiosa originaria”.258 La “grandezza del punto di vista moderno (cioè cristiano) consiste – osserva Hegel – in questa profonda concentrazione del soggetto su di sé, nel fatto che il finito stesso si conosce come infinito ed è greve di un‟antitesi che è spinto a risolvere”.259 Rispetto all‟antropomorfismo classico, il cristianesimo concepisce l‟uomo non più come un essere compreso nel cosmo, la cui differenza rispetto agli dèi è la sua mortalità, ma come una persona divino-umana dilatata dal suo prototipo, Gesù Cristo, a tutta l‟umanità, sì che “natura divina e natura umana siano identiche per essenza: una identità dialettica, in cui Dio ha la sua autocoscienza nell‟uomo”. 260 L‟ateismo di Hegel è lo stesso di tutti gli idealisti, il quale non consiste nel negare Dio ma nel pensarlo come un‟idea, anziché come un ente di fede, per cui “il Dio dei filosofi non può essere un Dio della devozione e della pura fede” ma una essenza logica. 261L‟intento devozionale di Hegel era, da filosofo cristiano, di spingere il pensiero dalla dimensione mondana del finito a quella dell‟infinito, e per questo intento non era necessario muovere “contro la dogmatica ecclesiastica, bensì contro una devozione svuotata di contenuto e contro la filosofia illuministica dell‟intelletto”, essendo vero che “l‟una è il rovescio dell‟altra”.262 Il “passaggio” dal mondo sensibile (Natura) alla dimensione sopra-sensibile (Dio) non avviene per il tramite di un argomento logico, come pretendeva Schelling, ma attraverso un concetto di universalità che non è l‟astratta determinazione unitaria di tutte le empiriche particolarità, quale è il concetto di Dio come Spirito del mondo che si esplica come “storia 258 259 260 261 262

Ibidem. Cit. da K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 74. Ivi, pag. 75. Ibidem. Ivi, pag. 76.

121


universale”. Occorre partire dal mondo “per elevarsi a Dio” attraverso non un passaggio graduale ma un “salto” (Sprung). “La filosofia assoluta dell‟Assoluto di Hegel ha compiuto fin dall‟inizio questo salto e ha fatto di esso l‟inizio della filosofia”.263 La filosofia cristiana di Hegel supera il coscienzialismo idealistico della metafisica cartesiana dando del mondo e dell‟uomo una rappresentazione creazionistica di opere di Dio quale Spirito assoluto e universale. Dio, quindi, non è soltanto un “di più” che contiene gli altri elementi ontologici fondamentali della Natura e dell‟uomo, ma è l‟essenza spirituale di ogni cosa, essendo Egli la fonte creativa di tutto ciò che è. Il cogito cartesiano perde così la sua natura puramente coscienziale per diventare il luogo più prossimo della essenza divina, la cui conoscenza coincide con la stessa verità dell‟essenza umana, che come quella divina è spirituale. Pertanto l‟uomo non è più inscritto, come nella cosmologia pagana, entro la Natura a questa inferiore quale essere mortale e finito, ma grazie alla consustanzialità divina è divenuto un essere spirituale, e come tale anch‟egli partecipe della divina infinità e immortalità. L‟uomo perde la sua mera empiricità di essere finito e temporale per diventare un Io universale, che non si riassume nella sola sua vita ma che è spirito e volontà libera di determinarsi, e perciò superiore alla Natura e a ogni altra specie vivente, la quale può consumare la Natura ma non, come l‟uomo, spiritualizzarla attraverso a) la sua trasformazione per mezzo del lavoro, b) la sua trasfigurazione per mezzo della parola. Il lavoro e la parola sono le due modalità della spiritualizzazione della Natura a opera dell‟uomo. Con il lavoro e la parola l‟uomo pone la sua mediazione, la mediazione del suo sé, tra l‟Uno e il Molteplice. E la mediazione è sintesi dei distinti ontologici. Esiste, nondimeno, un‟altra forma di mediazione, che interessa questa volta le due sintesi mediatorie stesse, ossia il lavoro e la parola, che abbisognano anch‟esse di essere mediate all‟interno dell‟esperienza 263

Ivi, pag. 77.

122


umana inter-soggettiva. A questo scopo nascono le istituzioni sociali, le quali sono chiamate a mediare tra i mediatori, cioè tra gli uomini, tra le sintesi viventi della prassi e del pensiero, attribuendo al lavoro e al pensiero la loro giusta parte nell‟economia dell‟esperienza complessiva della vita umana e inter-umana. L‟idea e l‟azione di giustizia costituisce il valore sociale primario dell‟umanità civile, del consorzio sociale, e si compendia nel concetto di “limite”. La giustizia è equivalente all‟idea e al sentimento del limite. Limite e giustizia sono sinonimi. Ma limite è il riconoscimento del sé dall‟altro-da-sé, e quindi delle ragioni proprie distinte da quelle altrui. In questo senso, l‟idea del limite e della giustizia sono strettamente congiunte all‟idea della distinzione, che è logica ma ancor prima ontologica, tra ciò che “è” da ciò che “non-è”. Giusta, dunque, non è qualunque distinzione e un limite arbitrario, ma soltanto il riconoscimento razionale della differenza ontologica essenziale. E razionale è l‟atto e la prassi conforme a questa essenziale differenza, il cui riconoscimento coincide con l‟idea di necessità. La giustizia, il limite, il riconoscimento delle differenze sono tutti attributi della necessità, che è l‟essenza etica delle istituzioni umane. Mentre l‟impulso vitale originario, nato dal bisogno di superare l‟imperfetta condizione umana, per la sua indeterminatezza viene in qualche modo a coincidere con l‟idea generica di “libertà” (individuale, ma anche come élan vital della specie), l‟istituzione viene intesa come costrizione esterna, la cui necessità logica deriva dalla mancanza di una qualche costrizione interna, ossia da una necessità morale. Se l‟istituzione è vista in funzione della correzione della libertà, essa sarà destinata ad agire sempre contro un mistero, quello della volontà che delinque dalle regole stabilite, per cui sarà indotta ad assicurare la propria efficacia operativa reprimendo sempre più la libertà alla sua radice, cioè nell‟uomo, attraverso la costrizione. Se invece l‟istituzione è chiamata a provocare la necessità interna di un freno alla libertà eslege, allora la sua potenza sarà anch‟essa rivolta allo sviluppo della moralità, cioè del sentimento del bene, delegando 123


alle singole coscienze morali la responsabilità di arginare le intemperanze della libertà, ossia l‟invadenza della libertà altrui. Questa seconda modalità di funzione delle istituzioni ha il vantaggio di non sopprimere ma di guidare la libertà, e inoltre di stabilire la differenza essenziale tra il valore trascendente di un ideale morale, persistente nel cambiamento delle forme istituzionali storiche, e il significato immanente delle istituzioni nell‟adempimento del loro compito precipuo. Senza una tale distinzione, la forma istituzionale diventa la ragione stessa del contenimento della libertà, per cui la sua conservazione o ripristino diventa finalizzato alla vita istituzionale, e non già relativo alla sua funzione ideale. Per Hegel, lo Spirito (Geist) “non è una qualità teoretica dell‟uomo tra le altre, ma è la sua essenza, la quale non corrisponde all‟idea dell‟universalmente umano divenuta imperante coll‟Illuminismo”. Egli infatti “si oppose alla tendenza rivolta alla semplice umanizzazione dell‟uomo”, ossia alla assolutizzazione dell‟uomo e dell‟umanità. Il limite speculativo dell‟Illuminismo fu proprio quello di far coincidere la ragione con l‟intelletto umano, attribuendo alla ragione una “forma umana”, scambiando la “finitezza fissata” che è l‟uomo con “il fuoco spirituale dell‟universo”.264 La critica hegeliana della vocazione puramente umana dell‟uomo ha come suo presupposto positivo l‟idea che solo la religione cristiana, come religione assoluta, 264

Ved. K. Löwith, Op. cit., pag. 81. Secondo Hegel, “ciò che Lutero aveva iniziato soltanto nell‟animo e nel sentimento – la libertà dello spirito, la quale inconscia della sua semplice radice non si afferra, ma però è già l‟universale medesimo, per il quale ogni contenuto svanisce in sé nel pensiero che si riempie con se stesso – queste determinazioni e questi pensieri generali i Francesi li hanno esposti e vi si sono attenuti e precisamente come le convinzione dell‟individuo in se stesso”. Con i filosofi illuministi “la libertà diventa condizione del mondo (Weltzustand), si congiunge con la storia universale e fa epoca nella medesima; è la libertà concreta dello spirito, una concreta universalità, sono principi fondamentali circa il concreto che ora entrano al posto della metafisica astratta di Cartesio”: Storia della filosofia, cit. da C. Fabro, Op. cit., pag. 609.

124


abbia fatto sorgere la vocazione assoluta, cioè spirituale, dell‟uomo con la sua dottrina del‟incarnazione di Dio. E poiché Cristo, in quanto “figlio di Dio” e in pari tempo “figlio dell‟uomo”, appartiene essenzialmente al genere umano e “a nessuna stirpe particolare”, esiste da allora anche il concetto universale vero e spirituale dell‟uomo [per cui] “la religione cristiana è la religione della libertà assoluta; e soltanto per il cristianesimo l‟uomo si presenta nella sua infinità e nella sua universalità”.265

Il cristianesimo, rivelando agli uomini l‟essenza di Dio come Spirito assoluto, svelano il mistero che avvolgeva la fede pagana nel dio ignoto, liberando l‟uomo dalla necessità che lo legava a quel mistero. La necessità che caratterizzava la stessa Natura, ossia la particolarità degli enti e la regolarità dei suoi moti eterni, nel cui ingranaggio veniva compreso anche l‟uomo come essere naturale. Con la definizione della sua natura spirituale, e cioè divina, l‟uomo supera la sua finitezza fisica e assurge alla sua vera essenza meta-fisica. 266 A questo punto sorge un problema fondamentale inerente la figura dell‟uomo “in quanto uomo”, la cui concreta rappresentazione per Hegel sarebbe offerta compiutamente solo dal concetto di cittadino, e cioè nell‟ambito della società civile. In questo senso, il concetto di “bourgeois”, quale soggetto dei bisogni, è la concreta particolarità rispetto alla sua universalità. Ciò che non viene solitamente considerato in questa interpretazione della teoria di Hegel, è che essa non è una teoria sociologica dell‟uomo, e neppure propriamente politica e giuridica, ma squisitamente etica. Infatti, il godimento dei diritti civili da parte dell‟uomo storico presuppone la costituzione dello Stato, ossia appunto l‟ordinamento civile, che definisce i termini della sua rappresentazione concreta. In questa prospettiva, sarebbe 265

Ibidem. “Hegel conduce a compimento le concezioni autenticamente meta-fisiche dell‟uomo, che lo pongono ancora come qualcosa di incondizionato, e non lo concepiscono antropologicamente dal punto di vista condizionato dell‟uomo finito, come avverrà da Feuerbach in poi. Solo con questo uomo, riferito a se stesso, sorge la problematica moderna dell‟uomo”: K. Löwith, Op. cit., pag. 82. 266

125


sbagliato e fuorviante definire il cittadino astratto dalla sua dimensione etico-statuale, come titolare di diritti civili pre- o metastatuali. Al di fuori, infatti, della rappresentazione storico-statuale dell‟uomo concreto, titolare di diritti e soggetto di bisogni, è possibile soltanto la sua determinazione ontologica di universale essere spirituale. Per Hegel lo Stato costituiva la mediazione istituzionale tra essenza universale e finitezza naturale, senza la quale non sarebbe stato possibile alcun rapporto generalmente umano tra Dio e mondo. Proprio lo Stato, quale massima istituzione storica dell‟ “uomo in generale”, incarnava sul piano generale, la mediazione tra essenza spirituale infinita e condizione umana naturale finita. Lo Stato etico di Hegel non era né voleva essere la forma assoluta del potere, ma esattamente il contrario, costituiva la mediazione collettiva tra infinitezza e finitezza, cioè tra le due nature ontologiche dell‟uomo. Questi, essendo storicamente, nel tempo, una realtà collettiva, sociale, abbisogna di una mediazione anch‟essa sociale e collettiva, e cioè di una istituzione che non si limiti a regolamentare i rapporti tra gli uomini, o per meglio dire tra le sue sintesi di pensiero e di azione, ma si prefigga il compito di mediare tra l‟infinito e il finito socializzati, relativi alla civitas o polis. Per il protestante Hegel, lo Stato etico costituiva sul piano civile ciò che era la comunità della Chiesa dei fedeli sul piano religioso, esattamente la mediazione umana tra cielo e terra, tra spirito e mondo, tra infinito e finito, tra Dio e Natura. Lo Stato etico era l‟Umanità antropo-teologica nella sua concreta duplice realtà divino-umana o infinito-finita. Lo Stato totalitario non è lo Stato etico hegeliano, ma l‟istituzione svuotata di ogni connotato spirituale, titolare di una forza onnipotente usurpata all‟Onnipotente, perché esclusivamente umana, circoscritta cioè alla logica del finito, e quindi una forza secolare del tutto astratta dalla sua funzionalità spirituale. In questo senso, lo Stato totalitario presuppone l‟ateismo umanistico, o l‟umanesimo ateo, moderno, laddove lo Stato etico hegeliano incarna, all‟opposto, quell‟umanesimo religioso negato dall‟antropologismo anti-cristiano moderno, che ha ridotto la necessità dello Spirito in 126


mera volontà di potenza. Lo Stato totalitario è il “vuoto fantasma” 267 dello Stato etico hegeliano, una istituzione di potere del tutto chiusa entro la sua atea finitezza. Se l‟età moderna è caratterizzata dalla logica umanistica del finito, la filosofia hegeliana rappresenta il tentativo più complesso e sofisticato di superamento dell‟orizzonte del pensiero moderno, non attraverso una rimozione epocale del suo significato universale, ma operando una grandiosa sintesi teoretica di tutta l‟esperienza spirituale originatasi dall‟onto-teologia cristiana. E alla base di questa sintesi si trova, da un lato, lo spiritualismo soggettivistico (in origine allocato teologicamente in Dio e quindi metafisicamente nel cogito cartesiano) e dall‟altro il naturalismo (originariamente fisicista e poi passato nel fisicalismo trascendentale kantiano). Essa si definisce dunque come un nuovo concetto, sintetico, di Totalità, comprensivo dell‟idea unitaria di Natura, dell‟idea degli enti molteplici e della mediazione umana, che doveva fondere nella nuova sintetica unità ideale dello Spirito assoluto le singole universalità parziali della mondana realtà finita e della divina infinitezza, nei termini di un processo fenomenologico nel quale l‟idea dell‟uomo costituisce l‟elemento negativo e di incessante mediazione distintiva delle opposte entità ontologiche. La funzione del negativo, insomma, è quella di mantenere distinte le ontologiche opposizioni, al fine di impedirne la mutua dissoluzione nella reciproca risoluzione dell‟altro nel proprio sé assolutizzato, che è all‟origine di ogni violenza, sia sotto forma di umana ingiustizia che di metafisico errore. In questo senso, la 267

Idealmente con l‟espressione “vuoto fantasma” abbiamo voluto evocare qui, distinguendo tra Stato totalitario e Stato etico, la critica che Jacobi avanzò a Kant circa il concetto di Vorstellung (rappresentazione), nella quale si danno oggetti anche esistenti ma deprivati di ogni connotato originario, ossia di quanto avevano prima della rappresentazione nel mondo reale, sicché le intuizioni kantiane (Ernscheinungen) sono chiuse in se stesse e rappresentano solo se stesse, e non la realtà: sono “vuoti fantasmi” (leere Gespenster). Ved. C. Fabro, Op. cit., pagg. 464465, n. 8.

127


funzione ontologica dell‟uomo è storicamente salvifica e moralmente redentiva, secondo il modello del Cristo. L‟essenza spirituale dell‟uomo cristiano risiede nella sua facoltà teoretica. La scienza umana è la sua essenza spirituale, che distingue l‟uomo dalla inconsapevole Natura, costituendolo nella sua libertà. Se lo Spirito è libertà dalla finitezza naturale, questa libertà è la scienza, intesa come conoscenza spirituale. Scientia est libertas, si potrebbe riassumere con un aforisma l‟essenza dello Spirito umano universale. La conseguenza più importante di questa determinazione dello Spirito come pensiero è che la sua libertà, come movimento dialettico, è una libertà razionale, che non rinveniamo nelle manifestazioni spontanee della Natura, le quali sono prive di un fine morale in quanto destinate alla sola assoluta necessità, priva della “decisione” propria degli esseri coscienti. Rispetto a questa libertà cosciente, l‟idea della Natura è la “esteriorità” dell‟essere altro da quello cosciente del soggetto razionale. Rispetto alla aristotelica, che aveva in sé il proprio principio d‟essere, la Natura cristiana (ed hegelina) ha il suo principio nello Spirito assoluto, cioè in Dio, nella quale Totalità creatrice essa è un momento dialettico. Non si può parlare, però, di “disprezzo hegeliano della natura” o di “valorizzazione”, come ha fatto Loewith, 268 che intende il momento dialettico della Natura appunto alla greca, cioè astratto dalla sua sintesi spirituale, e quindi contrapposto all‟uomo e a Dio. Diversamente, invece, i tre momenti devono concepirsi nella reciproca sussistenza spirituale, ciascuno entro il Tutto. E‟ infatti questa loro reciproca relazione dialettica a impedire la loro assolutizzazione e contrapposizione puramente intellettiva di enti irrelati, ognuno dei quali perseguente un suo proprio fine e sviluppo indipendente. Questa “determinazione concettuale” è la condizione della concezione intellettualistica del mondo naturale, dell‟uomo e di Dio come enti giustapposti alla ricerca di una affermazione assoluta di sé a scapito degli altri. L‟idea di una creazione divina è consustanziale 268

Cfr. K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, cit., pag. 86.

128


al concetto di processo sintetico dello Spirito, la cui fenomenologia non è di tipo evolutivo, ossia tale da un elemento si passi o non ad altro, per cui sia concepibile una Natura senza l‟uomo, un mondo senza Dio e un uomo senza né Dio né Natura. Il contenuto del pensiero razionale è la relazione delle essenze ontologiche. Diverso è l‟atto intuitivo, che coglie l‟unità di senso del Molteplice, ma non la relazione degli eventi reali o ideali. L‟unità intuitiva dell‟Essere (come mondo, come storia umana o come Dio) non pensa il Tutto, non considerando il Molteplice come tale ma solo nella sua astratta unità. Ma, parimenti, anche il pensiero analitico, che descrive la relazione tra gli enti molteplici, è astratto in quanto non coglie l‟unità dell‟Essere, rimanendo in-definito non-essere. Pertanto, ogni concetto dell‟Essere come sé distinto dagli altri sé ontologici, pensa soltanto il suo essere in sé credendolo il Tutto. Ed è su questo residuo fideistico del pensiero astratto che si basa ogni metafisica razionalistica, compresa quella dello scientismo moderno, oggetto precipuo della critica fenomenologica di Husserl. 5. Anche per Cartesio, come per Hegel, l‟Essere è l‟Essere conoscibile, la cui verità ha il linguaggio della matematica, che egli distingue dalla falsa conoscenza dei sensi, che ci trasmettono un mondo apparente. Il metodo matematico, in quanto linguaggio della verità, non è proprio solo delle scienze naturali, ma di ogni conoscenza, per cui eisi Deus non daretur, esso rimarrebbe comunque valido. Ciò comporta che non è la fede in Dio a dare realtà di verità alla conoscenza che abbiamo della Natura, ma il metodo adoperato a tal fine. E perciò l‟adozione del metodo scientifico anche in ambito teologico e psicologico ha potuto affermarne la validità fuori della sua sfera originaria, naturalistica. Questa consapevolezza ha spinto, in tempi e modi evidentemente diversi, sia Hegel che Husserl ad affrontare la questione della validità di quel metodo naturalistico nella conoscenza in generale. Solo infatti affrontando la questione gnoseologica fondamentale si poteva pervenire a un concetto di verità 129


universale che, da un canto, consentisse il superamento della distinzione tra essere di natura ed essere di cultura che aveva riportato l‟uomo a isolarsi dal Tutto, e dall‟altro canto a riconsiderare la figura dell‟uomo come soggetto trascendentale e non come ente meramente accidentale circondato dal quel mistero del mondo che il cristianesimo aveva già svelato. Ora, se Husserl intende ridefinire l‟approccio teoretico soggettivistico nel senso della fenomenologia trascendentale, per quanto riguarda Hegel, va sottolineato che il suo proposito non era quello di riabilitare il primato del soggetto trascendentale, ma di definire un metodo, quello dialettico, che costituisse le distinte conoscenze degli elementi ontologici fondamentali (Dio, uomo e mondo) come momenti dell‟unica verità dello Spirito universale. Il metodo dialettico non è il linguaggio di Dio, o dell‟uomo o della Natura, ma il linguaggio comune a ogni essere particolare capace di coscienza. Rispetto alla posizione sintetica hegeliana, ogni teoria umanistica o teologica o naturalistica del mondo, è un ritorno del riduzionismo intellettualistico all‟assolutismo ontologico, che propone un metodo particolare come il metodo universale. L‟affermazione dello scientismo, sia dopo Hegel che nonostante Husserl, è legata al rifiuto ovvero all‟accoglimento del metodo dialettico astratto dal concetto di Spirito universale, con conseguente ripristino delle gnoseologie particolari. Non è un caso se ogni pensiero consapevole del primato teoretico del metodo scientistico, dietro l‟apparente superfetazione del reiterato approccio critico o demolitorio ai suoi fondamenti epistemologici, tende a ridefinire un nuovo metodo di conoscenza come verità da contrapporre alle certezze delle scienze empiriche. Il sostanziale fraintendimento del metodo dialettico come “sistema soggettivo di ragionamenti”, ovvero come una tecnica logicistica, non risale alla sola sinistra hegeliana e a Marx, 269ma anche allo spirito 269

Dell‟incomprensione della dialettica hegeliana ha ragionato con matura consapevolezza Gadamer, che fa risalire a Trendelenburg l‟errata idea di divenire il

130


anti-storico (e non solo anti-storicistico) della dottrina della Chiesa e dei suoi corifei, pressoché tutti concordi nel ritenere che “l‟ateismo contemporaneo, come radicalizzazione del cogito senza residui, rimanda soprattutto ad un pensatore e questo è Hegel”. 270 Ora, lo stesso Fabro ha asserito che “l‟essere nel mondo è, dopo il cogito, l‟unico orizzonte di quell‟esistente ch‟è l‟uomo”, 271mentre il pensiero di Hegel ha preso le mosse dal respingimento del cogito cartesiano, e poi kantiano e fichtiano, come pensiero della finitezza proponendosi come pensiero della mediazione e della relazione finitoinfinito. Lo spiritualismo hegeliano è esattamente la confutazione dell‟idealismo come astratto pensiero intellettualistico e soggettivistico dell‟Essere, così come si propone come il ripensamento dell‟idea di Dio come causa sui di tipo sostanzialmente fisicalistico aristotelico. Che il problema del soggetto, ossia della coscienza umana, sia centrale nella filosofia, non è qualcosa da revocare in dubbio, non foss‟altro perché costituisce l‟unico elemento variabile tra Dio e il mondo, che sono entità eterne per definizione. Il cui “malinteso si è esteso universalmente”, ereditato da Dilthey da Cohn, Hartmann e altri. Madame coglie il problema quando osserva che “ciò che deermina il progresso dialettico non sono le relazioni del concetto come tali, ma il fatto che in ognuna di queste determinazioni del pensiero si pensa il sé dell‟autocoscienza, che ognuna di queste determinazioni pretende di esprimere, e che perviene alla completa esposizione logica soltanto alla fine, nella „Idea assoluta‟. L‟automovimento del concetto che Hegel cerca di seguire nella sua Logica si basa allora completamente nell‟assoluta mediazione di coscienza e di oggetto che Hegel assume esplicitamente come tema nella sua Fenomenologia dello spirito. Essa prepara l‟elemento del sapere, che non è affatto un sapere della totalità del mondo. Infatti esso non è un saper antico, ma piuttosto, insieme al sapere del saputo, è sempre al tempo stesso un sapere del sapere. Questo è il senso della filosofia trascendentale a cui Hegel esplicitamente tien fermo. Solo perché l‟oggetto saputo non può venir mai separato dal soggetto che sa (il che significa che esso ha la sua verità nell‟autocoscienza del sapere assoluto) vi è l‟automovimento del concetto”: Id., Hegel e la dialettica antica (1961), tr. it. in La dialettica di Hegel, Genova, 1996, pag.10. 270 C. Fabro, Introduzione all‟ateismo moderno, cit., pag. 534. 271 C. Fabro, Op. cit. , pag. 624.

131


problema è se la natura umana vada definita in sé o attraverso la sua supposta natura derivata (divina o naturale). la possibilità che solo l‟uomo possiede di auto-coscienza, rende la sua posizione ontologica problematica, affrontabile a partire dalla rilevazione delle differenze da ciò che “è” indubitabilmente, ossia, ancora una volta, Dio e il mondo. Il dubbio metodico cartesiano segna appunto la base di partenza della coscienza come detrazione da essa di tutto ciò che essa non-è. La dimostrazione in negativo dell‟essere della coscienza, che mette tra parentesi ogni possibile suo contenuto oggettivo, risale già a Cartesio, perché inerisce alla stessa definizione a contrario dell‟essere coscienziale come realtà negativa. Tutto lo sforzo del pensiero postcristano è indirizzato a definire il soggetto in termini positivi, sicché dopo la visione naturalistica classica e quella teologica cristiana, la filosofia cerca una auto-fondazione del soggetto trascendentale. Dal momento che Dio è persona e la Natura è forma, il Soggetto non può che essere pensiero, se vuole essere qualcosa di distinto in sé. Questa definizione dell‟in sé del Soggetto di pensiero può avvenire attraverso la negazione dell‟altro-da-sé, o attraverso la sua inclusione. Nel caso della esclusione del diverso, il Soggetto si definisce nella sua assoluta negatività, che prelude a una sua risoluzione ontologica in ciò che nega. Nel caso invece della inclusione dell‟altro nel sé, l‟esito è l‟assolutizzazione anch‟essa negativa del sé, come abbiamo visto. E questi sono stati, rispettivamente, gli esiti del coscienzialismo cartesiano, che ha preluso al fisicalismo, e dell‟idealismo, che si è convertito in realismo. La strada battuta da Hegel è terza rispetto a quella esclusiva ed inclusiva, e di tipo relazionistico o dialettico, in cui tutti e tre gli elementi ontologici (Dio, uomo e mondo) venivano considerati non in sé ma in funzione del Tutto, ossia della relazione stessa di essi, e quindi la totalità non veniva più intesa come Dio o come Natura o come soggettività ma come Spirito, costituito da

132


ognuno di quei momenti. 272Il rifiuto concentrico di questa visione unitaria dell‟Essere come unità-distinzione del Tutto, ha ripiombato la filosofia nella zona grigia dell‟indefinito pensiero, la teologia nel culto dogmatico di verità istituzionalmente asseverate e protette, e il sapere empiristico alla stocastica delle congetturale delle verità a tempo indeterminato, ossia al generale ateismo, scetticismo e relativismo.. Il metodo dialettico hegeliano evitò l‟assolutizzazione di uno dei tre momenti del Tutto e con esso ogni forma di riduzionismo ontologico, foriero di insanabili contraddizioni e confutazioni logiche. Solo infatti mantenendo la distinzione delle essenze si poteva addivenire a una loro relazione metafisica, dialettica, e quindi alla verità del Tutto come platonica orthologhìa, nella consapevolezza che “invertire, o anche solo spostare, il luogo metafisico di un‟essenza, è un negare l‟essenza stessa e attribuire l‟essere e la verità al suo opposto”. 273La verità della dialettica hegeliana è che la verità è nel processo stesso della conoscenza, e non muove da un ente o da una essenza assoluta per emanarsi sugli altri enti o altre essenze derivate e relative. Il, si può dire, poli-centrismo ontologico della gnoseologia hegeliana è una traduzione in termini filosofici della teologia trinitaria cristiana, dove però le singole persone trinitarie vengono pensate come momenti essenziali del processo, per cui esse non sono più solo trascendenti ma 272

“L‟idea della logica hegeliana è una specie di ricupero del tutto della filosofia greca nella scienza speculativa. Per quanto infatti Hegel venga determinato dal punto di partenza della filosofia moderna che l‟assoluto è vita, attività, spirito, tuttavia non è la soggettività dell‟autocoscienza l‟elemento in cui egli vede il fondamento del sapere, quanto piuttosto la razionalità di tutto il reale, e quindi un concetto dello spirito come ciò che è veramente reale, concetto che lo inserisce completamente nella tradizione della filosofia greca del Nous che inizia con Parmenide”: H.G. Gadamer, Loc. cit., pag. 11. Bisogna aggiungere che il concetto naturalistico greco di razionalità viene superato nei moderni dal concetto cristiano di Spirito, che sposta il referente in direzione del Soggetto divino, che il razionalismo moderno (ma non Hegel!) riducono a mero soggetto teoretico, trascendentale o empirico che sia. 273 C. Fabro, Op. cit., pag. 566.

133


costituiscono la trascendenza. L‟idea strutturale o processuale di Dio, impediva di confinarlo, come poi avvenne, in un irrelato al di là, così come ne impediva la sua traduzione metafisica nella omnicomprensiva materia, come avvenne in Spinoza e in Marx. Hegel cercò di superare le distinzioni assolute tra le distinte coscienze, “religiosa”, “filosofica”, “scientifica”, in favore di un‟unica coscienza, quello dello Spirito universale. Ma il suo tentativo teoretico apparve ai detrattori come spiritualistico ovvero ateistico, in quanto la sua metafisica presupponeva il superamento, non solo ideale ma storico della realtà istituzionale, della realtà, cioè, che incarnava temporalmente, coi suoi pregiudizi e i suoi interessi, quel pensiero che egli aveva criticato e confutato logicamente. L‟esito del suo tentativo dimostrò inequivocabilmente la centralità della posizione dell‟uomo nel cosmo in quanto essere mediatore tra la verità ideale e la realtà fenomenica, concentrando viepiù l‟attenzione filosofica nella condizione umana, la più fragile e la più decisiva, ossia in tutto il dramma della sua finitezza e precarietà fuori della relazione dialettica nel Tutto. Ma dimostrò altresì quanto pesassero le incrostazioni istituzionali sul libero dispiegamento della ricerca della verità quale compito del pensiero filosofico. Non è dunque un caso che la crisi moderna del soggettivismo si sia accompagnata alla crisi della Chiesa e a quella dello Stato, segno che le loro distinte essenze, anche nella loro storica realtà, non possono sostenersi fuori della loro relazione dialettica. Il pensiero, la religione, la politica come valori in sé possono essere affermati nella loro assolutezza solo all‟interno di una costituzione formale che li determini come realtà strutturate autoreferenziali, ognuna perseguente un fine politico di conservazione economica di sé. Questa astratta determinazione del sé, fuori della Unità del Tutto, è a sua volta il portato di una istanza polemica precipuamente moderna verso ogni determinazione del Tutto come unità del Molteplice, a favore di una sua distinta e policentrica determinazione, riflessa storicamente nel sistema policratico del mondo-della-vita occidentale, per cui razionalismo teoretico e 134


policentrismo istituzionale appaiono nell‟esperienza culturale occidentale come i riflessi speculari di una paura del Tutto derivata dallo stesso pensiero razionalistico del Tutto come superfetazione assolutistica dell‟Unità dell‟Essere distinto auto-fondato. Ed è questo atteggiamento antropologico-culturale a tradursi e nel contempo a sostenere idealmente la risoluzione della vita occidentale nei termini riduttivi della fondamentale dimensione tecnica dell‟esistenza; ossia, rispettivamente, dello Stato ad attività economico-politica, del pensiero a ragione strumentale e della fede a pratica religiosa. Esiste un sottile filo rosso tra la paura della logica del concetto con la conseguente opzione relativistica dell‟ermeneutica della doxa, e il predominio dell‟ideologia utilitaristica con le sue democratiche superstizioni con sensualistiche, costituito dalla riduzione della dialettica a sofistica, per cui all‟autorità del vero si sostituisce la potestà della potenza.

135


II

1. Se l‟agire individuale ha un movente privato, ossia un fine individuale, l‟esito dell‟azione, il senso razionale dell‟agire, ha sempre un valore sociale, ossia una dimensione pubblica, per cui la lotta politica per il controllo sociale passa attraverso la definizione del valore socialmente rilevante. Per comprendere a pieno l‟impostazione filosofica di Husserl, dobbiamo tenere presenti quanto di sopra riportato del suo pensiero, che è giunto al concetto di “operazione intenzionale” come “presentazione” (Gegenwartingung). Questa possibilità della coscienza rientra nella facoltà che Gehlen (sulla scorta di Bergson e di Sartre) chiama “immaginazione”, definendola come “capacità vitale grazie alla quale il vivente si disloca rispetto al punto dello spazio e del tempo in cui si trova uscendo da se stesso e allontanandosene, senza di fatto muoversi da dove si trova”, e che egli identifica con la ragione stessa.274 Ma ciò che qui più rileva a proposito è la conclusione cui Gehlen perviene, ossia che per lui “l‟immaginazione”, anziché, come potrebbe sembrare, essere la facoltà più soggettiva possibile, invece “è autenticamente l‟organo sociale elementare” dell‟uomo. 275Cerchiamo di capire il perché. Così come il singolo non ha un comportamento diretto con se stesso, essendo che “il presupposto dell‟esperienza di sé è l‟identificazione 274

A. Gehlen Der mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940, 19504), tr. it. A cura di V. Rasini, Milano-Udine, 2010, pag. 381. 275 Ivi, pag. 383.

136


con un altro”, allo stesso modo”la coscienza del gruppo sorge per vie indirette, cioè con l‟identificazione di tutti i singoli in uno stesso altro”, che indichiamo con una x, assumendo un “atteggiamento conforme” che costituisce il “punto d‟intersecazione comune che trova il suo sostegno oggettivo nell‟identità del comportamento”.276 I membri di un clan “possono già costituire, simbioticamente, un gruppo. Ma spiritualmente divengono un „noi, questo gruppo‟ solo in quanto ognuno prende il ruolo di un altro e ognuno il medesimo”, ossia quella x in cui il gruppo si riconosce. In origine, la coscienza dell‟appartenenza al gruppo non si appaga affatto, come è per noi, di un sapere astratto o di una astratta rappresentazione cogente, bensì l‟esperienza vissuta del Noi viene realizzata, cioè personalmente ricreata per mezzo di un comportamento concreto avente per oggetto il tema “noi, questo gruppo”, in trasposizioni totali e reali […]. Il gruppo è esperito solo in quanto è nel contempo qualcosa d‟altro e di comune, e l‟agire in conformità ad esso. In tal modo, dando vita alla rappresentazione [x], questi individui si esperiscono come il gruppo degli [x]. […] Le sterminate quasi-comunità dei tempi moderni non consentono alcuna stabile identificazione: per i bisogni psico-vitali comunicabili dell‟uomo la nostra civiltà non ha nulla da offrire che possa adempierli. L‟astratta coesione del popolo è a tale proposito troppo vasta, la famiglia troppo esigua.277

L‟ “altro” di cui si tratta è una rappresentazione simbolica di tipo visivo, sensibile, e non di tipo ideale, astratto. Il principio di identificazione è lo stesso, ma cambia il tipo di rappresentazione simbolica. Il simbolismo sensibile riguarda forme di cultura prive di capacità astrattiva “applicata” ai fenomeni naturali, i quali sono imputabili solo di una causalità fisica. I fenomeni meta-fisici sono a loro volta spiegati attraverso una relazione astratta, anch‟essa sovranaturale, così che gli universi simbolici rispettivi restano irrelati e 276 277

Ivi, pag. 382. Ivi, pag. 383

137


auspicabilmente non interferenti. La figura del mediatore-sciamano è funzionale a regolare i possibili rapporti in senso non dirompente per il mondo fisico al quale appartengono gli uomini. La conclusione per cui l‟immaginazione sia “l‟organo sociale elementare”, va intesa nel senso che la rappresentazione simbolica x è la fonte normativa dei comportamenti socializzati, la cui conformità stabilisce il sentimento dell‟appartenenza al gruppo. La “identificazione” con “l‟altro” è mimetica, non ideale, per cui deve coincidere con un comportamento ritualizzato, che si esaurisce nell‟analogia con il modello significativo socializzato. La vera “identificazione” in senso immaginifico è un succedaneo ideale, mentre l‟identificazione reale è l‟imitazione canonica del modello. La differenza tra le due forme di identificazione è la stessa che tra il comportamento formale e quello teleologico. Il primo, formale, si esaurisce nella conformità dell‟azione al modello, secondo un criterio di aderenza estrinseca basata sulla imitazione. Essenziale qui è la reiterazione della forma canonica, alla quale vene assegnato il valore significativo, concentrato nella esecuzione fedele al modello prescritto. Il comportamento teleologico è a forma indeterminata o variabile, per cui preminente è il fine, a prescindere dai mezzi utilizzati, poiché si assume rilevante ciò che li trascende. Questo comportamento è possibile in una cultura che ha risolto il problema della relazione tra valori e prassi nel senso della conciliabilità e non temibilità. Il “mitico antenato” della tribù x al quale “si dedica il culto e si denomina dal suo nome”,278 era la personificazione del modello istituzionale o normativo, di tipo comportamentale, realmente rappresentato come maschera naturale (= animale totemico). Il costituiva il prototipo del comportamento assunto come modello da emulare attraverso la fedele imitazione di gesti ritualizzati. Il “processo” giuridico, e ogni altro comportamento di rito che abbia 278

Ivi, pag. 383.

138


valore contestualmente significativo, è una procedura canonizzata re iterativa di un modello archetipico omologato giuridicamente. Il transfert rituale dell‟attore che funge da comparsa, imita un comportamento tipizzato che rivive simbolicamente nelle parole e nei gesti dell‟interprete. Qui l‟identificazione è reale, non immaginaria, così come reale è il comportamento analogo di ogni membro del gruppo compartecipe allo stesso rito simbolico canonizzato. Ha ragione Gehlen a nn considerarla una “imitazione”,279 ma proprio perciò è difficile considerare l‟immaginazione “l‟organo sociale elementare”, poiché immaginaria è la relazione rituale giudicata dall‟antropologo, mentre l‟azione rituale identitaria è una identificazione reale. Ogni membro del clan x è un analogon del modello eponimo, ossia è un elemento della unità mistica del gruppo. Il rapporto identitario, quindi, non è “immaginario” ma mistico. Ed è appunto la relazione o l‟unità mistica “l‟organo sociale elementare”, come già aveva indicato Durkheim. L‟ “état imaginaire” di cui Sartre, è un transfert ideale, simpatetico, laddove il comportamento ritualizzato rivive una parte del simbolismo dell‟azione, una parte che è reale, non immaginaria: non c‟è dislocazione simbolica nell‟altro (nel modello), ma immedesimazione mistica, cioè identificazione, per cui ogni membro del gruppo è l‟altro, che si riunisce agli altri membri nell‟unità mistica del simbolo eponimo. (E‟ la ragione per la quale chiunque dia cibo al maledetto resta contagiato dal demone) L‟immaginazione è definita da Gehlen come la “capacità di trasposizioni globali”.280 Ma questa facoltà, che presume la volontarietà dell‟atto di transfert, non coincide esattamente con la “identificazione con un altro”, che è il presupposto invece dell‟esperienza di sé. Ciò che, infatti,costituisce un presupposto, cioè una condizione d‟essere, non può confondersi con un atto volontario secondario, come appunto quello di trasformare il sé in altro “nella 279 280

Ivi, pag. 382. Ivi, pag. 382.

139


situazione di un tangibile modello sociale”.281 Le “configurazioni sociali”, quali “il sentimento patriottico, il senso della famiglia, del proprio ceto”, o lo stesso “sentimento del diritto”, sono concetti altamente astratti [che] se li si accosta alla realtà, si trasformano in concetti connotati di una generalità media, e definiscono atteggiamenti consoni a una situazione determinata [ma che] non sono modi dell‟agire, sono bensì delle “stelle polari”, punti di riferimento inerenti all‟aspetto di crescita della vita, e pertanto sedimentazioni di esperienze sociali in quella peculiare evoluzione che si è concretata in uno stato ben definito. Caratterizzano perciò tanto gli atteggiamenti personali quanto anche il modo come le situazioni vengono dominate all‟insegna dell‟esemplarità e della normatività; e talune di esse, divinizzate, divennero oggetto di culto. Il loro medium, in tutto e per tutto, è l‟immaginazione. 282

Soltanto al di sotto della “doverosità condizionata dal sociale” l‟immaginario “comincia a perdere la sua volontarietà, a farsi cogente e a immagazzinarsi in ciò che costituzionalmente sostanzia la nostra esistenza sociale”.283 Non a caso Gehlen deve ricorrere a uno “strato più profondo dell‟immaginazione”, che chiama “immaginazione originaria”, consistente nel “solidale dirigersi di parecchi e diversissimi ordini di pensieri verso una meta comune”, che altro non è che la condizione mistica. Per spiegarla parte dalla “pressione evolutiva” dell‟uomo quale essere “disarmonico”, per chiedersi quindi “come deve annunziarsi questa tendenza nell‟uomo, nel quale la presa di posizione verso se stesso ingloba processi di crescita essenziali [entro i quali] prosegue l‟evoluzione organica […] di una coscienza straordinariamente esposta a perturbazioni”. L‟eccedenza di vita insita nella vita dell‟uomo, “non potendo operare nella direzione degli istinti”, si 281 282 283

Ivi, pag. 385. Ivi, pag. 385. Ivi, pag. 385.

140


dirige verso un “ambito della sua autorealizzazione” in cui le profonde “energie pulsionali” sono “messe a nudo” e, “corredate di immagini”, divengono l‟ “oggetto della presa di posizione”284 della coscienza. La coscienza viene definita da Gehlen come una “superficie”, alla quale sono “sottratti sia la natura in sé del mondo esterno, sia anche il come delle stesse realizzazioni vitali interne, nelle quali viviamo senza sapere, appunto, come il mondo interno e il mondo esterno siano in tutto e per tutto fenomeno”. Nessun aiuto ci giunge dal “concetto”, il quale, nell‟ambito del fenomeno vitale, “non coglie per nulla ciò di cui lo crede capace la volontà di comprendere”, poiché “la coscienza è per principio volta all‟esterno e, in questo senso,superficie”, e quindi “mai può essere raggiungibile una corrispondente rappresentazione di quello che accade” in essa.285 Da qui derivano i “limiti della coscienza” umana, e lo stesso “senso” avvertito dall‟uomo di una “responsabilità incomparabilmente grave, ma al tempo stesso [senza] possibilità alcuna di sapere in che peculiarmente consista il compito, appunto perché vi si troverebbe coinvolto”.286 Stabilità l‟incapacità della coscienza a rapportarsi ad alcuna anamnesi interiore che non sia l‟oggetto di un vissuto, e cioè un riepilogo mnestico di esperienze “esterne”, Gehlen giunge ad affermare l‟inconsapevolezza dello stesso agire umano, ossia l‟infondatezza di ogni pretesa di controllo razionale delle pulsioni,, e quindi l‟insostenibilità antropologica dell‟essenza razionale della natura umana. Se già ignoriamo come avvengano le nostre azioni e le nostre attuazioni, a maggior ragione ignoriamo come attraverso esse si costituisca e si dissolva, nell‟arco forse di millenni, un qualche problema metabiologico. Però un “presagio” di un coinvolgimento di indeterminata profondità in ciò che è in 284 285 286

Ivi, pag. 386. Ivi, pagg. 386-387. Ivi, pag. 387.

141


gioco nel processo vitae potremmo assolutamente averlo, e in questo preciso punto si configurerebbe la immaginazione originaria.287

Nelle “società primitive” possiamo osservare che la loro “ossatura” culturale è costituita dalla “categoria dell‟obbligo indeterminato”, la quale costituisce la “idea guida del fissarsi non razionale e insieme evidente” del sovrappiù energetico vitale. La tesi di Gehlen è che nella “dimensione filogenetica” la “comune origine” della immaginazione e della “organica energia formatrice” provoca nell‟uomo un “processo” che “entra in rapporto con se medesimo”, in modo tale che “nel suo punto di contatto con la coscienza l‟immaginazione ci delineerebbe delle immagini di una vita intensificata certo inadeguate, ma concrete, trascinanti”.288 Queste “immagini” costituiscono la rappresentazione che ne fa l‟arte, la quale Parla interamente alla immaginazione, introduce cioè un processo di “trasposizione” son nell‟indeterminata profondità dell‟immaginazione originaria, che nell‟immagine si fa distinta e pensabile, [originando] una comunicazione fra strati che nell‟uomo sono di solito inespressi e non detti, e una realtà che sta dinanzi agli occhi. Ma proprio la consapevolezza della “immagine”, dell‟irrealtà consente di “permanere” in questo movimento senza trovarlo inadeguato, come invece avverrebbe per il mero movimento dell‟immaginazione rispetto alla realtà.289

In questa teoria si palesa chiaramente la posizione ideologica di Gehlen, mirante a prospettare una realtà organica primordiale e comune al vivente dalla quale l‟uomo si allontana per costituzione biologica ma alla quale egli tende attraverso i correttivi della sua coscienza empiricamente orientata. Alla fonte originaria della vita egli tende, nondimeno, per via intuitiva, riportandosi immaginativamente 287 288 289

Ivi, pagg. 387-388. Ivi, pag. 388. Ivi, pag. 391.

142


al modello ideale di un‟umanità sublimata, che trova nei protagonisti della natura non emancipati (ma bensì integrati), cioè negli animali, gli esponenti privilegiati e antropologicamente invidiati. Il modello della bellezza esteticamente evocato dalle sublimi forme plastiche dell‟arte è un uomo che sopravanza l‟umanità imperfetta, e che ritrova la sicurezza che non trova nell‟animale deificato, simbolo di una “perfezione non umana e interpretata dalla sua immaginazione come sovrumana”, dove non compaiono la “disarmonia e il penso” delle “rischiose complicazioni” dell‟esistenza umana, che “non compaiono nell‟agevole, sicura, quieta vitalità dell‟animale, il quale è divino sotto il riguardo della forza composta e segreta della sua esistenza”.290 Tesi a dir poco singolare, che acclara, con la profonda suggestione scavata da Nietzsche nello spirito tedesco nella crisi della civiltà europea, anche un profondo rigurgito barbarico da parte di un tenace detrattore della civiltà moderna (o forse della civiltà tout-court), che denuncia nei processi razionali dell‟uomo dei limiti e nell‟umana socialità una deviazione dis-organica dall‟alveo naturale dell‟um-Welt animalistico. Infatti Gehlen, anziché vedere nel simbolismo animale la proiezione analogica dei caratteri umani estetizzati, e nell‟arte il rimpianto della simbiosi originaria con una natura idealizzata quale madre comune, egli vede nel primigenio stadio informe dell‟Essere indistinto l‟archetipo al quale l‟inconscio artistico attingerebbe e nel quale l‟umanità si riconoscerebbe. 2. La teoria di Gehlen è paradigmatica per due essenziali ragioni. La prima ragione riguarda la specularità rispetto all‟intimismo husserliano di una ricerca volta tutta all‟esterno, sul versante dell‟azione, la quale giunge per questa via a ritrovare nell‟esperienza umana una fondamentale incompiutezza biologica, non superabile con gli accorgimenti spirituali di una ragione che non può che essere

290

Ibidem.

143


imperfettamente mimetica rispetto ai modelli irraggiungibili dell‟idealtipo naturalistico. La seconda ragione attiene invece precipuamente alla risposta filosofica implicita in questa teoria antropologica, la quale risposta delinea un quadro critico della civiltà moderna diagnosticato sulla base di presupposti esterni a quella civiltà, ritenuti più profondi e radicali, tali da sconfessare l‟operato umano di intere epoche storiche e da suggerire perciò di conseguenza una svolta culturale che è insieme rottura e fuoriuscita, ossia la necessità di una “rivoluzione” epistemologica che superi l‟indagine analitica condotta con gli strumenti della scienza empirica, attraverso l‟abbandono della prospettiva teleologica che costituisce il presupposto dello storicismo. La circostanza che a questa conclusione, comunque formulata e denominata, pervengano, insieme a quello di Gehlen, anche pensieri così distanti e a volte opposti, quali quello di Rousseau, di Marx, sul terreno della prassi, e di Husserl e di Heidegger sul terreno teoretico, deve indurci a riflettere sulla opportunità di riconsiderare il concetto di rivoluzione alla luce di ciò che questi varii pensieri hanno in comune, al di là delle evidenti differenze. E quanto essi hanno in comune, e che sottosta alle loro rispettive differenze, è l‟idea che l‟unità dell‟Essere, conseguibile idealmente, possa – e quindi debba – avere un “rispecchiamento” pratico nel mondo fenomenico. E poiché il mondo fenomenico è caratterizzato dalla Molteplicità, questa può – e debba – essere superata, in vista di un rispecchiamento analogico con l‟unità ideale, trasformando il mondo reale nel senso della realtà ideale. All‟origine di questo “rispecchiamento” del teoretico nel pratico c‟è l‟identificazione anti-metafisica dell‟essenza con il fenomeno, secondo la quale l‟essenza di un fenomeno non è altro che l‟apparire del fenomeno stesso, per cui il fenomeno e la sua essenza costituiscono una unità teorica organica, che va salvaguardata e garantita anche effettualmente. Questa istanza di unità teorico-pratica costituisce il concetto filosofico di rivoluzione, razionalistico per eccellenza e anti-storico per essenza in quanto esclude per principio 144


ogni mediazione tra l‟essenza e la sua apparizione, ma che alligna nel terreno stesso dello storicismo immanentistico, sul quale è germogliato il frutto decadente del relativismo. Da un lato abbiamo le scienze dello spirito, discipline storiche con fondamento sociologico, per le quali è un tema legittimo l‟indagare la posizione di una determinata [attività spirituale] nel nesso con la struttura di una società altrettanto univocamente circoscritta. Un sistema direttivo [= sistema di un‟istituzione] è una parte integrante del complessivo sistema delle istituzioni proprie a questa società. Tali scienze sono empiriche scienze specialistiche. Dall‟altro lato abbiamo i tentativi di venire in chiaro del significato generale che la religione, il diritto, ecc. rivestono per l‟uomo, e questi tentativi concludono sempre con il sussumere sotto il concetto gli effetti psicologici o psicobiologici di tali idee sulla interiorità dell‟uomo; e non è un caso, ma una necessità, che si servano dei modi di pensare teleologici. I due aspetti sono giustapposti e irrelati. E‟ pertanto necessario, se vogliamo fare dei passi innanzi, cercare il loro presupposto comune. 291

Per Gehlen, “la coscienza storica è questo presupposto”. Secondo tale coscienza, linguaggio, diritto, religione, costume, arte sono fatti storici che, sorti storicamente dal cooperare degli uomini, si rendono autonomi rispetto a questi costituendosi in peculiari mondi e, in periodi ora lunghi ora brevi, si trasformano mantenendo tuttavia la loro riconoscibilità. […] Questa coscienza storica, divenuta nostro stabile patrimonio, è complessivamente un risultato dell‟illuminismo, [il quale] fece della realtà spirituale, densa sino ad allora di risvolti emotivi e di implicazioni etiche, un cosmo di “idee”, cioè di rappresentazioni che stanno sullo stesso piano di altri concetti della mente umana e che è possibile indagare con interesse da un versante neutrale. La concezione che attribuisce alle “idee” religiose degli effetti psicologici è

291

Ivi, pag. 456.

145


inseparabile dall‟altra, che ne scorge il variare secondo i tempi, i popoli e i loro ordinamenti.292

Da queste premesse, dice Gehlen, discende la tendenza a considerare le civiltà “di popoli esotici o primitivi” come “oggetti” di analisi, che peraltro la “coscienza non intaccata dalla mentalità illuministica” considerava, alla luce della sua verità di fede pre-teorica, alla stregua di “dottrine erronee, pagane superstizioni o, al più, bizzarre insensatezze”, e come tali rigettate. In una coscienza, nella quale i contenuti religiosi, giuridici, morali valgono come realtà, cioè determinano comportamento come motivi, […] quei contenuti concorrenti che siano addotti dall‟esterno compaiono parimenti come motivi, provvedono cioè, in forza della loro peculiare, intrinseca dinamica, un rifiuto o un assenso, non già un interesse oggettivo, tributato alla cosa neutralmente riguardata.293

Le conseguenze di tale impostazione realistica furono filosoficamente devastanti, in quanto la “mentalità razionalizzata” dell‟illuminismo finì per essere applicata retroattivamente alle stesse peculiari persuasioni che esso aveva vissuto come realtà [le quali] furono esse stesse storicizzate, cioè l‟evidenza della loro validità si congiunse non più con la realtà immediata dell‟esperienza sociale e naturale, ma cercò un sostegno nel materiale malsicuro e cangiante della storia. Questa fase fu rappresentata da Hegel. 294

Ma le conseguenze del retaggio illuministico non finirono qui. Infatti, le originarie motivazioni che sostenevano la credenza razionalistica persero il loro vigore morale e, soggettivizzandosi, si trasformarono in “idee”, come appunto avvenne con Kant. 292 293 294

Ivi, pagg. 456-457. Ivi, pag. 457. Ivi, pag. 457.

146


Tra una coscienza, alla quale i contenuti religiosi, morali e giuridici appaiono in quella singolare posizione intermedia tra essere e dover essere, che loro inerisce finché essi sono nel contempo categorie della concezione del mondo e principi strutturali di istituzioni, e una coscienza in cui questi stessi contenuti sono oggettivati a rappresentazioni, e perciò, al tempo stesso, vissuti come soggettivi e revocabili, corre una straordinaria differenza. 295

Infatti, fin quando le due prospettive “interferiscono nella medesima coscienza”, avviene un tormentoso travaglio in cui “la ragione entra in dissidio con se stessa”, poiché “il proprio mondo spirituale ereditato dalla tradizione si situa ora alla stessa distanza ottica in cui si rende visibile l‟intero novero delle idee storico-sociali”, che la “ingenua fede nella verità” aveva rigettato o non considerato “verità possibili”. Ma allorquando il conflitto della coscienza diventa esso stesso oggetto della riflessione e si stabilizza come problema che da gnoseologico diviene metafisico, nella zona in cui le due figure della coscienza interferiscono, sorge in tutta la sua forza dirompente la questione se tutti quei sistemi direttivi, tanto palesemente eterogenei, possono essere verità, se appunto la verità si presenti al plurale o se, invece, in queste cose non si diano che illusioni, assai opportune forse, con una certa utile funzione fabulatoria, ma tutta via tali che proprio noi, con le nostre persuasioni ultime, se mai ancora ne avessimo, saremmo gli ingannati. Ma, se nulla è vero, non è allora tutto consentito? E‟ questo il problema del relativismo […] che ha dissolto la filosofia. Esso scaturisce, esattamente come le antinomie kantiane, dall‟interferenza di due diverse strutture di coscienza,

che Gehlen ha rappresentato come quella dell‟ “illuminismo” e quella della “religione tradizionale”.296 La “via battuta da Hegel” fu quella di risalire, attraverso una “indagine sulle figure storico-sociali dello 295 296

Ivi, pag. 458. Ivi, pag. 458.

147


spirito” a “persuasioni definitive”. Ma fu Dilthey a compierla, indicando il modo come la compiuta coscienza riflessiva fa propri (in lui, lo psicologo) impulsi spirituali ancora tradizionali, ancora immediati, [rimuovendoli] prima che riescano a diventare azione, nella riflessione, dove finiscono per allinearsi tra le “comprese” idee estranee che affluiscono (a lui, lo storico) da ogni dove. 297

Anche quella di Gehlen, come già quella di Husserl, si costituisce dunque come una risposta alla deriva relativistica conseguente alla prospettiva storicistica aperta da Dilthey, la cui “via non ha consentito di superare il relativismo”. Il “motivo” di tale fallimento è da ricercare per Gehlen “nella struttura della coscienza storica stessa, nel suo avvalersi cioè di rappresentazioni”. Infatti, secondo Dilthey, “l‟esperire un proprio stato e l‟imitare uno stato altrui sono, nella sostanza del processo, consimili”, mentre in realtà “non c‟è abisso più incolmabile di quello tra la volontà rappresentata e la volontà reale”.298 La questione decisiva, anche per Gehlen come già per Husserl, non è quella di inverare in una coscienza superiore le preziose intuizioni della riflessione diltheyana, ma di abbandonare la strada dello storicismo per intraprendere la definizione di nuove forme di pensiero meta-storiche, risalenti alla struttura essenziale dello “spirito” (Husserl) umano, ovvero della sua “natura” (Gehlen). Da qui la critica allo scientismo e l‟approdo a una prospettiva ontologica. La stupefacente capacità degli uomini moderni di calarsi con il pensiero sin nei articolari della visione del mondo di popoli lontani o estinti può essere messa a frutto in una duplice direzione. Da un lato, essa serve come metodo della pura analisi oggettiva, scientifica dei sistemi culturali. […] La relatività dei valori, dei costumi, delle istituzioni e delle idee-forza si disvela 297 298

Ivi, pagg. 458-459. Ivi, pag. 460.

148


propriamente e pienamente solo nel vasto campo delle scienze etnologiche e sociali […].299 Diverso l‟atteggiamento della scienza dello spirito d‟indirizzo diltheyano di fronte al vasto materiale che si è reso storicamente osservabile e psicologicamente comprensibile. Qui l‟analisi delle visioni del mondo rappresenta in modo sistematico l‟assenza di una fede in simboli guida, e i sistemi direttivi e le idee-forza, proprio in seguito a questo difetto di fede, che è però un bisogno di fede, appaiono come “verità possibili”; in queste intellettualmente ci si trasferisce ed è possibile riattuarle [ossia, riattualizzarle] in una riappropriazione virtuale, con la speranza che questa assimilazione passiva di contenuti vitali meramente rappresentati renda possibile pervenire finalmente a un punto d‟osservazione definito in termini di “sovranità dello spirito rispetto a ciascuna di esse”. 300

Ma il tentativo di ricercare delle “molle propulsive” giustificative della condotta umana è per Gehlen “senza speranza”, dal momento che lo “stato di riflessione” di per sé non consente che “le idee rappresentate e riecheggiate possano diventare realmente dei motivi”. Gehlen spiega tale “fallacia” intrinseca alla riflessione nei termini seguenti. Nella psiche moderna, iperconsapevole e isolata, tutti i contenuti divengono sì consapevoli, ma nella sfera dell‟opinare e del rappresentare, e proprio per questo vengono reificati e depotenziati, pressoché svuotandosi di motivazioni. Appunto questo atteggiamento induce ad affermare l‟incondizionata preminenza dello spirito (di questo spirito), giacché la riflessione, vagante – unico residuo – da un oggetto all‟altro, può allora apparire come la “sovranità dello spirito” […] cui si perviene se si attraversano nella rappresentazione tutte le Weltanschauungen possibili [e che] consiste semplicemente nel poter compiere tale traversata.301

299 300 301

Ivi, pag. 460. Ivi, pag. 461. Ivi, pag. 461.

149


Ma questa teoria “non persuade” Gehlen, poiché “la riflessione non può riflettere se non rappresentazioni”, per cui la stessa “sovranità dello spirito” non è altro che “la pura ipostatizzazione dello stato di riflessione come tale”.302 A giustificazione di queste asserzioni, Gehlen fornisce una spiegazione a noi familiare e che trova la sua fonte nella sociologia della cultura di Mannheim. Le scienza della cultura e dello spirito possono essere esercitate con successo come vere e proprie discipline empiriche da quando […] nella coscienza del pensante le verità e i valori un tempo dogmatici, ritenuti cioè realtà metafisica, sono, almeno virtualmente, scossi. Prima che ciò avvenga [ossia, al tempo della credenza metafisica] è rigorosamente impossibile concepire idee-forza estranee e difformi dalle proprie se non come dottrine erronee, ed è perciò impossibile indagarle con quel “disinteressato interesse” che si annette al‟effettuale. Morali e religioni estranee diventano attuali nella rappresentazione allorché è quantomeno avviato la soggettivazione delle proprie persuasioni, allorché queste hanno già cominciato a farsi in certo modo fluide nella dimensione soggettiva (psicologica) e storica. 303

L‟origine del relativismo, secondo Gehelen, è dovuta esattamente alla “imbarazzante aporia” nata dalla interferenza, nella coscienza individuale, della “struttura della coscienza metafisica”, per la quale “una sola sia la verità”, con quella della “coscienza empirica”, che invece constata “la pluralità, la contraddizione anzi delle religioni, delle morali e dei sistemi giuridici”.304 Lo storicismo, privo com‟è di un orizzonte ontologico, non sa andare oltre tale aporia, di cui pure era consapevole. In verità, la filosofia di Dilthey cercò effettivamente di “sfuggire a questo dilemma”, tentando di “rimuovere e conservare entrambi i tipi di coscienza in una riflessione superiore”, la quale però 302

Ibidem. Ivi, pag. 462. Su questo concetto, e sull‟aggettivo che lo caratterizza icasticamente, ha costruito le sue fortunate teorie sociologiche della contemporaneità il sociologo polacco Z. Baumann. 304 Ibidem. 303

150


manca di ogni contenuto, giacché “tutti i contenuti si trovano nelle due strutture al di sopra delle quali si eleva”. Infatti, quando si è “analizzato un buon numero di società o culture, nasce poi il bisogno di concetti generali”, e in questi casi “la forma più ovvia di pensiero è quella teleologica”,305 la quale, come abbiamo visto, è invalsa soprattutto nelle scienze etnologiche e sociali, dove le “idèes directrices” dei sistemi culturali appaiono in modo parziale rispetto alla loro unità ideale, il cui “nesso” viene ritrovato in una “integrazione storicamente unica”306 di tutti i lacerti documentarii. Per “venirne a capo”, occorre dunque “muovere da quell‟aporia”, e cioè “dall‟interferenza di due istanze spirituali che si presumono eterogenee”, facendo ricorso alla “indagine filosofica intorno alle categorie dell‟esistenza e del comportamenti umani”, a partire dal “tracciare un‟esatta linea distintiva tra le due istanze dello spirito”. Questa linea di demarcazione “non corre affatto fra la coscienza tecnico-strumentale e quella storico-psicologica, come ci suggerisce la distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito”, ma tra queste due, che “rientrano in uno stesso ambito”, quello appunto delle rappresentazioni, e la “coscienza ideativa, che in se stessa è ascientifica (e non semplicemente anti-scientifica)”.307 L‟essenziale tratto comune alla coscienza strumentale e alla coscienza storica è il loro non poter porre scopi ultimi e il fatto che da esse non scaturiscono comportamenti in cui si tenga fermo a scopi ultimi. In senso stretto, la coscienza storico-psicologica può esser fatta risalire a una trasformazione della vita interiore indotta dalla decadenza delle istituzioni e dalla disintegrazione sociale, di contro alla quale rappresenta una dinamica di compensazione. Tale disintegrazione è stata a sua volta alimentata dallo scatenarsi senza limiti dell‟atteggiamento strumentale. 308 305 306 307 308

Ivi, pag. 462. Ivi, pag. 460. Ivi, pag. 463. Ibidem.

151


Rappresentare perciò istituzioni quali la famiglia e il diritto come “sorte da un agire razionale sotteso da uno scopo” è “naturale” fin quando si ritengano “ovvie quelle due forme di coscienza”. Tale metodo “approda allo schema” di Malinowski degli “istinti presupposti, i quali vengono soddisfatti da un comportamento consapevole dei propri scopi”; ma non di meno esso è “completamente fallito”, poiché “non fa che spiegare quanto ha già presupposto”.309 Il tentativo di autori quali Bergson e Scheler, volto a “comprendere tali istituzioni in base a una primaria, soggettiva conformità a uno scopo” attraverso un “procedimento” di riduzione di una sfera spirituale al “contenuto delle sue rappresentazioni”, mostrando il suo influsso, quale “funzione fabulatoria”, sulla “soggettiva vita interiore dell‟uomo”. Ma anche questo tentativo è destinato al fallimento, poiché rientra nella “rappresentazione storico-psicologica” cara a Dilthey, la quale “non riesce a dar conto delle istituzioni oggettive e delle categorie che vi sono insite”.310 Questi metodi non sono soltanto “fallaci” ma anche teoreticamente “pericolosi” per il fatto che possono “compromettere il pensiero teleologico in generale”, che invece rimane “indispensabile” a definire una “terza forma” di pensiero, quella appunto “ontologica”, che sarà “accessibile” solo “prescindendo” dalle altre due forme di pensiero.311 Ed è qui che Gehlen incontra la lezione di Husserl, sia pure nella situazione storica di una riabilitazione ideologica dello scientismo, del quale Husserl aveva dichiarato la “crisi”. La coscienza empirica ovvero oggettivistica degli uomini o, per meglio dire, l‟aspetto strumentale del loro spirito, grazie ai suoi successi imprevedibili, 309 310 311

Ivi, pag. 464. Ibidem. Ibidem.

152


mai sinora raggiunti nella storia e starei per dire ontologicamente casuali, è entrato a quel che pare in una fase di proliferazione che corre parallela alla proliferazione senza limiti dell‟impulso al possesso e al consumo, [anche se, aggiunge significativamente Gehlen,] la funzione della coscienza strumentale non consente però di misurare compiutamente l‟ambito dello spirito umano [attraverso] l‟ipotesi secondo la quale la moderna coscienza storica, che si esprime nel rappresentare, nel “comprendere”, nell‟appropriazione e descrizione psicologizzante [che] si affianca a quella strumentale, essendo emersa contemporaneamente ad essa come una sorta di retroazione. 312

Non fu per caso che “la lotta tra le scienze della natura e le scienze dello spirito […] non ebbe che un superficiale rilievo filosofico”; infatti essa non coinvolse l‟aspetto essenziale a chiarire la natura ideale degli “atti spirituali” e dei “comportamenti” pulsionali che sostanziano quella coscienza, già indicata come “metafisica” e che conviene ora chiamare “con il più consono nome di Ideativa”, la cui caratteristica si rivela nella sua “energia creativa” di “istituzioni”, che sono fondate su “idee-forza”, delle quali la “coscienza strumentale” non riesce a dare ragione, poiché essa può applicarsi soltanto alle “categorie della materia inorganica”, sfruttando “la natura così come la coscienza comprendente sfrutta la storia”.313 Le due dimensioni spirituali non sono componibili ma anzi sono “tendenze antagonistiche” all‟interno dello spirito umano, dove “ognuna guadagna terreno a spese dell‟altra”.314 Ma di che tipo è tale “lotta” tra opposte istanze spirituali? La ripugnanza reale [secondo l‟espressione che Gehlen riprende da N. Hartmann] non è una contraddizione logica, bensì uno scontro di tendenze o determinazioni contrapposte, che consiste nel loro effettivo conflitto […]. Il conflitto tra dovere e inclinazione è un esempio particolarmente noto di quei conflitti reali che ricorrono nella vita spirituale d‟ordine superiore; ciò 312 313 314

Ivi, pag. 465. Ivi, pag. 465. Ivi, pag. 466.

153


avviene allorché la determinazione individuale del sentire entra in collisione con l‟obbligazione sociale, [provocando uno scontro di] funzioni tali che l‟una tende a inibire l‟altra o persino a distruggere l‟altra. [Nondimeno] esistono atti della coscienza ideativa non strumentali e ben determinati, dai quali si sviluppano delle istituzioni.315

L‟esempio più significativo di tali istituzioni, una delle poche istituzioni culturali veramente universali per l‟uomo, è il totemismo, o “culto sociale di un animale”, in cui il “concetto oggettivo” di unità sociale viene portato alla coscienza “molto prima che non sia astrattamente pensato”, attraverso una identificazione e imitazione reciproca dei membri di un gruppo con “uno stesso non-io”, che è esterno al gruppo, andando a costituire così “la realizzazione più primitiva, ancora indiretta dell‟autocoscienza”. Identificandosi con un non-io, il singolo perviene per contrasto a un senso di sé cui può tener fermo nella rappresentazione (Darstellung), più o meno fermamente, di un altro essere. La coscienza primitiva, volta all‟esterno, diviene autocoscienza solo in via indiretta, cioè nel processo della rappresentazione di un non-io e nell‟oggettivarsi, grazie a tale rappresentazione, del proprio Sé, che è rappresentato da un che d‟altro. […] Ora, questa figura della coscienza è una figura sociale, che potrebbe anche essere realizzata nel diretto rapporto degli uomini tra loro, nella “imitazione reciproca”.316

Rispetto a un rapporto di imitazione diretto e comune, l‟esperienza indiretta del “Noi” ha emotivamente “una portata assai più vasta” e “appartiene a una riflessione di specie superiore, che la coscienza volta all‟esterno è in grado di raggiungere soltanto se interviene un comportamento in sé riflessivo”, consistente nell‟ “incorporarsi in un che d‟altro”, per cui il concetto di gruppo pensato in questa modalità 315 316

Ivi, pag. 466. Ivi, pag. 468.

154


indiretta “si collega al punto di riferimento dell‟intera struttura”, che è appunto “l‟animale-totem”, che del gruppo rappresenta “l‟origine comune ed esclusiva”.317 L‟idea di una discendenza comune “è naturalmente falsa o fittizia (come del resto la maggior parte dei posteriori miti genealogici)”, ma la sua importanza risiede nel fatto di costituire il “concetto evidente” di gruppo, al quale si possono collegare “vissute esperienze di obbligazione” che l‟astratto concetto di gruppo non potrebbe comportare, per cui “si ingenera così, forse per la prima volta nella storia dell‟umanità, una coscienza della comunità oggettiva grazie appunto all‟identità dell‟autocoscienza di tutti”.318 E‟ difficile alla “coscienza moderna”, che tende a “isolare incessantemente il singolo”, rendersi conto del “contenuto intrinseco” di questa condizione collettiva, che si è in seguito sviluppata “sin dentro le religioni trans naturali” ma che nelle culture primitive dello “stadio preistorico” dell‟umanità consentì lo sviluppo della coscienza della “oggettiva unità del gruppo” sociale, rappresentata appunto “plasticamente” dall‟idea della “comune discendenza dallo stesso animale”.319 Lasciando da parte qui la questione, affrontata in altro luogo, circa l‟essenza di questa immedesimazione sociale, quello che è rilevante ai fini del discorso che stiamo facendo è la natura ambivalente delle “strutture produttive della coscienza”, le quali, secondo Gehlen, non sono produttive “soltanto sul piano teoretico, ma anche sul piano pratico”, poiché esse sono produttive in continuazione di “punti d‟avvio sui quali si orienta il bisogno d‟obbligazione”.320 In altri termini, producono valori morali e principi etici.

317 318 319 320

Ibidem. Ivi, pag. 469. Ibidem. Ivi, pag. 469

155


A questo punto occorre chiederci in cosa consista l‟obbligazione e quali siano i suoi contenuti essenziali. “Non v‟è obbligazione – afferma perentoriamente Gehlen – che non contenga nel suo nucleo un atto di autolimitazione”, che egli chiama ”atti di auto inibizione”, i quali sono a suo dire “sempre di natura ascetica” e considerabili “sotto due aspetti” essenziali. In primo luogo, essi esprimono il fatto che l‟uomo si trova di fronte a se stesso,

tema in se stesso della sua forza di volontà. L‟uomo è l‟essere che prende posizione verso se stesso e perciò contro se stesso, e si impone un comportamento specifico verso l‟esterno in luogo di un altro parimenti possibile. In secondo luogo, la riduzione degli istinti nell‟uomo, che è il contraltare della sua coscienza e della sua plasticità pulsionale, comporta in pari tempo una profonda carenza di meccanismi inibitori autenticamente istintivi. Come essere naturale l‟uomo è virtualmente privo di inibizioni. L‟ascetismo, di conseguenza, è una delle manifestazioni fondamentali del dover l‟uomo fare spiritualmente i conti con la propria costituzione ed è perciò, come già vide Durkheim, “un élément essentiel” della religione. 321

Nel nostro caso, “le esperienze d‟obbligazione” che sono “vissute dalla coscienza” sono collegate a un elemento “esterno”, trovando nell‟animale-totem “il punto d‟avvio per un comportamento ascetico consistente nel porre un‟inibizione” di non mangiare né uccidere lo stesso animale totemico.322 Il “metodo del comprendere, della riattuazione psicologica” può farci rivivere quel comportamento inibito, ma segna il suo limite insuperabile nel poter “riconoscere solo che tale comportamento è una possibilità fra tante, e appunto così dissolve la sua qualità di valore in sé in senso relativistico”.323 Diverso

321 322 323

Ivi, pag. 469. Ibidem Ivi, pag. 470.

156


è il caso di “un agire che abbia in sé la qualità della doverosità”, il quale, diversamente dal primo, è un agire esclusivo e cresce precisamente sull‟attiva inibizione di altre possibilità. L‟unica via per comprendere delle volizioni è pertanto la sua riattuazione reale e perciò il reale trascendimento di un comportamento meramente rappresentato. Quelle conseguenze effettive che discendono da un reale comportamento di gruppo non si possono desumere quindi né con la comprensione psicologica né mettendo dall‟esterno in rilievo, empiricamente (sociologicamente), le nuove trasformazioni che ora si manifestano. Ne viene che la ricerca deve muoversi ora sul piano filosofico; essa cioè non può avvalersi che di categorie ontologiche. 324

Il percorso teoretico di Gehlen segna dunque una svolta rispetto alla prospettiva storicistica, in quanto tralascia definitivamente l‟ipotesi di una “scienza” storiografica, che ancora era viva negli epigoni come Croce, che la rivendicava rispetto al puro soggettivismo di Meinecke, a favore di un ritorno al filosofare come ricerca del sapere ontologico. Ma, diversamente dalla tradizione razionalistica, la metodologia di Gehlen non intende rinunciare alla storicità come condizione esistenziale del vissuto e della precipua esperienza umana, per cui la sua analisi categoriale parte dai dati reali per spiegarne le ragioni essenziali, ossia la loro determinazione necessaria. Una categoria con la quale possiamo avere ragione filosofica del fenomeno totemistico è quella della “opportunità oggettiva secondaria”, grazie alla quale possiamo renderci conto del comportamento che fece del totemismo “l‟istituzione guida per molti millenni”. A dare al totemismo questa possibilità, fu “una oggettiva ed espansiva opportunità immanente [al relativo] comportamento, la quale si rivelò solo allorché esso fu realmente attuato”.325

324 325

Ibidem. Ivi, pag. 470.

157


Attraverso quel comportamento, i singoli membri del gruppo che si identificano con lo stesso animale-totem scoprono a) la propria autocoscienza e b) la fanno convergere in quella di tutti. Il divieto comune di uccidere e di mangiare l‟animale totemico si traduce in una obbligazione, cioè in un “agire ascetico”, il quale Impedisce al tempo stesso l‟omicidio e il divoramento dell‟assassinato all‟interno del proprio gruppo, essendosi ogni singolo appunto identificato con il totem rispetto a ogni altro singolo. Ciò significa che l‟unità del gruppo, divenuta rappresentabile, la produce effettivamente in forza delle consequenziali obbligazioni insite in questo comportamento, [in seguito alle quali] l‟umanità superò l‟antropofagia, il che ne spiega la stabilità e l‟enorme rilievo.326

Le conseguenze che ne discendono sono: a) l‟instaurazione dell‟unità del gruppo viene ad instaurarsi contemporaneamente alla reciprocità delle obbligazioni acetiche, dal momento che il medesimo divieto funziona rispetto a ogni membro del proprio gruppo; b) l‟identificazione del gruppo totemico consente di deviare l‟aggressività dei singoli e del gruppo verso membri di altri gruppi totemici, consentendo l‟autoconservazione. Da questi presupposti nasce sia ogni tradizione culturale, nei suoi “contenuti cultuali, economici e politici”, che “una coordinazione univoca e stabile del rapporto tra i sessi”, che è all‟origine delle norme regolative del matrimonio e della costituzione della famiglia permanente, segnatamente attraverso “la proibizione dell‟incesto” e “l‟interpretazione dell‟ordinamento matrimoniale come obbligazione che consegue dai già sussistenti raggruppamenti totemistici”.327 Il modo più semplice e chiaro di soddisfare a queste condizioni è la regola dell‟esogamia, cioè la tabuizzazione del rapporto sessuale all‟interno del 326 327

Ivi, pag. 471. Ivi, pag. 471.

158


proprio gruppo totemico in cui vigono rapporti di consanguineità virtuale [in quanto membri di uno stesso progenitore totemico] e la prescrizione che la scelta del coniuge avvenga all‟interno di un altro gruppo totemistico. Perciò la fondamentale realtà naturale del rapporto sessuale viene istituzionalizzata, vale a dire che la propagazione presupposta “in sé” diventa il tema di un comportamento regolato dal gruppo “per sé”.328

In seguito l‟originaria identificazione totemica venne “rappresentata”, ossia venne “incorporata e fissata in un comportamento reciproco che a poco a poco venne ritualizzandosi”, subendo quindi una “stabilizzazione retroattiva” grazie a una forte ma non ricercata “opportunità oggettiva”, che fa sì che “le idee direttive” relative a determinati comportamenti significativi non vigano “soltanto nella testa” ma siano “riflesse da istituzioni reali” e siano “compenetrate nei fondamenti del comportamento quotidiano”. Ora, se questo comportamento totemistico fondato originariamente sulla sua rappresentazione si venne stereo tipizzando e appiattendo, riducendosi a semplici allusioni, poiché la vivente energia si volse a valorizzare e a elaborare le obbligazioni che ne conseguivano e le relative opportunità secondarie, il comportamento primario non potè che divenire simbolico e affrancarsi dall‟incorporazione reale. [Da questo momento ideale] i contenuti della coscienza originariamente totemistici si trasformano in narrazioni di avvenimenti e di azioni, e assumono la forma di eventi passati via via che

cominciano a surrogare il reale, attivo comportamento di gruppo svolgentesi nel tempo. […] L‟umanità serba in ciò il ricordo di una scoperta fondamentale: poiché fu proprio questo trasformarsi in un altro essere a consentire il primo poderoso passo innanzi dell‟autocoscienza. 329

Da queste analisi sulle “creazioni culturali originarie”, discendono “notevoli conseguenze filosofiche”. Infatti, 328 329

Ivi, pag. 472. Ivi, pag. 472.

159


il totemismo è un esempio di un comportamento tipicamente ideativo, non strumentale: né l‟autocoscienza, raggiungibile indirettamente, nell‟incorporazione di un non-io, né il senso di una obbligazione che se ne sviluppò, e nemmeno la sua conversione in senso ascetico si possono ricondurre alle consuete categorie strumentali dello scopo, del mezzo e del bisogno. E‟ verosimile che, in origine, dei bisogni diventino oggettivi in generale solo nella rappresentazione (Darstellung) del loro appagamento, non in questo stesso appagamento.330

Ma il “problema filosofico più profondo” si annida nella categoria, esclusivamente ontologica, della opportunità oggettiva secondaria. [Infatti, ci si chiede] come è possibile che un comportamento, che alla coscienza strumentale non può che apparire immaginario, abbia sviluppato le più stupefacenti opportunità oggettive e riservate dalla natura per l‟uomo, opportunità che erano sino a quel momento celate, e anzi solo virtualmente sussistevano, e che mai l‟atteggiamento strumentale avrebbe rinvenuto?331

Gehlen parla di “teleologia oggettiva”, consistente nella circostanza che non si tratta di “opportunità già sussistenti in natura” che si rendono in seguito, come nel mondo organico, “riconoscibili e utilizzabili”, ma bensì di possibilità potenziali che si rendono manifeste e riconoscibili “solo attraverso il concatenarsi di conseguenze che discendono da un comportamento ideativo”,332 che non potrebbe essere compreso dalla “coscienza analitica” la cui “difficoltà” gnoseologica consiste nella sua impossibilità di far derivare dalle sue analisi frammentarie “ciò che si chiama affinamento organico”, che equivale a una “trasformazione qualitativa” non ricavabile da analisi di tipo analitico. Un tipo particolare di “affinamento” (Veredelung) è 330 331 332

Ivi, pag. 473. Ivi, pag. 474. Ibidem.

160


L‟umanizzazione dell‟uomo, quale si rese possibile solo con il rifiuto dell‟antropofagia. Il gruppo appagato di sé, chiuso verso l‟esterno e costituitosi soltanto grazie a determinati sistemi inibitori posti in essere dal totemismo, è il campo di tensione nel quale solo è promosso il superiore sviluppo non della cultura soltanto ma dell‟uomo stesso. 333

Gehlen a questo punto accoglie la lezione di Malinowski circa le forme istituzionali, per cui L‟effetto decisivo delle norme restrittive del comportamento consiste nello stornare certe tendenze naturali, nell‟inibire e controllare determinati istinti umani e nell‟imporre loro un comportamento non spontaneo, forzato: cosa appunto palesemente opportuna non soltanto per lo sviluppo spirituale superiore, ma altresì per quello vitale superiore del tipo uomo. 334

Se la genesi ontologica delle istituzioni umane originarie consente di dare ragione di un inizio del comportamento normativo né mitico e neppure astrattamente presupposto come dato naturale intemporale, ossia come un mero “fatto” storico-sociologico da registrare nella sua neutra fenomenicità e gratuita possibilità ontica, d‟altra parte risulta altamente problematico e approssimativo parlare di “tendenze naturali”, di “istinti umani” e di “comportamento opportuno”, poiché le forme di inibizione sono inevitabilmente collegate a un fine razionale di giustificazione sociale del loro senso individuale. In altri termini, la disposizione teleologica del controllo e della inibizione degli impulsi umani (tendenzialmente eversivi, secondo Freud, dell‟ordine normativo per spontaneo impulso centrifugo della volontà individuale) è “oggettiva” in quanto costituisce una struttura reale vigente e in quanto logica conseguenza delle forme inibitorie istituzionalizzate; ma non nel senso di una “conseguenza spontanea”, poiché la sua stessa possibilità d‟essere è legata alla scelta umana del 333 334

Ivi, pag. 474. Ibidem.

161


“comportamento ideativo”. Di quello e non altro, e perciò scelta “culturale”, aventi cioè una tendenziale durata,335e insieme “morale”, legata cioè alla volontà di persistere in atteggiamenti conformi e non difformi alle regole sociali stabilite dall‟uomo “per sé”. L‟agire dettato dalla logica ideativa, non perché non sia strumentale non debba essere “mosso da consapevoli scopi”, la cui oggettività non è da confondere con una presuntiva spontanea e casuale necessità, ma con la sua manifestazione socializzata, non imputabile a una soggettività puramente coscienziale e intimistica. L‟obbligazione sociale ha, nella sua “oggettiva” doverosità positiva, valevole erga omnes, implicita l‟esclusione del comportamento anti-normativo, che essendo riconoscibile è anch‟esso a suo modo, cioè in forma negativa, oggettivamente previsto. Non a caso il totemismo può costituire solo il paradigma comune a ogni fase pre-istorica delle civiltà umane, in quanto rappresenta il fondamentale “presupposto”, ideologico quanto esistenziale, della conservazione del gruppo sociale. Ma lo stesso fondamento esistenziale si va diversificando storicamente nelle scelte totemiche, relative alle possibilità contestuali dei fattori naturalistici e alle modalità culturali da cui si originano le tradizioni e i costumi particolari. Analizzare l‟aspetto strutturale di questi fenomeni culturali, fuori della teleologia razionalizzante, è errore opposto e speculare a quello storico-psicologico denunciato da Gehlen a proposito della metodologia storiografica approntata da Dilthey per le scienze umane. Infatti, l‟aspetto razional-teleologico e quello strutturale sono intimamente congiunti, e solo dalla loro dialettica connessione logico-funzionale è possibile derivare una ontologia sociale a fondamento storico. A questo punto, i frutti più significativi e rilevanti dell‟analisi teorica di Gehlen della “cultura sociale” pervengono a una magistrale maturazione filosofica, illuminante sull‟origine ideativa e non 335

Ivi, pag. 475,

162


strumentale delle istituzioni elementari della vita dell‟uomo e le relative “idee direttive che vi sono incorporate”. [Ivi, pag. 476.] Quelle istituzioni fondamentali, afferma Gehlen, non le ha create la coscienza strumentale; in generale […] essa è incapace di

fondare istituzioni stabili e umanizzanti. Affidandosi al comportamento strumentale, che procurava loro un cibo non più che precario, le culture fondate sulla caccia non si sono mai garantite il nutrimento appunto, e perciò erano sempre costrette a ricorrere all‟antropofagia, alla quale del resto non si può negare un‟assai diretta opportunità di mezzo in rapporto allo scopo. Niente era più “pratico”. Solo allorché, nella cura di animali-totem e di piante-totem, tali culture contrassero disinteressate obbligazioni verso il vivente, “colsero” opportunità che permisero di istituzionalizzare la nutrizione a struttura permanente, di renderla stabilmente un processo metaindividuale. La costante copertura del fabbisogno finì con il banalizzare in un certo qual modo questo impulso fondamentale e ne esonerò in generale l‟uomo, consentendogli attività di specie superiore. Le istituzioni dunque fissano opportunità oggettive ed espansive, le cristallizzano, una volta che un comportamento ideativo le abbia enucleate; per questo la loro idèe directrice, la

norma che le governa è sempre quell‟idea sulla quale la coscienza ideativa si è orientata dapprima […].336

Probabilmente l‟aspetto più suggestivo e interessante di queste analisi è l‟intima connessione, sia pure a volte solo potenziale perché non sempre colta coerentemente da Gehlen, tra il paradigma antropologico dell‟uomo, non risolto nella congerie tipologica delle descrizioni socio-etnologiche, e la fenomenologia storica dei suoi processi culturali, inevitabilmente circoscritti per tempo e luogo a una particolarità ed unicità che sarebbe insuperabile, e perciò del tutto casuale e gratuita, cioè irrazionale, senza quella connessione essenziale che la rende invece strutturalmente e funzionalmente del tutto razionale. 336

Ivi, pag. 476.

163


Ed è da tale “complessa connessione” tra il “comportamento ideativo, l‟obbligazione ascetica” e “l‟inattesa opportunità ontologica” conseguente alla sua “istituzionalizzazione sotto l‟egida di un‟unica idea direttiva” che va individuato “l‟autentico nerbo della religione”, al quale siamo pervenuti “sul piano filosofico”. E infatti, sottolinea Gehlen, “questo nesso, la coscienza diretta, con le sue rappresentazioni, non riesce a pensarlo se non nell‟immagine di un essere superiore – in questo caso dell‟antenato totemico – che ha fondato tali istituzioni”.337 Diventa più chiara l‟idea di un ente terzo e superiore, non ancora assoluto Soggetto creatore al quale tutto va riportato come la fonte di ogni causalità umana e naturale, sul quale ogni membro e l‟insieme del gruppo si auto-rappresenta in senso oggettivo. Ma, egli aggiunge, sarebbe “insufficiente istituire una relazione diretta tra le rappresentazioni religiose (nel loro aspetto meramente soggettivo) e lo strato delle pulsioni nell‟uomo”, per la ragione che “un‟opportunità soggettiva primaria non può raffigurare adeguatamente quella oggettiva secondaria”,338 nel senso che le tensioni individuali – sia pulsionali che ideologiche – non producono atti e fatti direttamente imputabili al soggetto attore, ma sono mediate da forme istituzionali. Da ciò consegue la conclusione più importante del nostro ragionamento, e cioè che “né la coscienza strumentale, né uno dei suoi derivati – e dunque neppure la coscienza storico-psicologica – siano capaci di fondare istituzioni durature e stabili”,339 quelle, insomma, proprie delle culture umane. 3. Quando si dice “mondo” si intende generalmente il complesso delle relazioni prodotte dall‟uomo, ossia struttura sociale, realtà istituzionale (produttiva e conservativa di valori) ed economica 337 338 339

Ivi, pag. 476. Ivi, pag. 477. Ivi, pag. 477.

164


(produttiva di merci). Il mondo umano è un mondo sociale, cioè una realtà “artificiale”, fatta a opera del lavoro umano secondo i princìpi valoriali in cui il singolo e il gruppo sociale credono e che costituisce la loro cultura. “La cultura”, come è stato ben detto, “opera una mediazione tra il mondo esterno e quello interno” dell‟uomo, ossia è “l‟interazione tra originalità e accettazione della tradizione”, ovvero “tra separatezza e unione”.340 Le cose, i manufatti, fin quando hanno avuto un rapporto identificabile tra possibilità tecnica e fruizione diretta , hanno conservato una dimensione pratica di maneggi abilità e disponibilità che poneva ancora l‟uomo in potere di disporre a suo volere e bisogno delle stesse opere umane, le quali persistevano nella loro funzione servile. Quando la produzione tecnica massificata ha rotto tale rapporto diretto tra produzione e bisogni, rendendolo astratto dai concreti rapporti tra merci e fruitori, anche il ruolo dell‟uomo è cambiato, perdendo questi la sua centralità e superiorità signorile. Il rapporto economico tra produzione e consumo è diventato astratto e impersonale, trascendente la sfera dei rapporti pratici perché sempre più legato a una dimensione razionalizzata dei rapporti un tempo spontanei. Divenuta “scienza”, l‟economia, come scienza dei mezzi, diventa attività teoretica, astratta dai rapporti pratici originari, occupando lo spazio di mediazione culturale che una volta era dei fini, ossia dei valori ideali. In questo senso, l‟economia nella moderna società di massa ha sostituito la cultura nel ruolo di mediazione tra realtà soggettiva o “mondo interno”e realtà sociale o “mondo esterno”. Prima dell‟epoca tecnologica e del dominio dell‟economia, il legame tra mondo interno e mondo esterno era opera del linguaggio, che per l‟uomo è il luogo della mediazione per eccellenza perché veicola il pensiero, che è fatto di parole. Pensare è collegare razionalmente eventi altrimenti irrelati. Attraverso il linguaggio, noi assimiliamo

340

Ch. Lasch, The minimal Self (1984), tr. it. Milano (1985), 2010, pag. 135.

165


l‟interno e l‟esterno esprimendo la nostra impressione del mondo con un pensiero. Il linguaggio reca interno ed esterno su un unico piano, cioè sul suo proprio […] e consente alle intenzioni del pensiero di adempiersi anche in rappresentazioni. Il linguaggio,pertanto, non fa differenza tra cose rappresentate e cose reali, e proprio per questo oblitera continuamente per la nostra coscienza la differenza tra realtà e rappresentazione. […] La conversione reciproca tra interno ed esterno, e in primo luogo tra rappresentazione e percezione, è posta dunque con il sorgere della rappresentazione sulla base del linguaggio. […]Assimilazione di mondo interno e di modo esterno significa che noi interpretiamo il mondo interno in base a quello esterno e questo in base al primo, poiché entrambi li esperiamo soltanto nell‟interpolazione reciproca. Il linguaggio è il centro, il nerbo di questa connessione di espressione e impressione. […] 341

L‟uomo vivendo, afferma Gehlen, si trova “di fronte a una mare di impressioni non delimitata non delimitata da opportunità biologiche” che lo pongono “di fronte al conseguente compito di padroneggiarle […] attraverso i sensi”, la cui attività “consiste di tante attività comunicative ed esaustive, prive di un diretto valore di soddisfacimento istintuale, il risultato delle quali è da definirsi „esperienza‟”. Queste attività sono i contenuti delle azioni, le quali sono “azioni comunicative”, nel senso che in esse non tanto si profila l‟utile vitale, quanto invece la vitalità del rapporto con tali contenti, la fecondità e il continuo arricchirsi del “potere” e del poter disporre, l‟”esonero”, cioè l‟affrancamento dalla pressione di stimoli interni ed esterni, allo stesso modo che solo nel “trasferirsi” in un‟altra cosa, proprio di ogni comunicazione, si dischiudono il mondo dei fatti e la ricchezza delle cose.[…] Oggettività significa questo: porre in valore le cose in un rapporto scevro da bisogni. […]

341

Ivi, pagg. 313 e 317.

166


Ogni comportamento comunicativo è tale solo in quanto sia di là da sé e s‟indirizzi su qualcos‟altro, in quanto si determini in base ad altro. In tali attuazioni comunicative le cose contraggono valori sempre nuovi, soggiacciono a un mutamento di significato secondo la prospettiva dell‟azione che le investe. Coinvolte in questo rapporto, esse forniscono solo prestazioni e qualità oggettive, tante quante sono le prospettive che del rapporto con esse possono aver luogo. […] All‟interno di questi processi e partecipando alla direzione del loro costituirsi nasce il linguaggio. […] Tra il mondo visto e il suono si stabilisce così un valido legame. 342

Tale legame del soggetto cosciente col mondo è “astratto”, in quanto il suo “valore” non è “legato a una riuscita”, e proprio in quanto “veicolo della coscienza astratta”, il linguaggio raggiunge dei risultati “in sé” tali che esso “nel pensiero, nella coscienza, compendia e governa l‟intero sviluppo delle prestazioni umane”, nel senso che Vi si compie l‟affrancamento dal qui e ora e dal reagire al casualmente dato, vi culminano i processi dell‟esperienza e del maneggio delle cose, vi si padroneggia fruttuosamente l‟apertura al mondo, un numero infinito di progetti d‟azione e di piani diviene possibile. Vi si attua, infine, ogni intesa fra gli uomini nell‟imprendere insieme un‟attività comune, in vista di un mondo in comune e di un futuro comune. 343

Il “mondo esterno”, attraverso la comunicazione con altri, si “oggettiva”, cioè viene indirizzata “allo stesso modo su una stessa cosa”, e perciò essa “acquisisce un punto di intersezione che cade 342

Ivi, pagg. 292 e 293-4. Ogni suono – dice Gehlen -, quale che sia la radice del linguaggio da cui si origina, quali che siano le circostanze nelle quali appaia, ha la proprietà di essere un‟intenzione, una prospettiva. E poiché ogni suono è per sua natura riproducibile a piacere – in virtù dell‟autocomunicazione nel suono – esso permette di fissare delle prospettive. Ciò [comporta che] il tener fermo a prospettive non è precisamente nient‟altro che la capacità di ripetere ciascuna di esse indipendentemente dalla situazione e dalle circostanze attuali. [Ivi, pag. 290. 343 Ivi, pag. 296.

167


all‟esterno”, e ogni intenzione acquista dunque un significato “pubblico”, parallelo al processo di “intimizzazione” del mondo operato dalla sua esperienza cognitiva. Il fatto che gli uomini entrino in rapporto con un che di esterno, rispetto al quale possono mettersi in comunicazione tra loro, e che negli altri ci si possa vivere o trasferire nella visione anticipata di un tale punto di riferimento, significa che tutti i processi profondi del discorso e della comunicazione prendono qui il loro avvio. A questo punto l‟articolarsi dei nostri impulsi e dei nostri interessi si dà in prevalenza lungo i percorsi del linguaggio, e ciò in particolare fa sì che essi esperiscano orientamento consapevole dei loro obiettivi verso l‟esterno. […] I nostri interessi e bisogni, così, si fanno chiari a se stessi, diventano “intenzionali”, possono, sulle orme del riconosciuto espandersi del mondo e riconoscersi per tali quando si destano in presenza di impressioni note. […] Con l‟avviarsi del linguaggio, la vita pulsionale dell‟uomo si estrinseca e si rende altresì intelligibile nel medesimo sistema che si fa anche carico di padroneggiare e controllare il mondo oggettivo. Questa è la via lungo la quae, come Herder dice, “tutti gli strati dell‟anima diventano [non: sono] a misura del linguaggio. 344

Il “mondo interno”, attraverso il linguaggio, si dirige sulle cose, per cui originariamente pensare è lo stesso che parlare e avere un‟intenzione. La caratteristica dell‟intenzione umana che si dà nel linguaggio è che qui “il suono è un simbolo autoprodotto” ed ha un contenuto significativo “sufficiente”, nel senso che “nel suono è presupposta una comunicazione” che simboleggia una intenzione, la quale perciò, per il suo valore convenzionalmente simbolico, “si dà solo in un contesto comunitario”.345 Infatti, ci dice Gehlen, il comportamento simbolico è quello che si dirige “su qualcosa attraverso qualcosa” 346 344 345 346

Ivi, pag. 255. Ivi, pag. 254. Ivi, pag. 290.

168


La circostanza per cui la realtà “ci sta di fronte come mondo panoramicamente dominabile”, esprime il fatto che noi abbiamo preso una distanza da esso, avendo “spezzato il cerchio dell‟immediatezza”. Questa consapevole distanza ci consente un “comportamento previdente” che prelude la possibilità di un dominio sul mondo circostante, dettato dalla necessità biologica dell‟uomo a colmare la sua antropologica imperfezione istintuale. Il comportamento umano, che visto dall‟esterno appare variabile e adattivo, sganciato dall‟immediatezza, visto dall‟interno è “progettato, antivedente e previdente, condotto e controllato dai rispettivi centri superiori”, che svolgono funzioni destinate a quelle inferiori, che perciò vengono indirizzate e guidate per il debito utilizzo occasionale. Gehlen chiama “esonero” (Entlastung) la capacità umana di progettare attraverso l‟immaginazione le variazioni e combinazioni utili a fronteggiare in forma simbolica attraverso l‟immaginazione rappresentativa un bisogno vitale. Esonero significa che la costituzione di un centro di gravità nel comportamento umano compete sempre più alle funzioni “superiori”, a quelle cioè che meno richiedono fatica e che soltanto alludono; dunque alle funzioni coscienti e spirituali. Ne viene che questo concetto è addirittura un concetto chiave dell‟antropologia: esso ci insegna a vedere le massime prestazioni dell‟uomo nella connessione con la sua natura fisica e con le condizioni elementari della sua vita.347

La disponibilità delle funzioni inferiori da parte della coscienza esonerata superiore, non significa che la funzione esonerante sia di per sé conscia. Infatti la coscienza scaturisce dalla percezione, e cioè essa “è, sin dalle sue scaturigini, volta essenzialmente al mondo esterno”, mentre “tutti i processi e compimento della vita sono, come tali, per loro essenza, inconsci”; e “come” essi si svolgono, aggiunge 347

Ivi, pag. 104.

169


significativamente Gehlen, “ci è assolutamente nascosto”.348 Dunque, anche la funzione esonerante sfugge alla coscienza, pur essendo sedimentata e stabilizzata, divenendo “abitudine”. Tale “comportamento abitualizzato, proprio perché sfugge alla coscienza”, e quindi appare impersonale e istintivo, diventa “inattaccabile da critiche e immune da obiezioni, diventando così la base di un comportamento di grado superiore, variabile, che su di esso cresce”. Tutte le funzioni superiori dell‟uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale, ma anche in quello dell‟affinamento motorio e operativo, sono sviluppate grazie al fatto che il costituirsi di stabili e basilari abitudini di fondo esonera l‟energia in esse originariamente impiegata per le motivazioni, i tentativi, il controllo, liberandola per prestazioni di specie superiore.349

Questo ragionamento, se da un lato sminuisce ogni tentativo di misconoscere le funzioni della coscienza volte ad affrontare i problemi del mondo-della-vita, essendo le sue prestazioni teleologicamente orientate ad affrontare i processi vitali, dall‟altro conferma che le modalità della sua attività sono ignote. La nostra coscienza, sin dal principio volta all‟esterno, impostata sull‟esperienza e la comunicazione con altri uomini, non ci fornisce, nemmeno approssimativamente, alcuna conoscenza, perciò, della grandiosa congruenza dell‟accadere organico con i suoi scopi, che traluce per ogni dove; e noi possiamo soltanto presumere che con la mera esistenza, persino con l‟attuarsi dei moti vitali, già sia risolto un “problema” e con una perfezione che irride a ogni conoscenza. Sotto qualsivoglia profilo, nella vita sembra esser posta una ricchezza infinita; e che il vivente esistere nella profusione del mondo sia di per sé un valore, forse il valore […].350

348 349 350

Ivi, pagg. 107-109. Ivi, pag. 105. Ivi, pag. 110.

170


Ora, è esattamente questo ritenimento che il filosofo Husserl contesta, avanzando il problema che la struttura fondamentale della coscienza umana è ignota e quindi da scoprire prima di definire il “posto dell‟uomo nel mondo”. Il fondamento della vita sociale e quello stesso della scienza, come sappiamo, è il mondo-della-vita, l‟universo semplice e indistinto, già-dato e ingenuo, diverso da quello della soggettività che pone i valori. Ma il mondo “ingenuo” e “abitudinario” è quello della cultura, cioè in prima approssimazione, l‟insieme dei mezzi materiali e dei mezzi di rappresentazione, delle tecniche materiali e di pensiero, istituzioni incluse, tramite i quali una data società “si regge”; in seconda approssimazione, è l‟insieme di tutte le istituzioni successive che si fondano su quanto precede. 351

Senza le strutture culturali, non ci sarebbe alcuna civiltà, alcun sapere formalizzato e abitudinario. Infatti, spiega Gehlen, Come i gruppi e le simbiosi animali sono “tenuti insieme” da evocatori e da movimenti istintivi, così quelli umani “consistono” in virtù di istituzioni e delle quasi automatiche abitudini di pensiero, di sentimento, di valutazione e di azione che solo nelle istituzioni si “fissano” e solo se inquadrate istituzionalmente divengono unilaterali, abituali e perciò stabili. Soltanto così esse diventano, nella loro unilateralizzazione, consuetudinarie e in certo modo affidabili, cioè prevedibili. Quando le istituzioni vengono minate e frantumate, immediatamente vediamo affiorare irresponsabilità e insicurezza, venir meno quei filtri e quelle difese dagli stimoli che in precedenza sorreggevano il comportamento il quale, adesso, può definirsi istintivo. Una delle impressioni più rivoltanti che si diano è quando le virtù, cadute le istituzioni nelle quali si erano sviluppate in una limitatezza piena di carattere, ricadono sui singoli e riverberano smarrimenti e perplessità. 352

351 352

Ivi, pag. 121. Ivi, pag. 120.

171


I comportamenti socializzati sviluppano dunque “attitudini intensamente coltivate e irreversibili”, le quali si acquistano “solo all‟interno di un sistema culturale stabilmente istituzionalizzato”. E‟ questo sistema culturale a creare il mondo precipuamente umano. Infatti, “l‟animale ha un „ambiente‟, non un mondo”.353 Sempre, e sin nelle prestazioni più alte, l‟appropriarsi del mondo è insieme un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l‟esterno è una presa di posizione verso l‟interno, e il compito posto all‟uomo in uno con la sua costituzione è un compito sempre oggettivo da padroneggiarsi verso l‟esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L‟uomo non vive, bensì conduce la sua vita.354

L‟esperienza umana, dice Gehlen, sarebbe “incomprensibile” senza il suo “carattere comunicativo”, nel quale rientra quella sorta di “intrattenimento sensomotorio con le cose, il cui sedimento è la loro oggettività satura di simboli”, e appunto dall‟esperienza sensibile delle cose del mondo nasce il “rapporto pratico con esse”.355 La simbolizzazione della comunicazione ha invece dare con quella che secondo i Greci costituiva l‟attività teoretica per eccellenza, e cioè la “visione” delle cose. La vista, secondo Gehlen, compendia infatti in un unico senso l‟esonero dell‟uomo. Il vedere traduce in simboli tutto u contesto d‟esperienza, ne viene a capo, ne risparmia cioè la ripetizione, e lo rende disponibile: è necessario por fine alla scoperta delle qualità delle cose per passare al loro uso. […] Ogni prestazione simbolica, il linguaggio soprattutto, possiede questa qualità di esonero, cioè dunque di disbrigo di pregresse prestazioni alquanto faticose per il tramite di prestazioni meramente “accennanti”, e di “messa a disposizione” delle prime per contesti più indiretti e liberi. Il dare un‟occhiata a una cosa ci esenta dal 353 354 355

Ivi, pag. 226. Ivi, pag. 215. Ibisem.

172


toccarla, la parola addirittura dal gettarvi uno sguardo – ma anche, ogni volta, lo surroga, ne fa le veci, ovvero lo “rappresenta”. 356

Da notare come la rappresentanza verbale delle cose costituisca un rapporto realistico con il mondo-della-vita, e non lo sostituisca se non per astrazione simbolica. Ciò vuol dire che il rapporto simbolico trasferisce il rapporto di immediatezza con il mondo su un piano mediato dal pensiero. Gehlen spiega l‟origine del “comportamento teorico” dell‟uomo appunto nel rapporto stesso del pensiero con le cose, essendo egli “un essere non adattato, destinato all‟agire”. Il punto in cui germina il pensiero è là dove noi, in un movimento esonerato e non imposto da un bisogno, in pari tempo ci volgiamo a una cosa e la “interroghiamo” nello stesso movimento in cui la maneggiamo. In tutti i movimenti di maneggio, ossia di comunicazione, l‟uomo appariva attivo nella stessa misura nella quale si trasferiva nella cosa; egli si vive e si accorge di sé nell‟agire sulla cosa e in base alla cosa. Ora, quando noi, nell‟atto fonetico, nel parlare, ci dirigiamo su cose, e a sua volta questo dirigersi si riavverte sensorialmente, esperendo i interrogando la cosa, il lampo del pensiero è balenato: è questo il modo massimamente “smaterializzato”, massimamente esonerato e il meno faticoso, con cui ci rendiamo familiare e disponibile il mondo per mezzo di simboli da noi stessi istituiti. E‟ ora possibile un comportamento attivo, che è un comportamento di modificazione investente l‟illimitatamente percepibile, la quale accresce realmente la dovizia sensibile del mondo, e trova dunque motivo di proseguire in se medesima. Del suono in quanto parola si può dire pertanto che surroga, esaurisce e tiene le veci, a un tempo, delle percezioni reali, che cioè le rende riproducibili, disponibili a piacere; e che perciò ci esonera dalla diretta presenza delle cose, rendendo però possibile una loro presenza virtuale, infinitamente libera, entro cui quella reale appare solo come un piccolo settore, di là dal quale è possibile agire e progettare: componente ultima dell‟equipaggiamento di un essere non adattato, destinato all‟agire. Questa “presentificazione” è già essa stessa azione: l‟uomo può permanere presso di 356

Ivi, pag. 229.

173


essa. E‟ questo il fondamento di tutto il (sempre secondario) comportamento teorico.357

L‟azione di “presentificazione”, che è per Gehlen il fondamento di ogni teoria, esonera l‟uomo da compiti conoscitivi diretti, e costituisce la condizione stessa del lavoro come attività artificiale, in cui rientra la progettualità consentita dalla presentificazione. In questo senso “denominando le cose, l‟uomo ha già agito, poiché può trattenersi dalle cose e insieme disporne”.358 La parola è “l‟atto che contiene l‟intera struttura sensoria e motoria umana”, di cui il pensiero è la sua forma di coscienza. Come dice efficacemente Gehlen, “la proposizione verbale riposa su un trasferirsi dell‟azione in discorso, e dunque significa una soggettivizzazione dell‟oggettivo”. Con la comunicazione L‟uomo entra con le cose in un rapporto di reciproco arricchimento, i movimenti vengono obietti vati (auto avvertimento estraniato) e nel contempo le successioni che in quanto si dischiudono diventano eventi oggettivi, vissuti di conserva. Questo fatto, decisivo per l‟intero nostro comportamento, nella sfera del linguaggio trova il suo compendio nel verbo ovvero nella proposizione predicativa. 359

Ma l‟atto oggettivante, abbiamo detto, è insieme una soggettivazione. Infatti, il mero atto del nominare resta ancora chiuso all‟interno della parola e perciò è “soggettivo”, ossia è, come dice Gehlen, una esperienza vissuta dal linguaggio conchiusa nel parlante e costituisce la nascita interna del concetto. Perciò questa azione è congiunta all‟esserci

357 358 359

Ivi, pag. 297. Ibidem. Ivi, pag. 300.

174


visibile della cosa come tale e non va al di là della presenza di quanto è attuale […]: la parola resta efficace nella sfera soggettiva. 360

Il rapporto tra parola e coscienza è talmente stretto quanto quello tra parola e pensiero, sicché, come dice Gehlen, “il progresso del linguaggio è l‟identico dello sviluppo della coscienza”.361 Ma la designazione di una cosa attraverso la parola ha un valore anche oggettivo per la nostra coscienza, in quanto la cosa designata viene “enucleata dal mondo” diventando un ente individuale, la cui “essenza” rimane verbale, è cioè un significato concettuale che qualifica la muta cosa nella sua ultroneità rispetto al suo immanente e intenzionale valore nominale d‟uso. Ogni volta che la filosofia di investigare la “essenza” delle cose astraendo speculativamente dalla cosa, non ha potuto rinvenire questa “essenza” se non nel concetto, nel significato della parola […]. Ma quando, in tal modo, la parola enuclea la cosa per la nostra coscienza e la coglie in se stessa, ecco appunto in questo apparire appare anche la muta estraneità qualitativa della cosa, la quintessenza di una pienezza del tutto inintenzionata. Sol che la cosa abbia acquisito una prospettiva determinata, precisamente questo fatto libera le prospettive non intenzionate: allo stesso preciso modo che il maneggio pratico impreso sotto una determinata prospettiva pone in evidenza appunto ciò in cui essa è presa per qualcosa nel pensare o nell‟agire. E‟ questa la resistenza della cosa, una categoria di specie anche teoretica, la quale impone il mutamento delle prospettive.362

La riflessione ci conduce dalla parola al suo concetto, poiché “la parola tende oltre se medesima”, anche se l‟origine del linguaggio non è quello di “creare un segno per la trasmissione del concetto già compiuto”, per cui la riflessine non è altro che la descrizione del 360 361 362

Ibidem. Ivi, pag. 303. Ivi, pag. 302.

175


rapporto tra parola e pensiero che “si elaborano a vicenda”. [Ivi, pag. 305.] Il significato di una parola travalica dunque la sua stessa comprensione di senso, anche se questa validità non è universale ma circoscritta all‟ “ambito di una comunità linguistica”. E in tal senso, in quanto cioè condivide la condizione con altre azioni comunicative, essa è “soprattutto reale azione”.363 Il linguaggio conserva questo carattere d‟azione anche là dove si separa dal comportamento [per cui] si potrebbe definire il linguaggio addirittura come un‟azione vicaria […] giacché l‟intenzione della cosa può essere adempiuta e soddisfatta nella parola, e anzi noi chiamiamo “spirituali” quelle intenzioni che nella parola si manifestano, compiute, come azione definita. 364

Dunque l‟uso stesso del linguaggio, come comunicazione simbolica del pensiero, costituisce una forma di oggettivazione del mondo con la quale “l‟uomo raggiunge il perfetto affrancamento dalla situazione concreta nel suo contenuto casuale” attraverso la rappresentazione della realtà, che sono appunti “prodotti del linguaggio”. E, in quanto il linguaggio “trasforma il materiale grezzo” dei contenuti mnestici “formatisi in noi in maniera meramente passiva” in libere rappresentazioni, queste sono immagini “intenzionali” che “possono essere attivate […] da azioni che si estendono nel futuro […] ogni volta che si trovano nella direzione dell‟agire”.365 Quest‟attiva immaginazione è in primo luogo immaginazione globale, in altri termini progetta in anticipo complessivi dislocamenti di tutto l‟organismo, inclusi i fantasmi motiri e le immagini sensorie d‟attesa. La funzione biologica dell‟immaginazione passiva [è quella per cui] l‟organismo sembra conservare in se stesso gli stati trascorsi proprio per poter affrontare situazioni simili in modo già adeguato e, per così dire, essendovi già 363 364 365

Ivi, pag. 306. Ivi, pag. 307. Ivi, pagg. 308-309.

176


preparato. [….] La capacità di ricordare è tanto più perfetta quanto è la possibilità di imbattersi in situazioni inattese e sorprendenti, quanto più un essere è aperto ed esposto al mondo. E‟ questo il caso dell‟uomo. 366

Questa condizione antropologicamente caratteristica e distintiva (Sonderstellung) dell‟uomo di “apertura al mondo” rimane un orizzonte non dominabile compiutamente dall‟esperienza accumulata in quanto il futuro, “anziché essere mera ripetizione del passato, è invece denso di un‟infinità di accadimenti non prefigurabili e di fatti imponderabili” che lo rendono perciò “oscuro”. La dimensione del futuro è dunque non solo temporale rispetto al vissuto passato, ma eminentemente esistenziale, che ha risvolti misteriosi, inducendo l‟uomo a un continuo raffronto tra l‟esperienza accumulata e la sua fruibilità contingente. Questo “processo di concordanza” tra ricordo, nuova esperienza e attesa costituisce la “esperienza in senso eminente”, che non è mai indolore. Infatti, ogni passo in avanti è anche un‟azione contro noi stessi, poiché gli eventi distruggono le nostre attese e noi dobbiamo continuamente dissolvere e infrangere i ricordi e le abitudini consolidate che non soltanto ci legano al passato, ma anche ci renderebbero indifesi di fronte all‟imperscrutabile futuro.367

Il materiale delle rappresentazioni, dice Gehlen, sono i ricordi, i quali sono “resi mobili e disponibili dalla parola”. Il linguaggio crea da questo materiale immagini esonerate, mobili, che affiorano con esso ripetibili a piacere e affrancate dalla situazione e persino partecipano dell‟intenzionalità della parola. Potendo queste rappresentazioni essere prodotte, al pari delle parole, in qualsiasi momento, entrambe non appaiono coordinabili a un momento determinato; la pretesa “atemporalità” 366 367

Ivi, pag. 309. Ivi, pag. 309.

177


del concetto non è che la ripetitibilità a piacere del suo essere posto, che è indipendente da ogni presenza concreta. […] Attraverso il linguaggio le nostre intenzioni si fanno pienamente volontarie, cioè a dire indipendenti dall‟effettivamente esistente e dall‟effettivamente dato. Le immagini attivate attraverso il linguaggio partecipano ora dell‟intenzionalità del linguaggio: in un‟immagine di rappresentazione di una persona, noi ci volgiamo a una persona stessa.368

La presentificazione del mondo esperito attraverso la disponibilità della memoria fa sì che “la rappresentazione può essere tanto atto quanto oggetto”. Nella “attuazione immediata”, le rappresentazioni sono fluttuanti e mobili, “plastiche”, mentre “nella riflessione, la rappresentazione può comparire come oggetto del concetto”. Questo è il caso della riflessione filosofica, in cui i concetti-rappresentazioni sono assunti come “oggetto del pensare”, mentre la “essenza” del pensiero non è riflessiva ma strumentale. Come dice Gehlen, il pensiero è “intenzione di cose e mezzo per il rapporto simbolico con esse, sciolto dalla loro presenza”.369 Ed è proprio tale rappresentazione in absentia della realtà a consentire al pensiero di “prevedere” il futuro, ossia di “prospettare gli accadimenti in nuove possibili distribuzioni”, coniugando “il prolungamento del visibile Adesso nell‟invisibile lontananza” e proiettando così “su uno stesso piano” la percezione della realtà e la sua rappresentazione ideale. Per un essere che agisce nel futuro è necessario che la differenza tra situazioni rappresentate e situazioni reali sia momentaneamente dissolvibile, e già l‟intera struttura della nostra esperienza opera in modi da stratificare in misura crescente sulla realtà rappresentazioni e comprovati fantasmi. 370

368 369 370

Ivi, pag. 310. Ivi, pag. 311. Ivi, pag. 314.

178


In altri termini, nel pensiero l‟uomo ricompone l‟unità perduta di sé e del mondo attraverso il linguaggio, che tiene ferma la prospettiva sollevandola dalla sua variabile fluidità, cioè dal divenire. In questo senso, la tendenza del linguaggio è quella verso una progressiva astrattizzazione, la cui “legge” ci si rende “illuminante” solo partendo dalla “regola dell‟esonero dalla immediatezza della situazione attuale”, che a sua volta è “fondamento di tutti il linguaggio”.371 Certo, la possibilità che le parole “si richiamino e si adempiano a vicenda” nella astratta rappresentazione della realtà consente al pensiero di “rimanere presso di sé”, ma “l‟unica prestazione” del linguaggio, che costituisce anche la sua “connotazione affettiva”, è di carattere eminentemente pratico, legato alla necessità di “intendersi circa un‟attività da svolgere in comune”.372 Tuttavia, se la riflessione integra l‟azione-parola, di un “senso” razionale, tale contenuto di senso o è insito nell‟azione stessa ma non è conosciuto dall‟attore (che pertanto è agito da una volontà superiore che ne domina il destino), oppure appartiene all‟attore ma non si manifesta immediatamente col fenomeno, cioè con l‟azione stessa quale appare oggettivamente, e pertanto deve essere interpretato. In qual caso, l‟interprete integra il senso razionale dell‟azione in senso oggettivo sull‟intendimento del suo senso soggettivo. Ciò vuol dire che le parole possono essere esonerate dal loro contenuto figurato, consentendo il loro rinvio reciproco nel linguaggio riflessivo. Infatti, afferma Gehlen, “a tenere in moto il processo del linguaggio non sono le cose ma i suoni che le rappresentano”. In altri termini, la parola non ha che un significato transitorio, e proprio per questo è in grado di integrarsi in altre parole e di dirigere l‟intenzione su di esse. Solo così è possibile elaborare in rapido volo una massa amorfa di pensieri, la cui “pressione semantica” insta su di noi, in una successione di 371 372

Ivi, pag. 325. Ivi, pag. 331.

179


simboli abbreviati, poiché ogni articolazione fraziona i blocchi dei pensieri facendoli proseguire in tali articolazioni.373

Vi è nella parola una sorta di incompiutezza, legata alla variazione incessante delle condizioni alle quali essa originariamente riconduceva simbolicamente, per cui l‟intenzione veicolata dalle parole può essere integrata solo da una “totalità sintattica”, tanto più elaborata quanto più sviluppata è la capacità astrattiva della lingua. La maturazione sintattica e flessiva del linguaggio è una prova inoppugnabile che il pensare opera originariamente e direttamente nel linguaggio: una prospettiva formulata del pensiero, nelle lingue altamente sviluppate, è appunto questa prospettiva stessa. Ogni modulazione del pensiero è attuata nel materiale delle parole, le relazioni tra le parole sono articolate nelle parole stesse, così che ogni parola viene espressamente rinviata alle altre nel significato della globalità. Naturalmente, così, il linguaggio acquisisce retroattivamente una nuova e più alta capacità di inglobare in sé le prospettive dei dati di fatto: quanto più genuino il pensare, tanto più genuine la prossimità e la adeguatezza alle cose. Nel linguaggio ricco di possibilità sintattiche e flessive, il pensiero si è compiuto in se stesso proprio per nn aver lasciato inarticolata alcuna prospettiva, e il linguaggio è riuscito a tanto per la ragione che, invece di tendere direttamente dalla parola alla cosa, “è rimasto presso di sé”. Condizione dunque di questa prestazione “teorica” […] [è] necessario [che] sia stato già acquisito un cospicuo esonero dalla situazione, quello stesso che si dà nell‟intera vita senso motoria umana, e questo esonero trova compimento nel linguaggio.374

Da notare che tale esonero è un processo culturale, che si riflette nel linguaggio, che lo esprime a sua volta e lo presume, per cui la “prestazione teorica” della prospettiva linguistica non è coincidente con l‟uso delle parole se non nei termini e nei limiti di una loro fruizione strumentale. In questo senso, il pensare si esprime in parole 373 374

Ivi, pag. 334. Ivi, pag. 337.

180


ma non necessariamente esso è il contenuto del linguaggio in sé, ma è contenuto solo del proprio linguaggio. Un pensiero astratto di esprime in un linguaggio astratto. Un pensiero realistico, affermativo delle cose più che delle loro relazioni ideali, si esprime in un linguaggio figurato ma diretto alle cose. L‟analogia che si instaura tra la figura usata e la cosa (nuova) espressa, conserva l‟esperienza originaria e la trasferisce nel nuovo contesto rappresentativo e analogo al primo, ma nello stesso tempo perde il senso non figurato ma reale dell‟esperienza nuova. Solo un linguaggio che astrae dalle due situazioni analoghe può contenerle entrambe ed esprimerle distinguendole, introducendo tra esse, con l‟analogia, la loro differenza ideale. La situazione ideale che le comprende senza confonderle, e che quindi le mantiene nella loro differenza situazionale e contestuale, è lo sfondo del pensiero entro il quale le “cose” acquistano la loro realtà non contingente ma appunto “ideale”. Tale situazione ideale è un processo culturale, cognitivo della realtà espressa in parole che non sono “cose” reali, ma concetti (ideali).375 L‟affermazione di Gehlen per cui “il pensare opera originariamente e direttamente nel linguaggio” va intesa nel senso che la relazione tra pensiero e linguaggio è diretta nel senso del pensiero (che si serve di un suo linguaggio espressivo), ma non nel senso del linguaggio (che è tramite del pensiero che esprime). Questa condizione fa del pensare un‟attività “astratta” dalle cose che esso rappresenta come concetti. Solo un pensiero astratto usa i concetti come suo oggetto di pensiero, e al posto delle parole-cose, le parole-concetti. 375

La differenza tra linguaggio figurato e linguaggio concettuale è la stessa tra mutamento del divenire e tradizione scientifica, per la quale è possibile configurare una “storia”. La possibilità di rappresentare una “storia” dell‟esperienza umana è dunque legata ai processi di razionalizzazione della comunicazione socializzata, cioè al grado di tenuta e di funzionalità dei comportamenti umani al sistema di vita sociale. I “luoghi” della formalizzazione simbolica del linguaggio comportamentale non sono, come nella riflessione teorica, i pensieri, ma le istituzioni, create allo scopo appunto di formalizzare il comportamento umano in senso razionale al fine sociale.

181


Ciò avviene in concomitanza con la perdita di interesse immediato per il mondo-della-vita e i suoi contenuti materiali, e la definizione di relazioni espresse all‟interno del pensiero, che diventa dunque un mondo trasfigurato, in cui le cose, trasformate in concetti, non inseguono più il divenire delle cose ma lo sostituiscono in forme simboliche che ne racchiudono l‟essere. Questo mondo trasfigurato dal pensiero riflessivo è il cosmo razionalizzato delle formazioni socio-culturali umane, le uniche forme viventi di cui si può dire una “storia”. Lo sviluppo dell‟astrazione linguistica rende meno ricche di forme rappresentative i linguaggi elaborati, che finiscono per perdere la stessa forma linguistica originaria, per cui le parole divengono “schemi topografici, in cui il significato scaturisce dalla posizione delle loro parti”, e l‟intero “linguaggio, con il diminuire della ricchezza flessiva , si matematizza spontaneamente”.376 Il passo verso la matematica, il pensiero lo compie allorché coglie il puro atto di pensiero senza alcun contenuto e vi tiene fermo per mezzo di un qualsiasi segno non più che residualmente linguistico. E‟ questa l‟unità posta dall‟atto di pensiero come tale, e la dinamica matematica consiste in relazioni discrezionali, volontarie, ma conformi a precise leggi e rigorosamente perseguite tra tali atti di pensiero. La matematica sceglie dei segni per la simbolizzazione di tali relazioni. […] Il “significato” di un simbolo matematico è soltanto quello compendiato nel movimento del pensiero privo di contenuto che gli è prescritto.

Siamo in presenza di un pensiero “sciolto dalla dimensione linguistica”, dove il valore posizionale delle parole costituisce “la parte immateriale del suo significato” e prende il “ruolo” che era dell‟ ”oggetto”, per cui il significato è dato dalla corrispondenza con la realtà rappresentata, ma è ora dettato dal movimento delle relazioni interne al pensiero stesso, reso meccanico e privo di espressione 376

Ivi, pag. 341.

182


linguistica.377 L‟idea di Gehlen è, da un lato, che la tendenza all‟astrattezza del linguaggio umano sia un progresso logico del pensiero, e dall‟altro, tale tendenza è posta in relazione funzionale alla “meccanizzazione delle abitudini” legate alla reiterazione di prestazioni fisse. La considerazione della lingua come processo auto regolativo spontaneo, come impersonale linguaggio comunicativo anziché come istituzione verbale, elimina dal novero delle considerazioni rilevanti e socio-culturalmente decisive il ruolo dei direttori istituzionali, cioè delle classi dirigenti preposte alla razionalizzazione dei rapporti sociali. Il fatto che tale classe varii per tempo e per luogo, per modalità di condotta e di forme funzionali al potere religioso e politico, non altera la sua costante esistenza e funzione, che la distingue idealmente (oltre che socialmente) dalle classi fruitrici del “servizio” linguistico. I processi linguistici, come ogni creazione umana socializzata, sono diretti razionalmente a un fine trascendente l‟uso comunicativo diretto, che è l‟uso proprio dei meri fruitori. Tale fine trascendente quello meramente pratico e tecnico, viene stabilito e custodito come “valore” sociale, in questo caso come “valore della comunicazione”, da un ceto preposto a questa funzione e riconosciuto dalla comunità. La “forza del pensiero” di cui parla Aristotile nel De Anima, storicamente e fuori dell‟immagine, la forza sociale dei pensatori, gli attori reali del pensiero, esercitata sulla generica “umanità” per regolamentarne i comportamenti, le cui fatiche il più delle volte sono dirette altrove e per altri più prosaici affari. Questa generica e promiscua umanità si ferma perlopiù alle “immagini interiori” del mondo, che solo „esercizio del pensiero razionalizza, facendo del pensiero razionale un metodo di approccio alla realtà, fatto di segni, un pensiero simbolico. Il significato simbolico del linguaggio figurato, “per il semplice fatto che non contiene gli oggetti in quanto tali, bensì li esprime di riflesso”, ne consente un uso metaforico, che consente al “fantasma 377

Ivi, pag. 342.

183


del significato fondamentale”, fatto tanto di immagini che di movimenti, di “migrare” estendo “l‟accezione delle parole a oggetti simili”.378 I “significati originari” delle parole, afferma Gehlen, “sussistono prima della distinzione tra nome e verbo” e costituiscono “prestazioni assolutamente creative” in quanto “l‟atto di nominare un evento o una cosa è nel contempo la scelta di una prospettiva” che l‟immaginazione “tiene ferma” come immagine essenziale della parola, la cui astrattezza può dunque trasferirsi “su altri oggetti, concependoli nella medesima prospettiva”.379 Ciò vuol dire che l‟uso astratto e metaforico delle immagini è un esercizio teoretico di potere sulle cose, che vengono fatte entrare nell‟orbita della loro prospettiva ideale.380 Perché si dia conoscenza, afferma Gehlen, occorrono quattro condizioni fondamentali. La prima, è che il suo “processo di acquisizione” sia altrettanto “costruttivo” del processo di “verificazione”, dal momento che “in entrambi i casi noi facciamo emergere un che di nuovo da un che di già dato”. La produttività di 378

Ivi, pag. 345. Ivi, pagg. 346-347. 380 E‟ appena il caso di aggiungere che la ricerca filosofica della universalità del pensiero simbolico, rientra in questa tendenza generale del pensiero astratto, tendenza che può convertirsi in volontà di potenza, di dominio pratico, in ideologia totalitaria. Il razionalismo cova in sé un‟ideologia negativa e totalitaria. Negativa, nel senso che assumendo come autenticamente reale la sola dimensione razionale del mondo, rigetta le forme storiche di socializzazione in nome di strutture d‟essere compiutamente razionali, per cui la sua azione critica consiste nella progressiva deprivazione di valore della realtà storica di ogni pregresso connotato di civiltà, imputato di non essere rispondente a una coerente cosmologia razionale, la cui costituzione rimane il suo essenziale motivo teleologico, e da qui la sua tendenza totalitaria. Non è un caso che ogni forma di razionalismo si costituisce come tendenza rinnovatrice, la quale viene assunta, da parte del potere socio-politico costituito, come una forma di “ideologia”, cioè di pensiero astratto che non tiene conto della realtà. Dove “astratto” è da intendersi come rappresentativo di relazioni puramente logiche, tutte interne alle proposizioni, che non hanno alcun riflesso con la realtà sensibile e l‟esperienza pratica. 379

184


una conoscenza consiste dunque logicamente in questo processo innovativo, e psicologicamente nella libertà di far emergere dalla realtà consuetudinaria la nuova fattispecie, mettendola in connessione con i dati posseduti. La seconda condizione, consiste appunto nella collocazione della nuova proposizione in cui si condensa la conoscenza nel sistema pregresso delle altre proposizioni, facendole assumere un suo proprio valore posizionale. Da qui nascono tutti i problemi gnoseologici legati alla teoria della conoscenza, poiché la “connessione sussiste nel sapere e non nel concreto mondo delle situazioni percepibili, ancorché sussista nella realtà effettiva”. La terza condizione riguarda la verificazione, e suggerisce apertamente l‟orizzonte gnoseologico in cui si muove Gehlen, chiaramente scientificista. La pretesa verità della proposizione e la dimostrazione della verità sono due cose diverse. Una buona verità ci dà la certezza non attraverso il mero convincimento, la suggestione che le cose stiano così, bensì per il fatto che essa pronostica certe conseguenze che retroattivamente confermano la verità. Una verità è feconda se se ne può derivare qualcosa, e un‟attesa certa di sé è profondamente soddisfacente quanto un successo.381

La quarta condizione è quella che la proposizione divenga un prodotto oggettivo, sciolto dal suo ideatore, onde la verità di apre al mondo divenendo patrimonio comune, in forza del quale ognuno sia in grado di guidarsi nel mondo non soltanto per forza propria ma con l‟aiuto del giudizio di altri. A questo punto Gehlen esplicita la sua posizione filosofica a favore del pragmatismo, che considera “l‟unica filosofia sinora apparsa che per principio considera l‟uomo come essere che agisce”, e per cui “è

381

Ivi, pag. 353.

185


da preferirsi a ogni altra”. Ma che sia una “preferenza” lo conferma quanto scrive di seguito. Sul piano filosofico va anche detto che il pragmatismo non tanto risolve definitivamente il problema gnoseologico quanto lo pone in una forma nuova. E ciò, in particolare, orientando la sua teoria della conoscenza sul modello delle scienze più feconde, le scienze sperimentali della natura. 382

Come si vede, la sua è una posizione speculare a quella di Husserl, e per questo va considerata nella misura della sua possibile risposta alla “crisi” delle scienze come inveramento dell‟intera tradizione filosofica in chiave antropologica, cioè con una posizione più radicale di ogni empirismo e pragmatismo, e in direzione opposta alla metafisica positivistica. Circa la questione gnoseologica, Gehlen, da un lato si cura di ricavare la natura astratta della conoscenza, dall‟altro gli preme mantenere una “relazione” tra l‟astratta proposizione di un pensiero che permane-presso-di-sé in virtù del suo massimo grado di esonero,383 e l‟esperienza sensibile. Se, come è universalmente riconosciuto, la verità di una proposizione non si può cogliere nella proposizione stessa, essa risiede necessariamente in una relazione istituibile [che] può essere triplice. […] Con i fatti che essa constata […]. Con altre proposizioni […]. [Col] nostro agire […] in ordine a esiti pratici e teorici nella direzione del futuro. A una proposizione, dunque, la verità non spetta “in sé”, essa invece è il contrassegno di una funzione o prestazione di una proposizione. Per la riflessione, a muovere dalla coscienza, la proposizione è come tale sempre ipotetica […] [e relativa a una] possibile conferma […] e la sua verità è una funzione dell‟esito di questo esperimento. Una proposizione isolata, come mero oggetto della riflessione, nn può in generale essere sottoposta al quesito “vero o falso”.384 382 383 384

Ivi, pag. 357. Ivi, pag. 354. Ivi, pag. 358.

186


Gehlen tratta le proposizioni veritative o concetti come oggetti d‟uso pratico, funzionali ai bisogni, e non come esperienze di coscienza che spiritualmente l‟accrescono e che, allargando l‟orizzonte cognitivo, non possono essere “messe da parte” o ripristinate ad libitum. Egli assume invece il pensiero alla stregua di un‟esperienza, investibile a tempo debito; e da qui il suo accostamento a “un contratto, un accordo che il pensiero stipula con se stesso, di voler pensare in un concetto, soltanto prospettive determinate e individualmente formulate, e di attenervisi”. Ed è questa la ragione, egli aggiunge, per cui “la definizione è sorta negli ambiti di pensiero autenticamente costruttivi, nella logica, nella matematica e nella giurisprudenza”.385 La definizione come concetto convenzionale, ne fa uno strumento funzionale alla riuscita dell‟intento, empiricamente verificato per la sua conferma o eventuale rimozione e sostituzione con altro più efficace. L‟efficacia come criterio di veridicità è la conseguenza logica della premessa epistemologica di ogni empirismo e pragmatismo gnoseologico. Tuttavia, l‟approccio empiristico risulta “fecondo” solo quando avviene uno scontro di cognizioni “in collisione”, la cui verifica coinvolge “estesi mutamenti nel sistema del sapere”. Ma la stretta e costante attinenza dell‟empirismo all‟esperienza, gli impedisce di “schiodarsi dall‟origine empirica dei concetti e dei giudizi”, finendo sempre di ricondurre il nuovo al già noto.386 Ma se gli empiristi “vogliono mettere i pensieri al guinzaglio 385

Ivi, pag. 359. Ivi, pag. 359. Poiché, come abbiamo visto, il carattere veritativo di una proposizione è relativo al suo valore posizionale entro un “contesto teorico”, una struttura di senso, “il significato di una proposizione, in base al quale soltanto può essere discussa la verità, è essenzialmente relato […] a un contesto di proposizioni fra le quali essa si trova”, per cui il suo valore di verità non è legato all‟evidenza e alla causalità - la cui problematicità rendono “arduo il problema gnoseologico della “obiettivabilità” -, ma varia col variare della posizione di una proposizione già ritenuta vera e poi revocata e sostituita con altra. Ivi, pag. 360. 386

187


dei fatti”, i razionalisti, all‟inverso, “trascurano il riferimento al mondo dei fatti”, abbandonandosi a una “illusione ottica assai interessante”. Infatti, Se si colgono panoramicamente la molteplicità delle funzioni assunte dal linguaggio, la varietà degli interessi e delle pulsioni ai quali esso può servire, e la funzione che di per sé gli è propria […], il linguaggio e con esso il pensiero può entrare al servizio degli interessi più diversi apparendo apparendo perciò indipendenti da ogni particolare interesse comunicabile, [ossia] autosufficienti, autarchici e organo di una “verità pura” trascendente la realtà interna ed esterna.387

Rispetto all‟ “usuale razionalismo”, il “razionalismo pragmatistico” si caratterizza per la sua “concezione strumentale della conoscenza”, finalizzata alla “ricostruzione pianificata, sperimentale (directed reconstruction) delle istituzioni economiche, politiche e religiose, di una costruzione di valori per mezzo di un comportamento sperimentale (Dewey)”. Il pragmatismo “combatte” il razionalismo, “attribuendo validità solo alla mera azione e affermando l‟autarchia dell‟operational thinking”.388 L‟uomo moderno, afferma Gehlen, figlio com‟è della scienza, “vive in una seconda natura”, cioè in un mondo che egli stesso “ha trasformato e volto al vitale servizio dei suoi bisogni”, ma questa natura non è soltanto “artificiale” ma anche “coltivata”, non abbandonata a se stessa; perché, nel caso, non potrebbe dare le possibilità che invece essa offre a seguito dell‟intervento umano. E qui troviamo il limite del pragmatismo, il 387

Ivi, pag. 365. Il pensiero, prima di diventare espressione linguistica, costituisce un orizzonte di possibilità espressive e rappresentative di contenuti di realtà che rimane astratto rispetto alle sue formali determinazioni, che sono immanenti ai contenuti espressi. E‟ il pensiero non determinato, ossia non espresso in termini rappresentativi, a essere trascendente rispetto alla realtà determinata verbalmente, per cui la sua trascendenza coincide con la sua indeterminatezza. Ed è tale condizione ad apparire “pura” rispetto alle sue concrete espressioni determinate. 388 Ivi, pag. 365.

188


quale coincide per Gehlen con la stessa possibilità di operare una totale razionalizzazione dell‟esperienza umana. Infatti, Il pragmatismo trascura i vasti strati in cui s‟accresce la vita umana, i silenziosi processi dello sviluppo inconsapevoli nella convivenza sociale; trascura […] il fatto che la esperienza è più ricca e più ampia di quanto non possa essere tradotta nel “comportamento controllato”, e che non tutte le perturbazioni della vita possono essere rimosse affidandosi a esperimenti, ancorché si diano delle possibilità di venirne a capo. Già Kant aveva scorto il fatto, paradossale dal punto di vista di ogni razionalista [per cui] la necessità di agire ha un raggio di azione più ampio che non la possibilità di conoscere. La “vasta” esperienza, irrazionale per principio, che non attinge la scientificità e non è controllabile direttamente, ha una sua verità: la certezza. E ha la sua forma d‟azione: l‟agire non sperimentale, fondato sulla tradizione, l‟istinto, l‟abitudine, il convincimento.389

Gehlen non si avvede che è tipica posizione del razionalismo astratto considerare i comportamenti umani non formalizzati secondo un criterio a-priori, come “irrazionali”, solo perché non sussumibili entro gli schemi della ragione strumentale. Esso infatti non considera la funzionalità di quei comportamenti alla struttura di senso di cui essi sono espressione e alla quale appartengono. (La sua analisi resta ben al di qua dei costrutti della sociologia storica weberiana.) Come egli dice, “soltanto la conoscenza sperimentale ha il significato di un‟ipotesi, con la quale si opera”, mentre la maggior parte dei nostri comportamenti si basa su “certezze, che si manifestano nel nostro pensiero come verità”, che sono “solidissime e impermeabili alla lezione degli insuccessi”, perché non sono finalizzate a conseguire “qualcosa” ma a “orientare il nostro comportamento su immagini dell‟esser-così e del dover-essere delle cose, e non su tecniche del loro diventare altrimenti”, per cui “la loro modificazione avviene oltre l‟orizzonte della vita individuale” e, col passare del tempo, “per 389

Ivi, pag. 366.

189


influsso del gruppo cui apparteniamo”, così che, radicandosi, formino “una sorta di coscienza”.390 La vita attiva richiede decisioni e scelte che non possono essere soddisfatte lasciando nell‟indeterminato il problema della loro giustezza, per cui l‟orientare il nostro atteggiamento su ipotesi di realtà e su regole di doverosità, che non vengono messe in questione, è una delle condizioni del formarsi della volontà; così come lo è la capacità di chiudere, con la rinuncia a lasciare indefinito corso alla reazione a catena della problematizzazione. 391

Della “minima parte” di quanto “nella nostra vita di esseri che agiscono” riusciamo a venirne a capo, mentre la maggior parte riusciamo ad affrontarla soltanto “in virtù di una certezza d‟esperienza che non viene sottoposta a verifica sperimentale”, per cui ben poco sappiamo del “carattere che abbiamo acquisito”, dei loro processi di formazione, “di cui non serbiamo memoria”, e di “come essi si trasformino alle spalle della nostra coscienza”. Ed è questo che fa dire a Gehlen che essi siano “processi di un‟esperienza non razionale […] i quali selezionano e precondizionano dall‟interno quanto agli occhi della coscienza può in generale apparire una problematica in sviluppo e può essere sottoposto a controllata verificata”.392 Si tocca qui con mano tutto il limite di una teoria gnoseologica che non riesce – a questo stadio di elaborazione – a darsi ragione né dei processi dinamici del cambiamento culturale, e neppure della polarità dialettica che i regola in termini oppositivi. Gehlen non ha chiaro quanto già illustrato da M. Weber circa il rapporto fede-ragione che stabilisce i termini della credenza di un certo nesso causale e del suo abbandono a più matura coscienza razionale. La sedimentazione della coscienza ingenua (che Gehlen chiama “immaginifica” orecchiando Vico) sono 390 391 392

Ivi, pag. 366. Ivi, pag. 367. Ivi, pag. 368.

190


esse stesse le resistenze di soluzioni razionali un tempo acquisite come verità e declassate a “certezze” fideistiche solo grazie a soluzioni più avanzate razionalmente, le quali però nn soppiantano deltutto quelle pregresse, ma solo nei termini e nei limiti della loro diffusione, coscienziale e istituzionale. Nessuno agisce se non sul fondamento delle sue credenze, ritenute veritative e che sono confutate come superstiziose credenze solo da chi abbia acquisito altri fondamenti di fede. Pertanto, la citata “phantasia” di cui Vico, è l‟orizzonte razionale in cui si muove la coscienza antica, che agisce conformemente ai suoi presupposti fideistici, che sono creduti appunto “razionali” dalla scienza ed esperienza pro tempore. “L‟irrazionale” esiste solo nella coscienza che è fuori dell‟orizzonte razionale ritenuto non più convincente. Gehlen ha del rapporto ipotesi-verifica un concetto alchemico, da iniziati sperimentatori chiusi nei loro laboratori, mentre ogni coscienza umana a suo modo “sperimenta” vivendo l‟efficacia delle sue credenze, anche se non ognuna di esse è in grado di avere soluzioni più razionali di quelle tradizionali, per cui la maggioranza degli uomini si affida a quanto vigente e tramandato dalla sapienza avita. Questa, a sua volta, è il portato del grado di razionalizzazione del mondo-della-vita conseguito dalle classi dirigenti di un determinato contesto socio-culturale. La massa dei credenti riflette la fede dei loro sapienti custodita dalle istituzioni storiche socialmente operative, per cui ogni persistenza o innovazione ideale e pratica dipende dalla qualità dei valori razionali custoditi, e prima ancora elaborati, dalle loro classi dirigenti. La persistenza di “azioni non-logiche” o “extralogiche” non è legata, come ritiene Gehlen, al “processo di formazione del carattere” umano, quasi costituisse un fattore psicologico individuale, bensì alle condizioni di validità sociale di comportamenti che sono incongrui rispetto ai fini razionali previsti dalla storiche istituzioni comunitarie. La tolleranza o ammissibilità di risposte individuali socialmente valide è relativa alla effettualità dei criteri della razionalità sociale. E‟ questo 191


il parametro della congruità ovvero della irrazionalità delle risposte individuali, le quali, dal punto di vista interno della coscienza soggettiva che li pone in essere, sono sempre razionali. Nessun attore agisce fuori della sua logica comportamentale, ma non ogni logica è socialmente razionale. Non è raro il caso che l‟irrazionalità sociale di un‟azione eslege sia in verità più razionale rispetto al parametro della coscienza comune o di quella ammessa come lecita. Ciò vuol dire che il giudizio di “razionalità” delle azioni umane è sempre relativo al criterio (sociale o soggettivo, il quale ultimo non necessariamente arbitrario ma che può essere anche meta-sociale) in base al quale viene formulato; cioè, relativo alla coscienza sociale ovvero meta-sociale, entrambe a loro modo “razionali” iuxta propria principia. Nel conflitto delle ragioni si compendia il processo ideale di una cultura storica. Il conflitto tra “essere” e “dover-essere”, tanto dibattuto nel diritto e nell‟etica, verte sulla realtà dell‟affermazione positiva istituzionalmente garantita, e la possibilità di una ipotesi di realtà condenda, non attuale ma appunto possibile e (per i suoi fautori) auspicabile. La “certificazione senza base problematica”393 è dunque l‟assunzione fideistica di una verità acquisita per tradizione ed elaborata dalla scienza edal‟esperienza del passato ritenuta ancora attuale e validamente tràdita. Essa ha alla base una “razionalizzazione” degli eventi, la cui individuazione dei responsabili è la conseguenza, non “più semplice”394 ma più logica del principio causale ritenuto veritativo e legittimante l‟indicazione (e sanzione) della responsabilità. Il “sistema durevole”,395 costituito dalle certezze nell‟uso delle risposte ai bisogni umani, è l‟orizzonte di fede entroil quale ha senso e valore l‟esperienza tramandata e applicata. Mentre la “base storica di 393 394 395

Ivi, pag. 368. Ivi, pag. 369. Ivi, pag. 369.

192


reazione”396 è la risorsa teorica cui si fa appello per risolvere le incombenze pratiche della vita, sulla base appunto di quanto riteniamo utile a fronteggiarla. Se la realtà muta in modo drastico, mentre le valutazioni, le certezze e le abitudini degli uomini, che concernono esperienze compiute in un mondo diverso, ancora persistono a lungo, nasce l‟apparenza di una necessaria e cronica diversità tra interno ed esterno, e si costituisce perciò il fondamento da cui muove ogni filosofia “idealistica”. O, ancor peggio, questa differenza si distribuisce su due classi, e una classe tradizionalista, romantica o conservatrice perde contatto, spiritualmente tradita, da quella che si affatica nel mondo dei fatti nuovi e le sue persuasioni non può trarle che da questo. 397

La “realtà” considerata da Gehlen è un fatto “esterno” alla realtà “interna”, non già il prodotto di un processo storico in cui le parti ideali sono componenti sociali che si contendono la rispettiva visione del mondo, che Gehlen chiama “motivi” e “convinzioni”, ma che non sono convincimenti soggettivi (personali) ma teorie (oggettive) dell‟azione sociale, che Gehlen chiama “comunicazione”, definendola come “azione”398 laddove essa è invece una istituzione. La “comunicazione è un‟azione” che tende a “persuadere”, e poiché l‟uomo che “s‟impegna in nuove azioni” agisce “in base a motivi, a convinzioni, e mai in altro modo”, non avendo, per agire, “bisogno di pensare”, l‟unico modo per “indurre altre persone a cambiare il loro comportamento è la comunicazione, cioè l‟influire sul loro comportamento attraverso la loro coscienza”, per cui va ben distinta “la certitudo”, cioè “la certezza scaturente dal valore di circolazione delle asserzioni” dalla “verità delle conoscenze teoreticamente intese”.399 396 397 398 399

Ivi, pag. 369. Ivi, pag. 370. Ivi, pag. 371. Ivi, pag. 371.

193


Gehlen definisce “irrazionale” quello che lui chiama il “processo della certificazione” delle esperienze, per il suo carattere inconscio e tradizionale, smentendo così l‟asserita in distinzione dell‟azione dal pensiero, facendo della prima un fenomeno “irrazionale”, ossia opposto alla coscienza logica, che così vengono assolutizzate e irrelate, nel più classico razionalismo astratto.400 La “costellazione psichica”,401 prima di essere un “orizzonte” mentale, è un orizzonte socio-culturale, ossia istituzionale, la cui relativa “razionalità” va riferita all‟ambito della sua vigente applicazione come risposta fornita di valore riconosciuto. La “tecnica del pensare in termini teorici in esatta conformità con le cose”, afferma Gehlen, “produce alla lunga, se condotta con metodo, un mutamento nell‟uomo”. Gehlen ritiene che tale “tecnica” sia una prerogativa di ciò che egli indica come “la scienza razionale”, cioè il pensiero sperimentale moderno, che in tre secoli “ha trasformato radicalmente le condizioni di vita dell‟umanità”,402 e non già il presupposto di ogni forma istituzionale di socializzazione della cultura quale sapere riconosciuto, socialmente omologato e ammesso dal potere politico. Ciò che Gehlen chiama “processo di rinunzia” è il trapasso epocale da una ad altra forma cosmologica di razionalizzare il mondo-della-vita, la transizione, cioè, 400

Questa visione astratta della realtà sociale pone la “classe razionale” – o “dirigente” – opposta alla “classe irrazionale” – o “diretta” -, secondo una nomenclatura positivistica concepita nei termini di una giustapposizione di realtà sociali in comunicanti. La classe razionale e dirigente, esiste effettivamente come entità sociologica, ma la sua costituzione e identità sociale è il frutto e il risultato storico di una tensione culturale risolta in senso affermativo di una egemonia politica di alcuni su altri gruppi sociali. Nello stesso senso, il fondamento epistemologico che sorregge il valore della razionalità scientifica affermato contro altri sistemi storici “di reazione”, si costituisce come valore sociale egemone a seguito di una affermazione politica della sua forza di persuasione, che diviene valore socializzato. Senza una socializzazione del valore ideale, questo resterebbe una proposta culturale privata, non riconosciuta istituzionalmente, e solo in quanto tale “razionale”. 401 Ivi, pag. 371. 402 Ivi, pag. 373.

194


da una forma tradizionale ad un‟altra, nuova, costitutiva di una nuova “intuizione della vita” (Simmel). La persistenza delle antiche accanto alle nuove forme di razionalizzazione del mondo è legata, prima che a singole azioni “non-logiche”, alla stratificazione di molteplici logiche razionalizzanti la realtà dei distinti gruppi sociali, ognuna delle quali corrisponde a forme storiche di socializzazione del sapere, ciascuna a suo tempo e luogo ritenuta valida dal gruppo sociale che l‟ha adottata, e che si è sedimentata sottoforma di “abitudini di pensiero e di pretensioni sulle cose, di tante attese e credenze indubitate, tenacemente nutrite per tanti secoli”,403 i quali, ognuno a suo modo, hanno teso a darsi ragione della problematicità della realtà. La “battaglia” che il pensiero moderno va combattendo per il conseguimento della “perfetta oggettività”, che “si spinge sino alla difficile arte del prescindere dalla qualità delle cose, qualità di per sé sussistenti – precisa Gehlen -, ma dal punto di vista razionale improduttive”, tendente al suo “completo affrancamento nella direzione della cosa”, [Ibidem.] è il modo specifico di interpretare la realtà di una concezione del mondo che astrae dalla qualità delle cose, credendo che la verità coincida con un cosmo “senza qualità”, come l‟uomo di Musil. La tensione teoretica che afferma di “tendere alla cosa” e insieme di privarla di ogni sua qualità specifica, crede di conoscerla mondandola di quanto essa ha di proprio, che la distingue da ogni altra, così da ottenere un concetto di cosa applicabile indifferentemente a tutte le cose simili o assimilabili. Il pensiero scientifico moderno, cioè, intende il tutto per la parte, aderendo all‟idea che rilevante sia l‟elemento comune delle cose, l‟essenza o natura, non quello specifico, studiato da ciò che i neo-kantiani ritenevano fosse il campo specifico delle scienze idiografiche. Ma questa è una credenza, appunto, di validità scientifica, preferita ad altre storiche o teoriche credenze; una fede gnoseologica che Gehlen assurge a criterio 403

Ivi, pag. 375.

195


universale di giudizio, alla maniera positivistica, ritenendola la scienza per antonomasia, e che sarà la testa di moro di Husserl. Se molti popoli considerano il malato un posseduto, al quale non si può dare né cibo né aiuto, per non attirare su di sé il demone, mancano allora tutte le condizioni favorevoli al sorgere di una scienza medica, ma ve ne sono di ottime per la magia; e finché si continuò a istituire processi […] contro animali […], non sussisté alcuna possibilità per un‟autentica zoologia.404

Ora, se è indubbio che la scienza medica abbia raggiunto forme di intervento sui malate fortemente razionalizzate, è altresì vero che i cosmo magico è stato concepito a suo modo razionale, ossia in modo tale da far corrispondere a un effetto una supposta causa. Questa supposizione scade a livello di credenza rispetto ad altra ipotesi ritenuta più veritiera ed efficace alla bisogna, ma il principio causale è il medesimo, per cui non ci sarebbe stata alcuna “condizione favorevole” di trapasso da una ad altra credenza ritenuta migliore senza quella continuità razionale di fondo che lega nel tempo le diverse risposte ipoteticamente razionali in una “storia” ideale di queste risposte stesse, nella fattispecie, inerenti la medicina. La risposta storica, diversamente razionale, cambia col mutare del fine verso cui è chiamata ad assolvere la sua funzione strumentale. Se, poniamo, il fine dell‟intervento è la guarigione dal maleficio, in stretta relazione col concetto di malattia come caduta appunto nel maleficio, è chiaro che l‟intervento apotropaico è nel caso più razionale dell‟intervento tecnico tendente a suturare una ferita emorragica a rischio di infezione. Ognuno di questi interventi, mirando al suo proprio fine, tende a screditare il principio di causalità inerente l‟altro fine, quello non proprio, e assumendo il fenomeno patologico, l‟evento reale, come una realtà assoluta, non dipendente da alcuna relazione condizionante o causativa. Da qui l‟accusa di “irrazionalità” 404

Ibidem.

196


rivolta all‟intervento teso a rimediare un male non riconosciuto, e al parallelo accreditamento di un sapere “oggettivo” e “disinteressato”, che si sarebbe imposto sulle “stupefacenti forze della natura” a prezzo di “rinunzie „inumane‟ e pericolose” alle irrazionali pulsioni e persuasioni di cui si nutre da sempre la “natura umana”, e prescindendo dalle quali l‟uomo “ha potuto evolversi”.405 Anziché discoprire, dunque, l‟unità profonda tra le leggi della natura e quelle umane, secondo l‟asserita intenzione del sapere come risposta ai bisogni biologici di un essere destinato all‟azione dalle sue caratteristiche antropologiche di incompiutezza, la scienza umana si costruisce per Gehlen come sapere alternativo alle pulsioni naturali, giudicate “irrazionali”. Viene qui confermata la polarità illuministica, secondo una prospettiva rovesciata rispetto alla dicotomia rousseauiana, per cui la natura non è fonte di verità, ma condizione che “sempre meno s‟accorda con l‟esperienza „filtrata‟, quanto mai artificiale della scienza”.406 Ora, poiché la scienza persegue la conoscenza per la conoscenza – e il suo onore sta appunto in ciò – e poiché i suoi risultati, se si tratta di una scienza sperimentale, sono in quanto riconosciuti anche e sempre risultati dominati, risultati “in suo potere”, ne viene l‟essenziale conseguenza che la scienza non può motivare di per se stessa o anche solo additare obblighi di qualsiasi specie che la trascendano: essa cioè non conosce altri fini all‟infuori del proprio progresso. Il suo ethos è ascetico, negativo, ed essa, muovendo dal suo proprio ambito e avvalendosi dei suoi peculiari strumenti, nulla pone che ne travalichi i confini […]. Il pathos dell‟essere fine a se stessa, cui la scienza è necessariamente astretta per la natura sua propria, è il rovescio del suo ethos negativo. Le certezze invece, alle quali si alimenta la nostra vita morale, sociale e religiosa, non sopportano processi di rinunzia; essi vivono dell‟immediatezza della esperienza in senso lato.407 405 406 407

Ivi, pag. 376. Ibidem. Ivi, pag. 376.

197


Il distacco dalla vita è ora totale. Ma dalle stesse “certezze” della vita pratica e morale, dominate dalla “volontà dell‟intelletto”, nel cui ambito è “impossibile, in generale, il far valere […] l‟ottica della verità sperimentale”, per cui, “quando, in grandi circostanze, delle convinzioni si contrappongono ed entrano in lotta fra loro, a decidere dove la verità stesse è in ultima analisi soltanto la storia, che lascia allo storico il compito di annunziare il suo verdetto”.408 Naturalmente, Gehlen non dice sulla base di quale principio di verità, ma lasciando supposto che l‟unico valido sia sempre e comunque quello scientifico pro tempore; al che viene da chiedersi perché mai la scienza non prenda partito già da subito, senza lasciare ai posteri l‟ardua sentenza. La risposta è che la scienza non ha verità da difendere, ma solo ipotesi da avanzare, facendo di ognuna di esse una verità relativa, momentanea, transeunte, opinabile: che è il contrario della verità. E su questa finzione di verità, su questa credenza momentaneamente creduta, l‟uomo affronta il suo rapporto con la natura, regolarmente perdendo la sfida. Ma non è proprio la consapevolezza di questo scacco a spingerlo a creare qualcosa di “più stabile” di una mera ipotesi? Qualcosa di inequivocabile perché creato dallo stesso uomo? Non è questa ricerca di sicurezza l‟origine della cultura umana, della società e della storia, i luoghi dove il “verum” e il “factum” coincidano, “reciprocantur”? E non è forse da questo presupposto che origina l‟idea della universale convertibilità dell‟ideale col reale, che coinvolge quei problemi di etica che la scienza non conosce? La distanza dall‟etica viene da Gehlen motivata dallo speciale “legame che la scienza della natura ha contratto con la tecnica e l‟industria”, per cui essa, applicandosi all‟inorganico, ignora per sua essenza l‟idea di una limitazione dei mezzi consentiti, che era invece consona, dal punto di vista economico, con 408

Ivi, pag. 370.

198


l‟età agraria che operava nel e col mondo organico, [così che la nuova] impresa economica sviluppa una peculiare logica connessa con la sua specifica attività e un sistema di razionali leggi sue proprie, incommensurabili con quelle etiche, [che] tanto più emerge nella sua purezza quanto più si rende indipendente dalle influenze irrazionali dell‟ambiente atmosferico e dal circostante ambiente vegetale.409

“Irrazionale” diventa a questo punto tutto ciò che non è controllabile entro il rapporto causale umanamente predeterminato dalle leggi economiche sperimentali, applicate e industriali, rispetto alle quali “i motivi etici scadono al ruolo di obiezioni estrinseche”.410 Estrinseca diventa, non tanto e non solo, l‟obiezione al sistema industriale, quanto la stessa esperienza umana complessiva prescientifica. Per cui, “venendo meno la speranza di un controllo etico sulla civiltà moderna, in questa disperazione che, per dirla con Marx, come l‟antico fato aleggia sulla terra, è uno dei motivi dell‟avvilimento e della rassegnazione tanto vastamente diffusi”.411 La tecnica, insomma, nel tentativo di liberare l‟uomo dalla sua minorità antropologica, lo rende in realtà dipendente dai suoi strumenti di emancipazione, tanto da isolarlo dalla sua stessa tradizione umanistica. Infatti, asserisce Gehlen, le culture del passato, precedenti l‟attuale età della tecnica, nonostante gli enormi attriti che intimamente le sommovevano ad ogni passo, istituivano dei complessi di obblighi precisamente nei punti in cui le loro esperienze non razionali palesavano lacune e discrepanze e sistematizzavano queste esperienze non tanto sul piano della teoria quanto su quello della morale.412

409 410 411 412

Ivi, pag. 376. Ivi, pag. 377. Ibidem. Ibidem.

199


Qui Gehlen confessa, con candore pari alla sua fede nel potere demiurgico della scienza, che la differenza tra i sistemi del passato e quello scientifico moderno risiede nel tendenziale totalismo del razionalismo teorico, di cui difettavano le culture pre-moderne, le quali ricorrevano, come surrogato di coerenza, a correttivi comportamentali di carattere pratico, mostrando per questa via morale una duttilità e un realismo che i sistemi razionalistici chiusi (cioè formalmente coerenti) evidentemente non hanno, per mancanza di funzionalità. Ciò, nondimeno, non si traduce in una maggiore sicurezza morale – come ritenevano i grandi razionalisti sistematizzatori, a partire d Platone -, ma in strutturale debolezza direttiva. Come ammette Gehlen, la scienza, la quale per sua natra è “illuminismo”, non può surrogare l‟assenza di sistemi guida ossia di “idèes directrices” in una società. Essa non può creare motivi tali da orientare in termini complessivi nei confronti del mondo, da suscitare un‟attiva fede, né offrire un‟autentica forza di motivazione per le decisioni fondamentali, così come non può far sorgere certezze cogenti e universalmente valide.413

Si vuol dire che “l‟onore” della “conoscenza per la conoscenza” si tramuta in dramma epistemologico, nel quale si era già imbattuto M. Weber a proposito del concetto di capitalismo. Per Weber, a determinare la natura del capitalismo è “l‟ascesi intramondana del protestantesimo” attraverso “un sistema di etica razionale dell‟agire” che esclude i benefici del godimento mondano dei beni per destinarli al profitto economico, testimoniale dello stato di grazia. In altri termini, lo scopo del profitto non è il profitto, ma questo è lo strumento mondano della salvezza, il segno tangibile della grazia divina. L‟eliminazione dello scopo ultramondano ha tradotto il segno della predestinazione divina nella prassi di un agire economico 413

Ivi, pag. 370.

200


finalizzato alla potenza mondana. Il capitalismo, quindi, nasce non dalla logica industriale e dal sistema di produzione suo proprio, ma dalla de-eticizzazione dei moventi teleologici: dalla salvezza attraverso i segni del potere, al potere fine a se stesso. L‟”etica protestante”, da strumento mondano a fine senza scopo ultramondano. Ma sarebbe incongruo da ciò far derivare ipso facto la risoluzione della prassi capitalistica in mera “tecnica” produttivisticoconsumistica. fine a se stessa. In realtà, in quanto attività spirituale, anche quella economica ha un suo “fine” intrinseco all‟uso dei mezzi strumentali di cui si serve, per cui sarebbe più corretto asserire che il “fine in sé” dell‟azione capitalistica consista piuttosto nel trasferimento del fine dalla dimensione trascendente a quella immanente. Così, l‟agire razionale insito nel fine economico deeticizzato non è propriamente volto all‟affermazione della potenza del fare in se stessa, ma al suo dispiegamento funzionale al dominio della materia di cui strumentalmente si serve: la natura, nel campo fisico, e la società nel campo delle relazioni umane. L‟etica “protestante” diventa etica “capitalistica” allorquando il fine mondano prende il posto del fine trascendente e il potere economico diventa dominio sulla natura e sull‟uomo, considerati come suoi strumenti. L‟elemento mondano era sempre presente nella considerazione trascendentistica dell‟azione economica capitalistica, in quanto questa si svolgeva comunque entro la realtà delle relazioni umane. Ma proprio la dimensione pratica della realtà mondana, nella dimensione “protestante” veniva considerata in sé come strumentale a quella ultraterrena. E la stessa attività pratica in sé non è cambiata relativamente alle sue tecniche produttive di ricchezza economica. Ciò che invece è cambiato con la secolarizzazione del fine è il fine stesso della attività economica, la quale ha perduto il suo valore spirituale, inevitabilmente soggettivo e personale come soggettiva e personale era a fede che lo sorreggeva, per conservare il solo aspetto strumentale, che nel capitalismo è diventato un “valore in sé” in quanto l‟attività economica relativa si è astrattizzata, divenendo 201


impersonale attività del “capitalismo”, ossia di un‟astrazione sociologico-economica. La ricerca sull‟origine del capitalismo va dunque concentrata non sull‟utilizzo razionale degli strumenti tecnici di produzione economica, ma sulla definizione storica dei fini dell‟agire economico, verso i quali l‟agire stesso diventa razionale. L‟agire economico è diventato del sistema “capitalistico” nel momento in cui il capitalismo stesso è divenuto un “sistema” economico-sociale, proprio di una dimensione del fare priva di fini trascendenti soggettivi, e perciò divenuta dimensione meramente e astrattamente “sociale”. Quando si afferma che il fascismo “ha conservato il capitalismo”, si intende dire che quel regime politico ha conservato la stessa produzione economica che vigeva nella società liberale asservendolo alla sua etica ideologica. Parimenti, quando si dice che il socialismo sovietico ha “creato il capitalismo”, si vuol dire che quel sistema politico ha razionalizzato la sua attività industriale a modello di quella capitalistica. Ma, in entrambi i casi, si dice troppo, per un vero, e troppo poco per un altro, in quanto l‟attività economica razionalizzata è “capitalistica” solo nelle realtà sociali in cui manca un fine etico assegnato all‟agire pratico, che diventa “economico” in quanto considerato in sé come oggetto della scienza chiamata “economia”; scienza non meno astratta del sistema sociale de-eticizzato e perciò detto “capitalistico”, e cioè quel sistema sociale in cui l‟attività economica è fine in se stesso. In passato, l‟attività economica era razionale verso il fine trascendente o etico-politico; modernamente, la stessa attività è divenuta razionale verso il “sistema” produttivo, altrimenti detto “il mercato”, il quale non è propriamente un “fine” ma un‟ipostasi ideologica che ha lo stesso valore teoretico di un‟ipotesi scientifica e lo stesso valore sociale di un feticcio totemico. Il fine, cioè il movente dell‟azione, può restare implicito ma non inesistente, per cui la esclusiva rilevanza sociale di esso è un portato culturale, ossia la determinazione di una scelta valoriale ideologicamente affermata e istituzionalmente garantita. La stessa 202


scelta valoriale che, diversamente, assegna alla politica il suo spazio etico, e conseguentemente all‟agire economico la sua funzione strumentale. Quando, come nel caso delle società capitalistiche, la scelta valoriale (il fine trascendente l‟azione economica) non viene asserita come valore socialmente riconosciuto, come etica pubblica, essa rimane confinata in interiore homine, offrendo l‟impressione di uno spazio etico socialmente vuoto, e perciò assente dall‟orizzonte economico. Ma tale assenza è politica, non di principio, per cui il capitalismo diventa logica puramente mondana, cioè attività economicistica, a seguito della crisi dei valori religiosi propria della cultura secolaristica moderna, “disincantata” e atea. La questione essenziale da cui partire per comprendere la genesi del capitalismo è se gli strumenti di produzione determinino forme nuove di produzione. In altri termini, se l‟economia capitalistica si riconosca dagli strumenti produttivi (l‟industrialismo moderno), ovvero dai fini immanenti alla produzione. La questione si può tradurre anche chiedendosi se il cambiamento delle tecniche di produzione, da quelle artigianali a quelle industriali, sia all‟origine della “forma” economica capitalistica, ovvero esso sia solo un elemento accidentale. La risposta deterministica, che lega capitalismo a organizzazione industriale, viene confutata dalla ricerca storica, che individua forme “capitalistiche” anche in contesti economici tradizionali, nei quali l‟agire pratico ha raggiunto un livello notevole di razionalizzazione. Infatti, la asserita dipendenza dei fini dai mezzi è ideologica, non logica. Logicamente, mezzi diversi possono servire a un unico fine, ovvero la relazione tra la forma ideale e i suoi contenuti materiali è variabile sul piano strumentale, ma non sul piano formale, che rimane idealmente lo stesso. L‟assimilazione degli strumenti pratici al fine ideale nasce dall‟assunto idelogico che l‟unità dell‟Essere non sia solo di carattere “ideale”, ma sia “totale”, e perciò abbia un “rispecchiamento” pratico nel mondo fenomenico. Da qui l‟assunzione della prassi economica a “forma” ideale, a categoria della

203


pratica, di cui “il mercato” è il suo concetto scientifico, e “il capitalismo” il suo concetto storico. La “forma” dei sistemi capitalistici storicamente strutturata è in realtà il regime politico-culturale che li sostiene. Ogni regime politico storico è legittimato da un fondamento culturale che giustifica la sua forma di potere. La rimozione del fine trascendente dall‟ambito pubblico ha potuto consentire la sua relativizzazione individuale, relativa appunto a singoli e a gruppi sociali privati. Rispetto alla dimensione pubblica, ogni valore privato è relativo al suo ambito di validità. Il cosiddetto “relativismo dei valori” allude proprio a questa dimensione privata delle credenze non pubblicamente riconosciute, e perciò non valevoli per tutti i membri sociali, assolutamente, ma appunto relativa alla sola sfera privata. Rispetto alla sfera pubblica, tutte i valori sono credenze private e relative, cioè aventi un valore paritetico e non assoluto. La sfera pubblica per antonomasia in età moderna è quella del politico, che ha monopolizzato il “pubblico” subordinando ad esso ogni altra sfera sociale e spirituale, che rispetto ad esso sono diventate dimensioni “private”. La privatizzazione dei fini non politici è un portato della ideologia storica che ha legittimato gli Stati moderni e che ha trovato la massima espressione nei regini totalitari del Novecento. Con la crisi politica dello Stato assolutistico, anche la sua ideologia è stata “neutralizzata”, facendo di quanto era stata l‟istituzione pubblica per antonomasia un ente tra enti, e del principio di socialità una ragione economica, lo scopo di un comune interesse solidale dei suoi membri, la cui realtà privata rispetto a quella politica pubblica fu indicata nella “società civile”, il campo economico per antonomasia, dove si allocarono anche il campo etico, culturale e religioso, tutti privatizzati. La democrazia nasce dalla universalizzazione del riconoscimento pubblico dello status privato di ogni cittadino e di ogni gruppo sociale, ma non mette in dubbio il principio del monopolio politico della sfera pubblica, confermando il primato della politica sull‟etica, che è il

204


tratto caratteristico del moderno rispetto agli altri periodi storici del passato. Nelle democrazie contemporanee, i singoli e i gruppi sociali hanno fra loro e con lo Stato e gli altri enti pubblici un rapporto privatistico, che, con la crisi dello Stato politico, è diventato rapporto contrattualistico, fondato sulla mutua convenienza, dalla fiducia revocabile. Ma l‟idea che sia solo lo Stato a poter riconoscere la validità degli accordi, pubblici e privati, è un portato dell‟assolutismo politico moderno, che monopolizza la sfera pubblica negando ad altri poteri sociali le sue esclusive funzioni di governo, che si compendiano appunto nel riconoscimento di valore pubblico delle azioni private. Se infatti l‟agire individuale o di gruppo ha un movente privato, cioè un fine individuale o di gruppo, l‟esito dell‟azione ha sempre un valore sociale, ossia una dimensione pubblica. La lotta per il controllo sociale passa attraverso la definizione del valore socialmente rilevante. La politica è l‟attività tesa al riconoscimento pubblico, sociale, dei valori particolari che altrimenti resterebbero privati. L‟attività di governo è appunto quell‟atto di riconoscimento. Lo Stato totalitario è quello che riunisce nel suo potere esclusivo sia la funzione politica che quella di governo. Ma l‟ideologia totalitaria non sarebbe stata legittimata senza l‟affermazione teorica del totalismo razionalistico, ossia del possibile e dunque doveroso “rispecchiamento” dell‟unità ideale nel molteplice mondo fenomenico. Se lo scopo delle democrazie totalitarie fu quello di asservire l‟economia alla politica, politicizzando la società civile, ossia riportando la sua fisiologica molteplicità degli interessi particolari all‟esigenza politica dell‟unità dello Stato assolutistico, lo scopo delle democrazie capitalistiche è quello di garantire il riconoscimento pubblico della logica economicistica, cioè il valore sociale del “mercato” considerato come il luogo reale della ideale società civile, trasferendo alla politica e in genere alla vita pubblica le dinamiche particolaristiche proprie della società civile economicisticamente interpretata, ossia privata di ogni dimensione e rilevanza etica, sicché 205


il pluralismo degli interessi dei gruppi economici si riflette nel pluripartitismo e nell‟associazionismo a fini politici, e in generale i criteri utilitaristici vengono istituzionalizzati attraverso il riconoscimento pubblico e la garanzia politica dei diritti individuali e di gruppo al benessere. Entrambe le tendenze democratiche, però, hanno in comune l‟eliminazione dal campo della rilevanza pubblica, cioè della politica, la sfera dei fini etici trascendenti, assumendo come valore etico fondativo della loro legittimità la politica stessa, cioè la forza del potere sociale, identificata, nei regimi totalitarii, con l‟etica dello Stato, o della Nazione o del Partito o del Popolo o della Classe, e nei regimi capitalistici con il “mercato”, idolo identitario il cui “sistema” è preso a modello di razionalità e libertà di azione privata e pubblica dei cittadini-consumatori, come un tempo lo era la sfera religiosa e spirituale per i credenti. Le rispettive tendenze democratiche, inoltre, essendo legittimate dagli stessi principii di razionalità, sono speculari nella scelta finalistica della loro adozione. Pertanto, se i regimi democratico-totalitarii, negando le libertà civili hanno contraddetto il pluralismo della vita sociale negando le storiche e spontanee gerarchie dei rapporti privati tra i gruppi per affermare la sola istanza unitaria del potere politico statuale; le democrazie liberali, viceversa, tendono a negare la funzione unitaria del potere politico a favore del pluralismo delle rappresentanze sociali, ostacolando la funzione fisiologica e tradizionale dei governi statuali a decidere per il bene comune. Infatti, la riduzione delle funzioni di governo al processo politico delle rappresentanze sociali particolari, contraddice l‟asserita realtà etica dello Stato e tende a neutralizzarne il potere al quale era stato predisposto istituzionalmente e per principio. La mondanizzazione dell‟etica capitalistica coincide (o consegue) con la rimozione dei valori trascendenti il mero esercizio (più o meno strutturato e razionalizzato) della forza sociale, per cui lo stesso movente razionale dell‟azione, in mancanza di fini pubblici 206


riconosciuti, si è privatizzato, consegnando alla sfera pubblica la sola realtà evidente (che è sola riconosciuta) delle regole di azione economica immanenti al processo produttivo stesso, assolutizzato come “fine in sé” dell‟astratta attività economica. La rimozione dalla sfera pubblica dei valori morali – a seguito della neutralizzazione politica delle fedi religiose dopo la Guerra dei trent‟anni – ha interessato lo stesso campo del sapere, nel quale l‟emancipazione della filosofia dalla teologia come “scienza” avente “in sé” il suo fine, provocandone la sua privatizzazione, ossia opinabilità. Perdendo il sapere scientifico la sua relazione organica con la Verità (religiosa, prima, e in seguito anche filosofica), esso ha acquistato un valore pubblico di “utilità”, legato non alla corrispondenza con i fondamenti epistemici del sapere, ma al riconoscimento sociale del suo metodo. La conoscenza scientifica, quindi, diversamente, diversamente dalla privatezza tradizionale del sapere filosofico, “non è un prodotto dell‟imparzialità del singolo scienziato, ma un prodotto del carattere sociale o pubblico del metodo scientifico”, per cui la sua “obiettività è legata alla forza della sua credenza sociale come criterio di conoscenza, al suo riconoscimento”414 pubblico, alla hegeliana Anerkennung. Il sapere emancipato dalla tradizione sapienziale e dalla stessa filosofia, cioè la “scienza” di cui parla Gehlen, fa dipendere il suo valore epistemologico dall‟opinione pubblica, come ogni altra credenza sociale storicamente riconosciuta a livello istituzionale. Esso, diversamente dalla filosofia, non contraddice l‟opinione dominante, la dòxa cioè, ma ne dipende in quanto sapere socializzato. Il suo fondamento veritativo è legato alla sua efficacia, quale mera ipotesi o “congettura”, esposta a ogni pubblica “confutazione” o smentita da parte di altra ipotesi ritenuta più probante ed efficace. Sia la specializzazione crescente della ricerca scientifica, che la velocità delle nuove acquisizioni, hanno isolato professionalmente gli operatori 414

K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. it., Roma, 1975, II, pag. 289.

207


della ricerca, i ricercatori scientifici, dalla comunità dei credenti, da quella opinione pubblica che, cn la propria fede ne omologa il suo valore di conoscenza, ma che nondimeno non riesce a penetrarne le intime e profonde ragioni di validità razionale, sulle quali dunque si può soltanto “aver fede”, rimettendosi alla competenza dei nuovi sacerdoti del sapere, gli scienziati appunto, il moderno clero cattolico della comunità scientifica mondiale. I pre-giudizi anti-scientifici dei credenti non aggiornati, costituiscono i residui e le sopravvivenze fideistiche di credenze attempate e superata dalla ricerca aggiornata e non ancora confutata da quelle future conoscenze che a loro volta considereranno superstiziose e superate le credenze attuali, a suo tempo aggiornate e in voga. E‟ palese l‟analogia tra l‟opinione scientifica e ogni altra forma di credenza sciale odi ideologia politica, forme di conoscenza legate a un fondamento di validità opinabile, discutibile, ipotetico, soggetto a valutazioni personali ed emozionali. L‟inevitabile relativismo delle credenze particolari e soggettive viene corretto dal criterio di rilevanza sociale, per cui il loro valore pubblico ne diventa presupposto di validità razionale. In questa prospettiva pubblicistica, l‟ “in sé” della ragione scientifica è del tutto relativo all‟opinione non socializzata, ancora privata, che viene considerata “ethos negativo”,415 non provvisto di riconoscimento pubblico, ossia di consenso sociale e di fine politico. Il sapere scientifico di cui parla Gehlen non può “suscitare un‟attiva fede”416 in quanto lo scopo della ricerca viene sottratto ai singoli ricercatori per essere socializzato e perciò quello stesso sapere viene reso strumentale ai fini che gli destina la politica. Il destino di ogni forma di sapere assoluto, deprivato cioè dei suoi fini trascendenti il sapere stesso, è di servire ai fini della potenza che lo adotta e lo riconosce pubblicamente, secondo criteri non veritativi e razionali, ma meramente funzionali e utilitaristici. Succede alla 415 416

A. Gehlen, Op. cit., pag. 376. Ivi, pag. 377.

208


scienza quanto è successo alla filosofia immanentistica, e alla stessa teologia protestante, emancipata dall‟autorità ecclesiastica e finita anch‟essa per diventare instrumentum regni. Né l‟accostamento è casuale, essendo la Chiesa istituzionale il modello di potere discrezionale decisivo in passato sulle sorti pubbliche della verità, di cui aveva il putativo monopolio. L‟economia, il sapere, la scienza, la politica, la religione considerati “in sé”, sono espressioni di una forma di conoscenza deprivata del suo fine trascendente e ridotta ad ipotesi razionalizzata, a “scienza”, a congettura in attesa di confutazione, a gioco teoretico. La stessa arte, ridotta ad espressione estetica, diventa “stile”, forma di bellezza senza contenuti valoriali, considerati privati e soggettivi, ossia pubblicamente non rilevanti. La condizione “negativa” del sapere deeticizzato, ne consacra la sua “inutilità” sociale, che può essere corretta nel senso della sua fruizione pubblica solo attraverso il riconoscimento politico, che pertanto diviene il suo fondamento di credibilità. Il sapere dipendente dal potere è servile per definizione, non libero, e la socializzazione del sapere è un prodotto tipico degli Stati assolutistici, quelli cioè che assolutizzano il potere politico dalla realtà sociale, la quale viene a sua volta privata dei suoi fini etici specifici e indipendenti dal potere, accreditandola a discrezione dopo averla neutralizzata, fornendole così quei fini etici di cui per l‟asserita sua “negatività” si diceva fosse priva. Assolutizzare la realtà sociale significa liberare l‟agire privato dei suoi fini etici immanenti, che equivale a ritenere pubblicamente irrilevanti i fini privatizzati, per poi tributarli a discrezione di fini pubblici, surrogatori e diversi da quelli originarii privati. L‟espropriazione dei fini etici da parte del potere politico, è sottrazione ben più grave di ogni appropriazione del surplus economico dalla produzione industriale di cui si lamentava Marx, interessando il campo dei beni ontologicamente non disponibili, quello dei valori morali e ideali, non traducibili in beni materiali 209


manipolabili, in merci, per cui l‟ingiustizia morale è un‟effrazione metafisica non rimediabile con correttivi equitativi di tipo politico o economico, ma solo attraverso il ripristino della verità, cioè della stessa distinzione di ciò che è di Cesare, i beni materiali di cui si ha la disponibilità, da ciò che è di Dio, i beni ideali che semplicemente ed eternamente sono. La secolarizzazione è il portato della privatizzazione dei fini dell‟agire, che un tempo erano pubblicamente riconosciuti come trascendenti e non disponibili, e controllati dai custodi della verità, la Chiesa. L‟esautorazione del suo potere pubblico e cioè della sua influenza politica avvenne attraverso la distinzione dei fini privati, proprii della società civile, dai fini pubblici, controllati dal potere politico secolarizzato e monopolizzato dallo Stato, la cui etica divenne indipendente da quella religiosa tradizionale, anch‟essa privatizzata. In seguito, il valore privato indipendente dal controllo monopolistico del potere pubblico fu fatto valere anche nei confronti della politica degli Stati secolarizzati con pretese assolutistiche non dissimili da quelle antiche della Chiesa, che rimaneva il loro modello strutturale e ideale. Contro tale assolutismo, razionalistico prima che politico, si oppone ogni filosofia della verità, ogni vero liberalismo, critico dei regimi assolutistici perché della ragione astratta, sia essa quella che si esprime nella “scienza”, che quella che si esprime nelle ideologie sociali. 4. Gehlen ricorda il passo aristotelico dell‟Etica A Nicomaco in cui si afferma che “le azioni che si compiono in una determinata direzione rendono un uomo quello che è”, per affermare (o ribadire) che “inversamente, anche le nostre certezze sono in ampia misura riflessi dei nostri destini pulsionali”.417 Anche per Gehlen la comprensione dell‟uomo deve partire dal presupposto che “il centro di tutte le ricerche è l‟azione”, la quale 417

Ivi, pag. 370.

210


diventa antropologicamente centrale in quanto l‟uomo è biologicamente un “essere manchevole”418 che “non può farsi assorbire dalla situazione in cui si trova, dalla casualità dell‟adesso, e che dunque è costretto a prevedere e a prepararsi ad affrontare, già oggi, i bisogni futuri”, per cui il suo “assetto pulsionale in quanto tale è perciò, necessariamente orientato al futuro”.419 Per non cadere dunque nei modelli della psicologia, che sono vincolati al procedimento dell‟astrazione, una persona va descritta “in base a ciò che fa e ai contenuti nei quali rivela le proprie inclinazioni”. Nella sfera del pensiero, che è astratto e rigidamente fissante, si perviene di necessità a una serie di “qualità” generali […] nelle quali tuttavia si tralascia di considerare sia l‟azione sia i contenuti concreti, appunto perché dai comportamenti tenuti nel mondo si sono inferite le “disposizioni che in essi si manifestano”. Occorre quindi fare il secondo passo, reintegrare quell‟astratta interiorità qualitativa […] introducendo l‟ “ambiente”, il “milieu”, etc. Ci troviamo così di fronte all‟onnipotente coppia di concetti disposizioneambiente; se non che, grazie al punto di partenza di cui si diceva dianzi, abbiamo perduto di vista l‟intera realtà delle azioni e finiamo col pensare soltanto a un‟interiorità corredata di qualità che si trova davanti a un mondo esterno, [così che] questo modo di procedere occulta certe leggi soggiacenti alla struttura pulsionale umana, se queste leggi dovranno essere comprese in base al rapporto di quella [struttura] con l‟azione. 420

Rispetto alla rappresentazione che descrive l‟uomo come “una globalità di disposizioni, di qualità, istinti fondamentali”, occorre precisare in senso correttivo che egli “non rappresenta mai onnilateralmente queste globalità”,421 ma invece, “rispetto a situazioni diverse l‟uomo sviluppa qualità assai diverse, che oltretutto possono 418 419 420 421

Ivi, pag. 422. Ivi, pag. 393. Ivi, pag. 394. Ivi, pag. 394.

211


mutare storicamente, variare col tempo”.422 Pertanto, nel tratteggiare la fisionomia caratteriale dei personaggi storici, occorre tenere presente “la necessità di reintrodurre il mondo” di quegli uomini, nel quale agiscono, e che “la concettualizzazione mette tra parentesi”.423 L‟allusione al metodo fenomenologico è chiara e diretta. Ma la critica di Gehlen non tende a screditare le analisi filosofiche dell‟uomo; al contrario, egli contesta che la conoscenza dell‟uomo circoscritta a relazioni astrattamente razionali possa comprendere essenzialmente la natura umana, che non può circoscriversi ai dati psicologici, puramente “interni”, senza metterli in relazioni col mondo esterno, verso cui reagisce la volontà umana e il cui prodotto sintetico è l‟azione. L‟azione non è dunque il corredo fenomenico dell‟intima volontà umana, ma il momento in cui si realizza quel “rapporto” tra uomo e mondo che perciò deve essere l‟oggetto della vera conoscenza, la quale solo a questo titolo di verità, e non formalità, può dirsi filosofica. L‟analisi fenomenologica, dice Gehlen, trascurando il contesto storico e naturale della vita umana, tralascia la “psicologia degli istinti”. Nell‟uomo si dà comportamento istintivo in tutti quei casi in cui gli organi lavorano “come si conviene” [ma] il fatto è che noi conosciamo gli uomini soltanto come esseri culturali […] che si adoperano in una serie di azioni indescrivibilmente multiformi e socialmente mediate, tali cioè che non si potrebbero comprendere senza altre azioni di altri uomini, e che quindi sono state apprese, [e per ciò] qui non ha senso parlare di figure motorie ereditarie, evocate da situazioni chiave, non ha senso perciò parlare di azioni istintive vere e proprie.424

Gehlen vuol dirci che il comportamento umano, i “modi”, come pure “i tipi di attività umane, dalla filosofia alle pratiche dei cacciatori di 422 423 424

Ivi, pag. 395. Ivi, pag. 395. Ivi, pagg. 395-396.

212


testa”, non possono essere riconducibili a dati istintuali, rapportabili a una natura che li avrebbe precostituiti e prefissati geneticamente, ma sono invece “attività apprese”, cioè forme culturali di prassi socializzata, definibili attraverso un processo di interazione con l‟ambiente che è storico, e in questo senso “le cui variazioni sono sempre pensabili al pari della loro sparizione completa […] in base alla medesima riduzione degli istinti”, secondo un rapporto che vede l‟avanzamento culturale dell‟agire umano socializzato parallelo al “recedere del comportamento autenticamente istintivo”. Da questa intrinseca plasticità della struttura pulsionale sorge in primo luogo la necessità, cui ogni cultura obbedisce a suo modo, di elaborare una determinata gerarchia e determinate regole distributive delle azioni richieste, tollerate e proibite e, appunto per questo, anche dei bisogni, e di imporli ai giovani. Noi non agiamo in questo o quel modo perché abbiamo determinati bisogni, abbiamo bensì questi bisogni perché noi stessi e gli uomini intorno a noi agiscono in questo o quel modo. 425

L‟elemento storico risiede dunque non solo nella diversificata modalità dell‟agire umano, che, per così dire, rappresenta il risultato, l‟esito, dei suoi sforzi esistenziali; ma storica è anzitutto la risposta modale ai bisogni che l‟uomo assume in quanto progettista della sua vita, risposta che è sempre variabile e non pre-determinabile. Proprio “a causa di queste svariatissime iperdeterminazioni di ogni singolo comportamento umano, il redigere cataloghi di istinti è una fatica senza speranza”. Infatti, “ogni concreto comportamento è socialmente determinato, membro sistemico di un contesto culturale, appreso e in linea di principio possibile anche altrimenti”, anche se spesso “esso è, virtualmente, investito di istintività”, che permane nell‟uomo come “un residuo” che va culturalmente domato e trasfigurato, in quanto “non meramente suscettibile di esaurirsi per stanchezza”. Ecco perché “l‟autocomprensione che l‟uomo può raggiungere con gli strumenti 425

Ivi, pag. 396.

213


della scienza” deve contemplare “al suo centro l‟azione”, e deve servirsi di concetti quali la “riduzione degli istinti, residuo istintuale e de-differenziazione degli istinti” come di “categorie antropologiche autentiche e indispensabili”.426 Ma qual è il “meccanismo” o il “vitalismo” dell‟azione? Per comprendere il “circuito dell‟azione”, occorre partire dagli “organi volontari” dell‟uomo, che sono quelli “locomotori e percettivi” dai quali nascono il linguaggio e il pensiero, che consentono appunto, col loro ritorno alle percezioni, quel “circuito dell‟azione” costituito dal‟uso delle mani, degli occhi e del linguaggio, e che “può chiudersi in ampia misura in se stesso, traendo da se stesso i motivi e le occasioni della sua attività, del suo persistervi o modificarla”.427 La mancanza di una “dipendenza reciproca”, “diretta e necessaria”, differenzia tali organi da quelli che “lavorano involontariamente”. La loro indipendenza, d‟altro canto, consente di “trarre il motivo dell‟attività di ciascuna di queste prestazioni dall‟attività di altre”, sicché esse possono “alternarsi” e “subordinarsi tra di loro” assumendo un “ruolo guida” ad libitum entro il “circuito dell‟azione”, che è a sua volta “indipendente dalle pulsioni”, cioè dai “bisogni” e dagli “interessi”, che Gehlen considera “sinonimi”.428 Essendo l‟uomo un essere non specializzato e “rimesso a se medesimo”, [cioè] un essere che non gode del supporto di alcun ambiente naturale a lui adatto, gli è negato il soddisfacimento diretto, proprio della naturalità animale, dei suoi bisogni vitali, perché egli difetta della “via breve”, lungo la quale gli istinti dell‟animale trovano attraverso i sensi sintonizzati sugli stimoli, i loro obiettivi che la superiore saggezza della natura ha già predisposto,

426 427 428

Ivi, pagg. 396-399. Ivi, pag. 399. Ivi, pagg. 399-400.

214


per cui il suo mondo egli deve renderlo “maneggevole e riconoscibile, intimo e usufruibile”, privo cioè di quelle originarie “sorprese” che o circondano, impedendogli di trovare “ a sua disposizione bell‟e pronto ciò di cui ha bisogno”, costringendolo pertanto a “un lavoro pianificato e pertinente”.429 La posizione umana nel mondo è dunque limitata da una insufficienza biologica, strutturale, antropologica, che ne condiziona l‟intero suo percorso culturale, teso a superarla attraverso un processo che potremmo chiamare di progressiva ma sistematica neutralizzazione della minaccia naturalistica legata al tempo incognito del futuro. A tal fine, l‟opera culturale dell‟uomo è di assicurarsi la prevedibilità delle minacce rapportandole alla dimensione del suo agire, che è un agire presente, il cui contenuto, insieme al prodotto dell‟azione, è la conoscenza del suo processo reale, che l‟ha posto in essere come atto umano. Il lavoro, pertanto, è l‟agire finalizzato a neutralizzare l‟incognito futuro nel noto presente. In tal senso, nella presentificazione di ciò che non-è (in quanto già o in quanto non ancora stato) in ciò che è appunto presente, consiste l‟intero processo dell‟attività umana come generale cultura antropologica. L‟azione umana, come fare e come sapere del fare, è volta essenzialmente a riportare ogni evento naturale (nel senso specifico di accadimento extra-umano, e nel senso lato di avvenimento estraneo all‟agire attuale) all‟umano presente. La durevolezza delle azioni garantita dalle istituzioni sociali è legata alla dilatazione entro il rassicurante presente dei comportamenti umani, canonizzati e resi perciò prevedibili. Tutta la storia umana è circoscritta a questa essenziale tensione dialettica tra l‟essere di ciò che è presente ideale, e il divenire di ciò che non-è idealmente presente ma naturale fenomenologia del mutamento dei molteplici enti mondani. E poiché l‟esame di ciò che costituisce l‟essere umanizzato, la realtà ideale dei suoi prodotti storici, investe necessariamente il rapporto con quanto dall‟essere 429

Ivi, pag. 400.

215


stesso è il non-essere trasformato in essere, che possiamo, sulla scorta di Gentile, chiamare genericamente “natura”, la conoscenza dell‟esperienza umana non può limitarsi ai prodotti dell‟essere, alle idee e ai fatti fenomenici in sé, ma deve comprendere anche le dinamiche di quel rapporto, ossia i termini, i tempi e i modi della costituzione dell‟essere rispetto alle resistenze, alla natura e alle forme del non-essere ciò che è. La rottura dell‟originaria unità cosmica che l‟uomo opera attraverso il lavoro, finalizzando le cose del mondo a una destinazione diversa da quella organica, non è dunque un intervento legato a una supposta “volontà di potenza”, ovvero a una “insoddisfazione” egoistica, inflattiva dell‟ordine naturale, ma è conseguente alla condizione stessa dell‟uomo, della sua natura quale realtà antropologica scissa da quella unità organica, consentita alle altre specie viventi grazie alla loro specializzazione biologica. Non avendo nessun ondo predisposto come habitat o Um-Welt, l‟uomo deve predisporne uno suo, ricavandolo dalla trasformazione di quello naturale attraverso il lavoro. La trasformazione della natura in prodotto umano riqualifica il mondo dandogli una destinazione strumentale, mediata e qualificata appunto dal lavoro. Essendo il processo trasformativo della natura inseparabile sia dai bisogni che dall‟arte, il lavoro umano introduce nel ciclo naturale un elemento precipuamente antropologico e perciò culturale, che è sostanzialmente estraneo a quanto la natura stessa predispone da sé per la sopravvivenza delle specie, così che la conoscenza e l‟applicazione metodica della tecnica di trasformazione della realtà naturale può, per questo riguardo, configurarsi come un atto di “creazione” umana quanto più incisiva la mediazione operativa tra natura e prodotto del lavoro. D‟altronde, la progressiva pervasività della tecnica nei processi trasformativi finalizzati all‟umanizzazione del cosmo naturale, non potrà giungere fino alla distruzione della sua stessa materia da trasformare, se non rendendo se stessa superflua allo scopo, che è 216


quello di trasformare in essere ciò che diviene. Infatti, con la perdita del valore d‟essere dell‟attività umana, questa ha finito modernamente per essere fine in sé, una trasformazione astratta dal suo essere finale, per cui anche la conoscenza relativa è una conoscenza astratta del mondo, relativa al solo aspetto trasformativo e quindi considerativa soltanto del non-essere mondano, e non più anche dell‟essere ideale, alla cui realtà il lavoro umano è originariamente finalizzato. In questo precipuo senso noi abbiamo indicato come “astratta” la civiltà tecnologica e “pigra” la ragione che la sorregge. Anche Marx, aristotelicamente, definisce il capitalismo attraverso il suo scopo, per cui ciò che esso si propone ne costituirebbe l‟essenza, ma il capitalismo è appunto la realtà dell‟astratto non-essere (alcun valore d‟essere) considerato in sé come un valore. Questa finzione della ragion pigra si regge appunto sul rovesciamento del senso dell‟essere, che è stato indicato in letteratura come “la dialettica dell‟Illuminismo”. Ma, poiché la vera dialettica è la dialettica della verità e non della finzione dell‟astrazione, il fare deve pur sussistere su una civiltà del fare, così come il “dominio” della tecnica dovrà pur sempre esercitarsi su una realtà da dominare, per cui il rapporto dialettico hegeliano Servo/Padrone costituisce anche qui il modello ideale di socialità. La necessità di intervenire sulla natura col lavoro, fa sì che “l‟ambito d‟azione dell‟uomo non è mai la situazione soltanto, il mero Adesso approssimativo e a portata di mano”, come vorrebbe farci credere Heidegger, che però Gehlen non nomina, ma riguarda “le condizioni che potranno contribuire a reggere la sua esistenza in futuro”. E su tale prospettiva è “foggiata e orientata” la “vita pulsionale” dell‟uomo, che perciò “può essere compresa unicamente in base ad essi”. Da qui la necessità di intendere le pulsioni “nel loro rapporto con l‟azione e

217


con i compiti che questa pone”,430 consapevoli che “il soddisfacimento dei bisogni dipende dall‟esito oggettivo dell‟esperire”.431 La possibilità di inibire intere pulsioni, anche di specie organica, è un fatto di prim‟ordine che non può essere compreso soltanto in rapporto alle condizioni dell‟azione, la quale deve essere “sganciata” dai bisogni […] in modo da sviluppare la sua propria, necessaria e non delimitabile capacità [di trasformazione del mondo]. Questo procrastinare crea dunque uno spazio vuoto, uno iato tra i bisogni e gli adempimenti [in cui] non c‟è soltanto l‟azione [ma] ogni pensare pertinente, conforme ai fatti, il quale, se ha da essere corretto e fruttuoso, non può venir perturbato dalla pulsione, così come non può esserlo l‟azione. 432

Questo iato viene considerato da Gehlen come “un oggettivo fatto fisiologico della sfera organica e animale”,433 ma, in realtà, ciò che conta, è che la sua teoria antropologica basata sull‟ “uomo, essere che agisce”,434 viene a cadere per sua stessa ammissione di una attività che si affianca all‟ “azione” come “pensare pertinente”, ossia direttivo e razionale, che costituisce pertanto il filtro ideale che agisce da mediatore tra pulsioni e azioni umane. La pertinenza del pensiero non può che essere la riflessione progettante della Vernunft che agisce secondo il principio ipotetico-verificativo proprio della scienza, che appunto è pensiero “conforme ai fatti”, ossia fondato sulla realtà del mondo-della-vita. Ciò vuol dire che il concetto di “azione” va esteso a una attività composita e sintetica di cui il fare e il pensare sono momenti astratti dalla sua realtà attuale, in fieri, e dove il primo senza il secondo non sarebbe che movimento pulsionale, istintivo, naturalmente non umano. 430 431 432 433 434

Ivi, pag. 400. Ivi, pag. 401. Ivi, pag. 401. Ivi, pag. 401. Ivi, pag. 400.

218


“Quando noi avvertiamo una pulsione, un bisogno, – scrive Gehlen – non è in nostro potere, cioè non dipende da noi il sentirlo. E‟ però in nostro potere il soddisfarlo o il non soddisfarlo”. La distanza, o “iato”, tra bisogno e soddisfazione, non è determinata dalla natura del bisogno, il quale “non può decidere […] il momento in cui va soddisfatto, ma da un calcolo razionale che rende le azioni sganciabili dalle pulsioni”, valutando i tempi e i modi delle “occasioni per poter essere adeguate, ponderate, migliorabili e ripetibili”.435 Esattamente tale “processo di mediazione” costituisce l‟agire razionale dell‟uomo, che nel sistema della civiltà moderna […] è venuto assumendo la dimensione di un apparato enorme [di “conservazione della vita”], nel quale per altro tutti trovano modo di vivere e nel quale ogni minima componente è un fatto del lavoro organizzato secondo razionalità e disciplina, tanto che va impedito ogni attentato ai fondamenti di questo sistema, consista anche solo nell‟abbassamento, dovuto al prevalere di chiacchiere romantiche, del livello del sapere oggettivo e della ricerca, delle quali esso vive. 436

Le conclusioni di Gehlen a riguardo sembrano giustificare il corso della storia occidentale moderna, dove ha prevalso la “razionalità” del “lavoro organizzato”. La civiltà non solo è accettabile, ma necessaria alla vita, [essendo] cosa insita nell‟uomo e radicata nello iato, nella separabilità cioè delle azioni dalle pulsioni, che costituisce la condizione dell‟esistere di un essere fatto [alla maniera dell‟uomo].437

Il punto è decisivo: la “separabilità delle azioni dalle pulsioni” è la “condizione d‟esistenza dell‟uomo”, e questa viene soddisfatta dalla 435 436 437

Ivi, pag. 401. Ivi, pag. 402. Ibidem.

219


ragione, la quale appunto è la facoltà che distingue nell‟uomo le azioni dalle pulsioni, coordinandole in un processo razionale di commisurazione dei mezzi ai fini dell‟agire. Da qui la più corretta definizione dell‟uomo come “un essere che progetta e agisce”,438 e, di converso, la contraddittorietà dell‟affermazione, pur di seguito ribadita, per cui “non sarebbero per nulla pensabili né possibili un confine e una differenza nettamente determinati tra azioni biologicamente adeguate in via diretta e azioni mediate, dall‟adeguatezza sempre più indiretta”, dal momento che la “direzione” dell‟azione, nell‟un caso, è determinata dallo stesso impulso vitale per istinto, e nell‟altro caso, quello umano, l‟agire è indeterminato, ovvero è mediato dal “progetto” razionale, che soggetti vizza la prassi rendendola a un tempo personale e sociale, cioè morale e culturale. In questo senso, “le pulsioni umane sono suscettibili di sviluppo e modellazione”.439 La posizione di Gehlen si fa sempre più ideologica man mano che le conseguenze della sua stessa impostazione spingono il discorso verso i luoghi classici dell‟argomento filosofico, lambendo le questioni essenziali della ragione, della libertà e della responsabilità; aspetti coscienziali che la sua analisi antropologica vorrebbe rimuovere come succedanei non essenziali al profilo umano scientificamente delineato in un senso che vorrebbe più radicale di quello tradizionalmente culturale. Affermare perciò che “non esistono confini oggettivi tra pulsioni e abitudini, tra bisogni primari e bisogni secondari, e che questa distinzione, ove compaia, è istituita da l‟uomo stesso”,440 vuol dire non recepire la portata “oggettiva” dell‟umanizzazione del cosmo naturale attraverso i processi trasformativi del lavoro e le condizioni artificiali della socialità umana come convivenza istituzionalizzata, sostitutiva di ogni spontanea e incontrollata inibizione delle pulsioni. 438 439 440

Ivi, pag. 402. Ibidem. Ivi, pag. 402.

220


Le “abitudini” sono appunto risposte convenzionali e socializzate a impulsi naturali, al fine di renderli funzionali a un progetto di convivenza razionale e riconoscibile comunemente. Parimenti, la “distinzione istituita dall‟uomo” corrisponde alla istituzionalizzazione delle risposte razionalizzate e rese convenzionali, cioè socialmente ammesse e riconosciute come valide (o, se infrante, sanzionate) dal gruppo. Affermare la non esistenza di “confini oggettivi” equivale a dire che tali confini sono culturali, e appunto umani. Cosa sarebbero le “abitudini” se non “bisogni” socializzati, cioè indotti da valori ritenuti comuni e perseguiti dal gruppo? E‟da questo ideale momento, funzionale all‟essere del gruppo, che “le pulsioni umane” non si può più dire che “mirano a una enucleazione selettiva”, ma bensì che esse sono predisposte, ovvero guidate, verso “uno sviluppo che le orienti partitamente sui fatti del mondo”, se è vero che l‟uomo è un “essere che può agire per istinto, dipendendo la sua esistenza dal penetrare i fatti, e dal dominarli”. E‟ questo, dice Gehlen, il motivo per cui “abitudini e interessi, anche superficiali, dicono qualcosa dell‟uomo, cioè dei suoi orientamenti rispetto al mondo, quelli nei quali egli ha fissato le sue pulsioni”.441 Ma questi “orientamenti fissati”, cristallizzati in “abitudini”, ossia in convenzioni e doveri sociali, sono appunto il risultato di una forma “istituita” di inibizione, che Gehlen chiama “enucleazione selettiva”, di origine culturale e non spontanea. Non a caso egli stesso parla di “ambiente culturale”, contrapposto allo “ambiente naturale” animale,442 costituito, il primo, da “sedimentazioni compiute da comunità esistenti da gran tempo”, le quali, nondimeno, non sono il frutto di procedure spontanee, ma di condotte impartite dalla “educazione” e da “prese di posizione” di matrice sociale.443 “La vita

441 442 443

Ivi, pag. 403. Ivi, pag. 404. Ivi, pagg. 403-404.

221


pulsionale dell‟uomo”, afferma Gehlen, “palesa, come caratteristica di fondo, due direzioni opposte”. Da un lato, l‟adempimento di tutti i bisogni umani, anche degli elementari,

avviene alle condizioni che le fattispecie e le circostanze del mondo siano, sin nei particolari, riconosciute e dominate e che questo riconoscere e questo padroneggiare siano acquisiti, nel caso dell‟uomo, nelle stesse attività di rapporto con i fatti e le circostanze [per cui] il mondo è rielaborato a dimensione utile alla vita umana. Perciò le pulsioni debbono […] corrispondere alle circostanze [per] poter “concrescere” con il mutare delle situazioni e con il connesso mutare delle azioni: non essere condizionate dalla situazione ma corrispondervi.444

Questa condizione presume un controllo dell‟ambiente umanizzato (del “mondo rielaborato”) preventivo a ogni azione, rassicurata da una procedura “acquisita” dall‟esperienza sociale. Da qui il rapporto non problematico con le “circostanze” e con le “situazioni”, il cui “mutare” delle azioni non deve alterare, ma deve “corrispondere” al modello “riconosciuto”. Qui Gehlen palesa una tendenza totalizzante al processo di socializzazione dei rapporti dei rapporti umani che è propria dei modelli razionalistici di organizzazione sociale, tendenti a proiettare nella prassi la rigida ed astratta coerenza ideale dei legami o nessi logici delle formalizzazioni teoriche. Una realtà totalmente umanizzata è il contrario di un processo storico, che presuppone l‟insopprimibile distanza tra esperienze acquisite (sapere) e situazioni imponderabili (realtà fenomenica). La differenza tra la natura biologica e la storia umana riposa appunto sul carattere “aperto” (o trascendente) dei processi umani, non omologabili a sequenze nomotetiche assolute, ossia non dipendenti dai limiti della prevedibilità e del controllo dei processi culturali. Voler ridurre la imprevedibilità dei fenomeni umani è la funzione di ogni organizzazione sociale, così come è quella di assegnare una regola 444

Ivi, pag. 405

222


educativa ai comportamenti da parte di ogni convenzione tradizionale; ma volerla eliminare equivarrebbe al desiderio di trasformare la storia in una natura, l‟alea in legge, facendo dipendere dal volere umano pianificato tutta la molteplice vita. Questo risultato consegue con impegno etico ogni gnoseologia razionalistica basata sulla conoscenza per causas, sia di tipo scientifico che di tipo teologico. L‟idea della verità come cognizione dei nessi causali fra i fenomeni, ipotizza una realtà compiuta in ogni sua determinazione necessaria, per la quale il passato è la causa del futuro effetto, e dove regna perciò un eterno presente, quello appunto della insuperabile necessità di una volontà superiore, motrice del mondo. Dall‟altro lato, occorre però che […] le pulsioni siano anche suscettibili di

inibizione, cioè indipendenti e “sganciabili” dai processi dell‟agire e dell‟esperire, essendo questi nn adattati a una qualche determinata situazione di fatto [per cui] i bisogni e gli interessi debbono poter essere raffrenati, per la precisa ragione che il loro appagamento futuro dipende dal fatto che le circostanze siano prese in considerazione unicamente in quanto tali. 445

Gehlen resta avviluppato nella contraddittorietà dei due movimenti assolutizzati delle pulsioni e delle azioni, assumendoli come elementi irrelati, “oggettivi”, che non danno ragione dei fenomeni complessi dell‟agire umano, che non realizzano mai la stessa complessità di cui sono espressione. Proprio perché i fenomeni della realtà umana non realizzano la totalità complessa di cui sono espressione attuale, il nesso causale tra i fenomeni non può conoscere la loro verità, ma solo la loro effettualità. Nel fluire del tempo della processualità storica, i fenomeni fattuali, i fatti, sono le “cose” dello spirito, e come cose sono considerate dalla scienza causalistica, che le assume come oggetti della sua conoscenza. Il rapporto causale, infatti, si può 445

Ivi, pag. 405.

223


stabilire solo tra fenomeni considerati come cose, cioè astratti dal loro processo storico e assunti nella loro assoluta e presente effettualità. Viceversa, solo il nesso logico trans-fenomenico può giudicare lo sviluppo razionale dei processi ideali, i quali sono tali, cioè “ideali”, proprio in quanto non si esauriscono nella loro astratta ed estrinseca connessione fenomenica, ma sono “aperti” alla temporalità logica, ossia allo sviluppo razionale dei processi dia-cronici. Quando Gehlen scrive che “lo iato tra i bisogni e le pulsioni da un lato, e i loro adempimenti e le azioni ivi implicate dall‟altro è la circostanza decisiva che sola apre uno spazio a una “interiorità” in generale”,446 non si avvede che questo spazio ideale costituisce l‟autentica esperienza umana, senza la definizione della quale gli elementi pulsionali e dell‟agire resterebbero privi di ogni connotazione antropologica, e cioè astratti da ogni contestuale significazione culturale ed esistenziale degli atti umani. Il concetto di psiche racchiude le caratteristiche dell‟essere cosciente e dell‟essere mondano.447 Gehlen a questo punto integra la sua definizione di uomo come “essere non specializzato” indicandolo come “attivo e intelligente”, o meglio, colui che “per poter vivere si affida alla sua propria attività e intelligenza [del mondo], elaborandolo da cima a fondo”.448 Ma in che senso l‟uomo “ha bisogno di una situazione pulsionale per principio diversa da quella che un essere istintuale può avere”? [Ibidem.] Donde nasce tale presunta “diversità” antropologica? Gehlen nn lo dice, ma lo assume come un fatto inesplicabile e misterioso. In realtà, la sua ineffabilità è relativa alla sua posizione di “principio”, che vuole che l‟uomo abbia pulsioni qualitativamente diverse da quelle animali, mentre le pulsioni naturali sono comuni a uomini e animali, e ciò che distingue le specie è la capacità umana a controllarle e predisporle a fini indeterminati, non 446 447 448

Ivi, pag. 405. Ivi, pag. 405. Ivi, pag. 406.

224


specifici, attraverso lo strumento (o il medium) della ragione, elaborando una struttura di valri di cui è depositaria la coscienza, riflesso soggettivo delle istituzioni sociali. 5. La non specializzazione, dunque, che Gehlen considera un dato originario della natura umana, è la condizione dell‟esercizio della ragione, la cui progettualità rende plastico lo spettro delle pulsioni naturali, inibendo la loro specializzazione biologica. Questo, nondimeno, non impedisce che lo stesso esercizio della ragione, funzionalizzata all‟organizzazione sociale, della convivenza umana dei gruppi, la determini secondo una destinazione specialistica del lavoro, che destina appunto le energie pulsionali dell‟uomo nell‟alveo delle forme socialmente predisposte al funzionamento della struttura sociale, al fine di garantire la sopravvivenza del gruppo. Ciò che “regredisce” non è l‟istinto umano, ma la spontaneità delle pulsioni, man mano che avanza il controllo sociale dei bisogni primari, alcuni dei quali rimangono latenti o incontrollabili (fame, freddo, caldo, ansia, libidine, difesa di sé o di chi si ama, etc.), ma la maggior parte di essi viene rimossa o sublimata in virtù civili. Al fondo della “orientabilità delle pulsioni” c‟è un progetto razionale legato alla socialità. Per situare l‟ “interiorità dell‟uomo”, bisogna secondo Gehlen, “muovere dal linguaggio”, che è un sistema di interpretazioni e designazioni orientate all‟esterno, [ossia] un organo deputato al progettare a alla visione panoramica [che funge da] guida dell‟azione. [La sua prestazione esonerata consente di] ridurre i contenuti immediati e plastici […] e soprattutto ha la capacità di far proseguire in sé e di adempiere le sue intenzioni: in tal modo, semplicemente slittando lungo i “nuclei” dei complessi delle rappresentazioni, esso diviene muto pensiero interiore, mai però venendo meno al suo compito, il controllo del comportamento, al quale deve infine attendere.449

449

Ivi, pag. 406.

225


Asserire che il linguaggio trovi “in se stesso motivi per una costruzione orientata, e in se stesso rinviene dei compiti, attendendo ai quali può attuare uno sviluppo grandioso delle proprie capacità”,450 significa riconoscere al pensiero una funzione direttiva dell‟azione umana (“controllo del comportamento”) che è essa stessa indipendente dal comportamento, ossia astratta rispetto alla sua funzionalità pratica, capace quindi di “sviluppare una pura tematica intrinsecamente tecnica” per mezzo della “invenzione della scrittura, grazie alla quale il pensiero può entrare in rapporto con se stesso e fissare i singoli suoi passi trasformandoli in istruzioni per il suo attuarsi”.451 L‟indipendenza della tecnica da fini precostituiti è già inscritta nell‟autonomia del pensiero da ogni finalismo dell‟azione, da ogni prescrizione etica, facendo di esso il campo di un contesto logico autoreferente, coerente coi suoi postulati verbali, il cui rigoroso sviluppo dia-logico legittima il percorso chiuso del suo circuito. Per sua natura, il pensiero razionale è una struttura “chiusa” autoreferente. Quando Gehlen afferma che il pensiero è “un „sistema volto all‟esterno‟, sorto per il padroneggia mento del mondo da parte dell‟uomo nell‟zione e che inoltre sussista per conferire piena libertà all‟agire”,452 gli assegna un compito teleologico non necessario in sé, ma solo eticamente, assegnandogli una funzione alla quale esso può nondimeno sottrarsi per persistere come attività teoretica. Assegnare al pensiero il “controllo del mondo” può voler dire: a) dare delle risposte razionali alla “meraviglia” della complessità del reale; oppure b) proiettare il costrutto razionale per plasmare il caos naturale nel mondo trasformandolo in cosmo umanizzato.

450 451 452

Ivi, pag. 406. Ivi, pag. 407. Ivi, pag. 407.

226


Nel primo caso, “l‟interiorità è aperta al mondo […], investita di esperienze, impressioni, intuizioni”;453 nel secondo caso, il pensiero modella un aspirare, un tendere […] verso ciò che è assente, un desiderare, un anelare a situazioni e circostanze future [proprie di] un essere che è costretto ad atteggiare i propri comportamenti nell‟aperta dovizia del mondo, e precisamente in modo che l‟attualmente esistente debba essere in linea di principio affrontato e trattato in base alle aspettative suscitate dalle esperienze.454

Il thaumazein dell‟interrogativo filosofico è il sintomo del disorientamento dell‟uomo di fronte alla complessità e imprevedibilità della vita. Non è la paura animale di fronte agli eventi della natura, che permane al di là dell‟esperienza vissuta,, ma è interrogativo che aspira a una risposta razionale, convincente, persuasiva. La persuasione è il risultato della risposta creduta ragionevole, ma non è la verità, cioè la ragione degli eventi, che è unica e necessaria rispetto alla molteplicità e confutabilità delle persuasioni contingenti. Ogni riposta creduta ragionevole è razionale, ma una sola risposta è quella vera. L‟uomo si rapporta almistero come interrogante, ponendo il problema e aspirando alla soluzione. Formulando una risposta, l‟uomo si scioglie dalla solitudine del mistero che lo circonda e si rapporta alla causa, alla quale, pervenendo, egli stesso appartiene, sia pure da spettatore, passivamente. L‟agire è il comportamento umano che costituisce il proprio fare come causa di eventi, come fattore di realtà. La creatura passiva, agendo, acquisisce la posizione attiva di creatore; il figlio di una causa diventa così padre di un effetto. L‟agire è un‟istanza di paternità ideale che si avanza nei confronti del mondo ridotto a materia informe, e da informare della umana causalità. Come 453 454

Ivi, pag. 408. Ivi, pag. 408.

227


già sapeva Marx, il mondo ridotto ad oggetto dell‟agire umano, del lavoro trasformatore, viene strappato, scisso, dalla sua organicità e compiutezza naturale e ri-formato dal‟opera modellatrice dell‟uomo, fornendo lodi un senso, di una destinazione che trascende quella della sua compiutezza naturale originaria, della sua destinazione biologica. Dal fine “in sé” delle cose si passa al “fine per sé” dell‟opera umana. La cosa generica acquista il nome della sua umana destinazione, della sua fruibilità razionale. Il mondo diventa possesso umano: oggetto di creazione dell‟uomo. Ma come si orienta un bisogno? In che modo esso acquista un “contenuto”? Come diventa “cosciente” e a “misura del linguaggio”?455 Il nome stabilisce un rapporto tra la cosa (del mondo) e i bisogni dell‟uomo, che diventano “determinati”, aventi cioè un “contenuto preciso”, “cosciente”. Le conclusioni di Gehlen sono però a riguardo non pertinenti, poiché investono il solo movente dell‟azione, senza scinderlo dal distinto atto della ideazione. Infatti, egli afferma, “è sempre una qualche specie di azione quella dalla quale i nostri bisogni si sviluppano e trapassano nello stato d‟aggregazione proprio dell‟intelligibilità, dell‟orientabilità e della consapevolezza del loro scopo”. E‟ pur vero che “il bisogno consapevole del suo fine, perviene come tale a se stesso”, [Ivi, pag. 409.] ma non tutti i bisogni sono consapevoli del “nesso” tra “bisogni e adempimento”, tant‟è che non ogni bisogno ha adempimento. E‟ nella distanza (iato) tra il bisogno e la sua esaudizione che si sviluppa la modalità culturale del loro “nesso”. Ciò vuol dire che l‟azione razionalmente orientata presuppone l‟elaborazione dell‟intelligenza del “nesso”, ossia una risposta causale alla meraviglia circa i rapporti fenomenici, che vengono quindi mediati dalla comprensione umana. Il “nesso” è la mediazione dell‟intelligenza, che collega idealmente i fenomeni

455

Ivi, pag. 409.

228


secondo un rapporto diretto pensato come (cioè creduto) causale: “è stato quello a determinare questo”, a porlo in essere, a crearlo.456 La “consapevolezza” del “nesso” causale non appartiene al bisogno, al desiderio, all‟attesa, ma è legato al grado di inibizione culturale che la ragione raggiunge nel pensare quel nesso, ossia al livello di elaborazione razionale cui perviene l‟intelligenza del mondo da parte dell‟uomo socializzato, culturalizzato. Il “malessere” provocato dal bisogno non esaudito, che non solo “il ambino non può cogliere come tale”, ma neppure l‟umanità non pervenuta alla soluzione razionale del bisogno, al “soddisfacimento”, il quale è il risultato che non “segue al grido” (ossia alla mera denominazione del bisogno invocato), ma alla 456

Ogni risposta causale, sia di tipo magistico che di tipo scientifico-naturalistico, ha in comune il presupposto che il nesso tra fatti o fenomeni sia diretto, si basa cioè sul presupposto che quel nesso stabilisca una relazione che nata da fenomeni si esaurisca nei fenomeni, per cui il mondo delle apparenze fenomeniche sia l‟unico mondo. Anche il magismo, come in genere ogni credenza religiosa, pur ponendo la realtà di una dimensione parallela al mondo fenomenico, crede che il rapporto tra quella dimensione e questo mondo sia una relazione diretta, basata su fatti concatenati fenomenicamente. Di diversa natura è la spiegazione logica dei fenomeni, la quale non stabilisce nessi causali, ma rapporti ideali, la cui necessità razionale viene desunta a posteriori, e non a priori, come invece avviene nel rapporto di causalità, in quanto non interessa fatti e fenomeni ma appunto rapporti logico-conseguenziali, per loro natura dia-cronici (indiretti) e non, come quelli causali, sincronici (diretti). Il rapporto causale di maggiore comprensione è quello legale, dove un comportamento viene imputato di far derivare un altro ritenuto illecito. Tra i due deve esistere un rapporto diretto, non logico, perché esso sia rilevante, per cui in un omicidio legalmente rilevante è il colpo di pistola che ha causato la morte di un uomo, e non l‟educazione militaresca ricevuta dall‟omicida. Ora, nel rapporto logico, è invece proprio il rapporto ideale tra la premessa educativa e la conseguenza fattuale a essere rilevante, sicché, pur non essendoci un nesso diretto, la relazione è razionalmente comprensibile come storia, ossia come narrazione di eventi logicamente collegati nel tempo. La contemporaneizzazione rammemorante di eventi diacronici è il rito che la coscienza – scientifica o religiosa – effettua riducendo eventi lontani in avvenimenti prossimi collegati da un nesso causale in sequenza direttamente consequenziale.

229


capacità di conseguirlo attraverso l‟attività umana, che si dispiega, a seconda delle culture, dalla invocazione agli dèi alla progettazione industriale e all‟invenzione tecnica. In tal senso risulta errata l‟affermazione di Gehlen per cui “la vita pulsionale dell‟uomo coincide con l‟ambito delle appropriazioni e interpretazioni umane, con quella dei suoi compiti, in via elementare ed essenziale”.457 No: la vita pulsionale è molto più vasta dell‟ “ambito delle appropriazioni e interpretazioni umane”, e non vi “coincide” affatto, anche se questa coincidenza costituisce il desiderio e il sogno di ogni umano. Questa teoria si rende necessaria a chi assume pragmatisticamente l‟agire come unica realtà dell‟attività umana, il fine primario e unico della vita dell‟uomo. Proprio il linguaggio diventa il depositario sia della denominazione delle cose che dei concetti, per cui non solo “accompagna tutte le azioni e tutti i movimenti”, ma anche “situazioni meramente pensate”, essendo “indifferente alla distinzione fra contenuti reali e contenuti puramente rappresentati”.458 Ma è proprio il principio di realtà, e cioè di verità, a costituire la differenza tra una consequenzialità semplicemente creduta razionale e una veramente tale. Talché, nell‟ambito dell‟effettualità oggettiva del mondo fenomenico o della vita, l‟uomo non potrà mai pervenire ad altro che a certezze, cioè a nessi causali creduti razionali, ma non a quella verità logica che sta dietro la realtà fenomenica e costituita da relazioni ideali essenziali, di tipo meta-fisico, ossia relazioni ontologiche, che possono essere espresse, non fatte. Il luogo metafisico della espressione verbale, la proposizione, diventa perciò la dimensione ultronea rispetto a quella meramente fisica e fenomenica, dove il pensiero idealizza la realtà, non risolvendola nella sola azione pratica, dagli effetti certi e immediati, ma facendone un costrutto razionale, un processo di ragione. 457 458

Ivi, pag. 410. Ivi, pag. 410.

230


Ed è appunto la ragione che inibisce l‟azione, destinando le pulsioni a degli scopi differiti, a un “progetto di realtà”, a un soddisfacimento non immediato, dilazionandone la sua effettualità stabilendo lo “iato tra pulsione e azione”, sganciando la prima dalla seconda e facendo sì che “ogni bisogno può essere oggetto della presa di posizione”; ed è sempre la ragione a colmare lo “iato” di cui è costituito “il confine tra pulsioni, impulso e abitudine”, che perciò “non è affatto oggettivo” 459 ma culturale. Infatti, avverte Gehlen “queste prese di posizione sono necessarie, perché a imporle è la stessa sovrabbondanza delle pulsioni”, [Ibidem.] che per l‟appunto impone delle scelte e delle gerarchie di valore delle azioni, le quali circoscrivono “lo spazio d‟impulso dei bisogni singoli”, configurando “un sistema di orientamenti dell‟aspirare e del tendere che siano esclusivi, reciprocamente fissati, enucleati e disciplinati in e da una precisa situazione di autocontrollo”. Quest‟opera di istituzionalizzazione delle forme di inibizione delle pulsioni socializzate, ossia il cristallizzarsi delle pulsioni in situazioni determinate, il loro essere corredate […] di immagini aventi di mira una meta, equivalgono al loro rendersi intelligibili, alloro prodursi come forze reali dell‟interiorità [affinché] divengano oggetto di disciplina, dell‟educazione e dell‟autodisciplina460

Il che presume che il “nesso tra bisogni e adempimento” non sia alla portata ideale di tutti, ma di una capacità di elaborazione teoretica ristretta a pochi che la “rendono intelligibile” ai più attraverso la “cristallizzazione delle pulsioni in situazioni determinate”, in tipologie comportamentali istituzionalizzate proposte/imposte a modello d‟azione per tutti gli attori sociali. Il “problema gnoseologico” sorge in quanto “l‟uomo è compito a se stesso”, quale progetto d‟esistenza 459 460

Ivi, pag. 411. Ivi, pag. 412.

231


socializzato. La tematica istituzionalistica e quella coscienzialistica insorgono pensando al progetto individuale della singola personalità alle prese col mondo. Ma tale rapporto, come sappiamo, viene condiviso socialmente. Ed è appunto l‟attività pratica a costituire quel campo di unione che la coscienza individuale trova assieme alle altre coscienze singole attraverso il valore significativo dell‟azione. E‟ nel campo sociale che l‟agire trova la sua oggettivazione, non solo in senso fenomenico ma valoriale. Il suo significato – che rimarrebbe solo soggettivo se rapportato alla esclusiva coscienza dell‟attore – si trasvaluta in significato oggettivo, cioè socialmente comprensibile, attraverso il medium delle forme istituzionali, dei comportamenti socializzati. Il “mondo esterno” è un cosmo socializzato, normativizzato, dove “bisogni e inclinazioni, crescendo sulla trama delle nostre attività, si trasformano in pulsioni determinate, caratterizzate e con precisi contenuti”.461 Tali “esperienze” socializzate, “reali”, l‟uomo non li fa “con se stesso”, ma con un Me socializzato, e perciò esse “non sono surrogabili con alcun processo di coscienza o di pensiero”. Il mondo quale “sistema di interessi, bisogni, avversioni significativi e consapevoli dei loro obiettivi”, non è “il nostro mondo interno”, ma bensì il cosmo socializzato dai valori comuni, e in tal senso “internoesterno”.462 Le “libere situazioni immaginate” dalla “nostra vita mentale e di rappresentazione”, costituiscono “fantasmi di azione”,463 mentre l‟azione reale è sempre un‟agire sociale, avente un significato razionalmente derivato dai valori omologati e comuni. Nel campo esterno, le interne pulsioni soggettive devono trovare una forma significativa, per cui la loro espressione costituisce sempre un fenomeno sociale. La stessa “espressione estetica” verte sulla 461 462 463

Ivi, pag. 412. Ibidem. Ivi, pag. 413.

232


rappresentazione libera, stilizzata, di una forma canonizzata, cioè significativa. La tra svalutazione artistica delle forme canoniche costituisce l‟ambito di maggiore contatto creativo che la soggettività della coscienza fantasmatica ha con la coscienza sociale; l‟ambito in cui la forma è maggiormente libera di determinare i suoi contenuti teoretici secondo esigenze rappresentative intrinseche a una significazione (ancora) non socializzata. E‟ nell‟arte che socialità incontra la sua contraddizione ideale, essendo la creazione artistica il luogo di realtà di quel progetto cosmologico che solo la soggettività è libera di determinare senza gli ostacoli e le limitazioni che la compiutezza ideale incontra di fronte alla molteplicità fenomenica della realtà sociale, campo del divenire. L‟arte, quale forma di comunicazione della “vita pulsionale umana”, esprime l‟idea stessa della “forma” che assume il mondo nella rappresentazione che ne fa l‟uomo. Se è vero che “la vita pulsionale umana è per sua essenza orientata della comunicazione”,464 questa è espressa in una forma estetica. L‟arte è la elaborazione della coscienza estetica dell‟uomo espressa in una rappresentazione formalmente coerente, ossia totalizzante, che esclude il divenire. La totalità dell‟arte è la rappresentazione della totalità in una forma determinata, la quale, come ogni determinazione, non può esprimere la totalità se non come infinito rinvio ad essa. Da qui la natura trascendente dell‟arte, che dunque è una forma aperta alla totalità. Il carattere di apertura della rappresentazione artistica le deriva dal suo esplicito valore ultra-rappresentativo e non riproduttivo della realtà fenomenica, diversamente dalla rappresentazione scientifica, la quale ha pretese di rappresentare realisticamente la realtà. Quando il carattere totalitario dell‟arte viene coniugato con la pretesa realistica della scienza, la rappresentazione che ne deriva della realtà perde il suo carattere trascendente di apertura alla totalità, per acquisirne uno di valore immanente, che pretende una corrispondenza tra 464

Ivi, pag. 415.

233


rappresentazione e realtà. Questo travisamento teorico è insito in ogni forma di razionalismo, che assimila l‟espressione ideale alla prassi dell‟azione, traducendo la contemporaneità della relazione causale nell‟attualità dell‟attivismo, con l‟intento di realizzare l‟ideale. Gehlen propone una spiegazione fisiologica asserendo che “in generale le energie umane non si possono affatto risolvere in padroneggiamenti del presente immediato”,465 diversamente dal caso dell‟animale che “vive sempre nel presente, nel padroneggiamento dell‟adesso: con sicurezza, ma non in modo creativo”.466 Essendo rimesso all‟azione, l‟uomo è dotato di una sovrabbondanza di energie che non può elaborare se non nell‟azione stessa, ed è questo eccesso a rendere insoddisfacente ogni mera reazione al contingente, giacché siffatta reazione esclude appunto lo sviluppo di pulsioni permanenti. Ad azioni impulsive puramente reattive suole seguire un‟insoddisfazione profonda. 467

Ma l‟insoddisfazione dell‟uomo deriva in realtà dalla impossibile identificazione delle pulsioni con l‟azione attuale, la cui moltiplicazione dell‟ “adesso” non colma la distanza o “iato” tra le pulsioni e la forma ideale che presiede alle sue manifestazioni reali, la quale non coinciderà mai con ogni azione possibile messa in atto. Ed è infatti tale forma ideale a consentire la “permanenza” degli interessi. Come afferma infatti lo stesso Gehlen, interessi permanenti non sono semplicemente quelli che si sono stabilizzati, gli interessi accolti ormai nella struttura comportamentale e divenuti abituali […]. Interessi permanenti in senso autentico sono piuttosto quegli interessi che hanno assimilato la legge vitale dell‟uomo, cioè l‟attività, un‟attività trascelta, permanente, controllata dall‟intelligenza e volta al futuro. 468 465 466 467 468

Ivi, pag. 417. Ivi, pag. 416. Ivi, pag. 418. Ivi, pag. 418.

234


Senza una forma ideale, gli impulsi non potrebbero permanere ma solo eventualmente ripetersi più o meno coattivamente, in quanto la loro “permanenza” consiste appunto nel rapporto idealizzato con le azioni possibili. La spiegazione che invece ne dà Gehlen è naturalistica e prescinde dalla considerazione – peraltro anche da lui ammessa – del valore normativo che riveste la forma ideale nel coprire lo “iato” tra pulsioni e azioni relative. La plasticità della vita pulsionale umana – egli sostiene – è una necessità biologica, che corrisponde alla regressione organica o meglio alla deficienza organica, alla non-specializzazione e alla capacità d‟agire dell‟uomo.

Per “plasticità” si intende: 1. assenza di istituti discreti, originariamente fissati; 2. capacità di evoluzione delle pulsioni, cioè la oro capacità di stabilire o di troncare dei collegamenti e di rinvenire collegamenti nuovi; 3. l‟essere le pulsioni “aperte al mondo” e 4. esposte alle prese di posizione, [nonché la loro] capacità di essere inibite, condotte, sovraordinate e subordinate; 5. suscettibili di uno sviluppo superiore e di sublimazione, sicché, presupposte determinate inibizioni, si ha un delinearsi di bisogni condizionati e disciplinati [onde prevenire] 6. la vulnerabilità e suscettibilità delle pulsioni di degenerare [a seguito della loro] capacità di “lussureggiare”: quando l‟assetto del contegno prende a vacillare e i compiti si dissolvono o anche semplicemente si alternano in mod molto significativo e “irrecuperabile”, e possibile che ne risulti una vita “disoccupata” o “alienata”, allorché le pulsioni delle persone non trovano più alcun punto d‟avvio nelle circostanze oggettive; in tali casi non si ha soltanto, come ha mostrato Dewey, un‟occasione per le “morali soggettive”, bensì l‟ulteriore movimento della vita pulsionale può dipendere unicamente da stimoli: lusso,comodità, decadenza prendono a diffondersi, osteggiati dai moralisti dell‟interiorità: la situazione platonica.469

469

Ivi, pag. 419.

235


Tutto viene ricondotto alla dimensione biologica quando le forze dell‟inibizione vengono meno o si indeboliscono, quasi che la pulsione originaria sia alla fonte esuberante e scomposta, senza ordinamento formale. Ma Gehlen non spiega la diversa declinazione delle pulsioni, in senso della sublimazione ovvero della degenerazione. Il discorso generico sfuma in un naturalismo ingenuo che elude la questione sociale che esso stesso evoca e a cui implicitamente rimanda presupponendo “determinate inibizioni”. Gehlen controbatte a tale prevista accusa sostenendo che “le pulsioni vitali sono determinate, vissute „in avanti‟ e trasposte, e [che] pertanto non è possibile indagarle retrospettivamente”, giudicando “sterili” le teorie degli istinti, le quali, presumendo di mettere a nudo le cause del nostro comportamento, non ci mettono mai sottomano i motivi, sicché accanto alla nostra reale vita interiore compare un irrelato suo doppio concettuale. Con grande facilità si commette l‟errore d‟ordine generale di localizzare la intelligenza dell‟uomo nella sua testa, trascurando la grande ragione del corpo, lasciato ai fisiologi e ad altri specialisti.470

Gehlen nn sospetta, tradendo in parte se stesso, che la “reale vita interiore” non sia quella determinata dagli impulsi, ma quella che si determina dal loro controllo, che non essendo “impulsivo”, e cioè istintuale, è pertanto di carattere morale, legato cioè alla intelligenza direttrice dell‟azione, ossia alla “ragione”. Il problema legato alla effettualità e al riconoscimento sociale dei valori razionali, non può neanch‟esso ricondursi alla “ragione del corpo”, ma alla sua direzione etica. La forma della prescrizione morale diventa forma istituzionale del comportamento pubblico. Non può eludersi il “dualismo” dell‟azione e della coscienza – come invece vorrebbe Gehlen – perché l‟azione umana ha un significato razionale che è sempre convenzionale, cioè sociale: è un agire socializzato. Gehlen, invece, 470

Ivi, pag. 420.

236


preoccupato di eliminare il “dualismo”, riduce la esperienza umana alla sola azione. Se si perde di vista l‟azione, spesso ciò equivale a considerare le pulsioni come se fossero modificate o riorientate a partire dalla coscienza, e così 471 ricadremmo in una delle varie concezioni dualistiche.

La risposta gnoseologica di Gehlen al “dualismo” è il monismo pragmatistico, cioè la riduzione all‟azione di ogni attività, che è posizione speculare al monismo idealistico, che riconduce tutto all‟atto di pensiero. Concepire il Soggetto come attività pratica, anziché come attività teoretica, è pur sempre restare nell‟ambito del soggettivismo, ossia del riduzionismo del dualismo ontologico nel monismo del Soggetto, pertanto la teoria dell‟azione di Gehlen è pur sempre una “teoria”, in cui il “compito” assegnato all‟uomo èca. quello di far valere in noi le determinatissime particolarità e i determinatissimi compiti, preesistenti e acquisiti, cioè la “tematica” del mondo; e di eccitare, selezionare, associare, inibire, insomma organizzare le nostre molteplici pulsioni, i nostri molteplici bisogni, eccetera, sì che sia possibile un‟attività orientata e sintonizzata con gli altri uomini in ogni mutare di circostanze, anzi mettendo a partito proprio il mutare delle circostanze.472

Gehlen afferma più oltre nello stesso luogo che “la struttura della vita pulsionale diventa comprensibile solo se si riesce a vedere l‟essere complessivo uomo e i suoi compiti elementari: si comprende allora il nesso delle sue peculiari, umane caratteristiche”.473 L‟ “essere complessivo” viene dunque ridotto ai suoi “compiti elementari” , scorgendo nell‟uomo non ciò che storicamente lo differenzia per la 471 472 473

Ivi, pag. 421. Ivi, pag. 421. Ibidem.

237


sua esperienza culturale, ma ciò che biologicamente lo unisce, ponendo così “tra parentesi” le strutture oggettive della società in virtù delle quali l‟esperienza umana non può essere conosciuta come esperienza singolare ma non dell‟uomo singolo. Se la natura ha voluto “la produzione, in un essere ragionevole, della capacità di proporsi fini arbitrari in generale” (Kant), e non può nn volerlo se intende conservare la capacità di vivere a un “essere manchevole”, necessariamente le pulsioni di quest‟essere dovevano corrispondere a questa destinazione, e non da essere aperte al mondo, debbono cioè poter orientarsi sull‟esperienza, sul “mondo dei fini” e inglobare nella dimensione psichica queste esperienze.474

La condizione “manchevole” dell‟uomo provoca delle risposte che non sono meramente soggettive, altrimenti verrebbero acquisite dalla specie come forme specializzate nate dall‟esperienza umana collettiva nel mondo. La “apertura al mondo” è indeterminata proprio in quanto legata a forme culturali e storiche di socialità. L‟esperienza socializzata, come abbiamo visto a proposito della comunità tribale, è l‟esperienza originaria, che fa sì che l‟agire umano non si riassuma nella soggettiva “azione”, ma che questa sia appunto l‟espressione di comportamenti socializzati, aventi una forma culturale ritualizzata. La possibilità [che hanno tali esperienze] di essere inibite, ovvero la loro dipendenza dall‟azione, solo in forza della quale esse si profilano come mondo interno costituendo un‟interiorità precipua e variegata, è tra le necessità dell‟azione al pari dell‟altra, nversa capacità di specializzarsi in vista delle diverse circostanze e dei propositi particolari, sino alla passione che un artigiano nutre per determinate qualità del suo materiale e alla fine sensibilità delle istintive propensioni d‟ordine tecnico.475

474 475

Ivi, pag. 422. Ivi, pag. 422.

238


L‟inibizione è essa stessa un fenomeno sociale, così come la specializzazione del lavoro, e riportarli alla loro dimensione soggettiva di “azione” individuale focalizza l‟attenzione sull‟elemento attivo dell‟imputazione causale, ma solo per convenzione gnoseologica, non per stringente necessità logica. Questa infatti imporrebbe una analisi che tenesse conto sia dell‟azione come atto di volontà soggettivo che dell‟azione come attività avente un valore sociale di significatività comune. La dialettica di ragione soggettiva e di razionalità sociale è il processo dinamico stesso della storia umana. L‟azione, fuori del suo contesto sociale, è l‟equivalente dell‟atto di pensiero fuori del suo contesto ermeneutico. Sono le istituzioni sociali a consentire all‟uomo quegli “interessi permanenti” e quella “attività di lungo periodo” che fanno di lui un “essere che vive proiettato nel futuro”. E sono sempre le forme socializzate di comportamento a consentire quello “adattamento della vita pulsionale” che per l‟uomo “ha altrettanta importanza per la vita”.476 La “dote” del linguaggio, per cui “si rendono disponibili rappresentazioni concrete e determinate, e dunque una vita di rappresentazione, alla quale pertiene l‟esonerata attività del sintonizzarsi su questa o quella circostanza a piacere e del combinarle fra loro sul medesimo piano”,477 è in realtà l‟espressione soggettiva di una esperienza culturale che si sviluppa, si mantiene e cambia in un determinato processo sociale. E‟ nell‟ambito di tale processo culturale che “nel rapporto degli uomini fra loro si viene sviluppando tutto un tacito e incalcolabile gioco di compenetrazioni, adattamenti, combinazioni, suggestioni, e via dicendo”. Ed è lo stesso Gehlen a rendersi conto della realtà della vita sociale quando aggiunge che Nella capacità di tenere fermo alle pulsioni permanenti pur attraverso le necessarie commutazioni, le vie indirette e gli adattamenti, si palesano a un 476 477

Ibidem. Ivi, pag. 423.

239


tempo, e con la stessa chiarezza, la complicatezza delle condizioni della vita umanae l‟energia dell‟uomo nell‟esserne all‟altezza. 478

Senza una visione d‟insieme (o “dialettica”), è inevitabile la deriva psicologistica dei comportamenti soggettivi. Gehlen è consapevole che non può stabilirsi una equazione tra “l‟attività umana [che ha] da cima a fondo riconfigurato il volto naturale della Terra” e la “conservazione della specie”; egli stesso sottolinea come questa sia solo un “risultato collaterale” e che anzi la biological hardeness con cui le “minoranze creative spingono innanzi la civiltà” abbia un tono “fortemente irrazionale” rispetto all‟esigenza naturale dell‟economia delle pulsioni479 Piuttosto, l‟ “eccesso pulsionale” è da mettere in relazione con la “riduzione degli istinti” della quale la “non specializzazione morfologica dell‟uomo” costituisce l‟ “esterno riscontro”, per cui l‟indagine delle sue leggi dovrebbe estendersi a quei “residui istintuali di specie sociale” quali “le pulsioni di potenza e quelle di specie comunicativa”, la cui “onnipresenza” non consente di stabilire alcun coordinamento con un “comportamento univoco e determinato”. In tal modo, di un uomo che in solitudine vada sperimentando lo stato di uan determinata cosa è pensabile che non provi soltanto un interesse oggettivo e razionale per essa, bensì anche una pulsione di potenza, che viva una pseudo socializzazione dell‟atto di occuparsene e addirittura una componente libidica. Ora, proprio questa riduzione degli istinti e questo prescindere da valori d‟evocazione ad essi coordinati e precipui della specie appaiono costituire, se riguardati dall‟altro versante, la cronicità della spinta [per cui] sussiste una correlazione diretta con le costituzionali condizioni d‟esistenza dell‟uomo e con il suo cronico stato di bisogno. 480

478 479 480

Ivi, pag. 423. Ivi, pagg. 424-425. Ivi, pag. 425.

240


L‟instabilità dell‟élan vital deve potersi vedere, col costituirsi della civiltà, cioè della “seconda natura”, come una condizione relativamente controllabile dalla struttura istituzionale predisposta dall‟uomo al fine di incanalarla e convertirla in energia socializzata, cioè razionalizzata al fine della conservazione biologica. All‟interno della condizione socializzata, non è più possibile considerare le tensioni impulsive individuali astratte dalle regole istituzionali del comportamento socializzato, cioè regolamentato in strutture d‟azione significative, fornite di senso. Asserire pertanto che “il nostro sentimento della vita e la nostra coscienza della realtà dipendono assolutamente [sic!] da questa spinta cronica” dell‟ “esperienza pulsionale”, significa rendere astratto un rapporto che invece va considerato in relazione con il suo referente istituzionale, che lo specifica culturalmente e socialmente. La società provoca quella specializzazione dell‟agire che l‟uomo non eredita biologicamente dalla natura fisica, ma che acquisisce nella sua seconda natura, appunto sociale. Le sue [dell‟uomo] pulsioni non possono né essere in sintonia con contenuti determinati e adeguati, né beneficiare di pause legate a ritmi della natura. In un essere attivo in permanenza, tutta la ritmica degli istinti costituirebbe una disarmonia gravemente perturbatrice. L‟uomo ha da padroneggiare, in un‟attività che non può essere intermessa e in ogni circostanza, un mondo fondamentalmente ostile e a lui non armonico, e deve pertanto non solo costituire e preservare pulsioni permanenti che sostengano la sua attività in futuro, bensì interpretare il presente in base al futuro. 481

Qui si rappresenta il ritmo incessante di un agire che ha perduto il senso del suo orientamento esistenziale, razionalizzato in funzione dei bisogni socializzati, organizzati. L‟uomo di Gehlen non ha scopi, perché egli non agisce per compensare le disarmonie naturali, legate alla non specializzazione biologica, ovvero alla libertà delle sue 481

Ivi, pag. 426.

241


determinazioni non specializzate in istinti, ma agisce per vincere la “ostilità” della natura, che, si suppone, sia invece benigna e materna con le altre specie. Ci si chiede, allora, il senso di una esistenza permanentemente protesa a fronteggiare le avversità naturali da parte di un uomo che – a prescindere dalle forme storiche di cultura e di sapere tecnico - non riesce a trovare alcun equilibrio (o armonia) col resto del creato. Consiste in questa aporia il limite della concezione pragmatistica dell‟antropologia di Gehlen, costruita su una ipotesi di vita destinata a non trovare alcun ragionevole equilibrio socio-istituzionale. Ma, soprattutto, l‟agire, di conseguenza, irrazionale dell‟uomo non giustifica né tampoco spiega la circostanza dell‟aggressione umana alla natura a fini utilitaristici e di potenza. L‟assolutizzazione delle dinamiche pulsionali nei singoli uomini, impedisce a Gehlen di vedere la soluzione sociale delle contraddizioni individuali e nella realtà collettiva il senso correttivo di quella destinazione individualmente non adeguata perché legata al suo “cronico stato di bisogno”. Proprio questo, o meglio la sua originaria oggettività inconsapevole, determina lo status societatis quale archetipo antropologico della socialità dell‟uomo, il contesto esistenziale della sua realtà storica. 6. Il libro più maturo e ritenuto “più ambizioso” di Gehlen è Urmensch und Spatkultur, uscito nel 1956,482 dove la sua critica alle discipline empiriche tende non già a sostituirle con una nuova metafisica ma, al contrario, a riproporre le loro più significative acquisizioni scientifiche in una nuova sintesi unitaria decisamente alternativa ad ogni prospettiva metafisica, sembrandogli inservibili i concetti già esistenti di filosofia della cultura.483 482

Noi citeremo dalla traduzione italiana di E. Tetamo, A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, Milano, 1994. Sul giudizio di ambiziosità, ved. la Prefazione di R. Màdera, ivi, pag. 7. 483 Ivi, pag. 13.

242


La sua dichiarata prospettiva antropologica nasce da due presupposti: che l‟uomo sia un “essere che agisce”, per cui la relativa disamina è una “teoria dell‟azione”, e che il suo agire viene fissato da istituzioni che si rendono indipendenti dagli uomini e trasformandosi “in una potenza che fa valere le sue stesse leggi fin dentro i loro cuori”,484 per cui lo studio delle loro origini e forme si costituirà a sua volta come una “filosofia elle istituzioni”.485 Nella Premessa a Moral und Hypermoral, Gehlen afferma che l‟uomo è per natura un essere culturale [e] poiché ogni comportamento umano è soggetto a una duplice considerazione, allora da un lato lo si può descrivere mediante delle categorie biologiche (specifiche), dall‟altra però appare come un prodotto della elaborazione spirituale, come un prodotto anche della tradizione e della situazione temporale, delle costellazioni storiche [per cui] per le questioni dell‟etica, politicamente e socialmente così estremamente attuali, ciò vuol dire la necessità di trattarle parimenti su due piani.486

Ma non bisogna fraintendere quella ambigua e contraddittoria espressione di “culturale”, che non allude punto a una attività autoriflessiva o “ideale”, ma bensì a una modalità di conoscenza del mondo attraverso la esperienza percettiva e motoria che viene fissata nelle forme istituzionali ma che affonda negli istinti, un tempo considerati da Gehlen carenti nell‟uomo e ora invece ripensati come latenti nella loro plastica indeterminatezza. Gli “impulsi etici”, considerati come “regolazioni sociali”, vengono quindi interpretati in relazione con l‟idea di un “corredo istintuale”, giungendo Gehlen a scoprire nell‟uomo un “pluralismo etico”, diversamente orientato a seconda delle diversificate destinazioni funzionali, che vengono

484 485 486

Ivi, pag. 14. Ivi, pag. 15. A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un‟etica pluralistica, Verona, 2001, pag. 23.

243


socialmente regolate ma che sono “geneticamente indipendenti”.487 La stessa istanza pluralistica che noi troviamo ne Le origini, in cui le distinte facoltà e attività umane, dal linguaggio al lavoro, sono spiegate in riferimento allo sviluppo successivo degli esoneri, confermati dalle istituzioni nelle sue varie forme culturali di stabilizzazione e regolazione del comportamento istintuale. Il metodo di indagine prescelto da Gehlen è di ricercare, a partire da una posizione filosofica empirica, le “qualità essenziali” dell‟uomo arcaico e della sua cultura, intese come quelle che “non sono riconducibili ad altro”, e che egli chiama “categorie”, per indagarne le “interrelazioni”, indicandole con concetti scelti in base alla loro “neutralità psicofisica”, relativa cioè “al loro significato sia biologico che psicologico”.488 L‟esame di tali categorie ha condotto l‟Autore a scoprire la storicità non solo dei contenuti della coscienza ma delle stesse “strutture della coscienza” dell‟umanità, al presente caratterizzate dalla “versatilità dell‟immaginazione” e dalla “soggettività del mondo interiore”, che sono fondate sulla “persuasione che coscienza e azione possano essere separate al punto da non avere relazione reciproca”. Questo tipo di coscienza snatura le rappresentazioni della realtà in forme di “vita possibili e mai reali”, conducendo al “moderno politeismo dei valori culturali”, a partire dal quale “punto di vista” non si può comprendere “l‟impatto, la forza piena e compiuta delle istituzioni che hanno consentito all‟umanità di arrivare fino a se stessa”.489 Ritorna qui il tema della revisione delle categorie storiografiche moderne, questa volta per comprendere il passato, che spingerebbe l‟analisi filosofica a crearne di nuove. Resta nondimeno problematica la questione del percorso evolutivo dell‟umanità fino a se stessa, che lascerebbe presumere una sua pre-istoria. Gehlen non parla comunque 487 488 489

Ivi, pag. 24. A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 11. Ivi, pagg. 16-17.

244


di evoluzione, ma di “svolte culturali” che avrebbero “comportato anche una modificazione strutturale della coscienza umana”,490 senza esplicitamente chiarire il rapporto tra cambiamenti coscienziali e istituzionali. L‟analisi parte da un “dato indubitabile”, per cui i “bisogni umani di ogni genere […] vengono soddisfatti con il lavoro sociale”, consistente nel “modificare gli oggetti quali essi si presentano in modo tale che possano soddisfare e incanalare quegli stessi bisogni in tutta la loro varietà”.491 Vi è, dunque, una natura originaria, a disposizione dell‟uomo e dei suoi bisogni, ma distinta da esso, che viene lavorata al fine di soddisfarli per mezzo di “utensili”. In questa opera di trasformazione funzionale consiste il “comportamento intelligente” della “prassi” o dell‟ “agire” umano, che si interpone tra “i bisogni e gli impulsi” e il loro “soddisfacimento”.492 Questo “dato originario” è quello che Gehlen a un di presso chiama “la realtà”, che per un verso costituisce “la morsa che ci lega eternamente a determinate condizioni di necessità”, e per l‟altro rappresenta “il filo a piombo di tutte le possibilità irrealizzate”, oltre il quale c‟è il “territorio della libertà” dell‟uomo “esonerato da ogni vincolo”.493 In ogni caso, “il risultato „prodotto‟ manipolando delle cose è sempre significativo”, che sia “indotto da bisogni” o sia “un‟esperienza pratica disinteressata”, in quanto l‟agire smette di essere strumentale, cioè occasionale, per diventare sperimentale, conducendo alle “scoperte elementari” come la ruota, la lancia e il coltello, che in seguito verranno considerati come “ovvi, ossia naturali”, secondo un

490 491 492 493

Ivi, pag. 11. Ivi, pag. 17. Ibidem. Ivi, pag. 18.

245


rapporto tra bisgni e invenzioni che funge da modello della ricerca tecnica di ogni tempo.494 La realtà si può conoscere oggettivamente attraverso due “istanze”, che sono “la percezione e il pensiero razionale”. Nella percezione, l‟oggetto viene percepito “di per sé”, ossia trascendente l‟intenzionalità che lo ha attualmente pensato, assumendolo così nella sua “oggettività”,495 cioè disponibilità per altre percezioni e pensieri in cui “non si risolve completamente”, e in questo senso essa “trascende” ogni percepire, pensare e agire, restando “aperta a nuova, virtuali intenzionalità”.496 E‟ interessante l‟asserita unità di percezione e di astrazione, quasi che tra i due momenti ideali non intercorresse la stessa distanza e differenza che tra il mondo che si vede e il mondo che si guarda. Gehlen elimina tale “iato” già asserendo che questo processo di astrazione è presente alla mente, anche se non necessariamente esprimibile a parole,497 quasi che la “rimozione di ogni forma di platonismo” potesse attuarsi rinunciando a pensare logicamente optando per un sapere esistenziale, consistente nell‟attribuire alle cose un valore pratico “astratto” e “oggettivo”, cioè potenziale e non immediato,498 non sospettando che l‟astrazione e l‟oggettività non 494

Ivi, pag. 19. Si tratta, chiarisce meglio Gehlen, di “una sequenza di bisogno, comportamento pratico e pensiero razional-strumentale in cui, di volta in volta, ogni fase successiva si dispiega esonerandosi dall‟attualità di quella precedente e viene posta, n tal modo, in condizioni di esplicare liberamente le proprie potenzialità. Ovvero, guardando la cosa dall‟esterno: l‟istanza precedente cessa di volta in volta di determinare l‟azione. In tal modo viene comunque garantita, in quanto ne va della vita, la priorità sul piano dell‟urgenza esistenziale dell‟istanza precedente”: Ivi, pag. 20. 495 Ivi, pag. 20. 496 Ivi, pag. 21. 497 Ivi, pag. 17. 498 “Valore esistenziali spetta […] a tutti quegli oggetti e contenuti oggettivi […] non più attuali. […] Il valore esistenziale di una cosa è tanto maggiore, quanto più la sua esistenza oggettiva sopravvive a ogni soddisfacimento di bisogni legato al‟attualità,

246


sono proprietà delle cose ma modalità del pensiero. La stessa fruibilità potenziale di un utensile, che presuppone un “valore in sé implicito e non tematizzato”, richiama appunto la differenza tra quanto esso sia semplicemente presente alla coscienza come cosa, e quanto sia pensato come strumento utile per conseguire uno scopo. Il rapporto strumentale è un rapporto ideale, che non è immanente agli strumenti ma al pensiero che li intende utilizzare come tali. L‟in sé della cosa, è il suo esistere fuori del pensiero che la pensa (nel nostro caso come strumento utile), mentre il “valore” che essa pare avere “in sé”, in realtà è attribuito dal pensiero strumentale. Che poi l‟abbinamento abituale a quel rapporto funzionale tra cosa e strumento sia diventato “ovvio” e “naturale”, non toglie la differenza logica – “implicita” o “tematizzata” che sia nell‟attore - tra mera cosa e cosa come strumento d‟azione. Infatti, è l‟uso della cosa pensato come tale a disporre che l‟esperienza passata sia ripetibile, cioè riattualizzabile, e che la cosa abbia perciò un “valore” che trascende la mera sua esistenza, sicché il comportamento esonerato dal bisogno non può “provenire dagli oggetti stessi”, come afferma feticisticamente Gehlen.499 Così come l‟attribuzione di “valore autonomo a esseri viventi”, non è una “concessione” dell‟uomo, in quanto il “coinvolgimento emotivo” con essi nasce proprio dalla constatazione che quegli esseri vanno lavorati anch‟essi come le cose perché abbiano un valore d‟uso, una destinazione razionale allo scopo, per cui non è già una “decisione in favore dell‟esistenza indipendente” a consentire il “valore autonomo di ciò che esiste”, ma bensì la necessità di considerare le cose del mondo, una “realtà” resistente alla volontà umana, e perciò da trasformare per l‟uso voluto. Ma qui Gehlen si avviluppa.

cioè quanto meno essa viene „consumata‟ dal bisogno attuale e rimane quindi a disposizione per ulteriori, potenziali situazioni di bisogno”: Ivi, pag. 21. 499 Ivi, pag. 22.

247


Se il tipo di comportamento che qui è stato dedotto,e che è determinato a partire dall‟oggetto, si orienta senz‟altro sulla realtà di questo, si parla di trascendenza nell‟al di qua. Questo tipo di comportamento, assai significativo e originario, consiste nella raffigurazione. La raffigurazione sorge in un primo momento come imitazione, come rito imitativo. Il comportamento rituale raffigurativo non consiste più, come tutte le altre forme di agire umano, in una modificazione dell‟oggetto, proprio per il fatto che ha come contenuto l‟essere di quell‟oggetto. Non si tratta più, perciò, di correggere, nobilitare, arricchire l‟oggetto di questa modalità dell‟agire, non si tratta più di una qualche forma di modificazione, ed è ragionevole che solo un simile agire non modificante possa sostenere la rappresentazione di un ente durevole sottratto al tempo. E‟ la fase delle entità esistenti, visibili e tuttavia trascendenti, fase che coincide con la civiltà arcaica.500

Gehlen contesta “l‟immagine diffusa da Bergson” circa le rappresentazioni di queste “entità” come “prolungamenti di strumenti d‟azione al servizio delle necessità vitali”, ritenendola “falsa”, in quanto il loro valore per l‟esistenza vitale sarebbe “presupposto” dal culto verso “l‟essere proprio di quelle entità”,501 scambiando l‟attualità di quel valore con la sua essenza, cioè esistenza durevole e fruizione potenziale. Ma non è questo il punto. Ciò che rileva è l‟incomprensione dimostrata da Gehlen del valore socializzato della “modificazione” dell‟oggetto, la quale, astratta dalla sua contingente attualità, viene “raffigurata” - cioè assunta come forma rituale, che è appunto “trascendente” l‟uso originario e ogni possibile uso – simbolicamente come un “agire” che è “non modificante” in quanto rappresenta una modificazione già avvenuta dell‟oggetto di culto, che costituisce la ragione per cui gli venga tributato. Il “comportamento rituale” è una modificazione simbolizzata, il cui “contenuto” viene assunto come un risultato conseguito e perciò riattualizzato simbolicamente attraverso la formula rituale, la cui ripetitività è 500 501

Ivi, pagg. 22-23. Ivi, pag. 23.

248


relativa alla perpetuità del dato simbolico da essa evocato. La modifica è data solo nel rito che la evoca, cioè all‟interno del luogo simbolico della sua attualizzazione. Se così non fosse, non si spiegherebbe la ripetitività del rito, ossia la necessità del culto. Il rito, non è mai “imitativo”, ma sempre evocativo, perché non indica una sequenza di azioni ripetute, secondo un copione drammaturgico, bensì realizza un comportamento simbolico che ha valore ogni volta attualizzante l‟atto originario evocato dal rito stesso. L‟atto rituale in sé è appunto quell‟atto mimetico che astrae dal valore simbolico evocato dal rito, riducendo alla prassi il contenuto teoretico delle azioni. L‟esclusiva dimensione immanentistica, che affida ai fenomeni in sé tutta la realtà possibile, riduce al presente il comportamento umano assolutizzato, liberato da ogni processo storico. La storia – anche quella del “comportamento modificativo” – nasce, prima che dal racconto razionale dei fatti, dalla solidarietà e riconoscenza ai morti – nel nostro caso, a coloro che praticarono il rito originario oggetto di culto -, i quali hanno vissuto anche per noi. Ed è la riconoscenza, ossia il rapporto simpatetico che ci unisce ad essi, che li fa rivivere con noi nel culto. Dal culto dei morti nasce la cultura, la memoria del passato rivissuto nel pensiero. Anche nel culto la “direzione” dell‟agire è “dettata dal risultato”,502 ma questo risultato non è l‟alea di un cimento da ripetere, un‟ordalia dagli incerti esiti, bensì una prassi canonizzata il cui valore simbolico è garantito proprio dall‟immancabile risultato. E immancabile in quanto già avvenuto originariamente, e solo evocato dal rito, il quale non imita una simile prassi rituale, ma la ripete, ogni volta uguale (nel risultato) e diversa (nel tempo). Soffermarsi su questi aspetti, non è superfluo, in quanto la presente ricerca di Gehlen è nata, a suo stesso dire, dalla necessità di definire le “categorie antropologiche delle istituzioni”, le quali avrebbero perduto 502

Ved. quanto riportato in L‟uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 195.

249


col monoteismo la loro “forza teogonica”, legata alla loro “autonoma” divinizzazione. “Da allora”, afferma Gehlen, “le istituzioni si trovano in una singolare condizione di „mezza trascendenza‟ che Hegel cercò di esprimere con il concetto di „spirito oggettivo‟ e la cui comprensione concettuale – come, per esempio, nel caso della dottrina dello stato – crea difficoltà insormontabili”, dal risolvere le quali sarebbe appunto nato il suo libro, ispirato a una “antropologia empirica” che si muove entro il “cerchio della semplice oggettività”,503 la quale non distingue tra “beni e valori”. Infatti, “valori che non poggino su realtà”, e cioè “che non possono essere tradotti in azioni, sono solo rappresentazioni di valori”.504 Ne L‟uomo, Gehlen aveva asserito a proposito dei movimenti umani, che la loro incompiutezza non fosse dovuta al loro mancato adattamento, ma dalla loro disponibilità a una grado di adattabilità “irraggiungibile da qualunque animale” e che questo fosse la prova migliore della fisiologica predisposizione della vita umana “all‟azione, e non già alla reazione di adattamento”.505 Ciò implicava che l‟azione fosse un agire libero teso a integrare l‟esistenza umana nel contesto reale, e che essa fosse composta da a) la volontà, cioè da un progetto astratto di azione, e da b) l‟affermazione, cioè dalla realizzazione dell‟intenzione; ovvero dalla intenzione506 e dalla conoscenza. La capacità di azione si sviluppa grazie a un‟autonoma attività, e precisamente negli stessi processi che servono a esperire e a elaborare la ricchezza delle impressioni ricevute. […] Queste due serie di compiti [che sono il maneggio e la comunicazione] comportano assai chiaramente per 503

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 25. Ivi, pag. 26. 505 A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e i il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 193. 506 “Per „intenzione‟ è da intendere l‟attesa anticipatrice di un risultato, di una risposta, di una reazione, e questa attesa è propria di ogni movimento orientato. E‟ un grosso errore – aggiunge Gehlen in polemica implicita con Husserl – supporre l‟intenzionalità soltanto nell‟ambito psichico o addirittura spirituale”: Ivi, pag. 190. 504

250


l‟uomo la necessità di agire in un mondo di cui egli si sia appropriato e che gli sia divenuto noto. Il mondo viene padroneggiato in azioni comunicative non indotte da appetiti (begierdefrei), la sua aperta profusione è immessa nell‟esperienza – cioè conosciuta -, perché solo da azioni esperte delle cose, controllate e certe del proprio successo avendolo già ottenuto in precedenza sortiscono i mezzi atti alla conservazione della vita. […] Che conoscenza e azione già alla radice siano inseparabili e l‟orientarsi nel mondo e il condurre azioni un processo unico, è filosoficamente del massimo significato, e a tal binomio occorre tener fermo anche là dove, in seguito, i due aspetti si sono venuti maggiormente separando.507

Ma in che consiste la libertà dell‟azione? Se è vero, come abbiamo detto, che la “direzione” dell‟agire è “dettata dal risultato”, la libertà dell‟azione non può essere relativa al suo scopo. Anzi, lo scopo dell‟azione segna i limiti della sua libertà. L‟azione è “libera” nei termini in cui essa non è predeterminata istintualmente al conseguimento de suo scopo, ovvero in quanto essa è aperta alla sua inadeguatezza rispetto alla congruenza richiesta dallo scopo.508 La sua inadeguatezza riflette l‟erroneo rapporto tra volontà e affermazione. L‟erroneo rapporto tra volontà e affermazione di un‟azione misura la sua irrazionalità rispetto al suo scopo. La libertà dell‟azione, dunque, è la possibilità che essa non sia razionale rispetto al suo scopo. Ne consegue che la libertà consiste nella possibilità di irrazionalità rispetto alla necessità della congruenza dell‟azione allo scopo. Se l‟istinto naturale è l‟esclusione della libertà di non rapportare un‟azione al suo scopo, la necessità è il movente dell‟atto istintuale. L‟azione libera è quella che è affrancata dalla necessità naturale, ossia 507

Ivi, pag. 179. “L‟uomo deve scoprire il mondo nella sua profusione straordinaria e non preordinata da istinti, deve appropriarsene ed elaborarlo a fondo, appunto perché egli è „aperto al mondo‟. E in questo compito ha da risolverne un altro: portare se stesso a compimento, essendo incompiuto, appropriarsi di se stesso e mettere a punto una serie di ben padroneggiate prestazioni. I due compiti sono risolti l‟uno attraverso l‟altro”: L‟uomo, cit., pag. 214. 508

251


che è esposta alla incongruenza rispetto al suo scopo, proprio in quanto non naturalmente predeterminata istintualmente.509 Se l‟atto istintuale può non conseguire il suo scopo (per l‟intervento di fattori imponderabili di disturbo), ma non può essere incongruo, in quanto atto necessario, predeterminato naturalmente, l‟azione umana libera può non conseguire il suo scopo sia a seguito dell‟intervento di fattori imponderabili, e sia perché incongrua rispetto allo scopo, ossia errata o non razionale. Ma l‟eventualità di non conseguire lo scopo è talvolta legata anche alla possibilità che l‟azione umana ha di andare oltre lo scopo, liberando l‟azione dalla stessa necessità di un suo scopo, ossia dai limiti della sua destinazione originaria. Se il vantaggio della necessità è la certezza, al di là dell‟esito, della congruità dell‟atto istintuale, il vantaggio della libertà dell‟azione è che questa trascenda il suo scopo razionale e trasformi l‟alea della libertà nella scoperta di ciò che trascende, che va oltre, l‟intenzione dell‟autore. La possibilità della libertà è dunque la sua natura trascendentale, ossia la sua attitudine a valicare la soglia della stretta necessità naturalistica, ovvero della certezza della sicurezza esistenziale. L‟insicurezza della libertà è la sua possibilità di trascendere l‟orizzonte della sua finitezza esistenziale, per cui apertura, insicurezza e trascendenza sono i tre caratteri ontologici della libertà L‟ “apertura” è la volontà non predeterminata allo scopo. La “insicurezza” è legata alla possibilità dell‟incongruenza dell‟azione rispetto al suo scopo razionale. La “trascendenza” è legata a sua volta alla possibilità di liberare l‟azione dal suo scopo immanente. L‟apertura, sviluppa la creatività umana; l‟insicurezza, sviluppa la razionalità; la trascendenza, sviluppa la finalità. Rispetto allo scopo, che è il risultato diretto dell‟azione e la sua conseguenza causale, il 509

“La primitività morfologica dell‟uomo […] è da riguardarsi dal punto di vista dell‟insufficiente adeguatezza a un mondo proprio, specifico e naturale, che le è connessa. Come tale, essa implica la necessità di una rielaborazione attiva e pianificata della realtà di fatto in ciò che risulti utile alla vita. E‟ questo appunto il compito fondamentale dell‟azione”: L‟uomo, cit., pag. 215.

252


fine dell‟azione è il suo risultato finale, cioè indiretto o mediato da scopi parziali. Il fine è sempre astratto rispetto agli scopi concreti, e in tal senso si dice “ideale”, e considera gli scopi immediati come mezzi per conseguire l‟obiettivo, considerandoli nel loro valore oggettivo, cioè liberato dalla motivazione contingente della loro funzionalità originaria e diretta. La sua astrattezza, rende il fine tendenzialmente dis-uguale, ossia soggettivo, e non legato al‟esperienza di specie. Lo sforzo umano è di socializzarlo, cioè di renderlo “comune” a un gruppo e perciò prevedibile. La prevedibilità del fine è la sua giuridicizzazione, ossia la sua oggettiva previsione normativa. Di fronte alla molteplicità di condizioni soggettive, il comportamento normalizzato si uniforma al modello oggettivo e astratto previsto come comune e socialmente accettato. L‟oggettività di un comportamento consiste appunto nella circoscrizione di azioni ritagliate dai processi che le hanno messo in atto, e rese logicamente autonome in quanto provviste di senso razionale. Il comportamento socializzato è quello che caratterizza le azioni nella società, la quale è appunto un contesto situazionale “normalizzato”: un cosmo umanizzato e reso una seconda natura.510 La definizione del rapporto dell‟uomo con se stesso passa attraverso il suo rapporto con l‟ambiente sociale. L‟uomo si definisce nella misura in cui si differenzia dall‟ambiente in cui è compreso. Le sue capacità d‟essere (se stesso) sono inversamente proporzionali alla sua capacità a non-essere (agente d‟azione) integrato nel suo ambiente socializzato. Tali capacità propriamente umane sono quelle caratteristiche del‟attività teoretica, che consiste appunto nella facoltà della coscienza a rapportarsi (più o meno) a se stessa (ovvero a dissociarsi dal tutto in 510

“La struttura altrimenti misteriosa della vita pulsionale [dell‟uomo, è] una attiva pulsione verso l‟esterno [la quale] è sempre, al tempo stesso, una presa di posizione e un atto di padronanza verso l‟interno. Solo in questa forma questo dato di fatto entra nelle istituzioni, nelle quali i nostri bisogni individuali s‟intrecciano con le necessità generali, oggettive, che l‟esistenza viene ponendo alla società”: L‟uomo,, cit., pag. 215.

253


cui l‟esperienza umana è compresa come elemento biologico e sociale). Il distacco dell‟Io dal Noi sociale è il rapporto che l‟uomo ha con la sua coscienza; rapporto che si configura come un succedaneo rispetto alla sua esperienza esistenziale, che è invece un prius. Primum vivere, deide philosophari: l‟esistenza precede (l‟idea della) essenza: è questo il senso filosofico dell‟ “esonero” della coscienza dalla situazione attuale, dall‟adesso in cui si svolge l‟azione. Così come il senso filosofico della “inadeguatezza dell‟uomo a un ambiente naturale” e del suo “carattere di „essere manchevole‟ sotto il profilo morfologico”, risiede nella attitudine dell‟uomo al trascendere “l‟azione come centro dell‟esistenza umana”. E questo è il senso filosofico riposto dell‟avvertimento di Gehlen per cui “solo se partiamo dall‟azione riusciamo a renderci conto della funzione biologica della coscienza”.511 La formazione di assetti o strutture istituzionali è legata alla necessità di “rendere stabile una società” attraverso la “selezione dei modi di comportamento”, cioè la riduzione degli istinti, ovvero la “unilateralizzazione” di determinate “abitudini”, per renderle conformi ad altri aspetti della vita, che finisce per caratterizzare una civiltà o una società determinata, rendendola “integrata”. Infatti, “una civiltà in cui avessero validità le pulsioni dell‟uomo in tutta la loro plasticità costitutiva, la variabilità delle azioni e l‟inesauribilità delle possibili opinioni sulle cose, sarebbe caotica. Essa sarebbe estremamente instabile”.512 La stabilità delle forme in cui viene incanalato l‟eccesso pulsionale dell‟uomo è il bisogno tipico di un “essere povero di istinti e fondamentalmente insicuro, quale è l‟uomo”, la cui “apertura al mondo” deve essere dominata e stabilizzata con la costrizione alla durevolezza. Da qui la strumentalità circolare della coscienza con 511 512

L‟uomo, cit., pag. 167. A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pagg. 26-27.

254


l‟agire, che interagiscono in senso reciprocamente funzionale e sperimentativo, sicché “dietro le prestazioni eccessive della coscienza, alla loro base, sta dunque l‟eccesso di energia pulsionale”, e viceversa, con l‟interazione delle azioni con le cose, “gli orizzonti della coscienza si ampliano e questa si dedica ad elaborare le nuove esperienze”.513 Diversamente da una “civiltà della soggettività [che] è che per sua natura instabile e non può che sfociare in un massiccio, effimero eccesso di produzione”, la società arcaica ha una Weltanschauung “estremamente compatta”, dove “tutte le forme di diritto, le abitudini, i costumi, i procedimenti lavorativi, i riti e i culti, gli dei e i demoni, hanno qualità „intolleranti‟, e possono perciò aspirare a durare in un sistema complessivo” in cui “tutte le istituzioni vengono vissute come sistemi di divisione di abitudini”, la cui durata viene garantita dalla “stabilità del mondo esterno”.514 L‟intento di Gehlen è di stabilire un “nesso” univoco tra l‟agire diventato abitudinario, e quindi istituzionalizzato, e gli strumenti fisici dell‟azione, tale da “descriverlo”, in sede di rappresentazione oggettivata, “come una struttura stabile, analogamente a un comportamento istintivo”, anche se riconosce la legittimità di “scinderlo, nel pensiero”, distinguendo distintamente i suoi elementi costitutivi. [Ibidem.] Egli crede così di poter mantenere l‟idea della “compattezza” della società arcaica evitando di “comprenderla” con le categorie storiografiche della logica contemporanea, ricacciandosi nell‟ipotesi di una “mentalità primitiva”, la cui sostenibilità, com‟è noto, già Durkheim aveva contestato a Levi-Brull. Ma anche in questo caso l‟ipotesi euristica rischia di dire, per un verso, troppo, e per l‟altro troppo poco. Troppo, nel senso che quanto si voglia dimostrare, ossia la tesi che “il comportamento abitudinario pratico prende il posto, nell‟uomo, della 513 514

Ivi, pag. 28. Ivi, pag. 29.

255


reazione istintiva nell‟animale”, diventa il presupposto della spiegazione e non la conclusione dell‟indagine circa la differenza tra natura animale e cultura umana; e troppo poco, in quanto una tesi che non sia analiticamente dimostrabile resta intuitiva, ossia meramente ipotetica, ma non riesce, essa e non già il metodo analitico, a spiegare come la supposta necessità dell‟uomo di surrogare l‟istinto animale mancante abbia bisogno di essere garantita istituzionalmente dalle tendenze contrarie dell‟uomo stesso a contraddire quella stessa necessità. E infatti Gehlen, nel tentativo di prescindere da ogni analisi coscienzialistica (di tradizione husserliana) e da ogni storicismo comprensivo (di tradizione diltheyana), candidamente, dichiara di rifiutare il “metodo analitico” proprio perché “non riesce a pervenire alla [sua] conclusione”.515 In realtà, il metodo di Gehlen non è un criterio filosoficamente accettabile di interpretare la storia umana, in quanto la “scoperta della realtà di cui intende trattare” la filosofia,516 non può essere intesa come una ipotesi di scienza, che, non essendo empiricamente verificabile, abbia perciò la forza persuasiva di un fondamento categoriale, gratuitamente offerto a comoda copertura razionale di soggettive interpretazioni antropologiche. Gehlen ricerca tra le varie discipline scientifiche un supporto critico e documentale al suo metodo antropologico che presenta come una superiore “filosofia”, ma, come aveva già spiegato Dilthey, la filosofia non è determinata attraverso un “metodo”, ma dalla sua aspirazione ad oltrepassarlo per innalzarsi alla “coscienza del metodo” delle diverse scienze e pervenire alla “connessione del sapere”.517 Nel caso in questione, poi, la Weltanschauung della società arcaica, ossia quella che lo stesso Dilthey chiama la “rappresentazione 515

Ivi, pag. 30. Ivi, pag. 13. 517 W. Dilthey, Weltanschauungslehre. Ablandlungen zur Philosophie der Philosophie, tr. it. Napoli, 1998, pag. 339. 516

256


primaria del mondo”, non è messa in relazione con la coscienza che di essa hanno i suoi interpreti storici attraverso le forme culturali della stabilizzazione degli impulsi che sono le istituzioni, impedendo di comprendere le dinamiche sia delle spinte conservative che di quelle eversive dell‟ordine sociale. Qui non c‟entra il “soggettivismo moderno”, con la sua esigenza di “mettere tra parentesi” la realtà del mondo-della-vita, ma la necessità di mettere in correlazione questo mondo con l‟io (che, essendo socializzato, può essere anche un ente collettivo), nella consapevolezza che, “in virtù del carattere teleologico della struttura” della nostra vita impulsiva, sia “l‟io” che la “rappresentazione del mondo”, si sviluppano sempre “in un rapporto reciproco”, dipendente dalla “differenziazioni delle funzioni” vitali relative ai suoi valori e agli scopi, e così dando origine a un determinato “ideale di vita”, dal quale “l‟immagine del mondo riceve le caratteristiche successive”.518 Il tentativo di Gehlen di considerare l‟agire come un prodotto esternamente sintetico, è in realtà la risposta speculare al soggettivismo, poiché giunge a un fenomenismo che mette “tra parentesi” quei “pensieri” che costituiscono il sottofondo mobile di ogni stabilizzazione istituzionale, e di cui egli stesso asserisce la relazione imprescindibile con le “decisioni”. La consistenza di ogni tipo di istituzione è garantita solo in presenza di una struttura sottostante del comportamento che si regoli su abitudini e tragga orientamento dall‟esterno, anche se ciò comporta necessariamente una sua formalizzazione. […] Una civiltà è, per essenza, un insieme di pensieri e decisioni elevate prodotte nei secoli, ma significa anche riversare questi contenuti in forme salde, così che ora, senza darsi pensiero delle limitate capacità delle anime mediocri, queste ultime possano essere trasmesse oltre e sopravvivere non solo al tempo, ma anche agli uomini. […] Se crolla la disciplina orientata all‟opus operatum dei lavoratori qualificati e delle corporazioni professionali, dei giuristi, dei dotti, dei funzionari, dei governi e delle chiese, se l‟ideologia e l‟umanitarismo si rendono autonomi e 518

W. Dilthey, Op. cit., pag. 81.

257


indeboliscono dall‟esterno queste forme, allora la civiltà è alla fine, allora si comincia a “dar forma” a ciò che non è più interno a una forma. 519

La questione del rapporto tra la “formalizzazione” dei comportamenti socializzati e le spinte centrifughe esterne alle istituzioni, che abbiamo visto risalgono all‟essenza stessa della libertà dell‟azione umana, si intreccia con quella della diversa rappresentazione della società da parte di classi dirigenti consapevoli e da parte delle “anime mediocri”, che non avvertono la necessità di perpetuare e trasmettere le acquisizioni comportamentali (l‟opus operatum) selezionate nel tempo dalla tradizione culturale. In altri termini, le supposte categorie antropologiche, anche se fossero il prodotto di una interpretazione fedele alla situazione analizzata e non l‟arbitraria connessione comparativa di realtà e vita con sistemi di pensiero appartenenti ad altre esperienze storiche, esse non possono venire assunte come forme oggettive di rappresentazione esistenziale, ma, data la loro origine culturale e stabilizzazione istituzionale, devono essere considerate soltanto come forme oggettivate; nel senso che la loro affermazione e stabilizzazione socio-culturale è il prodotto di una attività umana non supportata da alcuna preventiva necessità naturale o logica, ma che tale necessità è essa stessa l‟esito postumo del processo storico che ha affermato i suoi contenuti razionali come appunto necessari. Il “rapporto di fatto” tra “azioni univoche” e “oggetti univoci” che guida ogni azione come agire finalizzato, è doveroso nel senso ed entro i limiti di un orientamento abitudinario che non ha niente di necessario al di là della sua relazione stabilizzata in termini formali.520 Ora, questa stabilizzazione è un processo istituzionale e non naturalmente oggettivo, ossia socialmente spontaneo, e inerisce alla attività operativa di gruppi umani che ne affermano il valore sociale 519 520

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pagg. 30 e 31. A. Gehlen, Le origini, tr. it. cit., pagg. 31-32.

258


rendendolo, da limitato e soggettivo, a impersonale e necessario. In questa attività di affermazione in senso generale di valori originariamente parziali, relativi a pochi, consiste idealmente l‟azione politica, ossia un agire finalizzato alla socializzazione dei comportamenti umani, attraverso l‟affermazione (ideale) della loro supposta “necessità”, e l‟imposizione (pratica) di regole normativamente vincolanti il gruppo sotto forma di “dovere” sociale. Poiché i concetti di “società” e di “gruppo” sono empirici, le forme strutturali dell‟agire politico sono storicamente difformi, e vanno dalla famiglia alla tribù e allo Stato, ma valgono logicamente per ogni gruppo umano. La coscienza razionale di tale valore è anch‟essa variabile all‟interno del gruppo sociale, che appunto distingue tra chi la possieda (le classi dirigenti) e chi non (le classi dirette), per cui la sua oggettivazione formale varia storicamente nei modi istituzionali per tempi e luoghi, ma non nei suoi contenuti essenziali, che sono immanenti ai “rapporti di fatto”, le “motivazioni” dei quali sono spiegabili razionalmente solo in virtù di essi, previa cioè la comprensione logica della loro “intima verità”. Il “risvolto pratico” di un comportamento è appunto la manifestazione sensibile, “esterna”, del suo intimo senso logico, il quale viene socializzato attraverso la formalizzazione normativa e rituale del suo modello canonico, che diventa perciò istituzionale. “Non esistono”, afferma Gehlen, “istituzioni astratte, non sensibili [ma] il comportamento reciproco, se impostato per durare, si regola interamente su stabilizzatori esterni”.521 Qui Gehlen confonde la concretezza con la sensibilità. Infatti, la “astrattezza” delle istituzioni “sensibili” è intrinseca al loro valore generale, alla loro vigenza erga omnes, senza la quale esse sarebbero forme non socializzate ma private di comportamento. Il fatto che nelle civiltà arcaiche non fossero riconosciute forme private di comportamento come tali, non significa che non esistessero, come comprova la asserita necessità 521

Ivi, pag. 33.

259


della stabilizzazione delle regole circa i comportamenti reciproci dei membri del gruppo sociale. Lo status sociale, non è un “rapporto di fatto”, ma un rapporto socialmente valido che attribuisce valore al comportamento fattuale, esterno e rituale, la cui “esecuzione” può essere benissimo “problematica” per l‟autore, ossia “sganciata da ogni forma di riflessione”, ma questa “forma”, di cui il comportamento è la manifestazione esterna, dev‟essere logicamente presupposta perché l‟azione visibile abbia un senso sociale, un senso razionale socializzato. Gehlen stesso perviene implicitamente a questa conclusione quando scrive a un dipresso che “nella stessa esperienza dell‟esecuzione dell‟azione sono „incluse‟ dinamicamente motivazioni interiori ed esteriori”, le quali possono essere “avvertite come parte della situazione nel suo complesso”,522 solo in quanto oggetto di una “riflessione” che distingua il “soggetto” dall‟ “oggetto” e il “fisico” dallo “psichico”.523 Rispetto al comportamento animale, le azioni umane sono astrattamente rappresentabili e non solo attualmente vivibili, e in ciò consiste il fatto che esse vengano assunte come “abitudini resesi autonome” dai bisogni originari, ma non autonome dalle forme istituzionali, cioè dalle “reti di rapporti di tali abitudini”, che costituiscono le “mediazioni” tra un comportamento genericamente esonerato e un‟azione socialmente razionale e perciò stabilizzata..L‟ “esonero grazie alla stabilità”, di cui parla Gehlen,524 non è “una possibilità di libertà senza mediazioni”, ma esattamente il contrario; nel senso che tale “possibilità” insita nella libertà prescinde, e non già tiene conto, della stabilità, garantita dalla doverosità e cioè necessità delle istituzioni, in cui consistono storicamente quelle mediazioni. All‟interno delle forme istituzionali non c‟è “libertà” che prescinda dalle mediazioni, ma una libertà stabilizzata in necessità, cioè in 522 523 524

Ibidem. Ivi, pag. 31. Ivi, pag. 35.

260


doverosità. Non si è liberi se si deve agire; si è liberi solo di accettare o non l‟imposizione del dovere, cioè la “forma imperativa dell‟azione”. Ossia, prima di agire. Ma nell‟azione, se l‟astratta libertà possibile viene mantenuta nella sua effettualità come scelta antidoverosa, la rescissione dalle regole formali non tiene conto esattamente di quella stabilità che le istituzioni vorrebbero garantire, per cui la massima ricordata da Gehlen secondo la quale “si può diventare liberi solo entro i limiti del proprio dovere”,525 rettamente interpretata, significa che il mantenersi nei limiti del dovere è appunto solo una possibilità, che non esclude l‟altra, di valicarli liberamente in un‟azione anti-doverosa. Contro tale “libertà” umana sono state edificate le istituzioni, che sarebbero inutili senza di essa. L‟incongruenza del suo argomento diventa manifesta quando si passa a parlare dell‟agire sublimato in fine in sé. Un “agire razionale”, dice Gehlen pensando a quello “tendente a uno scopo”, può “mutare di significato”, diventando “fine a se stesso” e assurgere così ad “autonomo valore esistenziale”.526 In tal caso quell‟agire – in cui consiste idealmente il lavoro - “trascende” il suo scopo trasformando il suo contenuto in un mezzo per conseguire il fine in sé di una “esperienza di soddisfacimento”, in cui massimamente vanno rintracciate le “radici originarie dell‟arte”.527 In questa esperienza, aggiunge Gehlen, “gli interessi e i sentimenti umani, che costituirebbero lo scopo diretto, vengono respinti sullo sfondo del processo di “autonomizzazione dell‟agire strumentale” e, nello “iato” che si apre, si fanno strada nuovi, diversi tipi di motivazioni”, la cui “premmessa”, qualunque sia il “contenuto oggettivo” dell‟agire, “è sempre il divenire abituale di un comportamento autonomamente stabile”. Dall‟abitudine, dunque, che nasce dalla necessità di soddisfare un “bisogno definito” con una 525 526 527

Ibidem. Ivi, pag. 35. Ivi, pag. 36.

261


“cosa definita”, si trascende a una prassi autonoma da quell‟originario bisogno, che passa ora “in secondo piano” rispetto all‟interesse esonerato,528 per cui “un agire di questo tipo, pago del proprio valore, divenuto valido di per sé e trasformatosi in un bisogno specifico, può servire agli scopi immediati di altri soggetti”.529 Ma la “separazione di motivazione e scopo”, che darebbero origine rispettivamente all‟etica utilitaristica e a quella dell‟agire morale fine a se stesso, se è, come Gelen afferma, una “categoria”, non descrive punto una “situazione di fatto”, ma, al contrario, è l‟oggetto della sua concezione dell‟agire razionale, che, diversamente da come vorrebbe Gehlen, non riflette una situazione oggettiva ma una visione razionalistica evidentemente estranea alla Weltanschauung arcaica di cui qui si tratta. Infatti, la supposta razionalità dell‟agire diretto a uno scopo, non indica affatto la razionalità dello scopo, ma solo la congruità degli strumenti per conseguirlo. Ora, proprio la storicità, ossia varietà, degli strumenti utili, fanno dell‟utilità un concetto solo relativamente razionale; relativo cioè alla scienza e all‟esperienza dell‟attore e del livello tecnico raggiunto dalla sua cultura materiale. Ciò che è “razionale” in un tempo e in un luogo di limitata conoscenza tecnica, può parere insufficiente o palesemente assurdo presso altre culture. Ciò vuol dire che il concetto di razionalità dell‟azione varia, per tempo e luoghi, in riferimento allo scopo che essa vuole conseguire. Non esiste una razionalità “in sé” degli strumenti e delle tecniche di lavoro. E dunque in cosa consisterebbe quel “mutare di significato”, cui fa riferimento Gehlen, se non nel mutamento del fine, rispetto al quale sono più o meno razionali le azioni per conseguirlo? E‟ infatti il fine dell‟azione a dare significato all‟agire, che, “in sé” non ne avrebbe alcuno e che muta col variare del suo fine.

528 529

Ivi, pag. 37. Ivi, pag. 38.

262


Orbene, questa assenza di fine trascendente l‟azione strumentale è un portato della condizione moderna, propria del tempo di Gehlen dunque, e non può essere rapportata alle civiltà “compatte” arcaiche, le quali invece non contemplavano un‟agire “in sé”, ma solo razionale al suo scopo. Tant‟è vero che ciò che Gehlen chiama “arte” è in realtà una tecnica raffinata di estetizzazione di un determinato contenuto trascendente, la quale, rispetto a quel contenuto ideale, è “lavoro”, artigianato, che solo la visione razionalistica distingue dalla sua rappresentazione. L‟arte divenuta “autonoma”, è l‟oggetto della scienza estetica, la quale assume il lavoro formale distinto dal contenuto ideale, immanente nell‟opera ma considerato trascendente rispetto all‟arte in sé, alla “forma” della rappresentazione e alla sua tecnica realizzativa. E poiché sia l‟astratta forma che l‟astratta tecnica sono elementi in sé dell‟opera perfettamente intercambiabili, appunto perché astrazioni, le si è pensati come elementi di una sintesi esteticoformale in sé compiuta, che in realtà non sono, perché la diversa definizione dell‟elemento astratto dell‟opera concreta non muta il carattere della sua astrazione, per la cui concretezza sintetica occorre il riferimento al suo contenuto rappresentativo, ossia al suo “oggetto”,530 che è ideale e non tecnico-formale. Ed è questo contenuto ideale a essere “trascendente” rispetto alla tecnica di lavoro servita alla sua rappresentazione, che ha dato sembianza fenomenica alla sua “visione”. La stessa rimozione teorica dei fini ideali immanenti all‟azione, riduce la sua iterazione costrittiva a una pulsione indotta dall‟abitudine, portando Gehlen a sottovalutare come accidentale rispetto all‟esito finale l‟elemento etico della pulsione. Egli afferma infatti sia che “il processo di divisione del lavoro ha, esteriormente, una razionalità 530

Infatti, come ha chiarito Husserl, “ogni rappresentazione deve avere un oggetto e riferirsi ad un oggetto, indifferentemente se quest‟ultima sia o non sia giusta o se il giudizio esistenziale relativo sia o non sia valevole”: E. Husserl, Vorlesungen Uber Bedeutungslehre (1908), tr. it. Milano, 2008, pag. 237.

263


conforme allo scopo, che consiste semplicemente nell‟incremento produttivo”, 531 e sia che “non tutte le istituzioni devono il loro sorgere a un agire razionale”,532 ma che il loro carattere oggettivo, vada correlato a una motivazione interna di tipo antropologico, legata alla “trasformazione del lavoro in formazioni di abitudini saturate di valori loro propri”, che, resesi indipendenti dai loro bisogni immediati, vengono reinvestite per fini i più diversi, i quali, in riferimento ad altri contesti produttivi, provocano un reciproco utilizzo funzionale ai bisogni locali, dando così vita a una circolare divisione del lavoro e a un originario interscambio di beni.533 Ma niente viene asserito circa il rapporto logico-funzionale tra la razionalità oggettiva e la motivazione soggettiva, né tampoco sulla necessità del loro coordinamento, che Gehlen considera pertinente al mero piano burocratico-organizzativo, di un “congegno ben funzionante” avente un valore “oggettivo”, cioè valevole “di per sé”, legato al suo “semplice esistere” e che “determina a sua volta gli atteggiamenti e le modalità dell‟agire di colui che svolge in esso la propria attività”, obbligandolo “sul piano morale” a “rispettare la sua normatività autonoma”.534 Gehlen non pare rendersi conto, citando le opinioni di Parsons e di Sombart sui processi di produzione capitalistica, che il loro “compulsiv power” è legato non ad abitudini auto-indotte (“selfsustaining”), ma a un sistema sovra-istituzionale di tipo magico, ritenuto virtuoso dagli operatori-credenti dell‟industria, “il mercato”, sul valore del quale essi ripongono la loro fedele abnegazione, per cui ritiene che il “tratti distintivo di tutte le istituzioni”, Stato e diritto compresi, sia da ricercare nella loro auto-normatività, legata alla trascendenza (ossia indeterminatezza) dei loro scopi, che le destina, anche quelle “più razionali”, cioè funzionalmente collaudate, a “un 531 532 533 534

Ivi, pag. 41. Ivi, pag. 43. A. Gehlen, Le origini, tr. it. cit., pag. 41. Ivi, pag. 42.

264


inarrestabile processo di trasformazione degli scopi”,535 di cui però non dà alcuna ragione. Né, per altro, può darla dal punto di vista empirico-induttivo in cui Gehlen si pone, che gli fa credere che “i comportamenti e gli interessi degli uomini devono essere dedotti in gran parte dall‟autonormatività delle istituzioni nelle quali sono compresi”, per cui la funzione primaria delle istituzioni sia quella di indurre “atteggiamenti, disposizioni d‟animo, modi di agire”, come pure “settori di competenze”, a essere indistintamente “vissuti come obblighi interiori o esteriori”,536 ipotizzando una sorta di generale alienazione degli osservanti dai fini (più o meno razionali ma formalmente indifferenti) dell‟agire socializzato, ribadita dalla inclusione nella universale regola della separazione tra comportamenti soggettivamente motivati e scopi razionali anche delle istituzioni non economiche.537 L‟istituzione ha il ruolo di una forma vuota stilizzata e cerimonializzata, in grado di accogliere i più svariati motivi di rivalità e i più diversi scopi. Ogni tipo di istituzione è altamente formalizzabile, diviene “trasferibile”, come il formalismo della democrazia politica, che è stato esportato in mezzo mondo, assumendo, tuttavia, di volta in volta, contenuti molto diversi. Le istituzioni funzionano allora in modo simile ai concetti: anch‟essi non sono riferiti ad alcun contenuto individuale determinato nello spazio e nel tempo, lo definiscono solo schematicamente e proprio per questo sono riferibili a ogni contenuto.538

Ma questa impostazione neutralistica, che, in virtù della surriferita indeterminatezza delle rappresentazioni astratte, assimila il formalismo pratico delle istituzioni al formalismo dei concetti, viene subito dopo corretta dall‟affermazione che nelle “forme obbligatorie” 535 536 537 538

Ivi, pag. 43. Ivi, pag. 44. Ivi, pag. 44. Ivi, pag. 47.

265


delle istituzioni sociali “non si può separare la forma dal contenuto”, ma “lo stesso contenuto è formale, come nel concetto”,539 lasciando intendere che il “contenuto” sia incluso nella forma ritualizzata quale valore in sé di quella forma, e non sia invece il fine razionale predisposto all‟assolvimento delle istituzioni, in base al quale queste vengono giudicate congrue o meno. Il rifiuto dell‟interpretazione teleologica, spinge Gehlen a una problematica concordanza tra la rappresentazione dell‟istituzione come di una struttura normativa predisposta a stabilizzare il surplus pulsionale dell‟uomo in comportamenti formalizzati, e la rappresentazione del modello formale come l‟analogon di un concetto razionalistico, dalla cui astratta “realtà” oggettivata era partito, come abbiamo vista supra, per criticare l‟idealismo storicistico di matrice illuministica. In nome della fissità dei contenuti formalizzati ottenuta attraverso l‟opera delle istituzioni, rigetta l‟idea che la vita interiore possa definirsi come un “flusso di coscienza in perenne mutamento”, opponendo che la “facoltà di organizzare” nuovi contenuti di coscienza deriva proprio dalla stabilizzazione degli impulsi in forme stereotipate, che divengono per quegli impulsi e in genere per i sentimenti umani “centri di gravitazione, indicatori, elementi inibitori, coordinatori, insomma datori di forma”,540 con i quali “i contenuti stabili dell‟anima” sono appunto “formalizzati”, e senza i quali quegli stessi contenuti “non potrebbero essere un riferimento fermo nell‟agire”.541 Da qui la concordanza, per Gehlen, tra il “che cosa” contenutistico e il “come” formale del “concetto di abitudine applicato all‟azione”, la cui connessione con le istituzioni ne stabilisce la regola

539 540 541

Ibidem. Ivi, pag. 47. Ivi, pag. 48.

266


strutturale oggettiva per cui “l‟invarianza delle idee e quella delle istituzioni si condizionano reciprocamente”.542 Tale connessione strutturale supera la “soglia che la filosofia empirica non può varcare”, quella della rappresentazione dei fenomeni umani come “idee”, che sono pertanto oggetto, come sappiamo, di storicizzazione. La prospettiva antropologica, invece, mostra che la traduzione delle idee in “valori effettivi ed esclusivi della coscienza”, e quindi nelle “risoluzioni concrete” di un agire che “lascia il segno nella realtà”, è possibile “solo per colui che ne ha fatto le forme del suo pensare e del suo agire”, ossia solo in quanto le idee divengono “contenuti delle istituzioni”; in quanto tali, infatti, fuori della “soggettività dei credenti” che le scelgono, difendono e sostengono, esse “non definiscono lo stile del comportamento immediato”.543 Per la filosofia, al contrario, l‟istituzionalizzazione – per esempio nell‟istruzione superiore – è un fatto occasionale, un processo sostanzialmente isolato che non rientra nella sua essenza. Per questo il filosofo, con le sue riflessioni e le sue rappresentazioni, difficilmente si sottrae all‟idealismo. Nella riflessione i valori ultimi abbandonano la loro forma imperativa, come diceva Jhering, e decadono a momenti del concetto. Divengono solo convinzioni e contenuti, non stili dell‟agire. 544

La vita pulsionale in eccesso, propria della “struttura non definita” quale quella dell‟uomo, è naturalmente “orientata”, producendo “le energie per effetti e contro effetti”.545 Ma, e qui sta il punto, Gehlen aggiunge che “solo in quanto esistono pulsioni inibibili, ne esistono di consapevoli”, volendo significare che la “congruenza” di quella struttura consiste non solo nel direzionare le pulsioni in eccesso, ma anche di stabilizzarle in comportamenti formalizzati. E proprio in 542 543 544 545

Ivi, pag. 48. Ibidem. Ibidem. A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 429.

267


questa consistenza funzionale egli ripone la coincidenza di forma abitudinaria e contenuto inibitorio. Ogni permanente atteggiarsi dell‟uomo che lo rende capace di costruire delle abitudini e di avere di mira dei traguardi di là dalla mutevolezza dell‟adesso mette radici solo in inibizioni ben addestrate; appunto in ciò si configura, vista dall‟altro versante, la necessità della strutturazione, necessità che si connette con la caratteristica delle pulsioni, il loro eccesso. 546

In altri termini, per rendere ragione della mutevolezza delle pulsioni, la si indica nella loro eccedenza, ma perché questa eccedenza sia riconducibile alla direzione formale impressa dalle strutture inibitorie, cioè dalle istituzioni, queste vengono pensate come mediazioni tra pulsioni “addestrate” e “consapevoli”, e pulsioni in eccesso e “inibibili”, che vanno quindi bilanciate ai fini di un equilibrio organico. 7. La vita morale dell‟uomo, nella prospettiva di Gehlen, è stata sempre caratterizzata dal suo essere non definito, privo di “istinti prefabbricati e adattati, che invece deve elaborare in prima persona la sua vita pulsionale, orientarla, conferirle un carattere permanente, rifoggiarla a struttura di comportamento, e dunque organizzarla in forse e controforze”,547 ossia in “atteggiamenti imprescindibili ed esclusivi [che] andavano sempre daccapo difesi contro ad altre pulsioni, dalle quali piuttosto spesso erano sommersi e travolti”.548 L‟essere coscienti, l‟inibibilità, la capacità di orientarsi e la differibilità delle pulsioni umane appartengono a un medesimo contesto, e una concordanza perfetta sussiste tra questa costituzione interna dell‟uomo e la sua esterna situazione: la necessità di agire in direzione del futuro, di là dai limiti 546 547 548

Ibidem. Ivi, pag. 430. Ivi, pag. 429.

268


dell‟adesso, in azioni selezionate e suscettibili di essere insegnate ad altri, le quali divengono esse stesse, necessariamente, dei bisogni, una necessità invero di agire in attività comuni, le cui pulsioni vanno altresì sottoposte a correzioni reciproche.549

Il punctum dolens dell‟argomento di Gehlen è che la forma istituzionale (esterna) rimane indistinta dal “concetto razionale” (la forma interna), per cui la definizione delle istituzioni come “forme del pensare e dell‟agire” è possibile solo nei termini e nei modi di quella supposta identità (e non semplice correlazione) tra pensare e fare, asserita e non dimostrata. La sua dimostrabilità, infatti, è impossibili fuori della prospettiva teleologica dell‟azione, esplicitamente rigettata da Gehlen ma che pure è intimamente connessa all‟asserita direzionabilità dell‟agire impulsivo in un agire compulsivo, in cui consiste essenzialmente l‟azione razionale, che diviene morale proprio in quanto consapevolmente orientata dalla volontà, ma che permane comunque nella dimensione etica in quanto azione socializzata. Che altro sarebbe il “padroneggia mento dell‟adesso” se non la strutturazione della vita pulsionale in una forma razionale? Dalla riuscita della quale dipende, con la vita individuale, la stessa sopravvivenza sociale, come pare convenire anche Gehlen. Se questa strutturazione riesce, dall‟eccesso pulsionale promana una energia orientata, pressoché inesauribile, che viene convertita in attività, in lavoro, e che in primo luogo assolve al compito di conservare in vita quest‟essere esposto al rischio; ciò essa fa con una creatività che, dalle modificazioni del mondo secondo prospettive indefinite e aperte, trae motivi per prestazioni nuove, sì che i prodotti delle prestazioni dell‟uomo possiedono la capacità, del tutto meta-animale, di fungere da materiale per acquisizioni superiori. Il principio che l‟uomo è un essere da disciplinare trova così la sua conferma [ed] è assunto dall‟educazione prima e dall‟autodosciplina poi, in condizioni sempre nuove e perciò, necessariamente, in sempre nuovi termini. La 549

Ivi, pag. 430.

269


quintessenza della strutturazione di chiama moralità, ed essa è una necessità biologica che sussiste solamente nell‟uomo [per il quale] la physis diviene un compito.550

Ma Gehlen risolve l‟aporia rimuovendo il problema, ritenendo “in accordo con i filosofi greci, che non esista affatto una particolare facoltà del volere”, ma che “l‟ambito della volontà si estende su tutto l‟uomo”, per cui a suo dire “la portata del problema della volontà coinvolge l‟uomo nella sua interezza così che già per questo motivo [ossia, sulla base di questa affermazione apodittica assunto come fatto inopinabile] non è possibile ipotizzare una „facoltà del volere‟ come funzione psichica separata”, ma “dappertutto ci sono attuazioni volute, vissuti volontari”.551 Ma se così è, allora perché la necessità di strutturare, ossia dare una forma, alla vita pulsionale attraverso le istituzioni? Il “ci sono” e il “dappertutto” fanno pensare a una situazione normalizzata, in cui la struttura intenzionale della volontà umana viene stornata dal foro interiore come “facoltà psichica” per essere riaffermata come “autodisciplina” indotta dalla “strutturazione”, il cui neutro risultato comportamentale Gehlen chiama “moralità”, identificandola dunque con il comportamento istituzionalmente conforme. L‟oggettivarsi dei movimenti, l‟impegnarli e il condurli costituiscono nell‟ambito senso motorio la transizione da azioni involontarie ad azioni volute, dal mero decorrere all‟attuare. Volere è dunque una prestazione direttiva ossia l‟attuazione condotta, immaginativamente progettata di “movimenti” (nel senso più ampio); è dunque, in altre parole, l‟originario fenomeno uomo in quanto tale. “Volere” è la struttura propria delle azioni di un essere non specializzato, non definito, esonerato, che è tema a se stesso. 552

550 551 552

Ivi, pag. 430. Ivi, pag. 431. Ivi, pag. 433.

270


Cioè il volere è oggetto di rappresentazione, ma non è una realtà esistenziale distinta, una facoltà particolare, poiché la volontà “costituisce precisamente la qualità essenziale generale dell‟uomo”, il quale “è per sua essenza un essere che vuole”, per il quale “l‟azione diventa un‟azione assunta, padroneggiata, volontaria”.553 Tutte le funzioni dell‟uomo che si rapportano al mondo, cioè ad oggetti e che possono essere condotte, impegnate, e che dunque, per ciò stesso, si rapportano a se medesime o sono precisate nel loro rapporto reciproco, vanno definiti atti volontari [nel senso] del parlare e del pensare. Se l‟uomo è aperto al mondo ed è un essere che agisce, egli è nel mondo tanto quanto il mondo è in lui: il suo comportamento verso il mondo è altrettanto un comportamento verso se stesso e viceversa, e precisamente in questo sta il significato generale del termine volontà.554

La Volontà, da “facoltà”, diventa una categoria, una essenza unitaria che però non comprende tutte le molteplici azioni, e perciò essenza astratta, perché identificata con quelle molteplici azioni e pensata come un Tutto. La logica antica è appunto una logica astratta, non del concreto. Il concreto è un Tutto che comprende sia l‟essere ideale che il molteplice divenire, ossia la dimensione negativa, mentre qui tutto è volere, non solo l‟azione ma persino il pensiero e il mondo. La volontà viene definita infatti sia come “risultato della disciplina, della storia della signoria esercitata sulle prestazioni e sulle pulsioni nell‟uomo”, che come “manifestazione complessiva di tutta la persona umana”;555 sia come “energia in eccesso” che si è liberata e disciplinata dalle sue “determinazioni” (Festlegungen),556 che come “carattere acquisito”.557

553 554 555 556 557

Ibidem. Ivi, pag. 434. Ivi, pagg. 434-435. Ivi, pag. 436. Ivi, pag. 445.

271


Ricordiamo quanto Platone rimprovera a Protagora nel Teeteto, ossia la possibilità del divenire come svolgimento di un processo entro la stessa unità di tempo e la stessa sostanza. Lo svolgimento, infatti, è successione temporale, se entro la stessa sostanza od omogeneità di essenza, e può essere contemporaneo se la co-appartenenza riguarda dimensioni essenziali diverse (l‟appartenenza all‟essere unitario e contemporaneamente alla realtà dell‟ente empirico come tale). Tra due enti, è impossibile essere altro da ciò che si è, per cui il bove è bove e il cavallo cavallo, l‟uomo uomo e l‟istituzione istituzione. Ma lo stesso ente, se non può essere un altro ente essendo se stesso, può appartenere, senza smettere di esser se stesso, all‟unità dell‟essere al quale appartengono tutti gli altri enti, cioè alla categoria. Ed è questa la ragione per la quale Gehlen l‟ha assimilata a un “concetto” invariabile che va “oltre il variare delle esperienze momentanee”,558 trasformandola perciò in quella “idea” che aveva tanto criticata a proposito del razionalismo e dello storicismo. Infatti, un concetto formale, privo di contenuti sostanziali perché inclusi del suo essere ipostatico senza mediazione dialettica, è un concetto vuoto, che ogni volontà può riempire di qualsivoglia contenuto fenomenico, e rispetto al quale il concetto durkheimiano di società è, nella sua empiricità, molto più concreto. Ma la concretezza non gli deriva dal suo carattere empirico, ovvero, come Gehlen dice, dalla sua “rappresentazione”, ma bensì dalla sua impostazione teleologica, la stessa che, in una diversa prospettiva, ha sostenuto teoreticamente la definizione hegeliana del carattere etico dello Stato quale suprema istituzione. La domanda che a questo punto dobbiamo porci è duplice. Anzitutto, perché Gehlen abbia inteso rappresentare un‟idea di forma alternativa sia alla tradizione sociologica empiristica che a quella idealisticostoricistica, ignorando manifestamente gli studi di Cassirer (che non viene citato mai né ne L‟uomo e neppure ne Le origini); e inoltre, 558

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo, tr. it. cit., pag. 48.

272


perché abbia voluto offrire, nell‟intento di superare la scissione razionalistica tra interno ed esterno, un concetto “psicofisicamente neutro” di azione che, partito dal linguaggio, sia approdato alla formula istituzionale, il cui carattere etico-sociale e collettivo meno poteva prestarsi a quella asserita neutralità, essendo l‟azione politica per definizione una scelta contraria ad altre scelte. A queste due domande si può dare un‟unica risposta, relativa al proponimento di Gehlen di superare la crisi del razionalismo moderno attraverso una definizione antropologica dell‟uomo che lasciasse alle spalle ogni deriva soggettivistica e coscienzialistica, e con essa ogni ideologia umanitaristica. In questo senso la prospettiva antropologica di Gehlen va ascritta a quella nebulosa e disorganica tendenza tipicamente tedesca a una “rivoluzione conservatrice”, fortemente polemica verso ogni radice razionalistica e idealistica della decadenza europea, e di contro fortemente intrisa di realismo naturalistico, che fece da ponte tra essa e la cultura filosofica classica pagana. C‟è un passo de L‟uomo in cui si può cogliere in filigrana, attraverso l‟apparente disamina scientifica, più di un semplice stato d‟animo ostile al mondo moderno in decadenza, e che dà l‟idea della sotterranea determinazione ideologica dell‟autore. Se chiamiamo carattere l‟insieme di stabili abitudini e convincimenti di fondo, in forza dei quali ciascuno preferisce determinati contenuti ad altri ed è indifferente rispetto ad altri ancora, e se pertanto così chiamiamo la permanente formula comportamentale delle sue invarianti inclinazioni quanto ai valori, tale carattere è un risultato dell‟azione pedagogica della società nella quale si vive e dell‟articolazione degli interessi di questa.

Si noti come la società venga rappresentata qui come identica alla stessa struttura istituzionale che stabilizza le pulsioni in eccesso e le conforma agli indirizzi pedagogici della stessa società, assunti come “valori” autoreferenziali, in una perfetta identità di forma e contenuto.

273


Ogni educazione plasmatrice che accostumi i bambini in uno stabile ordinamento sociale ha di mira dei tipi, non delle individualità. Una società disintegrata come la nostra, cioè una società altamente complessa e in rapida trasformazione, smantella le forme di integrazione tradizionali, che al rapporto del singolo con se stesso conferivano un contenuto in primo luogo sociale. Ora, invece, le persone ricadono nell‟immediatezza, i loro incontri e scontri avvengono nello spettro delle loro forze e debolezze naturali, indiscriminatamente, e i conflitti che si moltiplicano per la mancanza di distanza, li debbono risolvere attingendo alle esigue riserve delle loro qualità fortuite. […]

La funzione plasmatrice delle istituzioni, ora comprese in un‟unica entità sociale, la “società”, non è di secondare le inclinazioni individuali della natura umana stabilizzandole in un “carattere”, ma di foggiare dei “tipi”, ossia dei modelli sociali di uomo, col fine di preservarli alla tradizione, dalla società stessa costituita e quindi caricata di un “contenuto” significativo essenzialmente “sociale”. Il fine istituzionale è perciò la salvaguardia della tradizione, la cui perpetuità emancipa gli individui dalla contingenza delle loro “forze e debolezze naturali”, da quella “immediatezza”, cioè, che è propria della natura animale, nella quale evidentemente l‟uomo ricade senza il supposto formativo della pedagogia sociale. Ed è appunto questa condizione di isolamento, conseguente alla disintegrazione sociale, a creare il conflitto tipico della modernità tra entità sociali soggettivizzate, ossia de-socializzate. L‟omogeneo mondo delle fortuite nature che si sviluppano nella complessità della vita moderna, nella molteplicità delle atmosfere particolari nature che sono l‟una lo specchio dell‟altra e che in questo riflettersi sensibilizzano la loro psiche priva ormai di schemi protettivi, non più salvaguardata dai bastioni di osservate abitudini – questo mondo fornisce i precipui contenuti per la forma d‟arte autenticamente rappresentativa del mondo occidentale: il romanzo psicologico. […] La decadenza della società, che s‟intreccia con quella degli ideali e del senso dei valori, e che nell‟interiorità del singolo corrisponde agli enormi 274


sconvolgimenti dell‟epoca recente, ha portato la sua peculiare produttività nella sbalorditiva differenziazione dello psichico [per cui, in questo senso] l‟autore di un romanzo psicologico è rappresentativo di un‟intera cultura. 559

L‟orizzonte epocale della “vita moderna” diventa un referente negativo per l‟uomo de-socializzato, non più salvaguardato dai “bastioni” della tradizione, che può solo ripiegare nell‟analisi intimistica documentata dal romanzo moderno. Gehlen non esplicita qui le ragioni della decadenza, ma la considera solo nella sua antitesi vittoriosa rispetto alla tradizione, facendo di questa un valore metastorico, assoluto, ed esattamente il contrario di un supposto contenuto “neutro”. In un saggio sulle Istituzioni compreso in Morale e ipermorale, Gehlen ribadisce che l‟uomo “vive in strutture stabili”, le quali sono prodotti culturali che egli “eleva a modelli di comportamento socialmente approvati [e] che sono vincolanti per tutti i membri del gruppo”.Ma l‟aspetto più significativo è che queste strutture, dice Gehlen, con cui “la convivenza degli uomini trova una stabilità con regole e ordinamenti”, hanno per l‟uomo singolo il significato di “una liberazione da troppe decisioni”, consentendogli di vivere “allo stesso modo di come l‟animale vive nel suo ambiente”, per cui il “meccanismo di controllo” operato dalle istituzioni “è da cercare nella sfera prossima dell‟istinto e in nessun modo unicamente nelle riflessioni di tipo oggettivo e razionale”.560 Nello stesso tempo, però, si afferma che dagli uomini “le istituzioni vengono vissute come valori del dovere”, dove “valore” e “dovere” sono evidentemente endiadi che stanno a indicare la necessità di dei singoli di conformarsi alla volontà istituzionale assunta come valore in sé. E infatti, afferma Gehlen a un di presso, “esistono ed esistevano molti modelli su come si poteva strutturare” un‟istituzione come la 559

A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pagg. 450451. 560 A. Gehlen, Morale e ipermorale, tr. it. cit., pagg. 105-106.

275


famiglia o come la proprietà, ossia il valore conformativo poteva variare i suoi contenuti storici restando se stesso; ed è appunto ciò che rende “problematica” l‟etica, ossia “l‟obbligatorietà del nesso organizzato e delle sue idee dominanti”, poiché le istituzioni “si manifestano una volta come „attività‟, come metodi storicamente condizionati del superamento di compiti vitali e di circostanze”, e un‟altra volta “appaiono come forze stabilizzanti e come le forme che, per natura, un essere vivente azzardato, instabile e sovraccaricato da uno stato di emotività, trova per se stesso e per un reciproco sopportarsi, qualcosa per cui è possibile contare su se stessi o in una certa misura sugli altri”.561 In altri termini, se il compito vitale delle istituzioni è quello di garantire la stabilità dei comportamenti emotivi dell‟uomo, la sua funzione non può essere giudicata che dalla sua stessa efficienza, cioè dalla forza di stabilizzazione dei comportamenti umani; forza efficiente che diventa “valore” immanente alla funzione disciplinare delle istituzioni stesse. E‟ questo il senso della “neutralità” dei contenuti morali istituzionali che Gehlen chiama “responsabilità” e alla quale egli attribuisce “basi antropologiche”, non razionali, trattandosi “di una morale delle istituzioni [che] è indifferente verso gli altri dèi”,562 verso gli altri valori, quali la libertà, la giustizia, le ragioni degli altri, etc. E questo deriva dalla consapevolezza hobbesiana che per l‟uomo “non c‟è alcuna natura, tanto meno nobile, al di sotto della sovranità delle istituzioni”, ma solo “costrizioni, aggressioni ed esperienze” in cui l‟uomo si smarrisce perdendo se stesso. Infatti, L‟uomo non sa ciò che è, per questo non può realizzarsi direttamente ma deve lasciare che le istituzioni lo concilino con se stesso. Le contrapposizioni e le tensioni non hanno bisogno della conciliazione, bensì 561 562

Ivi, pag. 107. Ivi, pag. 110.

276


dell‟istituzionalizzazione per diffondersi conformemente alle regole; contro il potente scontro dell‟amministrazione egualitaria che vuole dominare si trova protezione soltanto nelle istituzioni che si lasciano difendere. 563

Le istituzioni sono per Gehlen l‟autocoscienza sostitutiva dell‟uomo, la ragione supplente. Ciò è vero nella misura in cui si ammette la realtà immanente di tale ragione, che rimane il presupposto sia della legittimità istituzionale che della razionalità pubblica dell‟azione umana. In Gehlen rimane sottaciuto (ignorato o rimosso) il rapporto sociale come relazione Io-mondo, che è di tipo ideale, dialettico in senso hegeliano del Servo versus Signore, da cui scaturisce la forma istituzionale. Per denegare ideologicamente questo rapporto ideale, di tipo razionale, Gehlen lo rappresenta come un rapporto reale-naturale, come un fatto antropologico. Affermare che l‟uomo “non sappia ciò che è”, equivale a dire che la forma istituzionale non sia i prodotto di una deliberazione razionale, conseguente alla destinazione della azione sociale conseguente a sua volta alla intuizione della vita, propria della cultura storica di appartenenza, ma il prodotto di spontanee relazioni empiriche standardizzate in forme abitudinarie. In tal senso la “istituzionalizzazione” viene intesa come un patto di coesistenza anziché la forma prescelta di “conciliazione” delle “tensioni” sociali. L‟istituzione come tregua del conflitto antropologico rispecchia palesemente l‟idea pre-politica della guerra di tutti contro tutti, tipica della tradizione realistica che da Hobbes discende fino a Schmitt. Significativo a proposito il concetto di Stato formulato da Gehlen quale “creazione il cui senso può essere determinato solo come autoconservazione razionalmente organizzata da un‟unità storica di territorio e popolazione che in qualche modo è venuta a realizzarsi”.564 Questa teoria polemologica, se giustifica lo Stato come guardiano del 563 564

Ibidem. A. Gehlen, “Lo Stato”, in Morale e ipermorale, tr. it. cit., pag. 113.

277


disordine pre-civile, non considera però i valori a salvaguardia dell‟ordine “razionalmente organizzata”, ossia la legittimità ideale del potere, che è valore immanente alle istituzioni solo in conseguenza della sua vigenza, e che consente a una minoranza di governare le moltitudini socializzate. In questo senso, l‟istituzione non è un fine sociale, ma un mezzo politico, per cui la “sicurezza” che essa garantisce è funzionale allo scopo che deve servire, al suo “valore”, ossia alla ragione stessa della socialità, non solo quale principio ideale, ma anche come imprescindibile realtà antropologica della convivenza umana Solo espletando questa funzione ideale-reale l‟istituzione garantisce la “libertà”, quale “frutto dell‟autolimitazione” dell‟uomo,565 e quindi è fonte di sicurezza. Qualsiasi altra funzione, altrettanto o più efficiente ma discorde dai principi regolativi della socialità, non potrebbe garantire la “libertà”, che qui sta per stabilizzazione e regolazione degli impulsi umani, ma soltanto imporre il mero ordine politico. La differenza tra un potere legittimo e uno imposto, non risiede dunque nella forza efficiente delle istituzioni, come sembra credere Gehlen, ma bensì nella credenza del valore morale di quella forza, che dunque è qualcosa di distinto dalla forza stessa. Infatti, la differenza tra il mero ordine politico e l‟ordine della libertà è lo stesso che tra l‟affermazione dell‟opinione, che rimane esterna e neutrale a chi non la condivida, e l‟affermazione della verità, che è invece l‟ordine interiorizzato dalla credenza della sua necessità, che eticamente ispira il dovere. La tradizione di cui parla Gehlen, non è una neutra sistemazione strutturata dell‟ordine sociale, ma è di contro proprio l‟ordine interiorizzato dalla coscienza come “valore”. La questione relativa alla possibilità di “stabilizzarsi” che ha “un essere svincolato dall‟istinto, e tuttavia insieme attraversato da un eccesso di pulsioni”, pone Gehlen di fronte al ruolo della coscienza, quella via cioè che “passa attraverso l‟apprendimento, la formazione o 565

Ivi, pag. 110.

278


la propaganda”, che subito egli giudica “mai sufficiente”, e quindi tale da richiedere una “forma”,566 ossia un “automatismo secondario del comportamento” che surroghi la “regolarità” di quello primario (gli istinti) verso le cose e gli altri uomini negato all‟uomo, al fine di un “suo procedere sicuro e relativamente prevedibile”.567 Il comportamento formalizzato, come “disposizione d‟animo”, non potrebbe “sopravvivere senza un preciso aspetto esteriore” oltre “una durata media di due o tre generazioni”, laddove la “durata astratta” di istituzioni pur “del tutto svuotate” può prolungarsi “incredibilmente a lungo” in quanto personifica “di per sé un valore”, quello del comportamento abitudinario, che è “di per sé” produttivo in quanto, come ormai ben sappiamo “è un‟occasione di esonero che lascia spazio a motivazioni più elevate”.568 Ma è la coincidenza dello scopo formale (in sé, neutro) con quello funzionale (sociale) a essere problematico, in quanto la funzione sociale della “prevedibilità” del comportamento implica una variabile imponderabile che manca al comportamento soggettivo: la libertà, la quale solo nella coscienza individuale può coincidere con la volontà, mentre nei comportamenti sociali volontà istituzionale e libertà individuale restano idealmente ed esistenzialmente valori distinti, per la cui coincidenza tendenziale, o “stabilizzazione”, operano appunto le istituzioni culturali, la cui “funzione” è quella di esonerare i comportamenti individuali dalla loro “motivazione soggettiva e dalla

566

Il concetto di “forma”, essendo inteso in senso puramente strumentale, va esteso “dagli arnesi ai simboli, fino alle forme sociali”, con indifferenziata applicazione al caso singolo e al modello sociale collettivo, nel presupposto che “il lavoro individuale assume durevolezza solo in base al valore della sua posizione nella struttura complessiva”, per cui si evince il principio generale che “solo attraverso le istituzioni tutto l‟agire sociale diviene effettivo, durevole, sottoponibile a regole, quasi automatico e prevedibile”: Ivi, pagg. 49-50. 567 A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 49. 568 Ivi, pag. 50.

279


continua scelta improvvisata delle risoluzioni”,569 le quali devono stabilizzarsi per essere ragionevolmente prevedibili. Ma “quando le istituzioni […] cadono in declino, si sgretolano o vengono distrutte, questa sicurezza di comportamento viene a mancare”; e poiché anche “prese di posizione improvvisate devono comunque essere motivate, così la soggettività deve sforzarsi di trovare un appiglio in se stessa”, e pertanto “il bisogno essenziale di fondamenti e stabilità cambia sede e si fa strada nella coscienza, ossia in una sfera proprio ora divenuta più sensibile ed entrata in una fase acuta di allarme”.570 Rispetto ai tempi normali, nei tempi di decadenza “il linguaggio e le opinioni” prendono il posto dell‟ “agire pubblico”, per cui l‟unità sintetica della forma e del contenuto si trasferisce dalle istituzioni (cioè dal luogo pubblico) alle idee (cioè alle coscienze soggettive), provocando l‟insorgenza di “un comportamento formalmente magico”, proprio di una “cultura di intellettuali”, e consistente nella “credenza nella reale efficacia a distanza delle opinioni”, che equivale a quella secondo la quale “si possa dare stabilità al comportamento umano a partire dalla coscienza”.571 Eppure, come abbiamo visto a proposito del totemismo, esattamente a questa conclusione si poteva pervenir sulle stesse premesse del ragionamento di Gehlen, che prendeva le mosse proprio dalla funzione simbolica del linguaggio per risalire al comunitarismo tribale. La spiegazione teorica di Gehlen al declino dell‟Occidente e della civiltà europea viene compendiata nel concetto di “ipertrofia morale”, la cui trattazione occupa il capitolo più importante della citata raccolta del 1969.

569 570 571

Ibidem. Ivi, pag. 51. Ivi, pagg. 51-52.

280


All‟inizio della nostra epoca industriale una morale già vecchia ed estremamente tesa poté essere visibilmente condotta come ideale ancora a lungo perché trovava il suo valore di riscontro e il manifestarsi del suo essere ragionevole nella natura e conseguentemente negli esigui proventi economici. Oggi, al contrario, la natura è smascherata e plastica, la sua trasformazione è una causa dell‟istruzione, della sollecitudine e delle spese e le corresponsioni degli uomini salgono in una curva così ripida come se fossero enormi quantità di merce. Dato che l‟umanità non vede niente di più grande [di se stessa] all‟infuori di sé, allora deve abbracciarsi e aspettare sempre da se stessa un‟illusoria brama di fortuna. La morale che le appartiene può spazzar via tutto e annullare ciò che si opporrebbe al trionfo sulla natura svuotata e sulla storia abbagliata e affaticata dagli eventi, ma comunque magnifica. Il dio immortale oggi risiede in un altro angolo dell‟universo; il dio mortale non è neppure più lo Stato, perlomeno presso di noi, bensì l‟umanità presente che si è aggiunta, le cui esigenze giacciono ormai come un peso insopportabile nell‟anima isolata che non trova più alcuna lingua per determinare l‟impossibilità percepita di una morale “assoluta”. Da quando Dio fece posto alla “storia” e questa a sua volta lo fece alla storia successiva con la sua esplosione di popolazioni, l‟uomo deve imputare a se stesso tutto ciò che accadde alla politica, all‟economia e all‟aggressione durante i grandi e turbinosi avvenimenti, nei quali ognuno era partecipe e nessuno più poteva riconoscere le cose in modo chiaro. La pretesa della morale diventa invece così inflessibile che noi non abbiamo alcuna discolpa per il fatto che gli anziani potessero ancora scusarsi con il voler del destino e con la dea della casualità e i cristiani dei tempi convinti con “l‟imperscrutabile giudizio divino”.572 L‟atteggiamento del singolo di fronte alle responsabilità

dello Stato è, come ebbe a dire Musil, “lo stare a guardare”, conseguente alla scusa che “noi non lo abbiamo fatto”. Ma la morale non tollera alcun vuoto, così noi, invece di sentirci soltanto responsabili, ci sentiamo corresponsabili dei misfatti che sono accaduti e di quello di cui nessun intelletto umano può essere accusato; noi abbiamo il dovere di rispondere del crollo del regno e delle atrocità che tutto questo ha comportato. L‟obbligo di partecipare al culto dell‟umanità sotto il nome di 572

Ivi, pagg. 153-154.

281


umanitarismo lo ha invece soltanto colui che lo vuole avere. Questa pretesa, indirizzata a tutti, significa soltanto un‟eccessiva esigenza di validità interiore allo stesso modo di come sta alla base dell‟ipertrofia morale. 573

Per meglio comprendere il valore euristico di questi impegnativi passi, ricordiamo quanto nel saggio su Religione ed etica, Gehlen aveva chiarito circa la natura dell‟umanitarismo, il quale “non è soltanto amore umano, bensì un tipo di amore umano molto pratico e per questo razionalistico”. Esso infatti, a suo dire, “semplifica, riduce problemi crescenti storicamente, è assicurato contro le polemiche e può essere usato in modo tattico”;574 ossia, come forse meglio possiamo riassumere, è una vera e propria ideologia. Questa ideologia è a sua volta il portato della universalizzazione del sentimento di “amicizia”, che è la polarità dialettica del rapporto politico. Infatti, secondo l‟etica di Spencer, il rapporto politico in senso schmittiano origina dal sentimento dell‟amicizia che le società coltivano all‟interno, e dal sentimento di difesa dagli attacchi esterni. Questi opposti sentimenti, dell‟etica dell‟amicizia e dell‟etica dell‟inimicizia, sussistono reciprocamente in considerazione delle condizioni interne ed esterne di vita sociale. Secondo Gehlen, il “luogo originario” della “amicizia” di cui parlava Spencer è la famiglia allargata o clan, il cui principio biologico della procreazione e difesa dei membri entra in conflitto con il principio etico dell‟ “interesse della sicurezza della totalità”.575 A seguito del diffondersi degli scambi internazionali e dell‟esigenza di addivenire a rapporti concilianti tra popolazioni che convivevano entro gli spazi di uno stesso impero, “anche l‟etica familiare della tranquillità simbiotica è venuta ad ampliarsi”, fino a quando, nel secolo XVIII si emancipò dal retaggio religioso “per giungere ad una nuova unione 573 574 575

Ivi, pag. 154. A. Gehlen, Religione ed etica, in Morale e ipermorale, tr. it. cit., pag. 143. Ivi, pag. 134.

282


tramite l‟eudemonismo delle masse”,576 e dalla fratellanza cristiana, il cui valore era tutto interno alla “comunità mistica dei credenti”, si passò a un ideale di fratellanza universale, “ampliata all‟infinito attraverso la missione”.577 L‟etica cristiana fu propria, sin dall‟inizio, dei “ceti bassi”, popolari, il cui riflesso sociologico all‟interno della Chiesa è costituito dal monachesimo. Dopo le dottrine di Lutero, al di sotto del sovrano e con una responsabilità sociale decrescente, accrebbe la possibilità di vivere in modo eticamente irreprensibile. Questo era un motivo di diffusione importante in un‟epoca in cui la democrazia si trovava nella sua fase iniziale, dato che i principi, i loro consiglieri ecc., non dovevano essere salvati dall‟allontanamento praticato incessantemente dalle idee religiose e dalle pretese di un‟umanità ideale o di fratellanza, Lutero conservò la confessione (ma non come sacramento) e perfino l‟assoluzione. Quando tutto questo fu abolito i grandi conflitti di coscienza si spostarono, come alleggeriti, nel campo della autotrasformazione [la quale] vuol dire riflesso-evaporazione e insicurezza; si venne ad un distacco dall‟azione e alla fine ad un tipo di secolarizzazione della fede che preannuncia l‟idealismo e l‟etica dei sentimenti. 578

Ma mentre Lutero “non ha mai sostenuto una proletarizzazione propria del Cristianesimo, come neanche l‟esclusione delle classi superiori dalla remissione dei peccati o dalla virtù”, questa esclusione fu teorizzata più tardi dai giacobini. Dal XVII secolo scomparve in minor misura la fede che non la certezza, la certitudo salutis; così si abbandonarono ideali e sentimenti e il momento etico fu messo in primo piano a scapito del metafisico. La religione, soprattutto negli ultimi decenni, divenne sempre più esclusiva e meramente umanitaria e nell‟età moderna la secolarizzazione del nuovo stile non si sviluppa più dalle

576 577 578

Ivi, pag. 135. Ivi, pag. 137. Ivi, pag. 141.

283


seduzioni del potere temporale e della potenza, bensì dalla morale e dal sociale. […] Nella foga dell‟Illuminismo e della cultura industriale nella maggior parte degli uomini, al posto che prima occupava una fede trascendentale, si sviluppa uno spazio vuoto di emozioni nel quale, in una situazione così modificata, affluiscono sentimenti che, seguendo la propria natura, sono dilatabili all‟infinito e si uniscono facilmente con un modo di pensare razionalistico e utilitaristico, cosa che del resto si riscontra nell‟essenza dell‟etica familiare. […] All‟inizio della Rivoluzione francese la secolarizzazione degli spiriti più attivi in Europa e in America era progredita fin quasi al suo compimento e il flusso delle aspirazioni cristiane, che era uscito dai suoi devastanti confini dogmatici, diventava piano piano più efficace. 579

La origine di uno “stato d‟animo” attraversa ben più di qualche generazione, dunque, ma si dispiega come un processo che coinvolge la politica e la società informandone le istituzioni, le quali sono esse a cambiare col mutare degli atteggiamenti ideali che le sostengono. Per giungere a comprendere la decadenza delle istituzioni occorre pertanto seguire il corso storico dei convincimenti morali, della loro pregnanza ovvero del loro allentamento, in uno con la forza ovvero la labilità istituzionale. La sintesi moderna è dunque attivata dall‟incontro di due elementi: l‟umanitarismo, che deriva dall‟etica familiare ampliata, e l‟eudemonismo del valore vitale delle masse, che caratterizza l‟etica dell‟Illuminismo.580 Questa “combinazione”, dice Gehlen, include già una “visione degli uomini” che, “dal punto di vista psichico, corrisponde forse alla parte interna di una condizione giovanile prolungata, concepibile sotto la protezione di antiche forze spossate che però ancora resistono”, mentre, “dal punto di vista sociologico”, registra “l‟imborghesimento di una classe media molto diffusa di tipo 579 580

Ivi, pag. 142-143. Ivi, pag. 154.

284


tardo-capitalistico”. La conseguenza fu che la “morale completamente apolitica della borghesia progressista penetrò in circoli [con] idee di tipo socialistico-rivoluzionarie”, trascinando seco anche la Chiesa, che credeva di mantenere in questo modo “il contatto con le masse”.581 Ma la condizione perché la “ipertrofia morale” abbia successo è “il precipitare dei valori di riscontro”, a seguito di una situazione di minaccia che dall‟esterno e dall‟interno mina la stabilità delle classi dirigenti “a cui è affidata la sicurezza della comunità collettiva”. Tale minaccia è legata alle conseguenze stesse dell‟umanitarismo, che per la sua natura universale deve ammettere che “niente viene escluso dal valore” dell‟esistenza umana in quanto tale. L‟enorme considerazione eudemonistica del valore della vita delle masse e il versato umanitarismo hanno quindi suscitato un apprezzamento del‟esistere in quanto significativo rinnovamento etico, così che adesso l‟esistenza risulta legittimata, fatta eccezione per le posizioni superate che si basavano sulla fedeltà, sulla distanza e sulla consapevolezza dei propri doveri e di conseguenza si avvicinano alle virtù politiche di vecchio stile. 582

Il sistema industriale costituisce per Gehlen il contesto storico delle “condizioni oggettive” per cui “la totale vastità di ciò che esiste deve penetrare nell‟accettazione generale”.583 A cominciare dall‟arte e dalla letteratura, settori che prima e meglio di altri compresero “il collegamento fra l‟argomento della morale e la borsa”, e dai quali quindi si diffuse redditiziamente la parola “progresso”.584 Questo livellamento e indebolimento dei limiti della tolleranza costituisce un disarmo psichico e una volta che le virtù come il coraggio e l‟autosacrificio

581 582 583 584

Ivi, pag. 155. Ivi, pag. 156. Ibidem. Ivi, pag. 157.

285


vengono diagnosticate come masochismo e riconosciute come svantaggi sessuali, allora ci saranno solo uomini buoni.585

Le “conseguenze spirituali di una cultura industriale in via di sviluppo a livello internazionale” furono indicate da Scheler nella tendenza alla “demolizione delle forme, delle tensioni e delle diversità, al livellamento delle norme istituzionali e dei corrispondenti limiti emotivi”.586 La fortuna si trova interamente nel pubblico, nella zona che si può dominare in modo sedizioso […]. Là tutto ciò che non si trova in un grande flusso di livellamento si pone fuori corso o al limite sotto pressione fino a che delle incontestabili differenze rimangono soltanto quelle di possibile decifrazione. Dato che profili netti, soprattutto spirituali, creano una distanza eo ipso e poiché non si vuole questo, allora il dicibile diventa un alone indistinto e ci si deve soffermare su idee vaghe: democratizzazione, strutture repressive, riforma della scuola superiore ecc. le istituzioni si aprono agli interventisti, ai pianificatori e agli oratori […]. Fra il pubblico del globo terrestre valgono le stesse valutazioni e chi vi si oppone si dimostra un reazionario, un fascista […] oppure un qualche proscritto e abbandonato. Nel momento in cui la lingua pubblica di tutte le stazioni radio e dei giornali di questa parte del mondo gira intorno allo stesso concetto, allora la verità si ritira nell‟ombra, essa non può sfuggire alla legge poiché ogni certezza racchiude delle negazioni.587

Gehlen ricollega all‟etica familiare anche le “virtù da schiavi” indicate da Nietzsche come la fonte dell‟umanitarismo, che cerca di “far diventare biologica la morale in generale”, trasformando le “virtù” in “condizioni fisiologiche”.588 585 586 587 588

Ibidem. Ivi, pag. 159. Ivi, pag. 159-160. Ivi, pag. 160.

286


Questo passaggio dal sociologico al biologico e al medico, commenta Gehlen, era un modo per rinunciare alla comprensione del fenomeno morale, e in particolare dell‟etica umanitaria, la quale, pur avendo in sé “misture biologiche, perfino femminili” come ha rilevato Schumpeter, “se non viene sorretta da grandi istituzioni come la Chiesa o le Logge, può trovarsi sospesa nel vuoto”.589 Pertanto, la sua “esigenza ipertrofica” la mette “in relazione con l‟etica del valore vitale delle masse”, resa agevole dalla soppressione delle opposte “virtù propriamente politiche dello Stato”, il quale “è stato distrutto oppure è diventato parte dell‟apparato del benessere”.590 Notevole è il carattere impersonale del processo sociologico qui descritto, sul quale torneremo. Circa la “localizzazione dell‟ipertrofia morale”, Gehlen, sulla scorta di Schumpeter, la individua negli ambienti genericamente “intellettuali”, che “usano la forza della parola scritta e orale”, andando a costituire i “gruppi ideologici” che sono i principali “beneficiari” della “indulgenza sociale”, in quanto la “caratteristica che li contraddistingue dalle altre persone che svolgono gli stessi compiti è la mancanza di una responsabilità diretta per le cose pratiche”.591 Per “responsabilità”, Gehlen intende la corrispondenza dell‟essere col sembrare, del dire col fare, e appartiene non già a chi vi è indifferente, ma “soltanto per colui che abbia pubblicamente dedotto le conseguenze del suo agire e ne sia ben consapevole”,592 ossia si ponga in un rapporto dialettico e di verifica con istanze superiori, quali la gerarchia dell‟ambiente di lavoro, l‟elettorato e il mercato. Mentre, proprio la mancanza di responsabilità pubblica ha consentito – per esempio alle donne - di coltivare i “sentimenti [etici] ad ogni livello di perfezionamento”, tanto da formare, per chi in genere ne è portatore e 589 590 591 592

Ivi, pag. 161. Ibidem. Ivi, pag. 163. Ibidem.

287


interprete, “un gruppo” sociale particolare, come appunto quello degli intellettuali, “costituito in modo irresponsabile attraverso i privilegi” di chi non sia costretto a fare i conti col “groviglio e intreccio” di contraddizioni reali “nella politica pratica e nelle battaglie quotidiane della vita economica”, e perciò si trovi nella condizione di poter affermare l‟assolutezza della propria etica “in modo da trasformarla in una pretesa nei confronti di tutti gli uomini”.593 Con Schumpeter, Gehlen ricorda l‟inanità dei tentativi dei “governi europei” di “assicurarsi il seguito degli intellettuali”, che regolarmente “sono falliti”, con la conseguenza che questi, dominando “i mezzi di comunicazione di massa […], hanno raggiunto l‟incomparabile vantaggio non soltanto di paragonare la loro libertà di pensiero alla libertà di tutti, ma perfino di farla approvare”.594 “Gli intellettuali” del nostro tempo, precisa Gehlen, formano così un qualcosa di simile ad un‟anti-aristocrazia che sta in opposizione all‟incessante critica nei confronti di colui che svolge le funzioni dell‟amministrazione statale, dei militari, degli uomini d‟affari ecc.; le cose stavano così già prima dello scoppio della Rivoluzione del 1789 quando i parlamenti operavano contro il regime imperiale e l‟Illuminismo era l‟organo intermedio fra i re cristiani e la nuova cultura dalle idee retoriche e moraleggianti.595

Se questa tendenza entropica non incontra alcun ostacolo, e “la critica diventa la disposizione della coscienza stessa”, il risultato non può che essere il “più grande disordine”, per cui nei “contrasti sociali fra capitale e lavoro” viene ad “attuarsi una divisione” che però non si risolve ancora in affermazione politica della “nuova aristocrazia nata

593 594 595

Ivi, pag. 164. Ivi, pag. 165. Ivi, pag. 165.

288


nello stesso periodo”, poiché questa, “ritenendo di non essere giunta alla meta, non ha ancora convertito i suoi privilegi in forza”.596 Ed è qui che torna in ballo l‟impersonalità dei processi epocali qui descritti, legata alla stessa difficoltà di scioglierli dalla labilità di una condizione di trapasso dovuta alla natura coscienziale (e non istituzionale o politica) dei “problemi etici decisivi”, per i quali non ci può essere “alcuna soluzione”, dal momento che essi “nascono nel centro del conflitto delle ultime istanze” che “oggi”, in un tempo cioè di crisi di valori metafisici, “nessuno sembra disposto a definire”. Ed è questa la ragione per la quale questi problemi etici vengono interiorizzati, ossia, come dice Gehlen, “spostati nel campo dei sentimenti”, in cui vengono assunti in forma assoluta e quindi “svuotati”597 di ogni contenuto pratico. Le conseguenze socio-culturali sono rilevanti per la civiltà. Infatti, “parallelamente all‟ipertrofia dell‟etica umanitario-eudemonistica”, alimentata dalla “critica” e dall‟ “attacco”, quali esclusivi mezzi a disposizione dell‟intellettuale, che unicamente attraverso di essi realizza la sua stessa presenza sociale e incidenza professionale, “decadono le usanze e aumenta l‟irritazione all‟interno della società”. Infatti, egli non può che biasimare la realtà del “mondo pratico”, poiché le sue lodi potrebbero solo confermare che esso “si è determinato senza di lui”. Da qui il generale “oscuramento dell‟atmosfera” culturale e civile dell‟Europa, e, a partire dal 1770, una complessiva “diminuzione della serenità” sociale perpetrata dall‟Illuminismo, che ormai non è più possibile ignorare. Iniziava l‟epoca della critica e dei problemi per i quali, non appena li si sollevava, non c‟era già più niente da fare. A questi problemi appartiene anche l‟ipertrofia morale. Non si potrà mai venire a capo della pretesa di avere un organo morale per gli avvenimenti di dimensione mondiale e tutto ciò perché questo organo viene trasformato in un‟artiglieria di protesta. […] 596 597

Ivi, pag. 166. Ivi, pag. 167.

289


Il nostro sentimento morale, che per natura è posto in un‟ottica ravvicinata, deve corrispondere a una spedizione internazionale di forme vuote; quindi, come surrogato della morale a distanza e non più accessibile, abbiamo soltanto l‟etica umanitario-eudemonistica alle cui esigenze non si può tener fede. Dobbiamo respingere nuovamente e in modo retroattivo la morale dei nostri nonni e antenati perché la colonizzazione europea è andata a finire in una zona di ostilità. Settanta anni fa era invece “cultura”. 598

Gehlen riprende descrittivamente quanto già indicato a proposito della idealizzazione e conseguente storicizzazione dei concetti, procedendo secondo un percorso critico che vuole essere l‟antitesi di quello tracciato dall‟ontologia fenomenologica, ma che pure ad essa si riallaccia in qualche modo, in modo appunto speculare. Prendiamo il caso del “si impersonale” dell‟essere del mondo-della-vita. Nel caso di Heidegger, come aveva già aveva acutamente notato Lukàcs, la considerazione della vita sociale degli uomini non interessava “un rapporto fra soggettività e oggettività” ovvero una “relazione reciproca fra soggetto e oggetto, ma quanto vi è di „proprio‟ e di „non proprio‟ nell‟ambito del soggetto stesso”, ossia “si volge verso un altro piano di soggettività che si pretende più profondo”. E tanto più profondamente questo essere viene colto nella sua purezza, quanto più la relativa categoria (l‟ “esistenziale”) sia libera “dalle determinazioni della realtà oggettiva”.599 Nel caso di Gehlen, l‟esistenziale è una categoria antropologica, tesa anch‟essa a determinare un “fenomeno originario”, che però non è qui una Erlebnis ma una istituzione, la cui effettività discrimina il proprio e l‟improprio, non sul piano della soggettività ma appunto su quello della socialità. Se Heidegger elimina dalla considerazione ontologica la “struttura della realtà”, Gehlen, di contro, ha di mira solo tale struttura, eliminando dal novero del rilevante ogni interiorità. Ma l‟esito è analogo, anche se speculare, in quanto l‟ontologia di 598 599

Ivi, pag. 167. G. Lukàcs, La distruzione della ragione, tr. it. cit., vol. II, pag. 513.

290


Heidegger finisce per considerare “impropria” la storia reale, quella del “tempo volgare”, laddove l‟analitica antropologica di Gehlen finisce per assumere come realtà propria, significativa, solo l‟elemento “oggettivo” della conoscenza, quel “guscio” (Gehause) di cui parlava spregiativamente Jaspers nella Psicologia delle Weltanschauungen per indicare le forme irrigidite della realtà vivente. Infatti, afferma Jaspers, ogni dottrina che si formula della totalità diventa Gehause, toglie l‟esperienza originale della situazione limite e impedisce il sorgere delle forze che cercano dinamicamente il senso dell‟esistenza nel futuro, in un‟esperienza da esse stesse voluta, per mettere al loro posto la quiete di un mondo di significato eternamente presente, penetrato fino in fondo e perfetto, tale da appagare l‟animo.600

La posizione metafisica che sta a fondamento della critica del tempo, che investe perciò inevitabilmente le istituzioni socio-politiche dei regimi storici moderni e contemporanei, si costituisce, nel caso di Heidegger, come una denuncia teoretica del riduzionismo scientifico della realtà “totale” al presente, alla realtà “oggettiva”, all‟esistente, con la conseguenza negazione di ogni apertura al futuro, cioè di ogni possibilità di cambiamento della realtà pratica. La differenza rispetto alle posizioni esistenzialistiche, è che nel caso di Gehlen, la protesta metafisica alla “tragedia della civiltà” (Simmel) viene impostata,non già a partire dal soggetto, e neppure dai gruppi sociali antagonisti, ma a partire dalla critica del fondamento coscienziale, ritenuta la premessa veritativa per una critica radicale della civiltà umanistica moderna. Il centro problematico della analisi di Gehlen va rintracciato, dietro la realtà sociologica, nella questione squisitamente filosofica se la verità possa essere attinta dal soggetto trascendentale, come pretendeva lo 600

Cit. da Lùkacs, Loc. cit., pag. 527.

291


storicismo diltheyano e le sue propaggini idealistiche ed esistenzialistiche, ovvero è da identificare con l‟opinione comune, veicolata dalle forme istituzionali. Ora, esclusa esplicitamente da Gehlen la prima ipotesi, resterebbe inspiegabile, sul piano della storicità, la sua posizione ideologicamente critica della modernità, poiché la società industriale, con le connesse ideologie democraticoumanitarie, è la realtà istituzionale. E perciò la sua critica non può non investire lo storicismo, in nome di una realtà più autentica di quella presente, la quale deve essere fatta emergere attraverso le categorie antropologiche, che dunque sono il corrispettivo teoretico delle categorie esistenziali heideggeriane. E‟ l‟istanza del superamento della realtà fenomenica e apparente in vista di una superiore oggettività, a far sì che la critica all‟esistente coinvolgesse sia i fondamenti filosofici che lo legittimavano eticamente, che le espressioni istituzionali. Resta nondimeno il fatto che il rapporto dialettico tra il momento veritativo e il momento sociologico non può essere descritto, alla maniera di Gehlen, nei termini ideologici di un determinismo volgare, che pone i contenuti filosofici come un mascheramento filisteo della posizione politicosociale. E‟ semmai l‟inverso, nel senso che senza quei contenuti non si potrebbero derivare le istanze istituzionali. Infatti, Gehlen, a proposito dell‟umanitarismo, giunge alle stesse conclusioni di Japsers, il quale, in Ragione ed esistenza aveva ribadito che “con l‟affermazione di una verità come universalmente valida per tutti gli uomini interviene […] al tempo stesso la mancanza di veracità”, intesa in senso soggettivistico, per cui, come afferma Lukàcs, egli “vede le forze dell‟oggettività pericolose per la veracità soggettiva quasi esclusivamente dove si determina un predominio democratico”, in quanto le “forze dell‟oggettività” sono le “conseguenze” sociologiche di una teoria gnoseologica che va confutata teoreticamente, e non contrastata sul piano pratico e politico. In questo senso Jaspers, in La situazione spirituale del tempo, afferma che “la chiarezza della coscienza racchiude un‟esigenza, ma non porta alcuna realizzazione. 292


Come esseri conoscenti dobbiamo accontentarci di questo”.601 Che è la posizione specularmente opposta alle conclusioni cui perviene Gehlen. Ma solo apparentemente le due posizioni si oppongono. In realtà esse, muovendo da posizioni opposte, pervengono alle stesse conclusioni. Infatti, è l‟ammissione della stessa possibilità di una conoscenza “vera” rispetto a una “volgare” o “ingenua” a stabilire la distinzione fra opinione comune e conoscenza veritativa (“scientifica” o filosofica o antropologica). Nella prospettiva che origina da Husserl, la dicotomia gnoseologica si proietta nella realtà quale espressione formale duplice delle rispettive cognizioni teoretiche, quella appunto “ingenua”, su cui si fonda la scienza obiettivistica, e quella autenticamente scientifica dell‟analisi fenomenologica. Nella prospettiva di Gehlen, quella dicotomia si dispiega come dissociazione tra forma istituzionale e contenuto etico. La necessità di negare il dualismo metafisico, che costituisce la realtà dell‟errore, spinge la prospettiva “idealistica” del soggettivismo (la quale, appunto, hegelianamente nega che la realtà fenomenica sia tutta la realtà) a concepire il dato reale come dato intuitivo, per cui l‟oggetto della coscienza è considerato come lo stesso oggetto della realtà sul quale si basa ogni conoscenza scientifica “ingenua”. Questa possibilità è giustificata dall‟idea che il contenuto dell‟intuizione sia, dal punto di vista storico-fenomenico, un contenuto “reale”, e insieme sia, dal punto di vista teoretico-soggettivo, il prodotto dell‟attività spirituale. Il limite gnoseologico di ogni soggettivismo è che il “principio di realtà” che discrimina il dato reale (autentico) da quello puramente fantastico (inautentico), è offerto dalla realtà stessa quale mondodella-vita esterna al soggetto coscienziale, e quindi preesistente alla coscienza stessa. Quella realtà determinata che per Jaspers (ma anche per un idealista coerente come Gentile) e per ogni coscienzialismo conseguente è un guscio vuoto, che l‟analisi trascendentale non a caso 601

Le citazioni di K. Jaspers sono in G. Lùkacs, Loc. cit., pagg. 527-529.

293


deve porre tra parentesi, e che costituisce per l‟appunto quella realtà sociologica che Gehlen assume in termini critici per giungere al sostrato antropologico, unicamente “reale” e “autentico”, dopo averla mondata di ogni determinazione storico-soggettiva. In comune tutte queste diverse e varie posizioni hanno il rigetto della realtà che è, considerata in autentica, in vista dell‟essere autentico che non-è attuale. La preferenza accordata alla non-realtà-attuale, propugnata come realtà-non-attuale, significa l‟affermazione del primato dell‟idea sulle concrete determinazioni storiche delle istituzioni, che, rispetto all‟idea, sono gusci vuoti, forse ancora pregni di effettività pratica, ma senza valore, la cui misura è data appunto dai contenuti ideali. Ed è appunto questa l‟idea implicita di una “rivoluzione”, che tutti i menzionati pensatori hanno, ad accomunarli idealmente nella critica al tempo presente, da autentici “intellettuali” moderni. Gehlen rintraccia i precedenti della moderna privatizzazione degli interessi nell‟età tardo-classica ed ellenistica, individuando in Antistene il fautore del primato delle “personali virtù” etiche sulle “leggi esistenti” della politica, ma li considera momenti di una tendenza oggettiva, legata a motivi strutturali. L‟etica dell‟umanitarismo del benessere, con o senza religione, va da sé che si adatta alle necessità vitali degli uomini privatizzati, proprio di quelli che percepiscono come una cosa ovvia gli interessi successori, cioè i loro e quelli delle loro famiglie. Quell‟etica ritorna quindi alla sua origine naturale poiché fra la fortuna familiare e quella determinatasi nell‟umanità non c‟è alcuna differenza qualitativa.602

Il moderno borghese dell‟epoca industriale, esponente sia del razionalismo utilitaristico che della nietzscheiana morale del gregge dall‟istinto gregario, viene anch‟esso “allontanato dal privato da forze oggettive”, che spingono acché i “problemi pubblici” possa 602

A. Gehlen, Morale e ipermorale, tr. it. cit., pag. 168.

294


interpretarli soltanto nell‟ottica dei “suoi interessi personali”, per cui egli ricerca “il vero sostentamento della vita nella sfera privata, del cui valore e dignità nessuno può dubitare, cioè egli torna a casa spiritualmente e moralmente”, mentre l‟etica ipertrofica, sulla base di questa situazione, si sviluppa come “un prolungamento della vita familiare in tutto il mondo”.603 Ma l‟individualismo dell‟uomo privatizzato e “spinto all‟isolamento, non va scambiato con quello dei secoli precedenti”, quale fu “formato e stilizzato dalle società feudali” e descritto dal Burkhardt. Infatti, l‟individualismo del periodo rinascimentale, dal punto di vista sociologico, va interpretato come un fenomeno delle “classi superiori del tardo feudalesimo e della borghesia in ascesa che in un primo momento si mescolarono n Italia”.604 Allora l‟unità sociale era garantita sia dai “ristretti orizzonti” che dal “clericalismo non consumato dalle masse” che dalla “amministrazione onnipresente dei principi assolutisti”, mentre nei tempi recenti, “quando essere una personalità diventò un ruolo vero e proprio”, l‟individualismo si poté “socializzare” e a partire dal sec. XIX divenne “popolare”,605 andando a costituire, nella sua forma riflessa, “il nome di soggettivismo”.606 Divenendo mentalità corrente, l‟esperienza comune stenta a riuscire a comprendere la portata morale degli antichi vincoli solidali, avverso ai quali la “società pluralistica” rappresenta per l‟uomo il luogo della dispersione dei valori, dove egli viene “importunato” con “pretese contraddittorie” e “possibilità divergenti” che fanno di lui una “personalità pluralistica”. All‟ideale semifrantumato della personalità autonoma che si manifesta nei periodi di crisi, l‟epoca industriale non mette più a disposizione un ambiente 603 604 605 606

Ivi, pag. 169. Ivi, pag. 169. Ibidem. Ivi, pag. 170.

295


adatto, poiché l‟immensità delle sovrastrutture rende insensato trasmettere ai grandi rapporti le esperienze fatte nel piccolo campo individuale; ci si deve accontentare di opinioni e scontri di sentimenti sui quali si esercitano i mezzi di comunicazione di massa, la cui grande forza di indottrinamento, vista a lunga scadenza, viene contestata soltanto da loro stessi.607

L‟individualismo non è un‟etica del personaggio rappresentativo della civiltà liberale moderna, la forma mentis aggiornata dell‟idealtipo dell‟uomo rinascimentale o del fiero castellano auto sufficiente, ma la risultanza sociologica di una condizione spiritualmente patologica in cui versa e di cui soffre la cultura e la società razionalistica e quindi industriale. La libertà, da dominio razionale della propria sorte umana, diventa “finzione di libertà”, afflato sentimentale di una morale privatistica che viene fatta valere in ambito pubblico, devitalizzando dall‟interno la politica attraverso la sua stessa pervasività. Infatti, gli affari sociali sono presentati formalmente sotto l‟egida della “onnipresenza della politica”, la quale però viene travisata “in modo moraleggiante” tale da determinarne una “spoliticizzazione dall‟interno”.608 Torna qui il tema della dialettica della universalizzazione dei valori, che li converte nella loro neutralizzazione. Ed è proprio questa neutralizzazione dei valori universalizzati a rendere il senso profondo dell‟intuizione di Schmitt circa la spoliticizzazione moderna, la cui lezione Gehlen ha certamente tenuto presente. Ma l‟accezione di Gehlen del “valore pubblico di questa soggettività privata” travalica il contesto moderno per diventare categoria antropologica nel momento in cui viene presentata come il riflesso (patogeno) di una condizione contro-natura (“soggettività deviata”), affermatasi nel periodo di crisi della civiltà in opposizione alla tradizione comunitaria classica, presentata, attraverso la categorizzazione antropologica dei suoi valori come l‟intera tradizione 607 608

Ivi, pag. 171. Ivi, pag. 171.

296


umana tout-court, secondo una tendenza tipica della cultura conservatrice illustrata da Mannheim. Da qui il bisogno sociologicamente comparativo e storicizzante del concetto-valore dell‟individualismo, al fine di discernere da esso la sua forma deviata, pur oggettivamente presente e reale, e giudicata inautentica in confronto al modello tipico, che, assurto a valore autentico, da sociologico, diventa antropologico, segnando così la distanza dal descrittivismo freiheit della metodologia weberiana negli stessi termini in cui una categoria ideale si differenzia da un concetto empirico. Ed esattamente qui, in questa trasvalutazione valoriale del dato istituzionale empirico, che risiede l‟idealismo di Gehlen, l‟aspetto filosofico della sua antropologia, per altro a suo modo rivendicato dall‟autore attraverso l‟acquisizione in proprio dell‟istanza husserliana del fondamento unitario delle singole scienze. Il “nuovo tipo di individualismo o soggettivismo”, scrive dunque Gehlen, si caratterizza dall‟unione della “volontà di rendimento” all‟ “egocentrismo e alla sensibilità di fronte alle esigenze di affermazione degli altri”, in cui “la personalità si manifesta liberamente in questa preparazione”, che si risolve in se stessa, dal momento che “essa non può più cambiare niente della realtà”. Rispetto all‟individualismo storico, quello contemporaneo ha perduto “due strutture classiche”; anzitutto, “la grande attitudine fondamentale, la drammatica pretesa di affermazione di una dottrina scoperta da sé, dalla quale una persona è decisamente dipendente come Spinoza e Nietzsche”, e nella quale si realizzava il “compito secolarizzato dei profeti”. In secondo luogo, si è perduto quello “affinamento altamente sensibile e differenziato come quello che fu introdotto da Proust oppure da Musil e che ora nei letterati scomparso”.609 Tratto caratteristico del nuovo individualismo è l‟espansione del “valore pubblico di questa soggettività privata”, in cui “l‟accettazione 609

Ivi, pag. 171.

297


di sé, senza inibizioni […] non è qualcosa di infantile ma un diritto dell‟uomo”.610 Resta di fatto che “il corso oggettivo della civilizzazione, non soggetto a deviazioni, suscita certamente ammirazione e nondimeno la plasticità multidimensionale dell‟uomo ormai si adegua alla forma sociale „nella quale il processo biologico stesso si è stabilito e organizzato pubblicamente‟ (H. Arendt, Vita activa)”, e dove, almeno in Occidente, risulta avanzato “il processo di evaporazione di tutti i contenuti rigidamente ideali”.611 Nell‟ottica stigmatizzante dell‟affermazione di idealità ritenute disvalori, la stessa consistenza socio-politica e culturale della moderna Weltanschauung “narcisistica”, per mutuare il giudizio di Lasch, diventa problematica in ragione della sua pervasività ideologica, così che “l‟ipertrofia morale” diviene una categoria antropologica negativa che rappresenta la proiezione teoretica di una realtà storicosociologica assunta criticamente come l‟anti-storia della civiltà europea che persegue a suo modo – ossia in modo aberrante – la vocazione propria all‟universalismo razionalistico di affermarsi come esistenzialità totale. E‟ appena il caso di aggiungere che la costituzione dialettica della realtà fenomenica con il modello categoriale se consente un‟apertura agli enti mondani verso la trascendenza ontologica, inibisce però la ricerca di una intrinseca ragionevolezza sociologica alla forma strutturale del mondo storico, facendo della coscienza critica non il luogo della mediazione razionale tra valore ideale e fenomeni sociali, ma il pulpito drammatico del giudizio “profetico”. Non a caso tale compito fu assunto dalla tribuna letteraria, poiché la moderna rappresentazione dell‟eterno dramma metafisico del rapporto iomondo, coscienza-società, etica e politica, come “commedia umana”, trovava il suo luogo di mediazione nella sintesi linguistica, nel contempo indicatrice e produttrice di valori. Dal linguaggio, come 610 611

Ivi, pag. 173. Ibidem.

298


sappiamo, era infatti partito Gehlen, ma la sua rappresentazione oggettivata di tale rapporto sintetico nella forma istituzionale pratica, ne condiziona lo sviluppo teorico in senso pragmatistico di teoria dell‟azione, privandolo così della possibilità di vedere nella struttura verbale il luogo caratteristicamente umano della forma universale, eidetica e non sociale. Da qui la caduta inevitabilmente psicologistica nella descrizione degli indirizzi morali storicamente propulsivi. La soggettività deviata […] trova la sua soddisfazione nei complessi fortemente sentimentali della famiglia e del lavoro quotidiano, il nutrimento spirituale nelle esperienze domestiche. […] Gli avvenimenti politici riscontrano una vera popolarità unicamente se si lasciano considerare sotto l‟aspetti dei fatti privati […] L‟ipertrofia morale, con il suo disprezzo, si adatta a tutte le esclusioni dalla totalità e al mantenimento delle distanze; con la sua erosione si adatta in modo del tutto meraviglioso agli obiettivi esclusivi n un sistema completamente biologico e aperto verso il futuro. Essa racchiude comunque l‟accettazione di tutto ciò che potrebbe venire. Conseguentemente viene liquidato ciò che è stato tramandato dai tempi antichi riguardo all‟etica istituzionale, alla morale sessuale oppure alla riservata reciprocità; la formula generale qui si chiama “pregiudizio”.

Ma la storicità delle credenze, plasticamente qui evocata da Gehlen, non richiama di converso il problema platonico della verità? Ossia la definizione di quelle categorie ontologiche che proprio lo spirito pragmatico moderno ha rimosso a scopo terapeutico insieme alle sanguinose questioni teologiche? Il percorso alternativo di Gehlen al relativismo razionalistico-storicistico non fu il ricorso all‟idea dell‟uomo, ma alla idealizzazione della natura umana, cercando nelle strutture elementari della vita ciò che Husserl ricercava nelle strutture essenziali del pensiero e Heidegger negli esistenziali. Il carattere fenomenistico dell‟analisi antropologica di Gehlen rappresenta una realtà umana sospesa tra le sue impersonali determinazioni sociali e una condizione morale priva degli originari referenti istituzionali, 299


inclinata progressivamente verso un percorso di alienazione psichica dove è dominante un generale carattere di fosca decadenza, ampiamente documentata dalla letteratura tra le due Guerre. Alla genesi dei fenomeni storici viene preferita una narrazione sociologica a volte profonda ma piuttosto rapsodica, che anche quando descrive un percorso non ne chiarisce lo sviluppo, rimandando alla “ovvietà” delle acquisizioni storiografiche che ne fanno da sfondo. All‟epoca dell‟Illuminismo – afferma Gehlen - appartiene la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, quando l‟economia ricadeva ancora del tutto sul privato. All‟inizio dell‟epoca borghese, “le categorie della vita privata si lasciano attirare rapidamente dallo Stato”, tanto che Tocqueville pensava che fossero stati i fisiocrati, con la loro polemica contro “l‟abuso del potere pubblico” e la “virtù terapeutica dell‟educazione” a cura degli intellettuali, “i veri creatori dei princìpi della Rivoluzione Francese”.612 Liberatori da tutti i legami tradizionali, l‟individua si abbandona alla sua inutile libertà. Inutile, poiché “il potere delle sovrastrutture chiaramente non è influenzato” da questi comportamenti trasgressivi, in quanto “la produzione ha diritto di precedenza” sul rifiuto aristocratico della “grande situazione”, e ogni critica “si può aggrappare solo ai dettagli, poiché la grande situazione non risponde”.613 Questo senso di impotenza, fece “abbandonare i criteri umani” di valutazione della realtà, a favore delle forze impersonali, dal destino alla natura. “la tecnica moderna reagisce a questa fatalità nel senso della ricchezza economica”, diffondendo in tempi reali manifestazioni e avvenimenti internazionali direttamente a casa, creando una coscienza mondiale dei problemi da parte di chi “non capisce l‟ambiente più vicino con i suoi fatti, appassionatamente eccitato nei sentimenti ma povero di azioni”.614 La centralità della 612 613 614

Ivi, pag. 174. Ivi, pag. 175. Ibidem.

300


funzione pubblica dell‟ “opinionista” è affidata proprio alla distruzione dell‟impegno etico dalla realtà prossima, dallo “esistente”, che viene perciò interpretata attraverso le categorie della famiglia, trasformandolo in “privatus”.. Qui Gehlen deforma in senso economicistico (dove familiare sta appunto etimologicamente per economico) il carattere privatistico della critica, il cui modello classico resta distante quanto il filosofo dall‟opinionista moderno, il cui “morallegiare” appare giustamente a Gehlen un “surrogato della conoscenza”.615 La “giusta causa” borghese, ovvero, come egli preferisce, la “buona causa”, viene rappresentata, con le parole di Musil, come una “intenzione delittuosa che si lascia difendere”, ossia un pretesto moralistico per coprire, con valori umanitari astratti, concreti interessi mondani, dove il giudizio riferisce solo l‟aspetto esteriore e per così dire politico della tensione etica, senza penetrare le sue intime istanze ideali, che costituiscono il fondo sentimentale ma anche reale e umanissimo della loro razionalizzazione formale. Di contro, ogni istanza etica, in quanto politicamente organizzata ad interesse, racchiude una istanza di parte, che si avanza non in vista di un fine superiore ma per la mera affermazione di sé, altrove asserita come un principio di ragion sufficiente per giustificare gli assetti istituzionali, e qui invece deprecata attraverso una lettura cinica dei moventi dell‟azione, che possono illuminarne l‟istanza contingente e occasionale ma senza che essa venga razionalmente compresa e quindi neppure confutata. Infatti, la “causa” economica, individuata e resa manifesta, non confuta l‟istanza ideale che la sostiene e che è a sua volta sostenuta, ma la rende solo storicamente consapevole. L‟individuazione del nucleo razionale dell‟azione certo non la rende più reale di altre azioni meno esplorate logicamente e quindi eticamente più fondate rispetto a quelle dai moventi intuitivi, ma la rende consapevole a se stessa, e 615

Ivi, pag. 176.

301


perciò eventualmente più emendabile logicamente dalla critica, che ne stabilisce la sua congruità. Nessuna fede o credenza può essere confutata se non da un‟altra fede; la corrosione critica può intaccare la sfera del razionalmente plausibile, cioè del costrutto logico dei moventi dell‟azione, non già i suoi contenuti fideistici. L‟asserzione paolina sulla eterogeneità dei valori mondani rispetto a quelli divini, che esprime la differenza, su cui ha insistito Leo Strauss, tra l‟intuizione religiosa del mondo e la funzione filosofica di comprenderlo, riflette l‟inerenza dei rispettivi valori a sfere idealmente diverse. Ed è proprio tale differenza ontologica tra l‟assolutezza dei valori totalizzanti e la relatività degli storici moventi razionali dell‟azione che è alla radice del pluralismo etico su cui insiste Gehlen, il quale descrive il diverso approccio teoretico ai fondamenti etici: rispettivamente “esterno” e “interno” alla professata credenza, rispetto alla quale la credenza diversa appare realmente fondata solo sull‟interesse pratico, mentre invece alla stessa appare eticamente fondata la credenza omologa. Il pluralismo etico dichiara già il risvolto polemico delle credenze isolate dai propri fondamenti razionali e ridotte a forme di interesse pratico (a “gusci” vuoti). La tensione polemica è il portato della logica della mera esistenzialità dei fenomeni umani, la quale produce l‟esclusività politica, secondo un movimento idealmente opposto a quello della comprensione razionale dei fenomeni, che tende all‟inclusività del diverso nell‟uguale, cioè all‟astrazione dalle specifiche determinazioni esistenziali dei fenomeni. Gehlen ricorda il giudizio di Scheler sulla libertà di coscienza come il riflesso moralmente anarchico del nostro periodo critico, mentre per lui stesso “la coscienza o è un segno degli evidenti doveri sociali trascurati”, oppure “l‟esperienza della mancanza di una via d‟uscita” da una condizione etica di equiparazione sociale di diritti

302


inconciliabili che “vanno a pezzi in situazioni di crisi”.616 In queste situazioni estreme, “quando il conflitto delle morali si fa acuto”, si ha soltanto la scelta fra la responsabilità e l‟ambiguità. In tempi così insoliti perfino l‟ordine necessita della difesa. Questa è la condizione che evita lo scontro delle posizioni verso l‟inconciliabilità, che tempera il conflitto di coscienza della politica fino alla sopportazione, che dà vita ad un genere di libertà positiva, vale a dire il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono e nel quale risulta che – per ripetere una formula di Bruno Bauer – il progresso è una mancanza d‟ordine sociale che è diventata un sentimento personale.617

8. Abbiamo di sopra affermato che il punctum dolens dell‟analisi antropologica di Gehlen è la definizione delle istituzioni come “forme del pensare e dell‟agire” è possibile solo nei termini e nei modi di una asserita identità (e non correlazione) tra pensare (forma interna, concetto razionale) e fare (forma esterna), rimasta però non dimostrata. L‟eccesso pulsionale dell‟uomo deve essere organizzato conferendogli direzioni e articolazioni, per mezzo di subordinazioni ed esclusioni, il che diventa possibile solo sulla base dell‟esperienza e dell‟interpretazione di situazioni vissute, nelle quali le nostre pulsioni possono destarsi alla memoria di sé e rendersi intelligibili. Il padroneggiamento del mondo esterno è in pari tempo articolazione e caratterizzazione di un mondo interno, e alla vita interna umana ineriscono le due straordinarie premesso di un eccesso pulsionale da un lato, con debole legame istintuale, e di una sfera mondana non interpretata, “aperta” dall‟altro, che per prima cosa va padroneggiata, dal cui reciproco scontro e incontro quella s‟ingenera e si costituisce […]. L‟uso del linguaggio puramente teorico, quale si fissa nella forma del giudizio, è un fenomeno assai tardo ed eccezionale.618 616 617 618

Ivi, pag. 187. Ibidem. A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e i il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 265.

303


Esamineremo partitamente alcune categorie utilizzate da Gehlen per rendere manifesto e comprensibile il suo pensiero antropologico, ma intanto enucleiamo dal brano citato alcune affermazioni che ci paiono di estremo interesse per utilizzarle. Anzitutto, si afferma la necessità che “l‟eccesso pulsionale” debba subire una selezione organizzata: a quale scopo, se non quello del “padroneggiamento del mondo esterno”? Secondariamente, il rapporto tra “vita interna” e “sfera mondana” suppone che la contrapposizione tra le due distinte realtà sia una condizione originaria. In terzo luogo, il padroneggiamento del mondo è opera di interpretazione da parte dell‟uomo, attraverso un linguaggio simbolico, anche se il suo uso “puramente teorico” riguarda una fase successiva ed eventuale. Circa il primo punto: perché l‟eccesso pulsionale “deve essere organizzato” e non può dispiegarsi senza risparmio energetico? Perché l‟uomo, afferma Gehlen, non avendo un‟economia istintuale precostituita, come le altre specie animali, deve formarsela. Ma a qual fine deve formarsela? E qui sta la nota dolente. Infatti, se le altre specie animali hanno una struttura istintuale atta a sopravvivere in natura, l‟uomo, che ne è privo, se ne deve foggiare una per dominare la natura. Allora, all‟eccesso pulsionale dell‟uomo corrisponde un disegno antropologico, quello di non limitarsi a sopravvivere, ovvero, che è lo stesso, di sopravvivere dominando la natura. La volontà umana, in altri termini, è una “volontà di potenza”, e in questa sua qualità antropologica consiste la sua caratteristica di specie. In merito al secondo punto, la vita bio-psichica dell‟uomo, caratterizzata nel senso del dominio della natura, è tale che la sua posizione nel mondo si deve organizzare come una posizione verso il mondo, al cui equilibrio l‟uomo non appartiene, diversamente che le altre specie. Ciò significa che la posizione dell‟uomo nel mondo è una posizione polemica. E inoltre, poiché l‟atteggiamento polemico è 304


costitutivo della sua essenza antropologica, esso si rivolge anche verso l‟uomo stesso e le sue forme sociali di vita, determinandone pertanto la sua attività politica. Infine, la frattura originaria dell‟uomo e del mondo, fa sì che questo sia originariamente “una sfera non interpretata”, e che va interpretata, sempre al fine del dominio, per cui l‟interpretazione umana del mondo è un‟attività finalizzata alla trasformazione del mondo – da sfera non interpretata ed estranea, a cosmo interpretato -, e non già un‟attività finalizzata alla sua mera comprensione. Per questo un uso riflessivo del simbolismo interpretativo, ossia l‟uso meramente teorico, non è l‟uso primigenio e necessario, ma è solo “un fenomeno tardo ed eccezionale”, che può esserci come può non esserci, senza nulla togliere alla destinazione funzionale originaria del linguaggio, che è quella pratica. Da qui il pragmatismo di Gehlen. Ma questa sua, è una conclusione necessaria? Per rispondere, assumiamo la sua categoria della “immaginazione comunicativa”. Secondo Gehlen, se negli animali si istinti si annunciano “in forma ludica”, nell‟uomo invece il gioco “significa il costituirsi, l‟erompere e il piacevole esperire di interessi fantastici, e perciò di processi dell‟immaginazione comunicativa”, i quali “per loro essenza, sono instabili e mutevoli”, al pari della struttura pulsionale costitutiva dell‟uomo, per cui “l‟instabilità è il contenuto essenziale del gioco”.619 “Il gioco”, dunque, come categoria antropologica, “è la forma in cui una vita pulsionale aperta al mondo, ancora esente – a causa del lungo sviluppo – da compiti e sovrabbondante, dischiude se stessa in direzione del mondo ed esperisce in vivacità di comunicazione il crescere al suo interno di una piena di bisogni partecipativi e mutevoli”.620 Il gioco è fondamentale in quanto con esso insorgono interessi momentanei che sono attuali “finché dura il rapporto di 619 620

Ivi, pag. 260. Ivi, pag. 261.

305


comunicazione”, ma che in seguito rivivono fantasticamente “senza che dei bisogni sussistano”, ossia sono disponibili in quanto il “maneggio” di quegli interessi è diventato “intelligibile a se stesso”, e quindi “determinato”.621 La disponibilità è così conseguente alla coscienza riflessa dell‟atteggiamento acquisito, e ciò consente che atteggiamenti analoghi vengano pretesi anche dagli altri, secondo azioni “organizzate in un sistema reciproco, in una unità” organizzativa grazie alla quale “il gruppo sociale” consente al singolo partecipante al gioco di uscire dal suo Sé e costituire “l‟Altro generale”, ossia una “struttura di ruoli rispecchiantisi a vicenda” in regole comuni, la quale permane “identica a se stessa” nel variare dei mutevoli comportamenti occasionali dei singoli.622 Ora, “tutti gli stati della vita psichica”, dice Gehlen, “si rendono a misura di linguaggio”, nel senso che, se le pulsioni non vengono ulteriormente elaborate o collegate, “aderiscono ai vecchi nomi nei quali divennero originariamente intelligibili”. In altri termini, “l‟orientamento della vita appetitiva è […] una necessità biologicoantropologica possibile soltanto, in via assoluta, con l‟ausilio del linguaggio”.623 In che consiste questo ausilio? A rendere il valore simbolico della comunicazione un valore consapevole, e insieme evocativo di un atteggiamento sperimentato per gioco e disponibile a nuove fruizioni. Ciò significa sostanzialmente che nel linguaggio l‟uomo realizza quella sintesi di concettualità e di azione che costituisce l‟essenza della istituzione e che ne costituisce la sua “forma”. E‟ dunque il linguaggio la forma istituzionale più perfetta e più suscettibile di perfezione, proprio in quanto è il luogo dove l‟azione umana giunge a consapevolezza di sé, cioè alla disponibilità razionale di quanto 621 622 623

Ivi, pag. 260. Ivi, pag. 262. Ivi, pag. 264.

306


empiricamente appreso, per gioco. E‟ il luogo dell‟astrazione, della pura intenzione, dove Si dà una transizione dall‟azione all‟azione “che apre la via”, cioè dall‟attesa pulsionale che si condensa nel suono, alla pura intentio della cosa come tale. Essendo in ogni momento disponibile e ripetibile a piacere, ogni suono può distaccarsi dalla situazione alla quale originariamente apparteneva, e dunque anche dal bisogno corrispondente. Il suono sorregge allora l‟intenzione della cosa in se stessa, ed è quindi un‟autentica parola.624

In virtù della sua astrazione, la parola diventa un segno rappresentativo di molteplici cose che sono diverse al di fuori del loro comune e astratto connotato simbolico. L‟astrazione simbolica consiste esattamente nel “trarre fuori” da una “massa oggettuale” il segno che indica cose diverse considerate allo stesso modo. Ma l‟indicazione stessa “non è un atto”, cioè un‟azione pratica, ma un‟operazione teoretica, che consiste nell‟inibizione di altre prospettive simboliche, ossia nella distinzione di determinate qualità simbolizzate da altre qualità altrimenti simbolizzate. E in questo consiste il pensare astratto, definito come il “dirigersi attraverso un simbolo autodisponibile, autonomamente posto nel corso dei movimenti di comunicazione”.625 Se le nostre azioni si atteggiano in modo da badare unicamente ad accenti o simboli determinati e particolari in circostanze per il resto assai modificate, ma neutralizzate, esse “si espandono”, in quanto, in un contesto del tutto diverso, è posto in risalto solo lo stesso simbolo, e ora percezione e azione sussumono sotto un‟unica prospettiva cose altrimenti assai diverse.626

Da qui la definizione del simbolo quale “prodotto di un comportamento comunicativo, che sussiste, nel senso più stretto, 624 625 626

Ivi, pag. 265. Ivi, pag. 268.

307


soltanto là dove è possibile porlo in risalto rispetto a ciò che designa e dunque significa qualcosa d‟altro da quel che è”.627 Vi è dunque un qualcosa che “è” il simbolo comunicatore, e un qualcosa d‟altro che viene indicato, e che dunque “non-è” il simbolo. Il simbolo “neutralizza” aspetti reali delle cose diverse per assumere di esse la loro astratta considerazione, che, rispetto alla loro reciproca diversità, le presenta in una prospettiva che dal punto di vista fenomenico non è reale nel senso in cui lo sono le singole cose considerate in sé, ma la loro realtà è appunto solo nel senso dell‟astrazione da ciò che ognuna di esse “è”. Il “punto decisivo” nell‟astrazione, afferma Gehlen, “è che questa prospettiva è definita soltanto dall‟azione coinvolgente la cosa, e che soltanto l‟identità del comportamento svela la possibilità, inattesa, di comparare tra loro situazioni altrimenti diversissime”.628 In altri termini, finquando le cose restano astratte, non è possibile compararle nel senso della loro specifica e reciproca diversità; occorre che esse si determinino realmente. E‟ questa “realtà” che Gehlen identifica con “l‟azione”. Uno degli errori del pragmatismo, indicati da Scheler, a suo dire il suo “errore filosofico più generale”, è quello stesso dell‟empirismo e del sensismo di Bacone e di Mill, ossia il misconoscimento della “distinzione fondamentale del sapere in „sapere dell‟essenza‟ e „sapere relativo ai fatti accidentali‟ ”. Senza questa essenziale distinzione, “il pragmatismo non può cogliere nemmeno l‟idea formale di sapere „filosofico‟ e „formativo‟ ”.629 Che lo stesso spirito umano, nella e con l‟attività del conoscere, nella storia della conoscenza, progredisca e si sviluppi non soltanto accatastando alla rinfusa nuovi risultati conoscitivi circa la realtà contingente – secondo un processo di pura “accumulazione” di contenuti del sapere – e che questa crescita, questa autentica “evolutio” dello spirito sia un valore superiore alla utilizzazione dei 627 628 629

Ivi, pag. 267. Ivi, pag. 268. M. Scheler, Conoscenza e lavoro, tr. it. cit., pagg. 140-141.

308


risultati della conoscenza per fini pratici, tutto questo è appunto misconosciuto dal pragmatismo […]. Infine il pragmatismo misconosce anche la stretta correlazione nomica che sussiste fra modificabilità praticamente possibile delle cose ed il grado della loro relatività esistenziale. Tale legge dice: le cose sono soggette alla modificabilità pratica (anche solo “possibile”) tanto più facilmente quanto più esse nel loro esistere sono relative all‟uomo e quanto il grado della loro relatività esistenziale si discosta dal piano della realtà assoluta e del suo sapere. […] Se dunque il pragmatismo vuol fare valere soltanto questo sapere cui consegue la possibilità di realizzare nella pratica un mondo trasformato, allora esso rinuncia non soltanto ad ogni sapere dell‟essenza, ma anche al sapere che è in rapporto ad una realtà assoluta, vale a dire al sapere religioso e metafisico. 630

La modificabilità della realtà è relativa alla condizione della sua esistenza, per cui la dimensione pratica della vita coinvolge l‟esistenza dell‟homo faber e la produzione umana, mentre la “realtà assoluta, se modificabile, è modificabile soltanto attraverso se stessa e non attraverso esseri che essa stessa ha fatto esistere determinandone l‟essere-così – che dunque dipendono esclusivamente da questa”.631 Il concetto di relatività esistenziale di Scheler è correlativo al concetto di disponibilità di Gehlen, per cui quanto è relativo all‟uomo è disponibile alla sua modificabilità. Parimenti, ciò che Scheler chiama “sapere formativo”, ossia l‟empirico sapere “relativo ai fatti accidentali”, è il pensiero “astratto” di cui Gehlen, col quale si neutralizzano aspetti reali delle cose al fine di una loro considerazione funzionale a uno scopo, evidentemente pratico. In altri termini, è questa operazione di rimozione della realtà essenziale delle cose a costituire ciò che Heidegger chiamava “l‟oblio dell‟essere”, ossia lo scheleriano misconoscimento del “sapere dell‟essenza”. Rispetto a questo sapere neutralizzato, il sapere empirico evolve a suo modo verso una maggiore conoscenza tecnica del mondo pratico, allo scopo 630 631

Ivi, pag. 141. Ivi, pag. 142.

309


di una sempre sua maggiore trasformazione. E poiché l‟autore di questa trasformazione, per quanto impersonale, è l‟uomo, il sapere relativo alla sua esistenza pratica e al mondo di cui egli è produttore deve essere il più possibile prevedibile, e tale che le sue funzioni esistenziali e produttive siano rapportabili a uno schema pre-definito di comportamenti sistematicamente organizzati, cioè istituzionalmente codificati e quindi razionalmente prevedibili. Abbiamo già detto supra che il grado di prevedibilità dei comportamenti umani corrisponde al livello di sicurezza sociale garantito dalle istituzioni. Da qui le categorie antropologiche, strettamente collegate, della “esperienza” e della “causalità”. L‟esperienza non consiste solo nell‟identificare sotto una determinata prospettiva fatti per altri aspetti diversi, o nell‟estendere il nostro comportamento a cose diversa in una stessa prospettiva [ma occorre aggiungere] l‟attesa. [Cioè] l‟aspettarsi in B le stesse conseguenze su cui l‟azione fa conto nel caso di A. […] Fare esperienza (nel senso più elementare della parola) significa [dunque] prendere, in prospettive determinate ed esclusive, A per B, e attendersi da A il medesimo che vale per il rapporto con B.632

La prevedibilità, compendiata nello schema indagato da Hume del “se, allora”, tende a eliminare dall‟attesa l‟incertezza legata alla casualità, cioè alla stessa libertà di auto-determinazione propria della condizione umana, al fine di condurla a una stabilizzazione dei comportamenti del tutto analoga a quella che la natura garantisce alle altre specie animali. Ora, l‟eliminazione del comportamento eslege, non preventivato, corrisponde alla rimozione del sapere filosofico, legato alla meraviglia (thaumazein) di quanto inatteso e non preventivato, ossia di quanto non appartenente alla esperienza vissuta, che diviene quindi per l‟uomo un‟esperienza “problematica”. 632

A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 270.

310


La domanda del perché, che nel caso degli uomini sorge di fronte a nuove esperienze problematiche, ossia delusioni, non è che una fase intermedia: introduce semplicemente un‟elaborazione di questo problema; la quale consiste unicamente nell‟elaborare, di fronte all‟esperienza perturbatrice, una prospettiva, che consenta di sussumerla sotto esperienze già fatte di altro genere, di porre perciò B in luogo di C. […] Ciò che dunque è sotteso alla cosiddetta causalità, alla domanda del perché, è questo: la delusione di un‟attesa, quest‟esperienza che si configura in termini pratici nuovi, si presenta come un problema. Di questo problema si viene a capo cercando una prospettiva, all‟interno della quale esso rientri in esperienze già fatte; in questa stessa prospettiva può figurare un‟operazione astraente più o meno cospicua: probabilmente il punto di vista onde un problema perturbatore A è inquadrato in un‟esperienza già nota B è quanto mai astratto. 633

La risposta metodica che il sapere pratico tenta e può offrire consiste dunque nel riportare l‟ignoto nel noto, attraverso una assimilazione del diverso nel genere prossimo. Non importa se tale equiparazione corrisponde alla verità della possibile assimilazione del diverso all‟identico, poiché il problema della verità è stato neutralizzato dalla prospettiva pragmatica; ciò che importa è offrire una risposta plausibile, ossia razionalmente conciliabile con il sistema strutturato delle regole di azione definite e rassicuranti. Tale plausibilità deve includere la possibilità della sua più o meno prossima confutazione, ossia sostituibilità con altra risposta più plausibile in base alla possibilità di comparare il fenomeno nuovo con le situazioni già sperimentate e acquisite, e saggiarne così il suo grado di compatibile diversità. Da qui il concetto di “esperimento”, che consiste nel porre una qualsivoglia cosa sotto determinati e selezionati punti di vista in circostanze mutevoli, e nell‟indagare le possibilità che vi appaiono. Le dipendenze delle modificazioni di ogni tipo dalle circostanze sistematicamente e completamente variate costituiscono l‟oggetto del‟esperienza “pura”. [Fermo restando che] senza determinate attese 633

Ivi, pag. 271.

311


scaturenti da cognizioni già esistenti non si potrà in alcun modo istituire un esperimento.634

Ovvero, come dice Gehlen, “la legge di causalità opera perciò nella sua forma astratta due cose: elimina ogni casualità e formula tutti gli eventi in termini di decorsi se-allora”.635 Infatti, attraverso il processo dell‟esperienza, non si avrà soltanto la conferma o la confutazione di tale attese (ipotesi), le quali perciò andranno esse stesse avanzate in modo variabile, ma ci si imbatterà spesso in fenomeni nuovi e inattesi, che dovranno essere indagati semplicemente in se stessi, senza ipotesi teoriche preliminari, ma soltanto in base alle leggi sottese alle circostanze del loro emergere. L‟esperimento è dunque “pura prassi teorica”, consiste cioè nell‟avanzare delle ipotesi, nel delineare certe prospettive e nell‟avviare delle azioni, per indagare il comportamento delle cose in ordine alle circostanze, che sono esse stesse, a loro volta, selezionate e istituite.636

Ma la cosa più significativa è che la capacità di dominare il nuovo problema “si rende realmente compiuta solo con il possesso del linguaggio”.637 Secondo Gehlen, come sappiamo, “la parola nasce nel circuito dell‟azione e della comunicazione pratica”, “incanalata” nei processi motorii dello spazio percettivo, entro il quale “le cose contengono sempre, anche istruzioni per l‟azione”, per cui “le connessioni dell‟esperienza e delle prestazioni si contraggono nella parola”.638

634 635 636 637 638

Ivi, pag. 273. Ivi, pag. 272. Ivi, pag. 273. Ivi, pag. 272. Ivi, pagg. 288-289.

312


La parola oscilla tra un significato verbale e un significato sostantivale. Esso serve tanto per il mero intenzionare una cosa, quanto anche come avvio o attesa di un‟azione. […] il linguaggio non perverrebbe mai alla proposizione, intesa come un composto di denominazioni singole investente la definizione globale di una situazione, se alla sua radice già non ci fossero padroneggiamenti di situazioni e di azioni.639

La “situazione” per l‟azione si determina all‟interno di una struttura simbolica “costruita autoattivamente” dove il pensare è il dirigersi dell‟intenzione “su qualcosa attraverso un simbolo autodisponibile”, per cui “parlare e pensare sono in primis assolutamente identici”e sarebbe “insensato” perciò “voler derivare la qualità particolare del pensiero cosciente”.640 Al suo posto va utilizzata la categoria della “prospettiva” (Hinsicht), con la quale si intende “ogni comportamento simbolico, ogni dirigersi su qualcosa attraverso qualcosa”. In questo senso, il linguaggio, nella sua funzione strumentale di “veicolo della coscienza astratta, cioè priva di immagini e completamente esonerata dalla situazione”,641 è il mezzo simbolico che “permette di fissare delle prospettive” e richiamarle alla bisogna.642 Ed esso perciò “ha il suo posto” e “va inteso” all‟interno di “un sistema di „esoneri‟ produttivi […] onde il mondo è noto e intimo, ma, altrettanto, „accantonato‟ e „ignorato‟ ”.643 Ed entro questi presupposti, che lo vedono strumento dell‟azione, esso va compreso; mentre fuori di essi “il linguaggio sarebbe incomprensibile”.644 La conclusione, in puro stile neo-empirista, è tanto più sconcertante quanto più intimamente legata con la pretesa di voler neutralizzare la pur ammessa possibilità di un uso riflessivo del linguaggio, la cui 639 640 641 642 643 644

Ivi, pag. 287. Ivi, pag. 289. Ivi, pag. 296. Ivi, pag. 290. Ivi, pag. 295. Ivi, pag. 296.

313


pregressa “eventualità” si è trasformata infine in “incomprensibilità”. Questo trapasso non lascia impregiudicata ma anzi coinvolge strettamente la funzione strutturante della istituzione linguistica quale mediatrice di senso socializzato o comune. Infatti con il linguaggio “l‟uomo raggiunge il perfetto affrancamento dalla situazione concreta nel suo contenuto casuale”,645 e perciò attraverso di esso l‟azione originaria viene trasformata in “rappresentazione” di ciò che è stato ma non-è presente. Da qui il suo carattere simbolico e insieme ludico per cui, in un contesto regolato, si rivela e nel contempo si copre la cosa rappresentata nel virtuale game. Poiché la parola intenziona e anche coglie la cosa, ma torna a spegnersi, mentre la cosa è lì, immota e ferma, imperturbata, ed è posta in risalto solo dalla parola appunto, invitando nella sua oggettiva pienezza a mutar prospettiva, e pur sempre è irraggiungibile, per queste ragioni la parola si fa cosciente di se stessa come di mera parola. Il linguaggio è un “mondo intermedio”, teso tra la coscienza e il mondo, a un tempo congiungendoli e separandoli. Finché la parola intende cogliere la cosa stessa, è rigettata su di sé, riflessa. L‟intenzione, formulata nella parola, viene delusa, e ad essa si afferra cercando intorno a sé, differenziandosi dalla parola e tuttavia da essa non diversa prima di aver trovato un‟altra parola. […]646

Il pensiero, astratto dal mondo naturale, ossia dalla necessità dei rapporti, rappresenta il luogo della mediazione per eccellenza, un mondo a sé, “intermedio” tra la coscienza soggettiva e il mondo reale, che senza di esso rimarrebbero irrelati, annullando la frattura che li divide. Ma non è tutto. Infatti il linguaggio, oltre a “congiungere”, anche “separa” le due realtà, e ciò presuppone che queste, quando esso interviene in tal senso, non erano due ma uno. E questo non può voler dire altro che la frattura antropologica non è una condizione originaria, ma è determinata dalla parola stessa. Ossia, che è il linguaggio che la 645 646

Ivi, pag. 308. Ivi, pag. 304.

314


rappresenta è lo stesso che la crea, e solo a questa condizione esso può ricucirla. Dunque non è il linguaggio “strumento dell‟azione”, ma al contrario è l‟azione che è strumento del linguaggio. E senza la mediazione del linguaggio, l‟azione non sarebbe umana ma istintuale, dato immediato della coscienza. Ma poiché ciò, per ammissione stessa di Gehlen, non può essere, ecco che l‟azione affrancata è (pensiero, atteggiamento disponibile) solo in quanto contenuto intenzionale della coscienza, senza il quale è l‟azione stessa che risulterebbe “incomprensibile”. Ed è esattamente questa la condizione di ogni istituzione ridotta a “guscio” vuoto di contenuti, a sopravvivente forma inerziale di rappresentazioni di realtà-azioni, cioè di comportamenti stilizzati, che hanno perduto il loro senso intimo, la loro razionale destinazione, e la cui muta perseveranza conserva di una tradizione morale il suo solo valore archeologico. Per ossequiare il loro astratto culto, Gehlen destina quel contenuto originario esautorato alla sfera del “concetto”, la cui realtà, che aveva determinato la forma del comportamento pratico, diventa infine inutile all‟azione perché definitivamente acquisita come esperienza del mondo-della-vita, e quindi “naturale” e “ovvia” al apri di ogni esperienza comune che costituisce l‟orizzonte della vita pratica e della scienza, dal quale ripartire indefinitamente per ogni successione azione e successiva ipotesi, come avviene appunto nell‟azzardo infinito del “gioco”. Il significato della parola, il concetto, è soltanto sul piano del linguaggio, non al di sopra o dietro il mondo. Il pensiero è l‟intenzione della cosa che corre nella parola, ma poiché il pensiero che si esprime nella parola trova resistenza nella cosa, ricade su se stesso (riflessione) e comprende che la parola che si va spegnendo non lo esauriva; così ritorna indietro, per riprodursi in un‟altra parola. [Ibidem.]

8. Se il linguaggio è la sfera della mediazione, il mondo-della-vita è il mondo dell‟immediatezza; per questa semplice conclusione a 315


contrario Gehlen stabilisce che esista un piano distinto dalla parola riflessa che sia originariamente unitario per l‟uomo, in cui la vita scorra come mera successione di volontà irriflesse. Va però detto che nell‟uso diretto, nel fluire del discorso o nel rapporto immediato della nominazione, parola e concetto non sono distinguibili. Solo nella riflessione il pensiero si stacca, in quanto inesaurito, dalla parola, ed è pura “pressione del senso”, finché torna a concepirsi nella parola. Alla questione della differenza tra parola e concetto si può pertanto rispondere in breve, dicendo che questa differenza è una differenza necessaria alla riflessione, ma non all‟intenzione nella sua immediatezza. 647

Inutile ormai ribadire che non è così. Se infatti la riflessione integra l‟azione-parola di un senso razionale, tale contenuto o è insito nell‟azione stessa ma non è conosciuto dall‟attore (che pertanto è agìto da una volontà superiore che ne domina il destino, per cui egli non è più l‟autore del mondo da trasformare ma una sua pedina metafisica), oppure appartiene all‟attore ma non si manifesta immediatamente col fenomeno, cioè con l‟azione stessa quale appare oggettivamente, e pertanto deve essere interpretata. In tal caso, l‟interprete integra il senso razionale dell‟azione: in senso oggettivo ovvero in senso soggettivo, ma in ogni caso l‟immediatezza è solo apparente. Gehlen è costretto dalla stessa logica del suo discorso ad abbandonare le posizioni rigorosamente pragmatistiche iniziali. La facoltà dell‟interpretazione rientra tra quelle “virtù fisiologiche” di cui egli ha parlato in un saggio compreso in Morale e ipermorale, dove si dice che Fino a quando il mondo o il corso della storia sono ancora eticamente interpretabili, facendosi in qualche misura intrappolare nello schema delle regolazioni estese in senso etico-sociale, essi restano la grande patria e una religione eticizzante serve per così dire come organo della conoscenza per i 647

Ibidem.

316


grandi eventi. Quando successivamente gli eventi della natura, seguiti da quelli della storia, appaiono come qualcosa di causato, ci si avvicina di nuovo all‟antichità, che non conosceva quelle interpretazioni La razionalità più elevata, come mascheramento del pensiero con i fatti, sta allora nella consapevolezza dell‟essere in balia di qualcosa.

Ed è a questo punto che appare un “contenuto oggettivo”, ossia che “le nostre regolazioni sociali sono aperte al mondo, sono estendibili”, ed è questa la ragione per la quale “non soltanto il singolo può vivere moralmente […] ma anche popoli interi”. In altri termini, “l‟impulso etico [che] diventa sempre più astratto, cioè logicamente svolto”,648 è dato dai processi mediatori della parola, con la quale si esprime il senso stesso dell‟azione, la sua intrinseca moralità, e cioè razionalità. Se per “razionalità” si intende l‟agire razionale, non possiamo escluderla dalle facoltà umane, ma neppure considerare una “caratteristica” esclusiva dell‟uomo. Infatti, l‟agire razionale, sia pure in maniera diversa, è proprio di ogni specie animale che lotta per la sopravvivenza. Se per “razionalità” intendiamo invece la “consapevolezza critica della natura divisa dell‟uomo”, tale facoltà, proprio perché “critica” è soggetto a uno sviluppo logico teso a definire l‟esperienza umana come destino storico, legato proprio a questa consapevolezza, che è coscienza del limite tra ciò che l‟uomo è e ciò che egli può. L‟umano spirito di potenza è il contrario dell‟istinto di sopravvivenza, che è il sentimento tipico degli animali. Scrive giustamente a proposito Lasch, che Se fossero spinti solo dall‟impulso e dall‟interesse egoistico, gli uomini sarebbero soddisfatti, come gli altri animali, dalla pura sopravvivenza. La natura non conosce la volontà di potenza, ma solo quella di vivere. Nell‟uomo i bisogni diventano desideri; anche l‟iniziativa volta all‟acquisto di beni ha una dimensione spirituale che porta l‟uomo a volere più di quanto abbia bisogno. E‟ per questo che è inutile esortare l‟uomo a rinunciare ai 648

A. Gehlen, Virtù fisiologiche, in Morale e ipermorale, tr. it. cit., pag. 70.

317


piaceri materiali a favore di un‟esistenza più spirituale. E‟ proprio il lato spirituale dell‟esperienza che fa sì che egli desideri più di quanto gli sarebbe sufficiente. E‟ altrettanto inutile esortarlo, nell‟interesse della sopravvivenza della specie, a farsi governare strettamente dai bisogni biologici. […] Un programma simile non comprende la libertà umana, che rende impossibile ricreare nella storia l‟armonia naturale. L‟innocenza della natura è armonia senza libertà.649

La coscienza del limite può svilupparsi nel senso dell‟essere, legandosi quindi alla dimensione teoretica della razionalità caratteristicamente umana, ovvero può svilupparsi nel senso del potere, legandosi perciò alla dimensione pratica della razionalità comune a tutte le specie animali, ma che solo nell‟uomo acquista rilievo “critico”, in virtù del quale egli tende a superare la distanza che lo separa dalla natura, aumentando di contro quella che lo distingue da ogni altra specie vivente. Nel primo caso, la coscienza del limite fa tendere l‟uomo verso l‟infinito trascendente la sua condizione finita, facendo di sé l‟immagine imperfetta della perfezione ideale cui egli tende. Nel secondo caso, la coscienza del limite spinge l‟uomo a superare la propria finitezza per raggiungere la potenza della natura di cui egli è parte, sfruttando la propria intelligenza per soverchiare e controllare la forza spontanea della natura. In un caso, la coscienza del limite stabilisce un rapporto di subordinazione morale con ciò che è illimitato, e che costituisce l‟atteggiamento religioso. Nell‟altro caso, la coscienza del limite è abbinata alla consapevolezza che la costitutiva umana impotenza vada assunta come un problema da superare, non di cui dolersi. Ma, se nel primo caso la coscienza del limite naturale mantiene l‟uomo entro i confini della propria limitata condizione umana, cercando di sviluppare oltre la natura il suo riscatto antropologico, nel regno dello spirituale; nel secondo caso, invece, superare il limite umano si fa 649

Ch. Lasch, L‟io minimo, tr. it. cit., pagg. 178-179.

318


coincidere con il dominio della natura, non sollevando da essa lo spirito umano ma piegandola alla sua volontà di riscatto, o di potenza. In entrambi i casi, la coscienza del mondo è il riflesso di sé, della condizione umana nel mondo, la cui caratteristica distintiva (la Sonderstellung di Gehlen) non è la “razionalità”, bensì la “consapevolezza critica della natura divisa dell‟uomo, [che] si esprime nella forma di una coscienza colpevole, la dolorosa consapevolezza dell‟abisso che vi è tra le aspirazioni e i limiti umani”.650 Senza questa consapevolezza dell‟intimo conflitto e dell‟immanente senso di colpa che accompagna ogni agire umano, resta incomprensibile, e quindi ritenuto aberrante, il soggettivismo razionalistico della civiltà cristiano-liberale, e sottaciuto nello stigma complessivo651 lo stesso suo barbarico “rovesciamento” in un parodistico “individualismo acquisitivo”.652 Ma rimarrebbe un mero “dato” naturale anche la condizione umana manchevole e fortuito il conseguente spirito associativo dell‟uomo. La ricerca del senso dell‟atteggiamento umano è correlativa al valore morale delle sue risposte storiche, pertanto la rimozione di quel senso inficia anche la destinazione razionale delle istituzioni sociali, privandole della loro essenziale funzionalità terapeutica a favore di una considerazione puramente autoritativa, che pure esiste ma in forma strumentale rispetto alla finalità razionale, che è la stabilizzazione dei ruoli sociali e delle personalità individuali, la quale a sua volta aiuta a stabilirne anche i limiti legittimi di esercizio, e quindi a circoscrivere la loro carica esuberante – che possiamo anche chiamare sfera di libertà – entro stabili rapporti che tengano conto i ruoli e le sfere di libertà altrui. Sia la labilità sociale che il mimetismo delle personalità socializzate sono gli elementi estremi di un rapporto

650

Ivi, pag. 179. “In Occidente, la critica contro la „ragione strumentale‟ è degenerata talvolta nella celebrazione dionisiaca dell‟irrazionalità”: Ch. Lasch, Op. cit., pag. 158. 652 Ivi, pag. 180. 651

319


funzionale che si stabilisce tra la condizione di “essere carente” (Mangelwesen) e la risposta istituzionale. Se quella che abbiamo indicato come la coscienza del limite si sviluppa sul solo percorso pragmatico, sulla traccia del riscatto naturalistico attraverso la “volontà di potenza”, ignorando la condizione ontologica dell‟uomo, e quindi rimuovendo l‟esperienza religiosa relativa a quella coscienza del limite antropologico, ogni risposta tesa a superarlo si imbatte contro la stessa condizione limitata dell‟uomo, destinandosi al fallimento. Ciò vuol dire che l‟inconsiderazione pragmatistica della sfera del sapere essenziale non deve essere vista come un‟opzione culturale legittima quanto l‟altra di carattere metafisico, ossia un‟opinione equivalente ad altre sul piano della verità. La neutralizzazione delle opinioni conseguente alla loro parificazione non è moralmente neutra; infatti, con essa si nega l‟esistenza di una comune verità oggettiva, così come il riconoscimento della legittimità di tutte le opinioni assegna il primato a quella socialmente più forte, ossia alla più condivisa. La sostituzione della “forza” alla verità elegge la volontà a giudice della intelligenza del mondo, per cui l‟istanza volitiva dimensiona l‟opinione trascelta come verità di parte, e perciò conflittuale con omologhe opinioni di altre parti. La democratizzazione delle opinioni ha per conseguenza di assegnare alla politica un ruolo derimente tra opinioni in conflitto, tale da imporre l‟esito decisivo a quella socialmente più forte, ossia quella più comune, determinando un ribaltamento totale del principio veritativo come essenza opposta all‟opinione comune e non manipolabile. La comunanza dell‟opinione politica è perciò l‟opposto della verità, che è comune perché oggettiva; ed è questa “opinione pubblica” a svolgere nella società a cultura empiristica e pragmatica un ruolo di legittimazione delle opinioni private, assumendole come elemento compatibile con il sistema di idee dominante socialmente. L‟opinione pubblica è dunque l‟istituzione omologatrice di ogni possibile privata eresia, ma essa non ha una struttura formale di tipo coercitivo, poiché essa costituisce il fondamento morale di ogni 320


ideologico controllo sociale, e quindi la sua natura è ben diversa da una semplice “disposizione d‟animo”. Lo attesta il fatto stesso che la fine dell‟ordine sociale gerarchico e la parificazione dei diritti umani, non ha escluso il conflitto tra gli uomini, ma anzi lo ha elevato a regola socio-politica essenziale. Variano le forme istituzionali, ma ogni cultura democratica si fonda sulla competizione, secondo modalità variabili, di opinioni equiparabili. L‟accoglimento del principio politico dell‟amico-nemico come fondativo della convivenza sociale, anziché della tensione patogena che la civiltà tende a superare nella pace civile, caratterizza le società democratiche quali sistemi politici fondati sull‟eguaglianza dei diritti. L‟aspetto totalitario implicito in questa prospettiva politicistica, sta nella sua logica nichilistica di riportare ogni espressione socialitaria dell‟uomo alla dimensione politica, assunta come fisiologica condizione di natura, annullandone così la differenza rispetto alla condizione civile. Lo Stato totalmente politico è quello che ha annullato la differenza del regno della forza rispetto allo stato di natura, assimilandolo alla stessa civiltà umana. La fine della civiltà coincide con la negazione di ogni gerarchia sociale basata sui valori. E‟ nella lotta contro i valori che si realizza l‟ideologia democratica, che annienta le differenze (ossia il pluralismo dei rapporti umani) in nome dell‟unità del potere unico, quello appunto politico. E in questa assolutizzazione del momento politico come valore unico ed unitario (nella contraddizione logica tra ciò che si fonda sulle divisioni e ciò che le nega) da vedere la “frattura” ideale costitutiva del totalitarismo rispetto a ogni forma di dispotismo del passato. Esso infatti non tende a realizzare un semplice controllo della pluralità sociale, come ogni forma istituzionale, che intende affermarsi sulle altre. Esso è un‟opera di sistematica negazione del diverso dal sé che è al potere. L‟espressione più esaustiva di questa negazione sistematica della civiltà è il campo di concentramento, dove ognuno è privato della sua particolarità storica e valenza sociale gerarchica al fine di somigliare a ogni altro. Lo spirito che anima il principio di 321


socialità del gulag è la sopravvivenza, la stessa appunto che regna nello stato di natura. L‟altra natura, quella artificiale, messa in essere dall‟uomo per soppiantare quella naturale, senza la considerazione dell‟essenza precipuamente umana, la dimensione spirituale dell‟uomo, si realizza in analogia della natura biologica. Da qui la barbarie regressiva dallo spirituale al biologico operata dalla logica pragmatistica. Questa regressione barbarica si può riscontrare a partire dalla difficoltà di tracciare una linea di significatività tra eventi disparati, originata dalla dispersione longitudinale e verticale, spaziale e diacronica, dei fenomeni fuori di una rappresentazione coerente a un orizzonte di esperienza e di valori condiviso. Solo la condivisione del passato e dei valori morali della loro tradizione rende rappresentabile gli eventi in una sequenza logicamente ordinata e provvista di senso razionale ed emozionale. Viceversa, la frantumazione del senso comune, ossia la neutralizzazione dei valori della tradizione, rende gli eventi temporali irrappresentabili se non per immagini esistenzializzate, per avvenimenti irrelati da un prima e da un dopo, privi di storia, ossia di un principio di verità che li distingua dalla semplice rappresentazione fantastica e illusoria. Da qui, dalla rimozione della verità, si origina il “declino del modello narrativo sia nel romanzo che nella storiografia, dove è stato scalzato da un approccio sociologico che cerca di ricostruire i dettagli della vita quotidiana del passato”,653 in funzione surrogatoria a un qualche significativo costrutto narrativo. La perdita di identità morale dell‟uomo è correlativa alla perdita della “fede in un mondo pubblico durevole, rassicurante nella sua solidità, che va oltre la vita del singolo individuo e che supera in qualche modo il giudizio su di essa”.654 La massificazione dei fenomeni socio-politici democratici ingenera spinte conformistiche, il cui risvolto tragico è 653 654

Ch. Lasch, Op. cit., pag. 66. Ivi, pag. 20.

322


l‟insicurezza e l‟ansia, le quali, a loto volta, vengono tenute a bada dai processi di socializzazione, che costituiscono il risvolto rassicurante della condizione generale e media dell‟esistenza. Nel contesto socializzato delle emozioni, i valori restano immanenti e relativi alla funzione sociale, e non trascendenti e relativi a una condizione assoluta e discriminante il bene dal male. Il suo orizzonte morale non è discriminante, ma omologante. Si passa dall‟individualismo di una civiltà concentrata sulla coscienza individuale, al narcisismo narcotizzante di una società dove “l‟identità è diventata incerta e problematica non perché la gente non appartiene più a precise categorie sociali […] ma perché non abita più un universo dotato di esistenza indipendente”.655 Nella sua forma originaria [il narcisismo] è dimentico della separazione dell‟io dall‟ambiente, mentre nella forma successiva cerca sempre di annullare la consapevolezza della separazione [e] corrisponde abbastanza puntualmente alla descrizione freudiana di una aspirazione alla cessazione completa della tensione. […]656

La principale tensione esistenziale dell‟uomo socializzato è costituita esattamente dagli ostacoli che le forme istituzionali oppongono al libero dispiegamento della sua volontà, a cominciare dalle stratificazioni gerarchiche che sostengono la socialità organizzata a sistema normativo. L‟ideologia egalitaria, e la connessa neutralizzazione sociale dei valori morali, opera come una illusoria fuga dalla realtà dei padri, cioè dalla tradizione, offrendo il miraggio fantastico di una prospettiva esautorata da ogni sforzo competitivo per la sopravvivenza, che diviene un “diritto alla vita” e che si esige da forze esterne e superiori al proprio potere, secondo una petizione di tipo religioso che rovescia la pretesa pragmatistica dell‟autoformazione del mondo, il quale perde, dopo le sue fondamenta 655 656

Ibidem. Ivi, ag. 126.

323


metafisiche, anche i suoi cardini umanistici. Entro questo quadro culturale, la lettura meramente istituzionalistica non riesce a rendere la condizione di vacuità morale che sottende ogni esito autoritativo o rassicurante del comportamento umano regolamentato. Come giustamente scrive Lasch, Quella del narcisismo non è necessariamente una cultura in cui le costrizioni morali operanti sull‟io siano crollate o in cui la gente, svincolata dai legami degli obblighi sociali, si sia persa in un‟orgia di autoindulgenza edonistica. Ciò che si è indebolito non è tanto la struttura degli obblighi e dei comandamenti morali, quanto la fede in un mondo che sopravvive ai suoi abitanti. In questi tempi, la sopravvivenza, e quindi la realtà del mondo esterno, il mondo delle associazioni umane [ossia delle istituzioni] e dei ricordi collettivi [cioè le tradizioni], appare sempre più problematica. Possiamo congetturare che lo svanire di un mondo pubblico, comune, duraturo, renda più forte la paura della separazione e,nello stesso tempo, indebolisce le risorse psicologiche che consentono di far fronte a questa paura in modo realistico. L‟immaginazione, liberata dalle costrizioni interne, è stata però esposta più direttamente alla tirannia delle coazioni e delle angosce interne. […] Quando il mondo comincia a perdere la sua realtà, la paura della separazione diventa quasi insopportabile e di conseguenza il bisogno di illusione diventa più forte che mai. 657

E lo stesso concetto di controllo e di maneggiabilità del mondo umanizzato va corretto in un senso più astratto e impersonale di quello configurato dalla Entlastung, un senso dove l‟azione individuale non è determinante né decisiva ai fini della sua razionale comprensibilità. Infatti, le cose, i manufatti, finquando avevano un rapporto identificabile tra possibilità tecnica e fruizione diretta, conservavano una dimensione pratica di maneggi abilità e disponibilità che poneva ancora l‟uomo in potere di disporre a suo volere e bisogno delle stesse opere umane, le quali persistevano nella loro funzione servile. Quando la produzione massificata ha rotto tale rapporto diretto tra produzione 657

Ivi, pag. 134.

324


e bisogni, rendendolo astratto dai concreti rapporti tra merci e fruitori, anche il ruolo dell‟uomo è cambiato, perdendo la sua centralità e superiorità signorile sul mondo. Il nuovo rapporto economico tra produzione e consumo, divenuto astratto e impersonale, ha contraddetto la pretesa immagine antropologica del moderno homo faber, creatore e trasformatore del suo mondo, divenendo una dimensione trascendente la sfera dei rapporti pratici, perché sempre più legato a una dimensione razionalizzata dei rapporti un tempo spontanei. In altri termini, avendo smarrito il sentimento mistico della partecipazione collettiva al valore comune (il “gioco”), la forma istituzionale appare, nella sua persistente funzione regolamentativa, quel “guscio” autoritativo che Gehlen denuncia accoratamente, e che pur preferisce al vuoto morale e all‟aleatorietà dello “stato d‟animo” soggettivo. Un analogo processo di astrazione dalla realtà del mondo-della-vita è avvenuto parallelamente alla dimensione economica nella sfera del linguaggio. Come l‟economia, infatti, si è astratta dai concetti rapporti pratici originari, occupando o spazio che un tempo era quello dei fini, anche la lingua si è astratta dal suo corrente valore d‟uso comune, ossia dai valori ideali socializzati, divenendo “scienza”. Questa scienza, avendo nel mondo-della-vita, ossia nella sfera dei rapporti pratici, il suo terreno di verifica e di validità, per conservare in quel contesto il suo ruolo esplicativo di senso è diventata “categoria della pratica”, ossia scienza del comportamento socio-economico, sostituendo la morale (volta a volta, religiosa e filosofica) nel ruolo di mediazione tra individui e realtà sociale. La conseguenza più saliente di questa Kulturschwelle è che i fenomeni massificati sono fuori della responsabilità soggettiva delle persone morali e giuridiche, e quindi “oggettivi” alla stregua di fenomeni naturali, ponendo l‟uomo in una nuova posizione di impotenza, ancora più rilevante di quella verso la natura, in quanto i nuovi eventi sono privi di quella prevedibilità legata alla scoperta delle leggi naturali, e quindi più pericolosi per l‟uomo, che pure li ha originariamente creati. Ma una creazione non 325


imputabile ad alcun autore, e per così dire impersonale, è arcana e misteriosa, spesso indecifrabile e dagli effetti imponderabili, e comunque più lontana dall‟esperienza umana controllabile di quanto lo sia una divinità personale, fatta a nostra immagine, da propiziare perché paterna e benevola. Le creature di un dio conoscibile, non sono meno impotenti di fronte a lui ma lo possono avvicinare dialogando con lui e propiziando una sua benevola esaudizione. La petizione parlamentare faceva lo stesso di fronte alla potenza dei re già assoluta. Ma la nuova creatura – il Mercato -, emancipatasi dal suo creatore collettivo, non si può contattare, perché non ha voce né volontà benevola, perché impersonale e pensata come strumento di bene, e non come fine da emulare. Uno strumento diventato fine a se stesso, non ubbidisce ad alcun richiamo pietoso dell‟uomo, ad alcun appello invocato a esaudire un fine morale, tanto più personale quanto più espresso in parole, ma asseconda solo le sue proprie leggi produttive e di efficienza, che possono fare a meno di ogni esplicita volontà individuale, di ogni soggettivo accordo di coscienza, dal momento che si rivolgono a entità collettive, anonime e impersonali, prive di identità assoluta. Gli enti del mercato, in quanto impersonali, sono interscambiabili, accomunati solo dai bisogni universali di rifornirsi di mezzi di sostentamento, necessarii o voluttuari, naturali o indotti dal contesto artificiale di vita attraverso forme di seduzione pubblicitaria. All‟impotente consumatore di massa non resta che una possibilità di sopravvivere sfuggendo al terrore dell‟impotenza di nuovo genere, più insidiosa di quella naturale originaria legata al suo stato di antropologica carenza (Mangelwesen):integrarsi nel sistema produttivo e riconoscersi nei modelli di bisogno proposti dalla logica produttivistica del mercato consumistico. L‟esito dunque del dominio economico del mondo è il conformismo e la rassegnazione, ossia quella condizione di sudditanza al potere sociale e trascendente che era stato l‟ostacolo da superare e il potere da ammansire di ogni ideologia di liberazione di emancipazione dell‟uomo.

326


L‟umanità massificata torna alla omologata impersonalità delle origini naturalistiche, pre-civili e pre-culturali, dove regna l‟uguaglianza universale dell‟indistinzione. Il nuovo regno dell‟anti-civiltà e della ritornante barbarie, tecnologica e opulenta, è un ricorso vichiano all‟età infantile dell‟uomo, soggetto a una madre naturale divenuta artificiale, seduttrice e ingannevole, insomma matrigna. Il regno dell‟infanzia universale e collettiva, dove domina sovrano il narcisismo di massa, illusorio sodalizio dell‟impotenza e dipendenza collettive. Il narcisismo dell‟età tecnologica e massificata dei regimi democratici e capitalistici si compone del desiderio umanistico di “un‟autosufficienza completa” e dell‟opposto desiderio di “unione estatica con gli altri”, dai quali deriva sia “l‟illusione originaria di onnipotenza” e di indipendenza da fonti esterne per il nutrimento, che “il progetto tecnologico di raggiungere l‟indipendenza dalla natura”, costituendo rispettivamente “il lato simbiotico di unione mistica con la natura” dove il soggetto si annulla, e “il lato solipsistico”.658 Questa nuova condizione esistenziale realizza la grande rivoluzione antropologica dell‟uomo alla fine della sua parabola culturale, che parte dalla unità del Sé col mondo e attraverso la distinzione del Sé dal mondo giunge all‟annullamento del Sé nel mondo. In questa parabola si compendia il destino stesso della vita psichica dell‟uomo. Infatti, come ben dice Lasch, la distinzione tra io e non-io – origine di tutte le altre distinzioni [è il] primo principio della vita psichica, come premessa assiomatica senza la quale la vita psichca non potrebbe neppure cominciare […] e resta all‟origine del nostro disagio esistenziale, come è all‟origine del nostro dominio intellettuale sul mondo che ci sta intorno.659

658 659

Ch. Lasch, Op. cit., pag. 171. Ivi, pag. 113.

327


Ed è in questo senso che si è detto che non la razionalità pratica ma la consapevolezza teoretica della natura divisa dell‟uomo costituisce la caratteristica distintiva dell‟uomo come individualità pensante. 9. Per ovviare al “dolore di vivere” una condizione di mancanza e di separatezza esistenziale, e quindi per assicurarsi una sicurezza di vita comunitaria, l‟uomo stabilizza i suoi impulsi in comportamenti socializzati, i quali suppongono la vigenza di regole comuni, discriminanti ciò che è conforme al modello di vita del gruppo cui si appartiene, da ciò che invece è disforme. La regola comune è quella che vale per tutti e singolarmente per ciascuno dei membri in relazione reciproca. Per introdurre la categoria della “reciprocità”, che è la modalità formale propria della tension stabilisée, Gehlen parte dal rilevare che l‟importanza delle istituzioni non è “esagerata per la natura e la cultura umane”, in quanto “il vincolo sociale in quanto tale è sorretto dall‟istinto solo in ambiti parziali molto circoscritti”, quali “il bisogno molto forte di non essere soli”. Ma la “crisi di astinenza” in sé, egli dice, “non sviluppa nessun indirizzo comportamentale specifico a partire dall‟istinto di accostarsi agli altri”, cioè “l‟istinto del gregge”. Ciò vuol dire che il “bisogno di socializzare”, come “esperienza della mancanza” è una “forma negativa […] del tutto neutrale quanto alle forme comportamentali”, per cui “può essere colmata dai più diversi contenuti”. Ed è l‟indeterminata soddisfazione di questo bisogno di socializzare presente in “ogni agire” umano che egli chiama “reciprocità”, indicandolo come “una categoria antropologica assolutamente fondamentale”.660 La “reciprocità”, dunque, viene assunta, da un lato, come la condizione della vigenza delle regole sociali, e cioè come un valore formale immanente a ogni comportamento, che, a prescindere dai contenuti dell‟azione, stabilisce il carattere normativo del vincolo 660

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pagg. 52-53.

328


sociale; e sociale proprio in quanto ne è supposta la reciprocità. Ma, dall‟altro lato, la “reciprocità” viene intesa come una categoria modale del comportamento comunicativo, la cui effettualità, proprio in virtù della sua neutra e instabile determinazione contenutistica, deve essere garantita istituzionalmente per assolvere alla sua funzione formale, cioè di “rito sociale”. Questa duplice considerazione, non chiarita, permane allorquando Gehlen stesso, sulla scorta di altri autori, accosta la “reciprocità” al linguaggio simbolico, quello cioè per cui “ci si traspone dal punto di vista della reazione dell‟altro e si agisce in base ad essa”, sostenendo che “la reciprocità è lingua e forma della coscienza stessa”, e che da questo atteggiamento riflessivo, con cui la coscienza dell‟io “si vede con gli occhi dell‟altro”, nascerebbe “l‟autocoscienza”.661 Nondimeno, assunto come fenomeno neutro in cui compare la “reazione dell‟altro”, il processo della reciprocità a suo dire “non può essere localizzato esclusivamente nella coscienza”, ma deve essere compreso come la costante “qualità” del “bisogno” di “identificazione” dell‟agente (o del parlante) con un gruppo. E da queste premesse discende infine la “tesi” di Gehlen che “le strutture sociali sviluppatesi dalla reciprocità e trattenutesi in essa, divenute poi autonome, costituiscano i luoghi di soddisfacimento elementari e originari del bisogno primario di socializzazione”.662 Tesi assolutamente fuorviante e priva di fondamenti, poiché sono le “strutture sociali” che garantiscono la reciprocità, la quale stabilisce il carattere sociale, e cioè non istintivo o spontaneo, del comportamento formalizzato. Senza le istituzioni, non esisterebbe una reciprocità avente un valore simbolico autonomo, perché essa esprime solo appunto la modalità dell‟azione socializzata, astratta da ogni contenuto significativo. Essa pertanto è nient‟altro che la stessa comunicazione riguardata dalla prospettiva fenomenistica propria di 661 662

Ivi, pag. 54. Ibidem.

329


Gehlen, e costituisce il contenuto formale, cioè astratto, della obbligazione sociale, ossia lo stesso valore etico del rapporto normativamente socializzato. Ed è tale valore a sostenere l‟obbligatorietà del comportamento formalizzato, cioè il suo carattere necessariamente reciproco. Le “strutture sociali divenute autonome” dagli originari contenuti etici, sono istituzioni prive di riconosciuto valore morale, che “non hanno radici in una identificazione emotiva con le autorità che le esprimono” e che di conseguenza “non possono che ispirare quell‟obbedienza superficiale che nasce dalla paura del castigo”.663 Si ha il sospetto che Gehlen costantemente e deliberatamente ignori il fondamento morale che anima le forme costrittive, ossia che “la coscienza poggia non sulla paura ma sul fondamento emotivamente più solido della lealtà e della gratitudine”, nate dalla “sicurezza” e dalla “protezione” offerta dalle istituzioni medesime. Infatti egli identifica la reciprocità, che è una modalità astratta di comportamento664 obbligatorio, con l‟uguaglianza, che è un contenuto di valore dell‟obbligazione. Ma ciò che resta più problematico nel suo costrutto teorico è la premessa negativa – ossia il bisogno legato a un deficit fisiologico della struttura umana – a condizione di ogni esperienza positiva,sicché a richiedere una risposta non sia un problema morale ma uno stimolo da carenza stabilizzato in “istinto sociale”, secondo una movenza logica già segnalata, per cui la soluzione del problema è già supposto nel dato antropologico del bisogno originario dell‟essere umano. La reciprocità, del tutto formalizzata, svuotata di ogni contenuto e applicata alla società come esigenza è l‟eguaglianza. Ai livelli di maggiore complicazione della società e di pieno sviluppo dell‟individualismo, questo postulato significa che le forme di comportamento, i diritti e le opportunità concesse a chiunque, debbono valere anche per tutti gli altri. […] Il bisogno di un vincolo sociale, di regola avvertito consapevolmente solo quando venga 663 664

Ch. Lasch, Op. cit., pag. 141. Ch. Lasch, ibidem.

330


a mancare, viene soddisfatto primariamente in ogni campo dalla reciprocità e dalla durata di un agire stabilito. Perciò vi è l‟esigenza interiore di un‟invarianza del comportamento, ossia di canali di espressione in cui questo bisogno possa insieme darsi ed essere soddisfatto, proprio in quanto non ha a disposizione forme di azione stabilmente ereditarie, innate e invarianti. Questo tipo di garanzia è offerto in genere solo dalle istituzioni, che hanno rovesciato il proprio ruolo assumendo l‟autonomia di ciò che è autentico in sé, e ora determinano a loro volta in modo univoco il comportamento umano con la divisione dei diritti e dei doveri.665

La teoria istituzionalistica di Gehlen, diversamente da ogni impostazione giuridicistica, non rapporta lo strumento formale a uno scopo razionale trascendente l‟esperienza compulsiva, ma fa di questa esperienza strutturata (da consolidati riscontri funzionali) una forma categoriale, in sé suscettibile di ogni integrazione funzionale, finendo per identificare “l‟invarianza del comportamento” istituzionalmente indotto in un valore autonomo, che viene assunto come un metastorico a-priori antropologico, secondo quella ricordata dialettica della universalizzazione dei valori, che li converte nella loro neutralizzazione. Secondo questa dinamica negativa, l‟intera strutturazione della civiltà umana risiede nelle sue tecniche istituzionali, anziché nei processi di affermazione e negazione dei valori che le motivano e sorreggono, per cui tutta la cultura umana si compendia nello sforzo di compensare il “vuoto” originario della sua supposta natura dis-integrata. Finché l‟uomo è avvolto nella trama di più istituzioni, che si incrociano eppure si coordinano, non si genera alcun vuoto, alcuno scompenso nel bisogno sociale, neanche quando […] sussista una forte ineguaglianza nei diritti e nei doveri […]. Se tuttavia le istituzioni vengono scosse, smantellate, rese incerte, […] si dà quel fenomeno di crisi di astinenza che si manifesta come positivo bisogno di “comunità” […]. [Ma] in società arcaiche o 665

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 156.

331


primitive, o anche in culture superiori ben “integrate”, una simile esigenza non compare mai.666

Significativo l‟accenno terminale all‟integrazione delle società arcaiche, la quale diviene il modello idealtipico di ogni condizione umana. Naturalmente l‟errore di valutazione si ripercuote comparativamente come un falso storico, in quanto le stesse società arcaiche più integrate sperimentavano quella “crisi di presenza” che E. De Martino registrò a proposito delle civiltà magistiche. Ma ciò che qui più conta è che il sintomo morale, contestuale a una cultura determinata, venga destoricizzato in una forma categoriale di tipo antropologico attraverso l‟oggettivazione non già del suo valore ideale, ma della espressione istituzionale con cui si è prodotto e stabilizzato, secondo una dinamica tipica della mentalità conservatrice studiata da Mannheim, però di segno non idealistico ma empiristico, nel senso che rilevante in Gehlen non è il valore tradizionale universalizzato in senso meta-storico, ma è la sua espressione storicoformale, cioè appunto istituzionale, a diventare una finalità autonoma. Sicché l‟istituzione non è la forma espressiva del valore metaistituzionale, ma è l‟espressione fenomenica di “intrecci di azioni, basati sulla reciprocità, [che] si trasformano in finalità autonome”. 667 Sono questi “procedimenti d‟azione”, diventati “autonormativi” e “autonomi”, a trasformarsi, una volta che siano “reciprocamente intrecciati”, in un “ordinamento sovrapersonale”, il quale “a sua volta si trasforma nella coscienza di chi vi partecipa, in qualcosa che possiede un‟autentica, intrinseca validità”, eventualmente giustificabile sulla base della sua “utilità”, ma che comunque si costituisce in “autonomo valore esistenziale”.668

666 667 668

Ivi, pagg. 56-57. Ivi, pag. 57. Ivi, pag. 67.

332


In quanto “valore” reso autonomo dalla pratica confermata e stabilizzata, esso non può identificarsi se non contenutisticamente e temporaneamente con altri valori, di tipo ideologico, quali appunto l‟eguaglianza e l‟ineguaglianza, che sono espressivi di regimi politici, e non di forme categoriali. A questo punto sorge spontanea la domanda quale sia la differenza tra una struttura istituzionale nel senso di Gehlen, e un regime politico, anch‟esso strutturato in forme compulsive, e la risposta non può che trovarsi nella analogia, già più volte accennata, che l‟istituzione come forma dell‟azione ha col linguaggio come forma simbolica. Infatti, sia l‟istituzione come valore pratico, che il linguaggio come valore simbolico sono entrambi forme ipostatiche di determinate espressioni culturali svuotate di contenuti morali e rese rappresentative di astratte categorie della prassi, che sono quelle pertinenti rispettivamente alla scienza del comportamento umano (l‟economica) e alla scienza dell‟espressione simbolica (l‟estetica). La condizione della loro sussistenza teorica è che l‟espressione umana, attiva o simbolica, sia in ogni caso razionale, tale cioè che il suo senso non sia immanente all‟espressione immediata stessa ma relativo al medium del valore rappresentativo, simbolicamente identificabile anche col “grande animale” totemico, ma logicamente comunque trascendente ogni sua concreta determinazione (“urgenza”) del bisogno fattuale, dalla paura alla fame.669 Questo carattere trascendente della istituzione, assunto indeterminativamente come la virtuale risposta a un bisogno originario, antropologico, e non idealmente determinato da storici e transeunti moventi culturali, viene svuotato di ogni contenuto morale e rappresentato come un‟astratta tecnica espressiva stabilizzata in una forma surrogatoria dell‟istinto, la 669

“Lo svincolamento delle cose di importanza vitale di questo mondo dall‟irrazionalità di ciò che si offre immediatamente a liberazione dall‟infinita ricerca e procacciamento del cibo devono aver prodotto l‟acquisizione di una nuova sicurezza esistenziale ed aver dischiuso orizzonti spirituali del tutto nuovi”: A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 62.

333


quale, esonerata dalle motivazioni originarie e divenuta – grazie all‟avvento del “dio senza immagine” del monoteismo 670 - forma puramente simbolica, è stata assunta come “scienza” universale dell‟agire raffigurativo, di cui l‟antropologia, quale teoria generale delle scienze del comportamento razionale dell‟uomo, costituisce la sua autocoscienza filosofica in compendio. La conseguenza logica di tale categorizzazione di empiriche espressioni culturali è la indefinita convertibilità concettuale dello storico prodotto fenomenico (il factum istituzionale) con la sua Darstellung formale (verum), la quale, in quanto rappresentata in termini di Mangelwesen, cioè come concetto indeterminativo di “bisogno”, di “mancanza”, di “assenza”,671 è una categoria negativa (verum negativum), che qualifica di conseguenza negativamente anche il suo contenuto concettuale, (l‟Entlastung) e il suo oggetto categoriale, che è l‟istituzione. Poiché di questo fenomeno viene accertata, e conosciuta come oggetto teoretico, la sua sola qualità categoriale elettiva, a preferenza di ogni altra sottaciuta qualità informale, la sua determinazione concettuale non esclude le altre possibili, determinabili attraverso altri relativi concetti formali, per cui, ad es., l‟eguaglianza di cui parla Gehlen come sinonimo di reciprocità, in realtà esprime anche il concetto della stabilità, che sono tutte qualità formali delle istituzioni, il cui comune contenuto categoriale è l‟astratto “soddisfacimento di sfondo”.672 Ma proprio in virtù di questa convertibilità, o natura concettuale “aperta”, delle sue determinazioni elettive, quella di istituzione è una categoria antropologica empirica, non un “esistenziale”. Ed è per questo suo carattere empirico, e cioè meramente storico e non ontologicamente essenziale, che essa può sussistere come indefinita forma fenomenica “aperta” a qualunque determinazione concreta, 670 671 672

Ivi, pag. 65. Ivi, pag. 58. Ivi, pagg. 57 sgg.

334


ovvero può mancare di contenuti ideali, e quindi decadere a vuoto “guscio” formale.673 673

Tutte le costruzioni categoriali fondate su concetti meramente formali, cioè su universali empirici, riflettono nella determinazione logica dei loro oggetti, l‟originaria qualifica empirica della loro essenza formale, giudicando negativamente (cioè come non-essere) la realtà esistenziale degli enti non rientranti in quella prescelta determinazione empirico-formale. Il caso forse più noto è quello della teoria del giudizio di Croce, fondato sulla distinzione di ciò che “è” non-poetico, non-etico, nonlogico; il quale essere, essendo, doveva pur essere alcunché, e questo suo essere era appunto giudicato negativo: era un essere-non, cioè un esistente non categoriale qualificato come categorialmente negativo in quanto in sussumibile entro il concetto empirico. Ed è su questo giudizio negativo dell‟ente extra categoriale che si fonda ogni concetto di “decadenza”, che indica appunto l‟estraneità dell‟ente dalla sua forma categoriale. Ora, poiché è tale estraneità all‟origine della “meraviglia” filosofica, cioè della ricerca dell‟essere dell‟ente categorialmente non sussumibile nelle forme di sapere tradizionali, il giudizio negativo è anti-filosofico per definizione; è, cioè, scientifico, in quanto le categorie di cui si serve la scienza sono appunto empiriche, basate su una ipotesi di verità: l‟ipotesi che le categorie con cui comprendiamo l‟essere siano universali ed eterne. La “confutazione” di questa ipotesi di verità smentisce non la loro universalità ma la loro eternità, per cui le categorie del sapere, che sono scientifiche rispetto alla verità, possono restare validamente universali entro il loro orizzonte di credenza che le vuole eterne e non storiche, cioè empiriche. La storicizzazione delle categorie è il pensiero della filosofia che giudica la scienza, entro la quale il pensiero scientifico è universale ed eterno, cioè filosofico. Solo un nuovo orizzonte filosofico giudica come empirico, e cioè scientifico, un pensiero già creduto filosofico e rivelatosi invece solo scientifico. In questo senso, tutte le categorie del sapere umano sono originariamente “religiose”, cioè credute universali ed eterne, e sono diventate “scientifiche”, cioè empiriche, in quanto conosciute filosoficamente, cioè comprese da un concetto più universale. Ma al di qua di quel più, ovvero all‟interno di quel meno, il pensiero è religioso. Il sapere scientifico è fondamentalmente religioso; è quando diventa critico che diviene filosofico, per cui la filosofia è la critica della scienza come pensiero religioso, e non come pensiero. La confusione di questi due aspetti, ha generato l‟idea della scienza come pensiero negativo, come pseudo-pensiero, mentre il pensiero è scientifico solo in relazione al pensiero filosofico, mentre in sé quel pensiero è universale, e quindi categoriale. Perché si esca dalla logica del più e del meno, che caratterizza il pensiero astratto, quello appunto della scienza empirica, occorre muoversi entro la dimensione

335


Il limite insuperabile della logica astratta non è nella elaborazione dei concetti empirici utili alla qualificazione degli eventi singolari, cioè alla determinazione razionale dei fenomeni storici, ma nella impossibilità di determinarli fuori della loro essenza categoriale, ossia della loro astratta rappresentazione empirica (Darstellung), per cui il giudizio della scienza non è narrativo, cioè non rappresenta il processo dell‟essere in divenire, ma solo determinativo, cioè relativo a una causalità prossima della quale l‟oggetto categoriale è l‟effetto fenomenico.674 I fenomeni scientificamente conosciuti non hanno propriamente una storia, poiché lo svolgimento narrativo dei fenomeni empirici comporta che questi vengano assunti come momenti di filosofica, che non è pensiero categoriale ma ontologico, che è non solo universale ma anche eterno, cioè non solo formale ma essenziale. Solo il pensiero essenziale supera la dialettica revisionistica della scienza come filosofia empirica, cioè la dimensione veritativa di un pensiero temporaneamente universale. All‟interno della logica astratta, in cui si muove anche l‟antropologia di Gehlen, le determinazione categoriali si rivelano nel tempo empiriche e quindi storicamente decadenti, superate da altre determinazioni più universali che le comprendono come loro oggetto teoretico. Il passaggio da un contenuto formale a un altro più generale si determina attraverso l‟assunzione dell‟oggetto categoriale come mera forma espressiva di un contenuto logicamente da definire. Questa mera forma espressiva del prodotto umano, priva di determinazioni ideali, cioè di contenuti razionali, è la nuda realtà fenomenica dell‟istituzione secondo l‟antropologia Gehlen, ma la cui traduzione formale in altra categoria scientifica è l‟economica, quale teoria dell‟azione umana, e l‟estetica, quale forma simbolica del sapere umano. Concetti che, come abbiamo detto, sono empirici e quindi logicamente equivalenti, anche se ognuno indicante qualità categorialmente diverse. 674 “L‟improvviso progresso [inventivo dell‟uomo] sembra indicare l‟entrata in gioco di capacità linguistiche e intellettuali di gran lunga più elevate che in precedenza [che] possono a loro volta essere collegate alla comparsa dell‟uomo di Cro-Magnon, dell‟homo sapiens […]”: Ivi, pag. 67. I corsivi (nostri) vogliono sottolineare l‟indeterminatezza concettuale di una rappresentazione del tutto priva di narrazione di eventi razionalmente collegati in una storia.

336


un processo logico che li comprenda. Ma li comprenda non come il tutto comprende le parti, essendo il processo stesso dell‟essere in divenire e quindi non può essere un tutto compiuto, ma come l‟Uno, cioè l‟essenza dei fenomeni, comprende il Molteplice degli enti empirici. Infatti, la conoscenza scientifica è esclusiva, determinando la qualità dell‟essere categoriale rispetto a ciò che non è sussunto nel suo concetto d‟essere, mentre la conoscenza logica è inclusiva di ciò che rimane indeterminato non-essere rispetto alla determinazione d‟essere categoriale. In altri termini, il sapere scientifico qualifica ciò che è reale, ma non ciò che non-è, e che considera quindi come non-reale (fantastico, superstizioso, illusorio, irrazionale, decadente, etc.). Ora, ciò che esiste fuori della realtà categoriale, e che è irreale secondo il suo giudizio, in sé è altrimenti qualificabile come essere-altro da ciò che l‟essere categoriale appunto è. La determinazione d‟essere delle scienze empiriche altro non è che lo stesso principio di realtà predicato dalle categorie, le quali selezionano teoreticamente l‟essere dal non-essere di quel principio, che è la realtà di sé stesse, secondo un criterio di astratta oggettività derivata dalla possibilità o non di assimilazione dell‟altro al sé medesimo, che, sul piano pratico, si riflette nel principio politico di distinzione dell‟amico (similis) dal nemico (hostis). Ed è il riflesso del principio scientificocategoriale di essenza nella realtà esistentiva degli enti fenomenici a determinare il fondamento metafisico della conoscenza formale come violenza pratica. La violenza, dunque, consiste nella esclusione-negazione dalla realtà dell‟essere del categorialmente altro da sé, che praticamente si dispiega come discriminazione politica del diverso dal simile. In termini 337


teoretici, il predicato di realtà si definisce correlativamente attraverso il giudizio di non-realtà degli enti fenomenici che non-sono oggetti categoriali. Questo criterio che giudica la realtà dei fenomeni attraverso il loro essere o non-essere categoriale, non ubbidisce punto al movimento logico del pensiero dialettico, ma è tipico della visione razionalistica del mondo secondo le scienze empiriche, la cui universalità di giudizio si determina attraverso la definizione di un modello formale di essenza che elegge a categoria una rappresentazione empirica della realtà storica. La trasposizione in modello formale di una rappresentazione empirica della realtà storica eletta a tipologia universale, è il prodotto teoretico della semplificazione ontologica dell‟essere totale in essere categoriale, il quale “essere” formale, confrontandosi nel divenire concreto con altri falsi universali empirici, prodotti a loro volta dai relativi costrutti teorici delle rispettive scienze particolari, e confutandosi pertanto nella sua originaria pretesa d‟essere, si definisce come “ipotesi”. L‟ipotesi scientifica non è altro dunque che la risultanza empirica che l‟essere categoriale non-è l‟essere totale, ma è un falso universale, o universale empirico. La confutazione empirica della ipotesi scientifica è la dimostrazione pratica che l‟essere categoriale è originariamente un non-essere vero, ma solo appunto la rappresentazione universale di ciò che l‟essere non-è, ossia dell‟ente fenomenico, che appunto è ente ma non-è l‟essere (totale). L‟essere finito o empirico è infatti il pensiero dell‟ente, oggetto delle scienze empiriche, ognuna delle quali eleva il suo oggetto categoriale in realtà formale ma astratta dalla verità dell‟essere totale, che comprende anche l‟essere informale, extra338


categoriale, che è il non-essere del giudizio formale di irrealtà. Trasformando un fenomeno (ossia, un non-essere) in una essenza formale, il cui carattere empirico è teoreticamente negativo (rispetto all‟essere vero, quello totale), il pensiero scientifico pensa non l‟essere in sé ma l‟essere dell‟ente, per cui pensa un essere che non-è distinto dal fenomeno ma che è lo stesso fenomeno pensato come oggettivo, ossia come forma di sé. Ma questa forma pensata come essenza infinita, non-è un‟Idea, ma solo una unità empirica di enti fenomenici astrattamente omogenei: una classe o un tipo di eventi. La differenza tra l‟essere vero e l‟essere empirico non è di grado (più o meno universale), ma è una differenza essenziale. L‟essere empirico, infatti, è la forma determinata di ciò che, uscendo dall‟indeterminatezza dell‟essere ideale, diviene e quindi si trasforma, cioè la forma dell‟ente. L‟essere categoriale è dunque l‟astratta rappresentazione di ciò che per essenza diviene, il Molteplice, e che quindi non-è l‟Uno. Ciò che viene pensato come astratto dall‟unità dell‟Essere totale, è l‟ente Molteplice, la cui qualità formale è data dal concetto categoriale. La forma categoriale astraendo l‟ente dal suo divenire, lo rappresenta come essere che è, l‟essere-che-diviene, cioè l‟ente che essere non-è ma appunto ente. La forma categoriale è dunque una finzione rappresentativa, che pensa l‟ente come un essere, attribuendo alla sua forma astratta l‟universalità propria dell‟essere. L‟astrattezza delle categorie empiriche è il procedimento proprio del pensiero scientifico, che è pensiero essenzialmente negativo, di ciò che non-è l‟essere, ma la molteplicità degli enti. La forma categoriale pensa la molteplicità degli enti come un essere unitario. Ciò è possibile attraverso l‟identificazione del fenomeno con la sua essenza, per 339


cui ogni fenomeno è un prodotto sintetico la cui realtà ideale non ha bisogno di alcuna mediazione razionale per essere. Ma, poiché ogni fenomeno ha in sé, nel suo apparire, la sua essenza, il pensiero di ogni fenomeno sarebbe (come voleva Gentile) una categoria. Ma l‟equivalenza dei fenomeni e delle loro essenze non è possibile oltre il loro essere immediato, che è solo ciò che i quell‟essere appare. Non essendo quell‟apparizione il loro solo apparire, l‟essere dei fenomeni o è infinito al pari delle infinite possibilità di apparire, ovvero è trascendente rispetto a ogni possibile apparizione. Nel primo caso, ogni fenomeni è un fenomeno in sé, distinto da ogni altro fenomeno. Ma in tal caso, poiché ogni fenomeno è insieme la sua essenza, ogni essenza fenomenica è una realtà assoluta e irrelata da ogni altra, di cui non si può dire altro che è: e questo è l‟esito relativistico di ogni fenomenismo, che non può distinguere la realtà dalla fantasia se non sulla base del proprio essere, il quale, essendo assoluto, è assoluta anche dalla stessa realtà, cioè è contraddittorio, e quindi irrazionale. Nell‟altro caso, la trascendenza dell‟essere fa di questo l‟essenza infinita di tutti i fenomeni finiti, ma, poiché tale essenza è di ognuno e di tutti, cioè è indeterminata, essa non qualifica i fenomeni nella loro singolarità reale ma nella loro astratta uguaglianza, identificandosi con questa, e quindi giungendo a una tautologia per cui ogni fenomeno è uguale al fenomeno uguale. Questo pensiero non distingue i fenomeni ma solo le essenze, stabilendo che sono i fenomeni che rientrano nell‟essere della loro essenza, e che non-sono i fenomeni che non vi rientrano. In questo modo, Croce poteva forse distinguere uno schiaffo da un passo di danza, ma non poteva distinguere la 340


poesia di Dante da quella di un postino in pensione, introducendo per queste un giudizio di più e di meno che è del tutto estraneo alla questione del giudizio circa l‟essenza dei fenomeni. Infatti, anche questo secondo caso è un costrutto solo formale, in cui la categoria rappresenta una falsa universalità, e cioè solo una totalità indeterminata di tutti i fenomeni giudicati eguali, a esclusione di tutti gli altri giudicati ineguali al modello rappresentativo. Come in tutti i costrutti formali, il movimento del pensiero è indicato come il passaggio dall‟essere del fenomeno al fenomeno dell‟essere . ma in realtà questo movimento è anch‟esso solo formale, cioè astratto, poiché l‟essere del fenomeno presuppone il fenomeno, laddove il fenomeno dell‟essere presuppone solo l‟essere, la astratta essenza fuori di ogni fenomeno postulato come identico al suo essere, sicché, dapprima si identifica l‟opera d‟arte con la sua essenza estetica, per cui ogni opera d‟arte è estetica, e in seguito di passa a trattare dell‟estetica come “scienza dell‟espressione”. Non diversamente da Croce, Gehlen identifica il fenomeno dell‟istituzione con l‟azione umana intesa come essenza antropologica, facendone la forma dell‟universale agire esonerato. Ma, così come l‟espressione è estetica in quanto giudicata esteticamente, parimenti un agire è solo in quanto giudicato istituzionale, mentre ogni altra espressione e ogni altro agire informali sono giudicati non-reali, ma puramente esistentivi (ossia “pratici”, per Croce, e “vitali”, per Gehlen). Per evitare l‟equivalenza fenomenica dei prodotti teoretici e al fine di distinguere il pensiero oggettivamente (in sé) razionale, ossia il pensiero formale, dal pensiero meramente esistenziale (per sé), il sapere empirico ha creato un paradigma assiologico o legale di comparazione-omologazione di ciò che è in quanto in 341


sé “oggettivo”, attraverso l‟idealizzazione di un ente determinato trasfigurato a modello formale, e in tal senso pensato come universale essenza di ogni possibile ente. Il modello empirico, pensato come forma universale, viene rappresentato come un‟Idea, quella della “oggettività”. Un modello formale pensato come un‟Idea universale è la categoria della logica formale, che distingue ciò che è da ciò che non-è reale-categoriale, sulla base del proprio paradigma d‟essere “oggettivo”. Il giudizio categoriale è quello che determina l‟essere formale (non ontologico) di ciò che diviene, cioè dell‟ente che si trasforma, astraendo dalla sua essenza temporale, legata alla molteplice possibilità di essere determinato diversamente dal suo apparire fattuale, che è la realtà del suo storico divenire. L‟essenza del prodotto oggettivo, che trascende il prodotto stesso, viene imputata a un soggetto trascendentale che si costituisce come l‟unità ideale del molteplice suo prodotto fenomenico e che non è idealmente diverso dall‟animale totemico produttore dell‟unità tribale. Ciò che unisce misticamente i due elementi formali è una non meglio definita “potenza del fare”, immanente ai prodotti stessi ma allo stesso tempo trascendente in quanto autopropulsiva e infinita. Il pensiero del Molteplice può essere più o meno astratto, e la sua attività più o meno potente e perciò esso più o meno comprensivamente generale, ma non può pensare l‟essere nella sua unità veramente universale, la quale non è la somma degli enti fenomenici, cioè la loro totalità, ma l‟unità ideale-reale (e non meramente formale) dell‟essere dialettico, comprensivo anche di ciò che non-è oggetto formale, ossia non è prodotto determinato del soggetto trascendentale. 342


Il pensiero formale è astratto in quanto pensa solo ciò che è, a esclusione di ciò che non-è categoriale. Per questo l‟essere categoriale si determina come essere distinto dall‟essere di ciò che non-è categoriale, e pertanto tale carattere esclusivo lo confuta come un essere universale, come un Tutto. Inoltre, la categoria è una unità puramente formale, per cui l‟essenza della conoscenza scientifica è la qualità astratta degli enti empirici pensati come parti di un insieme formalmente unitario ma idealmente non universale, perché distinto da altri insieme formali ugualmente pseudo-universali, ognuno dei quali è pensato come un Tutto solo rispetto alle sue parti, ma non rispetto alle parti degli altri insiemi formali. Solo il pensiero veramente universale è pensiero dell‟Uno e non delle molteplici parti, perché solo l‟Uno è Tutto non-essendo parte, mentre il falso universale è in quanto non-è altro da sé. E non essendo Uno è appunto Molteplice. La molteplicità delle determinazioni categoriali è idealmente infinita, in quanto ogni empirica espressione culturale può essere formalizzata e sussunta in un concetto universale trasformandosi in contenuto categoriale. Ma l‟infinitezza delle determinazioni empiriche non potrà mai costituire una unità logica senza contraddire la sua infinità, come l‟Uno non può essere il Molteplice senza smettere di essere se stesso. Pertanto, l‟unità pensabile a proposito dell‟empirica infinità degli enti molteplici è l‟unità ideale di ciò che non-è Molteplice, ma appunto Uno. E il pensiero negativo è esattamente l‟opposto del pensiero categoriale, che qualifica l‟essere, per cui tale pensiero negativo non compreso nel pensiero categoriale dell‟essere, ma che pure fa parte del pensiero, rientra nel pensiero filosofico come critica del pensiero categoriale, ossia come pensiero che comprende 343


anche ciò che dell‟essere categoriale non-è compreso ma che pure in modo-altro è. Il pensiero che comprende anche il nonessere pensiero categoriale, non è scientifico ma dialettico, intendendo per dialettico quello che pensa l‟essere nel suo rapporto con l‟opposto, cioè il niente o informale, non compreso dal pensiero scientifico. Solo un pensiero comprendente sia l‟essere che il niente può essere pensiero dell‟Uno, ossia di ciò che è e insieme non-è ma che diviene come processo dell‟essere logicamente unitario e fenomenicamente molteplice. Un pensiero che considera, cioè media e pone in relazione, l‟essere nella sua unità ideale molteplicità fenomenica, è dia-lettico, e non scientifico, ossia puramente formale e astrattamente unitario.675 Ciò che per il pensiero astratto e formale è procedimento concettuale, per un‟impostazione pragmatistica come quella di Gehlen diviene “procedimento d‟azione”, il quale, divenuto auto-normativo, si istituzionalizza in un “valore esistenziale”, la cui “validità […] può essere dedotta dal contenuto normativo che l‟istituzione fa valere nei confronti di ogni singolo” e che costituisce il suo “spazio di libertà”,676 inteso come l‟oggettivazione della norma affermata. Da un lato, si afferma che esiste un “valore autonomo” e paritetico per ogni lavoro istituzionale, per cui le istituzioni della scienza, dell‟economia, del diritto, dell‟arte e dello sport hanno lo stesso valore autonomo di fini in sé, tale che “il conoscere 675

Gehlen stesso riconosce che “la difficoltà delle ricerche di antropologia culturale non consiste tanto nelle categorie fondamentali in sé”, che sono a suo dire “intuitive”, quanto piuttosto nel loro “gioco combinatorio”: Id., Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pagg. 61-62. 676 Ivi, pagg. 67-68.

344


fine a se stesso è una categoria antropologica che appartiene all‟essenza dell‟uomo”, e dall‟altro che il loro valore è “nella misura in cui si agisce al loro servizio e in base a esse”; da un lato, cioè, che la scienza non è “un valore assoluto” e che la sua valutazione “è sempre dipesa dal suo posto nella scala dei valori, entro i parametri valutativi di una civiltà”,677 e dall‟altro che essa nel mondo attuale “non è più una faccenda di singoli cultori esonerati da altri impegni”, e cioè “non è più, nella sua essenza, una filosofia”, e che ormai assistiamo a una “scientificazione di tutti i campi della cultura”, dove “il sapere ha acquisito una funzione sociale” tale che chi “non parla la lingua dei concetti, non è in grado di imporsi pubblicamente” e perciò rimpiange “il mito”.678 Il dato saliente di questa rappresentazione teorica è che i contenuti assiologici del comportamento sono definiti “auto-normativi” in relazione all‟attività formale dell‟istituzione, ma che sono parallelamente considerati il prodotto di una determinata statuizione culturale di comportamenti conformi alla loro asserita oggettività, per cui l‟istituzione mentre in sé è una fonte normativa “oggettiva”, storicamente è invece solo il processo culturale di quella stessa produzione normativa, ossia è una potenza ordinamentale, che agisce come una “autorità” sociale che esige obbedienza. Ora, quando si dice che “l‟agire divenuto abituale entro tali strutture ha l‟effetto puramente concreto di sospendere la questione del senso”,679 ciò può voler dire tanto che sia vigente la prescritta “disciplina di gruppo”, che la “disponibilità alla subordinazione” sia soltanto presuntivamente acquisita come un valore immanente alla forza istituzionale, ma in realtà soggetta a procrastinati riempimenti di senso, per cui la sua 677 678 679

Ivi, pag. 72. Ivi, pag. 71. Ivi, pag. 69.

345


funzionalizzazione sistemica sia piuttosto un programma che un dato culturale. Altrimenti non si saprebbe come registrare la “possibilità di un suo uso distorto”.680 Ciò significa che il carattere oggettivo del comportamento formalizzato lo è nei limiti e nei termini della sua vigenza formale, che non è mai conforme al modello e perciò sempre caratterizzata da un residuo di informalità che costituisce la negazione soggettiva della sua oggettività formale-normativa. Residuo in cui si insinua il processo di revisione dei valori istituzionali da parte di forze informali che ne insidiano la stabilità normativa, impedendo che l‟abitudine culturale diventi un istinto antropologico. In questo senso, il residuo soggettivo rappresenta “l‟altra faccia della medaglia” in cui “si delinea la rivolta non solo della persona, ma della semplice soggettività in generale”,681 che abbiamo sopra chiamato libertà. La sua componente è residuale nella stessa misura in cui non è razionalizzato il comportamento del suo portatore,682 per cui la sua essenza è l‟opposto di quella della forma istituzionale che tende a negarla. Dal punto di vista del processo storico, il giudizio istituzionale si definisce come l‟opposto speculare al giudizio liberale, sicché la definizione logica del processo storico deve comprendere entrambi questi momenti opposti che ne costituiscono la dinamica. Se invece esso si cerca di spiegarlo attraverso una soltanto delle due prospettive opposte, la rappresentazione interesserà o solamente la fase resistenziale e costruttiva delle strutture istituzionali, ovvero la sola fase eversiva e distruttiva di esse, secondo una tipica astratta rappresentazione della ragione umana come scelta tra “motivi” e “scopi” in conflitto. La rappresentazione di Gehlen è tutta orientata nel senso della significatività sociale della forma istituzionale, secondante una prospettiva culturale di stabilità delle istituzioni che egli ritiene 680 681 682

Ibidem. Ibidem. Ivi, pag. 73.

346


fondamentale per l‟uomo ma che viene smentita dalla opposta prospettiva soggettivistica dell‟età tardo-moderna, da lui stigmatizzata come tendenza patologica perché innaturale di “soggettivizzazione”, categoria che sta a indicare il ripiegamento intimistico di un sapere “fine a se stesso” dove “è divenuto possibile cancellare dal campo delle rappresentazioni di dovere il punto di vista dell‟utilità sociale”, per cui la società “lo mantiene ancora in vita, ma non si attende più nulla da esso”.683 In una delle pagine più intensamente rappresentative della sua prospettiva Gehlen illustra in compendio il suo intimo punto di vista. Il nostro comportamento all‟interno di una istituzione che abbia assunto un‟autonormatività fine a se stessa esige che non teniamo conto del successo e dell‟utilità, diretti o indiretti, per noi stessi. […] Anzitutto si agisce in vista della cosa, in ogni lavoro c‟è qualcosa che deve essere fatto, e ciò suscita un autonomo interesse. In seguito si agisce seguendo un‟abitudine e la propria stessa capacità, per senso del dovere e per altre] motivazioni individuali, ma, in genere, mai in vista del “toglimento di bisogni”, ossia di un futuro stato soggettivo della propria situazione affettiva. […] Se infatti lo scopo del comportamento diviene la modificazione del proprio stato soggettivo, parliamo di “inversione della direzione pulsionale” e ci riferiamo ad azioni in cui la persona si isola in relazione alle proprie esperienze vissute. […] L‟uomo, dunque, non agisce necessariamente e neanche regolarmente in relazione ai suoi bisogni primari, anzi il suo agire può svilupparsi su un piano autonomo proprio quando è esonerato dai propri bisogni, al cui soddisfacimento contribuiscono le azioni di altri. Ogni lavoro svolto costantemente e rivolto ordinatamente ai fatti richiede da parte nostra di non tener conto dell‟immediata utilità e del vantaggio personale. Lavoriamo sempre inseriti in organizzazioni basate sulla divisione del lavoro, e le regole che valgono in esse non possono che divenire i nostri stessi scopi nel momento in cui i nostri bisogni biologici immediati per primi non rientrano più fra le motivazioni. Chiamiamo questo processo banalizzazione dei bisogni. Esso subentra quando i bisogni passano nella condizione di soddisfacimento 683

Ivi, pag. 73.

347


di sfondo, ossia sono assicurati stabilmente da una qualche struttura di produzione e di distribuzione.684

Questa è una delle pagine più illuminanti della sua opera, intessuta com‟è di tutti i suoi tentativi teorici di presentare come antonomasticamente antropologico un modello culturale di uomo comunitario che tutto il corso della civiltà moderna andava, sia pure contraddittoriamente e non linearmente, affermando e insieme smentendo, in una continua tensione ideologica che compendia tutto il processo avviato dal Rinascimento in poi e che era stato l‟oggetto della ben più profonda e consapevole riflessione storica e teorica di Dilthey. Non è difficile cogliere nella rappresentazione complessiva di Gehlen il contr‟altare ideologico della rappresentazione dell‟uomo fatta dal percorso neo-utilitaristico della linea Hayek-Mises-Popper, entrambe concorrenti nella sepoltura dell‟indirizzo di pensiero che da Kant giungeva appunto a Dilthey, quello storicismo che costituiva la pierre de touche polemica da cui muoveva ogni critica contemporanea alla metafisica dell‟idealismo tedesco. 10. Il carattere scientifico della teoria istituzionalistica di Gehlen sembra dato dalla neutralità del suo concetto di “agire abituale”come una prassi senza motivi resasi autonoma e che origina un “orientamento oggettivo e normativo della prassi” che ha in sé il suo senso del dovere. Per cui, chi vive ed è assuefatto agli usi di una determinata cerchia, non nota neanche più la “sovradeterminazione” – ovvia in quell‟ambiente – delle strutture organizzate così come degli atteggiamenti degli uomini. […] Solo quando le condizioni di vita e, di conseguenza, anche le modalità di comportamento di un gruppo divengono incerte, da esso stesso o dall‟esterno si fanno avanti

684

Ivi, pag. 70.

348


osservatori con l‟esigenza di “capire” e di divenire attivi nella critica o nella riforma ideologica.685

Viceversa, in generale, le teorie utilitaristiche sulle istituzioni sono autodistruttive quando si tratta solo di sottrarre tali istituzioni al caos delle opinioni, per il semplice fatto che sollevano e contemporaneamente lasciano aperta la questione su chi mai sia autorizzato a esprimere gli scopi della società. 686

La neutralità dell‟agire istituzionale viene conquistato a prescindere da ogni interiorizzazione e quindi partecipazione morale al processo abitudinario e solo attraverso un “trasferimento sull‟oggetto dei momenti pulsionali”, il quali così si indirizzano “in vista di un miglior padroneggiamento dei rapporti oggettivi”,687 che sono quelli indotti dall‟istituzione stessa. Abbiamo già detto della neutralizzazione degli impulsi vitali a opera delle istituzioni, che somigliano in qualche modo al rimedio sociale che la civiltà adotta per scongiurare il carattere eversivo degli impulsi spontanei, già riferiti da Freud. Qui ci pare rilevante sottolineare il “trasferimento” pulsionale proposto da Gehlen dal soggetto dell‟agire all‟oggetto dell‟azione, sì che la volontà dell‟attore resti sullo sfondo dell‟irrilevanza pratica rispetto alle modalità formali dell‟agire comunicativo, che sono i parametri di valutazione della congruità sociale delle azioni. La “realtà oggettiva” in cui si muove la volontà umana è dunque quella normativa stabilita dalle istituzioni sociali, per cui l‟ “oggetto” dell‟azione non è quello voluto dall‟attore ma quello che si aspetta la società attraverso la previsione mediatrice della sua formalizzazione istituzionale. E‟ questa che rende oggettivo il comportamento umano, ossia socialmente valido. 685 686 687

Ivi, pag. 75. Ivi, pag. 74. Ivi, pagg. 75-76.

349


In questa accezione, il valore dell‟azione, privato di ogni contenuto immanente, si concentra sulla forma socializzata, che costituisce la sua fonte di legittimazione etica. Entro la forma oggettiva, ogni contenuto ideale e ogni personalità portatrice si trasvalutano in valore socialmente lecito. Colui che ha trasformato se stesso dedicandosi pienamente a un grande compito ossia che, muovendo da realtà oggettive, è diventato dominante su tutto il resto, diviene irresistibile, poiché le cose esercitano il proprio diritto di parola attraverso la sua persona.688

In questa teoria si annidano le premesse della tragedia culturale e politica della Germania di Weimar, in cui impercettibilmente l‟identità oggettiva del valore sociale si sposta dalla struttura formale al suo interprete reale, secondo una movenza inversa a quella prescritta dall‟uso neutralizzante delle istituzioni, il quale qui diventa funzionale alla destinazione del suo fruitore. Questa “dialettica” della ragione strumentale, che ribalta l‟oggettività in imponderabile diritto di incarnarla, non costituisce una deviazione legata alla “possibilità di un suo uso distorto”, per riprendere le stesse parole di Gehlen, ma è il logico epilogo della premessa che esautora la libertà umana dalla polarità dialettica intrinseca al rapporto compulsivo proprio di ogni norma comportamentale, l‟esigenza della cui formalizzazione nasce in conseguenza della impossibile identificazione dell‟agire socializzato al comportamento naturale. Tra i due esiste infatti lo stesso jato che tra la volontà, che è tale rispetto a una correlativa volontà, e l‟istinto. Gehlen, che cita Machiavelli, non tiene conto della sua lezione quand‟egli invita a “tornare ai princìpi” allorquando la prassi ha smarrito il senso della sua destinazione funzionale, divenendo fine a se stessa. L‟ “oggetto” dell‟istituzione non è l‟istituzione stessa, ma il fine che essa deve assolvere. Un fine implicito e “ovvio” non è un fine 688

Ivi, pag. 76.

350


assente, perché la sua esistenza legittima lo stesso potere normativo della funzione istituzionale, decretandone la sua razionalità, ossia plausibilità morale, rispetto al potere arbitrario. E questa è la ragione per la quale l‟agire formale non può avere in sé il suo valore, ma che questo valore, non appartenendo all‟istituzione come nessun concetto appartiene alla sua forma espressiva, per poterne giudicare la conformità dev‟essere trascendente ogni singola determinazione formale. Se l‟insofferenza verso il potere dello Stato genera un “risentimento universale”, questo non è generato, come vorrebbe Gehlen, dall‟ “egocentrismo dell‟uomo medio” della “società del benessere”, disturbato nel suo “naturale impulso entropico di scaricare il potenziale di tensione e vivere nel paese della cuccagna”,689 ma è conseguente al moderno processo di dislocazione dei centri di potere sociale in più organismi ugualmente legittimi, dei quali lo Stato lo parte senza avere (più, o sempre) il monopolio riconosciutogli entro il suo ambito di competenza funzionale. Senza questa considerazione storico-culturale, lo stesso policentrismo della società liberale diventa incomprensibile, e così pure l‟insofferenza individualistica dei cittadini che hanno interiorizzato l‟idea cristiana di una sinderesi morale superiore a ogni esercizio effettuale del potere mondano, statale o non. Che poi questa coscienza diffusa generi l‟individualismo consumistico, non è questione che attenga al potere statale in quanto stigma intellettualistico, bensì alla circostanza che il potere (non solo) statale ma generalmente politico è insidiato da una nuova concorrenza, non politica come quella dei gruppi sociali concorrenti, e neppure impolitica come quella filosofica o religiosa, ma che ha una natura essenzialmente mimetica, tale da asservire e neutralizzare ai suoi scopi lo stesso potere, e che è nota come “il mercato”, il quale tende a dissolvere nella sua logica catallattica ogni differenza umana culturalmente e storicamente specifica, realizzando a suo modo 689

Ivi, pag. 77.

351


quell‟idea umanistica universale patrocinata dal razionalismo cristiano e liberale, rappresentandola come la istanza superiore a ogni locale esigenza limitativa particolaristica. La domanda da farsi è : se è vero che “nella sicurezza – [cioè] nel rapporto fra protezione e obbedienza –risiede l‟estrema legittimazione della facoltà di impartire disposizioni da parte del potere”, [Ivi, pag. 78] come asserisce Gehlen, allora perché la lotta per il potere da parte, evidentemente, di chi non lo possiede? Non sarebbe più facile rassicurarsi nella sottomissione? Perché non dovrebbe valere in generale ciò che vale per la cultura, ossia il rapporto costante tra tradizione e sperimentazione? Se è un “dato di fatto” che “il comportamento prescritto dal dovere implica insieme l‟obbligo di determinati insiemi di motivazioni e affetti”,690 come sarebbe possibile che “questi due aspetti si separano”, e cioè, “si spezza la tradizione”, e “la sperimentazione prosegue”? E infatti, se vale il principio che i “topoi del sentimento, della sensibilità, dell‟ideale e del pensiero” diventano stabili “contenuti formali”,691 in che senso, nel caso della rottura della tradizione, “la soggettività non può che inoltrarsi in uno spazio vuoto”?692 La risposta a quella domanda e alle altre conseguenti, è possibile soltanto se si abbandona l‟idea che la struttura delle formazioni sociali e istituzionali (loro forma e relazioni normative) sia un “dato” culturale e si accolga invece l‟idea che sia un “processo” di civilizzazione, in cui giocano un ruolo decisivo le attribuzione di senso che ogni intuizione del mondo reca all‟esperienza della vita in generale e di quella specificamente umana. Gehlen parte dal risultato formale (l‟istituzione) per discendere alla “realtà” dei contenuti formalizzati (gli atteggiamenti), rappresentando come immanente alla struttura formale un valore che invece è relativo alla sua destinazione 690 691 692

Ivi, pag. 80. Ibidem. Ivi, pag. 79.

352


sociale. E‟ dunque la socialità il valore di riferimento di ogni analisi socio-genetica delle istituzioni, e non la loro mera formalità, sganciata da ogni destinazione funzionale. E la socialità non è un “dato” antropologicamente “neutro”, ma un contenuto culturale storicamente variabile per luogo e tempo. Questa “storicità” dei contenuti culturali e istituzionali può essere assunta secondo un criterio di “relatività” delle forme storiche di concezione e organizzazione umana del mondo, solo se riguardata dall‟esterno della loro determinata costellazione dei valori, ossia come “prodotto” culturale, ma, all‟interno di ogni storica costellazione, la relativa validità delle forme ha un valore sostanziale e immanente. Sicché, a seconda della posizione, interna o esterna, in cui si muove l‟analisi istituzionalistica di Gehlen, i suoi contenuti valoriali vengono presentati come, rispettivamente, “antropologici” ed assoluti, ovvero storici e transeunti, secondo il movimento tipico della logica formale di cui si è detto sopra. Sottaciuta ma implicita al procedimento teorico di Gehlen è la sua sotterranea polemica anti-storicistica, che lo conduce a deflettere dalla mobilità della coscienza umana e dai suoi condizionamenti culturali in favore di una dimensione costitutiva originaria, che è “antropologica”, anziché metafisica, ma in ogni caso non fluidamente “storica”, modellata perciò su corsi temporali di lungo periodo, in cui il divenire viene diluito in situazioni tendenzialmente stabili se rapportate alla dinamica liquida dei tempi moderni. Naturalmente, la dilatata temporalizzazione dei fenomeni istituzionali non elude la questione dei mutamenti culturali, ma ne neutralizza però l‟aspetto ideologicamente virtuoso attraverso la critica della relatività e caducità delle strutture del mondo tardo-moderno. Egli confuta l‟intuizione fondamentale del metodo storico e anti-positivistico di Dilthey, riproponendo esattamente una metodologia antropologica fondata sulle scienze naturali, il cui esito è la proiezione rovesciata della civilizzazione, un negativo della fotografia della civiltà umana che porta in rilievo le strutture oggettive anziché le espressioni 353


soggettivo-spirituali delle forme culturali. Un percorso metodologico opposto alla critica dello psicologismo scientistico sostenuta da Husserl, ma alternativo anche a quello marxiano, che a suo modo aveva operato una conciliazione fra l‟idealismo filosofico tedesco e la tradizione positivistica della sociologia europea.693 Vi sono istituzioni con grandi pretese, che prescrivono disposizioni d‟animo del tutto abituali: anticamente in campo religioso e militare, più recentemente in campo politico. Una disposizione d‟animo in senso stretto è un complesso di idee, sentimenti, affetti e attitudini comportamentali “vicendevolmente obbliganti” che deve essere preformato dall‟esterno, da ciò che si fa e da ciò che si evita di fare, e che viene prodotto e sviluppato attraverso un coerente controllo sulla formazione dei moventi tanto da esonerare, infine, del tutto la persona dalla formazione di questi stessi moventi, così che essa si limita a motivare solo singole applicazioni. Questa tendenza sostanzialmente ascetica, in cui si assume il ruolo, per così dire, di un mattone nella struttura di un ordinamento, è vista con grande ostilità dal soggettivismo moderno.694

L‟esonero dai moventi individuali è un processo parallelo alla oggettivazione dei valori attraverso un movimento di indipendenza dai fondamenti metafisici idealmente non diverso dalla emancipazione degli individui dalla sovranità del controllo politico centralizzato. In tutti i casi, l‟indipendenza funzionale viene avvertita come un valore autoreferenziale che costituisce il fine in sé dell‟azione razionale. Lo sviluppo della logica catallattica, fondata sull‟aspetto utilitaristico dei rapporti umani, è una di quelle universalizzazioni etiche – la maggiore e più significativa del nostro tempo - del principio del valore oggettivo dell‟azione proprio della prospettiva pragmatistica, che, per un verso, affida alla volontà individuale la responsabilità della fonte normativa dei comportamenti singolari, offrendo l‟illusione 693

Ved. a proposito, K. Mannheim, Una teoria sociologica della cultura, tr. it. cit., pagg. 152 sgg. 694 A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 80.

354


dell‟autoregolamentazione morale autonoma, e per l‟altro verso esonera gli individui dalla dipendenza diretta dai prodotti delle loro azioni, e quindi dalla responsabilità dei risultati oggettivi, che diventano l‟esito imponderabile di una fantomatica “mano invisibile” provvidenziale. Questo esito, che dal punto di vista del mercato capitalistico è il “profitto”, dal lato sociologico è l‟equilibrio nei rapporti umani come senso dell‟azione, ossia quella “tensione stabilizzata” che costituisce il fine immanente a ogni istituzione, a ogni formalizzazione e controllo del comportamento sociale. Il conflitto concorrenziale che impegna il capitalismo idealmente da secoli contro le strutture socio-politiche dell‟organicismo religioso medievale prima e del liberalismo razionalistico moderno poi, verte sulla legittimazione morale della destinazione delle risorse derivate dall‟attività economica, ossia dal controllo dei fini dell‟agire sociale, attraverso i quali si qualificano i moventi dell‟azione umana. A seconda che il controllo ricada sotto la legislazione morale della religione, della Ragione, dello Stato o del Mercato, ne deriva una relativa legittimazione socio-culturale delle strutture istituzionali che ne sono l‟emanazione funzionale e lo spirito oggettivo. Ne consegue che il senso della destinazione delle azioni umane, e quindi il loro “valore” socio-culturale, è strettamente correlativo al significato ideale del loro reciproco rapporto, che ne determina appunto il contenuto di senso comunicativo. Nella prospettiva di Gehlen, il movimento ideale di ogni esperienza e di ogni progetto di azione è dal noto al possibile. Infatti, per lui i movimenti umani sono esperiti praticamente in una “ricchezza di possibilità” o di “variazioni equipossibili” che poi viene impiegata dalla “immaginazione motoria”, la quale “dipende da quanto è già stato operato, dalla ricchezza dei ricordi e dalle esperienze fatte nelle quali il movimento riuscito si è via via perfezionato”.695

695

A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e i il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 243.

355


Ciò vuol dire che la pre-condizione di ogni azione attuale è la sua stessa possibilità di essere stata verificata come appunto possibile. Da questa verifica di possibilità nasce il criterio della sua “verità”, per cui azione vera è l‟azione effettualmente possibile. La vera “conoscenza” (Erkenntnis), afferma Gehlen, non si ottiene dalla “mera cooperazione, che prescindesse dall‟azione, di dati sensibili e di categorie kantiane applicate”, la quale cooperazione fornisce soltanto una conoscenza estrinseca (Bekanntschaft), ma si ottiene solo “in un trasformarsi della problematica, in un‟ipotesi e nella sua verificazione, cioè nell‟esaminare se le attese che ingenerano siano soddisfatte dalle cose”, per cui lo stesso “carattere comunicativo dei movimenti umani” e in genere tutti “i fenomeni della coscienza vanno compresi in base all‟azione e nell‟intreccio con essa”.696 L‟azione cui si riferisce Gehlen è il risultato di una “cooperazione estremamente complicata della percezione tattile e di quella visiva”.La conseguenza decisiva che Gehlen ne trae è che “l‟intero controllo del mondo e delle nostre azioni è assunto o rilevato in primo luogo dalla percezione visiva”,697 la quale consente l‟esonero della coscienza da altre “prestazioni d‟esperienza” tattile. La nostra percezione, nella sua struttura complessiva e nella logica delle funzioni che vi concorrono, è pertanto, in via assoluta, quella di un essere che deve a un bel momento porre un termine alla scoperta delle cose, per passare al loro impiego controllato, controllato cioè in primo luogo sul piano ottico e del pensiero.698

Questo controllo avviene attraverso una “struttura simbolica del movimento”, che seleziona i momenti salienti di una sequenza motoria e li fissa in una rappresentazione linguistica in cui “l‟aspetto motorio e 696 697 698

Ivi, pag. 238. Ivi, pag. 239. Ivi, pag. 242.

356


quello sensorio sono inseparabilmente connessi”.699 L‟espressione verbale che concresce con il linguaggio costituisce il maggiore esonero della coscienza umana, quello che nel riconoscimento della realtà esclude il comportamento pratico, cioè le attività motorie che originariamente erano connesse all‟atto del riconoscere. Ciò vuol dire che l‟affermazione storica di una cultura in cui sia prevalente il controllo linguistico del mondo-della-vita comporta l‟assunzione dell‟esonero della coscienza dal comportamento pratico un “valore” etico immanente alle funzioni socializzanti della costitutiva struttura istituzionale, formativa nel senso valoriale della supremazia della teoria sulla prassi. “Nel linguaggio umano”, dice infatti Gehlen, “è possibile un‟attività che nulla modifica nel mondo effettuale delle cose. E‟ questa la condizione di ogni teoria”.700 Questo era il modello culturale classico ereditato dal Medioevo cristiano e che è invalso fino all‟avvento della società industriale, che ha contestato il primato della coscienza teoretica a favore del primato del fare, che accorda valore di esperienza sociale non alla tradizione linguistica, intesa come cultura letteraria e sapere teoretico, ma alla trasformazione pratica del mondo, i cui esiti benevoli vanno verificati empiricamente dalla constatazione degli effetti reali. In questa prospettiva pragmatica, la “risposta” che l‟uomo dà alle “cose” del mondo non è significativa nel senso della loro conoscenza simbolica ma, appunto, nel senso della loro trasformazione e fruizione utilitaria. Mediante il suono si è già data risposta alle cose e ci si trattiene dall‟azione, il che è di decisiva importanza per ogni comportamento di specie superiore, nel quale l‟azione viene impegnata in modo controllato e orientato solo quando il pensiero ha preventivamente accertato un dato di fatto. L‟esonero dall‟immediatezza della situazione, nel padroneggia mento meramente linguistico della stessa e nel trattenersi dall‟azione, rende possibile di

699 700

Ivi, pag. 253. Ivi, pag. 252.

357


impegnare delle azioni sulla base di condizioni puramente “rappresentate” e “presentificate” nel linguaggio, a prescindere dalla situazione. 701

In questa prospettiva in cui la prassi viene esonerata grazie alla cultura linguistica, il linguaggio sostituisce la comunicazione globale attiva, finendo con “il reggere pressoché da solo espressione e comunicazione”.702 Cioè, in altri termini, la cultura espressiva, quella verbale, ha il monopolio valoriale della comunicazione sociale. Nel mondo industrializzato, la parola resta acquisita come strumento comunicativo in funzione esonerante, ma perde progressivamente il monopolio sociale del suo valore comunicativo, incalzato da una prospettiva culturale tendente a ridiscutere i fondamenti strutturali delle forme comunicative tradizionali attraverso l‟offerta di un alternativo modello cosmologico basato su una tipologia antropologica definita da nuovi valori simbolici, nei quali “l‟apertura verso l‟esterno”, che come sappiamo “è il fondamento di tutti i moti psichici”,703 viene interpretata nel senso della oggettivazione dei contenuti spirituali in forme strutturate a modello di una soggettività normativa che non è più la “coscienza morale” ma è la “forma istituzionale”. La kantiana “sintesi riproduttiva dell‟immaginazione” della prima versione della Critica della Ragion pura viene reinterpretata da Gehlen come la “facoltà” propria di chi, “aperto al mondo”, è “destinato a trasformare quanto gli è dato di rinvenire”.704 Il trapasso culturale da una intuizione ad altra del mondo si determina come un esonero non più dei comportamenti formali, ma dei loro originari moventi morali, che fa assumere alla rappresentazione un valore in sé, “esistenziale”, svuotato di ogni contenuto ideale, dando l‟impressione di una libertà espressiva degli attori, le cui azioni 701 702 703 704

Ivi, pag. 252. Ibidem. Ivi, pag. 246. Ivi, pagg. 236-237.

358


autoreferenziali sembrano sollevate da ogni legame di necessità trascendente la loro mera conformità formale al paradigma rappresentativo. Da qui discende, per un verso, la perdita dei fondamenti epistemici delle scienze empiriche denunciato da Husserl, e per l‟altro il conformismo sociale riassunto nel “si” impersonale ricordato da Heidegger. Ora, questo trapasso culturale, non storicizzato nei termini di un cambiamento di paradigma ideale, è rivisitato da Gehlen come una decadenza dal modello antropologico tradizionale, ritenuto autentico solo perché originario rispetto a quello spurio più recente; autentico ma svuotato della originaria significatività. Da qui sorge in lui il problema tipicamente umano dell‟ “orientamento dei bisogni” o delle pulsioni. Gehlen rifiuta la “dottrina junghiana degli archetipi”, ritenendola “una variante, nella psicologia del profondo, della dottrina delle idee innate”705 e le contrappone quella sua dell‟agire socializzato, il quale “è descrivibile solo a partire dall‟azione”, 706 intesa non più solo come neutro contenuto formale ma in senso astrattamente giuridico, ossia che “deve includere le regole generalmente accettate o non tenerne conto in modo esplicito e affrontando un rischio”.707 Ciò vuol dire che viene ora prevista la possibilità di comportamenti diversamente orientati rispetto alle forme istituzionali, e ritenuti informali, per cui la socializzazione del comportamento comporta che esso “diviene stabilizzabile quando introduce alle istituzioni di volta in volta date”,708 in modo tale che il bisogno venga “orientato, costretto entro le circostanze di fatto e gli scopi d‟azione di volta in volta vigenti e legato al senso del dovere che la società sviluppa nei suoi riguardi”.709 Da qui la differenza tra 705 706 707 708 709

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 81. Ivi, pag. 83. Ibidem. Ibidem. Ivi, pag. 84.

359


comportamenti “pubblici”, quelli istituzionali, e quelli informali e privati, racchiusi originariamente nella limitata esperienza della riflessione soggettiva, la quale, non essendo “in grado – e degna – di avere una dimensione pubblica […] è soggettiva nel senso che è revocabile”, ossia ha “una risonanza priva di consistenza oggettiva”.710 Ma Gehlen non giunge da queste premesse a comprendere la natura politica della dialettica interna alla contrapposizione pubblico/privato, concependo la privatezza come un “un impulso non sublimato”e quindi la sua distinzione una questione psicologica. Assegnando alla esclusiva dimensione pubblica e formale la “linguisticità delle pulsioni”, egli implicitamente destina alla sfera privata la parallela “linguisticità del pensiero”, considerando come fisiologicamente acquisito alla espressione pubblica il primato del fondamento comunicativo, ovvero, come lui dice, “la grammatica dei bisogni”, lo intende come il “contenuto astratto delle istituzioni di una società”, che ora appunto Gehlen, pervenendo inavvertitamente a privilegiare il primato del fare sul pensare, identifica con “il suo sistema giuridico”.711 Ma il riferimento psicologistico è più che occasionale e casuale. Infatti, trattando della categoria della “tensione stabilizzata” la considera una “condizione affettiva” che “rappresenta la forma durevole di una disposizione d‟animo ormai orientata in cui è chiaramente riconoscibile il deposito di componenti istintive residuali”,712 quali gli “impulsi di aggressione e sottomissione”, che si inibiscono reciprocamente divenendo “comportamento convenzionale”, codificato e simbolicamente significativo.713

710 711 712 713

Ivi, pag. 86. Ibidem. Ivi, pag. 87. Ivi, pag. 88.

360


Il comportamento così “stilizzato”, pur non avendo più un “investimento affettivo diretto”, nondimeno, nell‟atto di “rendere onore” a un simbolo, ha valore dichiarativo di una “fede” resa “visibilmente nota”, per cui “si articola una complicata tensione affettiva (“disposizione d‟animo”) come di per sé vincolante e valida e insieme si sottolinea, con lo stesso comportamento, lo status ideale, il valore del relativo oggetto”.714 Di nessuna cosa può essere giudicato inequivocabilmente il valore esistenziale senza che si compia pubblicamente qualcosa per essa e, in tal modo, si estenda contemporaneamente una “disposizione d‟animo” che è l‟unica forma sociale e in grado di durare di questo atteggiamento. Gli uomini trovano un accordo e sono affidabili – ossia stabili – nei loro affetti, solo se improntati e indirizzati a una realtà oggettiva. 715

Con ciò si volendosi dire che la tensione emotiva, concentrandosi sul suo oggetto evocativo, viene sublimata nel dovere di riconfermarla, a prescindere da ogni attuale destinazione di senso, la cui presunta “soddisfazione” costituirebbe un “presupposto antropologico” che conferma che si danno stati di soddisfacimento in assenza di bisogni, orientati su qualità di status del mondo esterno. Si accede così a un rapporto con l‟ente in quanto tale che, per definire in altro modo il concetto di status, rappresenta se stesso e non compare più come qualcosa che possa essere modificato. Questa situazione complessiva è paga di sé, non tende a oltrepassarsi, viene definita dal fluire del tempo e sempre reintegrata. Incontriamo così nuovamente il “valore autonomo in senso assoluto”, posseduto da quelle cose, entità, istituzioni eccetera cui si rapporta un comportamento che è rivolto al proprio esserci e alla loro stessa realtà in quanto tale, virtualmente sino al punto di perdere ogni valore esistenziale in relazione ai propri bisogni.716 714 715 716

Ivi, pag. 89. Ivi, pag. 98. Ivi, pag. 89.

361


Con la perdita del valore esistenziale, è smarrita anche ogni certezza di contenuto razionale, sicché l‟appagamento mistico dell‟ossequio trasmoda in culto mitico nel numinoso, compiendo per intero la parabola del fenomenismo gehleniano, che dall‟iper-realismo antropologico giunge al superstizioso misticismo dell‟azione stilizzata fine a se stessa, astratta da ogni concreta determinazione razionale di un qualche vitale bisogno, interpretata come cifra estetica dell‟espressione socializzata e assimilata a quella dell‟artista e del filosofo.717 La forza compulsiva di tale “tensione stabilizzata” non riposa nella validità morale della sua vigenza ma nella pura “decisione in favore dell‟essere del suo oggetto”, in cui l‟accettazione della “esistenza nella sua definitività qualitativa” coincide con la sua stessa “essenza”,718 analogamente alla decisione schmittiana, la cui ragion d‟essere è tutta nella forza della sua affermazione effettiva. Fuori da ogni rapporto sociale razionalizzato in tensione etico-politica volta a orientare in senso generale il senso particolare del proprio assunto ideologico, la “struttura perspicua dell‟istituzione può essere trasmessa come mera forma d‟obbligo”, per la cui durata non occorre alcun determinato equilibrio socio-politico riassuntivo di una immanente tensione morale volta ad affermarlo contro chi operi per negarlo, ma “è sufficiente una formula ideale e una serie di forme comportamentali obbligatorie” con le quali “la società si esonera dall‟attualità della situazione che le sue stesse istituzioni hanno creato” e che spiegherebbero anche il “passaggio delle istituzioni all‟autonormatività”.719 L‟istituzione ridotta alla oggettivazione della potenza del fare non può dismettere la sua attività propulsiva, ma solo deviarla mimeticamente verso esiti non preventivabili, smentendo così la propria funzionalità 717 718 719

Ivi, pag. 90. Ivi, pag. 91. Ivi, pagg. 92-93.

362


normativa, normalizzatrice di comportamenti stabilizzati e perciò resi prevedibili, e trasvalutando il proprio originario potere esonerante in ritualogia stilizzata, in prassi gratuitamente conforme solo al proprio modello vetero-tradizionale, la cui rinnovata perpetuità è legata alla confermata volontà di ossequiarlo a prescindere da ogni residuo valore che non sia immanente alla volizione attuale. Con questa logica burocratica si potevano reintrodurre nella Germania hitleriana dei rinnovati culti celtici attraverso un mero recupero filologico sotterraneo ai millenari riti cristiani, e parimenti rinverdire sotto le spoglie attualizzanti i sacrifici pagani dell‟immane espiazione apotropaica della nazione ebraica. Ma, al di là delle possibili applicazioni, il principio istituzionalistico di Gehlen si costituisce, almeno apparentemente, come l‟opposto dialettico del principio liberalistico di Berlin. Infatti, la “libertà dal” potere costituito è per Berlin un valore “in sé” più che un “bisogno temporaneo”, in quanto non si può determinare a-priori e “dogmaticamente” quali contenuti siano preferibili ad altri ugualmente patrocinati come contenuti di libertà. La prospettiva empiristica, che accoglie l‟indeterminatezza dei contenuti della libertà, per Berlin è appunto perciò preferibile a quella metafisica della politica, che invece stabilisce delle gerarchie di valori. Sarebbe facile contestare che questa asserzione di Berlin ha la stessa pretesa dogmatica da noi riscontrata con Scheler a proposito del pragmatismo, ed è analoga a ogni similare asserzione relativistica, ma non è questo il punto saliente che qui rileva. Quello che invece per noi è rilevante, infatti, è che la tesi di Berlin può trovare una sua plausibilità razionale solo se relativa alla sfera dei convincimenti privati, dove la “libertà di vivere in modo a ciascuno più confacente” è un “sacro principio” che prescinde dalla “garanzia della sua durata”,720 ma non può essere la regola di un contesto socializzato, la quale stabilisce laicamente la superiorità del principio formalmente pubblico sui diversi e contrastanti princìpi privati. La superiorità della forma 720

I. Berlin, Two Concepts of Liberty, Oxford, 1958, pag. 57.

363


pubblica è conseguente alla necessità di sedare il potenziale conflitto relativo all‟affermazione del primato dei rispettivi princìpi privati, stabilendo quel “patto civile” così caro agli empiristi, ovvero, secondo la prospettiva di Gehlen, stabilizzando istituzionalmente quei comportamenti pratici più suscettibili di conseguenze socialmente utili. Il difetto logico della teoria di Berlin è simmetrico a quello di Gehlen, e da qui l‟apparenza della loro opposizione. In realtà, l‟uno e l‟altro astraggono dal concreto processo storico-politico in cui ha senso e valore il contrasto dei princìpi, rispettivamente, di affermazione del valore pubblico e di quello privato della libertà, stabilendo un punto di vista prospettico preferenziale del tutto arbitrario e appunto astratto, perché non spiega le ragioni dell‟altro e quindi non è in grado di stabilirne la congruenza con le ragioni prescelte, per cui la preferenza preventiva diventa essa un‟affermazione dogmatica, quale appunto quella di ogni postulato relativistico ed empiristico, che esclude dalla relatività solo il proprio postulato. Non si può astrattamente scegliere tra le ragioni pubbliche e le private senza porsi logicamente al di sopra di ciascuna, ossia in una prospettiva storica che non può essere quella contestualmente politica, in cui ogni parte gioca il suo doveroso ruolo parziale. La superiore ragione della storia è diversa dalle storiche ragioni delle parti, proprio in quanto le mette in relazione entro un processo ideale che non coincide logicamente con gli esiti del processo effettuale. Solo questa posizione logicamente differenziata consente alle parti, anche politicamente perdenti, di conservare, al di là dell‟esito politico attuale, la loro ragionevolezza di principio, la quale non necessariamente deve coincidere con la ragione che si è politicamente affermata come soluzione storicamente attuale. Per questo l‟attualità – che può riguardare sia le ragioni private che pubbliche – non può essere il criterio di validità logica delle posizioni storiche, poiché essa è determinata non già secondo un principio di validità universale ma solo sulla base di una mera razionalità effettuale, la cui ragionevolezza 364


è solo relativa alle condizioni della sua possibilità nel tempo presente, e non stabilita dalla sua logica necessità. In questo senso, tanto la posizione pubblicistica di Gehlen che quella privatistica di Berlin convergono per la loro stessa astratta unilateralità, fondata esclusivamente sulla preferenza ideale a una attualità storica presentata come modello universale, e perciò ideologica e non logica. Tant‟è che nessuna di quelle teorie dell‟agire umano può andare oltre l‟affermazione di sé e comprendere le ragioni dell‟altro, ma può solo stigmatizzarle come “barbare” rispetto alla “civiltà” delle proprie. La ragione della storia non sempre è quella immanente alle ragioni dei fenomeni storici, il cui dinamismo per causas è legato ai moventi prossimi delle azioni umane, il cui esito è anch‟esso circoscritto a quei fenomeni e aleatorio e transeunte quanto essi. Il procedimento induttivo spiega l‟attualità dei fenomeni ed è sempre relativo alla validità dell‟ipotesi postulatoria, ossia che l‟essenza dei fenomeni coincida con la loro stessa esistenza, per cui ogni ragione è valida in quanto è possibile, cioè evidentemente attuale. Ma l‟evidenza è solo relativamente alla sua possibilità di non essere, non è cioè una realtà necessaria ma solo occasionale, accidentale, legata alle sue cause prossime e che scompare con i suoi effetti attuali. La positività dell‟essere, cioè la sua attualità, non comprende tutto l‟essere, ma solo appunto ciò che di esso appare, gli enti fenomenici, astratti dalla loro possibilità di non essere ciò che attualmente sono, ciò che appaiono, e quindi irrelati dai processi della loro tensione dialettica con quanto dell‟essere non appare e non è attuale, ma che pure incombe nell‟attualità come il suo risvolto negativo e idealmente oppositivo. Questa dialettica ideale, trasferita nel mondo reale, delle cose, si traduce nel movimento delle forze antagoniste che lottano per la propria ragione d‟esistenza, e che si impongono o decedono a seconda della loro contingente possibilità d‟essere, il cui esito però non compromette la loro validità ideale, la quale perciò è trascendente rispetto ai fenomeni attuali, legati alla tensione che in termini sociali è politica, ed è perciò in tal senso trans-politica. 365


Le ragioni della storia sono le ragioni di tutte le parti in causa, e non le sole trascelte dall‟analisi empirica delle scienze positive, la cui “oggettività” è dunque astratta dai concreti processi storici, che sono ideali, e cioè logici, e non fattualmente razionali, legati a una consequenzialità prossima, puramente causale. Uno storico, diversamente dallo scienziato sociale, non trasceglie i fatti in base alla loro rilevanza fenomenica, ma in base al loro valore ideale, che prescinde dalla loro possibilità attuale, legata a fattori contingenti e attuali ma non necessarii. Sicché, mentre per il politologo e per il sociologo, rilevante è solo la situazione che si impone effettualmente sulla realtà delle altre possibili, per lo storico rileva il valore che le distinte e opposte posizioni storiche rivestono nell‟ambito del processo ideale analizzato, processo nel quale il valore analizzato coincide con lo stesso ideale. Ed è questa la ragione per cui un “valore” non può coincidere con un “fatto”, si tratti pure di una istituzione privata, come la famiglia, o pubblica come lo Stato o la Chiesa. Anche la libertà, come fatto privato, in sé non è un valore superiore a quello che essa ha come istanza sociale. Un giusto valore può essere misconosciuto in quanto minoritario, e perciò essere politicamente debole senza smettere di essere idealmente forte. Se si fa coincidere la forza dell‟attualità storica con la potenza del valore ideale, la storia stessa diventa un crogiuolo di fenomeni irrazionali, dove domina l‟arbitrio del potere. Ed è questa l‟immagine che ne ha ogni prospettiva razionalistica astratta, che si fermi alle cause prossime dei fenomeni contingenti, e non ai processi ideali. Alle stesse conclusioni irrazionalistiche è giunto l‟Illuminismo prima e il Positivismo dopo, entrambi cultori dell‟oggettività delle scienze empiriche. Per tornare a Gehlen, la validità dei dettami istituzionali è tutta interna all‟effettività della sua condizione d‟essere forma, ossia modello normativo, ma ammette la sua relatività nell‟atto di rappresentarla come neutra “stabilizzazione delle pulsioni”, in cui la sua ragion d‟essere si fa coincidere con la sua ragione di fatto, ossia con al stessa 366


stabilizzazione, senza alcuna determinazione del suo valore finale, ideale. Ma pulsioni stabilizzate sono pure quelle del cannibalismo prima della società totemica, e non soltanto quelle della famiglia esogamica succeduta a quella endogamica. E pulsioni stabilizzate sono sia quelle della società capitalistica che quelle dell‟ordinamento sociale comunistico, sogguardate all‟interno dei rispettivi valori dell‟economia politica classica e del materialismo dialettico. Ma ciò detto, nulla si dice sulle ragioni della loro affermazione e della loro senescenza o estinzione, ma solo sulle cause della loro attualità o morienza. E poiché le ragioni, diversamente dalle cause, sono ideali e non fenomeniche, la prospettiva empiristica e relativistica, per giustificare la fondatezza razionale della loro astratta preferenza valoriale, assume questa come se fosse il termine finale del processo storico, trasformando una ideologia in una scienza: il comunitarismo sociologico in antropologia (Gehlen), il comunismo economico in materialismo storico (Marx), l‟individualismo economico in liberalismo (Berlin), etc., per limitarci ai casi di specie. Ma le singole scienze empiriche e positive sono anch‟esse delle “forme” razionali di stabilizzazione dell‟agire umano all‟interno di un quadro normativo in cui la categoria ha la stessa funzione dell‟istituzione sociale di Gehlen, che è quella di rappresentare, ovvero di conformare, l‟ignoto sul fondamento della sua compatibilità con il noto, che è il modello rappresentativo della comparazione discriminante tra vero e falso. E poiché ciò che è noto è ciò che è esperito come valido, ecco che un prodotto storico diventa il modello ipotetico di ogni produzione successiva e passata. Ogni esperienza è valida all‟interno della sua struttura normativa legittimantela a condizione che la validità stessa coincida con la sua fatticità, ossia, ancora una volta, che l‟essenza di un fenomeno non sia altro che la sua realtà esistenziale. Ed è questa premessa relativistica a preludere a ogni forma di dogmatismo teoretico e di decisionismo politico riassunta nel concetto di “rivoluzione”, con cui si esprime la necessità di far coincidere l‟essere al suo dover essere, dove il possessivo esprime una necessità che è 367


circoscritta alla affermazione della sola volontà, resasi autonoma da ogni logica e morale necessità, e perciò volontà arbitraria e particolare, non universale e razionale in senso logico ma solo entro l‟universalità della astratta ragione empirica e categoriale. L‟astrattezza di tali categorie formali risiede nella, implicita o esplicita, negazione della storia, sostituita con un piano fenomenologico di tipo naturalistico in cui non si dà progresso cosciente ma solo spontanea evoluzione. Non è un caso infatti che anche Gehlen indugi, come abbiamo visto, sullo psicologismo, peraltro esplicitamente negato,721 quando vuole eludere la questione della validità storica delle istituzioni con la rappresentazione della loro genesi empirica, rispondendo al “perché” col “come” una istituzione esista, negando che possa esserci una ragione “pura” o teleologica trascendente quell‟esistenza stessa, una ragione essenziale che giudichi la validità di quella fattuale, un presupposto insomma razionale che trascenda “l‟inerzia dell‟ordine costituito”722 in cui si muove la vita istituzionale. Al posto delle mitologie idealistiche circa le creazioni umane in campo spirituale e sociale, Gehlen pone l‟impersonalità dei fenomeni umani oggettivi, attribuiti a una natura antropologica profonda che sottende ogni formazione superficiale e storica del mondo-della-vita e che riduce pertanto ad illusioni razionalistiche il protagonismo soggettivistico di personalità capaci di plasmare la vita collettiva, la quale risulta invece indissolubilmente ancorata ai suoi presupposti biologici, che si intravvedono in ogni costruzione normativamente stabilizzante le altrimenti scomposte pulsioni vitali dell‟uomo. La polemica di Gehlen con lo storicismo ha la stessa motivazione che ebbe in Nietzsche il ripudio di ogni ideale culturale giustificato sulla concordanza razionale tra valore e ispirazione umana, ossia nel 721

A. Gehlen, L‟uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. cit., pag. 99. L‟espressione è di L. Strauss, Relativismo, tr. it. in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell‟Occidente, Torino, 1998, pag. 331. 722

368


tentativo di definire l‟esperienza dell‟uomo attraverso la sua padronanza pratico-tecnica (relativa a un sapere “oggettivo”), e non più teoretica, del mondo, con conseguente svalutazione dei valori assoluti come espressioni epocali attempate e relative a forme di sapere non più razionalmente giustificabili alla luce disincantata della coscienza contemporanea, e quindi ritenute mitiche. Ciò che fu Hegel per Nietzsche, fu Dilthey per Gehelen. La lotta dei contemporanei si pone sul versante ulteriore a quello di una restaurazione, tentata dai filosofi storicisti, della dimensione platonicamente erotica della filosofia come sapere degli assoluti, e a favore di un pensiero emancipato dall‟idea della verità e concentrato sull‟aspetto della volontà pragmaticamente tesa ad affermare se stessa, per cui, in questa prospettiva, ciò che era nell‟altra la pura verità in sé diventa pura volontà di potenza fine a se stessa. Perciò non conta per questo pensiero la questione delle essenze delle cose umane quanto la forza della loro mondana affermazione che, scartato il prototipo demiurgico e con esso ogni misterioso deus absconditus, si costituisce nelle forme istituzionali come la traccia oggettiva e umanissima della sua esistenza, che va dunque interpretata per tale, nella sua nuda evidenza fenomenica, scevra di ogni fuorviante abbellimento ideologico. L‟antropo-logia di Gehlen è la summa umanistica dell‟età post-teologica, una sorta di antropo-fania che rivela all‟uomo desacralizzato e secolarizzato la sua condizione biologicamente viziata di incompiutezza istintuale, ovvero di “apertura” sul mondo. E questo programma di Gehlen realizza a suo modo la distinzione tra ciò che è umana Gewissen e ciò che è oggettiva Wissen che gli consente di affrancare la genesi delle forme istituzionali da un preordinato rapporto di principi tra esse e i loro contenuti morali, necessariamente riconducibili agli storici processi culturali, e quindi legati a uno Zeitgeist trascendente le concrete determinazioni dell‟originaria condizione minoritaria (Mangelwesen) con la quale, direttamente o indirettamente, quelle forme devono essere spiegate come emanazioni del loro fondamentale Boden. Ciò che origina da una mancanza non 369


può mai giungere a superare del tutto la sua incompiutezza, per cui le rappresentazioni ideali della perfezione umana, come quella avanzata da Aristotile, anche se trasferita in un qualche iperuraneo, come in Platone, non possono essere veridiche e credibili allo sguardo di una “scienza gaia”. E proprio l‟aforisma 62 della Gaia scienza, dove Nietzsche dichiara la natura instabile e incompiuta dell‟animale non determinato che è l‟uomo, alla ricerca di un sé naturalizzato, sia pure artificialmente, costituisce la premessa programmatica della teoria antropologica di Gehlen. Il necessario presupposto pragmatistico di questa teoria è conseguente allo stesso destino di conquista della natura da parte dell‟uomo non istintivamente integrato in essa. Ed è lo stesso presupposto volontaristico a confutare la pretesa idealistica di una conoscenza puramente teoretica del mondo, che ha sedotto l‟uomo religioso del passato in virtù della sua ideale perfezione rappresentativa, così come continua a sedurre ogni filosofia che, come quella di Husserl, propugni una mera visione eidetica del mondo. Se la conoscenza del mondo attraverso le generalizzanti categorie della scienza lasciava impregiudicata la esperienza originaria, prescientifica, del mondo-della-vita, tale esperienza non doveva consistere necessariamente in una “conoscenza”, intesa husserlianamente come attività di comprensione della pura coscienza. Una coscienza “pura” non poteva che avere ad oggetto un essere “assoluto”, astratto dalla finitezza, che è la condizione ontologica dell‟uomo, che si riflette nella sua esistenza mortale. Il contenuto essenziale della vita culturale, se lo si vuole ridurre a una formula generale, è la lotta contro la caducità. Ma questa lotta viene condotta come un‟offensiva, ossia come una battaglia per ampliare il dominio fisico e spirituale della realtà, e serve ad assicurare di volta in vota una vittoria contro lo scorrere del tempo.723

723

A. Gehlen, Le origini dell‟uomo e la tarda cultura, tr. it. cit., pag. 97.

370


Partire da questa condizione esistenziale dell‟uomo poteva significare insistervi per decifrarla in termini nuovi e razionalmente persuasivi, oppure superarla in termini non soggettivistici, coscienzialistici, ma di esperienza antropologica, di genere umano, che era appunto un modo di affrontare il tema della finitezza e mortalità soggettiva in una prospettiva che non poneva l‟alienazione umana dalla natura come un presupposto del pensiero, ma come un problema da cui partire per pensare “l‟uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo”. Questo percorso antropologico fu il programma teorico di Gehlen, così come l‟altro percorso, quello esistenzialistico, fu intrapreso da Heidegger.

371


372


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.