Zap Mangusta

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AVREMMO DOVUTO DIFFIDARE DI CARTESIO a copertina è di quelle che colpiscono: colori accesi, infradito in primo piano (e soprattutto in estate questo aiuta), carattere del titolo accattivante. «Qualcuno dice che la copertina sia la cosa più bella», specifica Zap Mangusta, l’autore del libro Le infradito di Buddha. «Ed è l’unica cosa che non ho scelto io: ho deciso il titolo del libro, il sottotitolo, il numero e i titoli dei capitoli e pure gli incipit. La copertina no però». Dopo aver indossato le “mutande di Kant” e i “calzini di Hegel”, altri due suoi libri, Zap Mangusta ci chiede di metterci comodi nelle infradito di Buddha, un esercizio che potrebbe risultare più difficile di quel che sembra per noi “figli della ragione e di Kant”, come ci definisce Mangusta. «Pretendiamo di dar retta solo al mondo che cade sotto la nostra esperienza e che il nostro Intelletto può affrontare, siamo spesso vittime di insicurezze e di paure oscure a cui la ragione non sempre riesce a rispondere. E facciamo la fortuna di fattucchiere, “consulenti” dell’anima e farmacisti vari. Lo stesso Kant, in proposito, stava scrivendo un libro che non portò mai a termine. Chissà, forse anche lui avrebbe detto che può aiutarci a cercare di cogliere il significato più alto dell’esistenza e non limitarci a “intuire” che c’è, ma che purtroppo non è accessibile dal nostro Intelletto. Forse non è l’Intelletto che può comprenderle, ma qualcos’altro». L’autore, in questa “guida orientale per disorientati”, come recita il sottotitolo, prende per mano il lettore e lo accompagna sull’Himalaya, alla scoperta di una spiritualità e di una cultura agli antipodi della nostra. Lo fa con semplicità, ironia e con estrema sincerità. È un libro rivolto a chiunque, senza distinzioni, purché sia capace di dare fiducia alla propria mente. Zap Mangusta, a chi potrebbe piacere questo libro?

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Un’introduzione ironica ma completa alla spiritualità indiana. Le infradito di Buddha racconta di un viaggio sull’Himalaya e di come, a volte, è necessario mettere da parte le certezze e aprire la propria mente a “qualcosa d’altro” di Cristiana Zappoli

«Agli appassionati di viaggi, religioni, filosofia e fantascienza. Agli entomologi, agli esploratori, ai giovani, agli anziani e alle casalinghe. A tutti coloro che non hanno paura di ciò che non conoscono e pensano che al mondo ci sia sempre qualcosa da imparare». Secondo lei, quante delle persone che cominceranno il libro non arriveranno alla fine e perché? «Premesso che ritengo che un libro non sia uno yogurt e che dunque non abbia data di scadenza (io ad esempio i libri li compro e poi li leggo quando “mi chiamano”), mi auguro che chi lo acquista arrivi poi sino alla fine. Anche perché il significato del mio libro lo si comprende solo se si legge l’ultimo capitolo. Ma il senso dell’ultimo capitolo lo si comprende solo se si è letto il penultimo. E via dicendo. Così se non hai intenzione di arrivare alla fine, il mio libro non lo si dovrebbe nemmeno comprare. Oppure si può regalare». Sembra che l’Occidente subisca sempre più il fascino dell’Oriente, da diversi punti di vista. Un esempio su tutto, lo yoga: è una moda oppure cominciamo a pensare un po’ di più alla nostra anima, a farci delle domande e cercare delle risposte?


«Non so perché una persona scelga di fare yoga o meditazione, penso che sia per tanti motivi, ed è probabile che alcuni di questi siano sbagliati o legati alle mode. Quello che so è che senz’altro preferisco una persona così a una che sceglie di passare il suo tempo nelle agenzie di scommesse, davanti al computer o a “giocare” in borsa. Gran parte dei nostri pensieri e delle nostre azioni sono motivate dal denaro e dalla voglia di incontrare qualcuno. Tuttavia io credo che prima di incontrare gli altri, dovremo cercare di “incontrare” noi stessi per capire chi siamo. E successivamente donarci a loro. In quanto al denaro, ovvio che sia importante ma quando alle tre di mattina ti svegli di soprassalto in preda agli incubi, beh, il denaro non può far molto». Qual è la cosa più importante che il modello orientale può insegnarci? «Sono tante. Dovremmo imparare ad accettare la provvisorietà della vita, a vivere il presente, a capire che non esiste il bene assoluto o il male assoluto, perché ogni cosa contiene dentro di sé il suo esatto contrario. Dovremmo infine comprendere le leggi del karma: “you get what you give...”, “si riceve quello che si dà”. Noi italiani siamo generosi ma siamo anche astuti e confidiamo un po’ troppo nel perdono. Il karma invece è impersonale e non accetta sconti: se nella vita ti comporti bene, allora ti ritorna gioia e amore, altrimenti preparati a soffrire. Non è un concetto per tutti. Noi vogliamo sempre un “aiutino”. E quando ci comportiamo come iene, gazze ladre o animali predatori, diciamo che la colpa è della natura o della situazione». E c’è qualcosa che l’Occidente può insegnare all’Oriente o siamo un caso disperato? «Non siamo un caso disperato… siamo una grande cultura e dobbiamo essere fieri della nostra civiltà. Abbiamo fatto passi da gigante nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, purtroppo però recentemente abbiamo perso i contatti con la nostra profondità. Nessuna delle tre infatti può dare risposte precise in merito a una conoscenza vera

e autentica. Questo è il disagio e il disorientamento in cui è caduta la filosofia occidentale del Novecento. E in cui successivamente siamo caduti noi. Faccio un esempio: se una persona si iscrive a una palestra viene guardata con ammirazione, perché si prende cura di sé dunque tiene al proprio benessere. Ma se prega, va spesso dall’analista o in biblioteca, allora viene considerata un po’ “bizzarra”. Perché noi occidentali abbiamo scisso il corpo dalla mente. E abbiamo dato la precedenza al primo. Questo è un errore. Entrambi vanno di pari passo. La colpa è di Cartesio che li separò all’origine, ma non va dimenticato che il pensatore del “cogito” è stato uno che ha combattuto “la guerra dei 30 anni” prima da una parte e poi dall’altra. Di lui, dunque, avremmo dovuto fidarci di meno». Riesce a riassumere con tre parole il cuore della spiritualità indiana? «Solo tre parole? Del tipo: sole, pizza e amore? Mi verrebbe da dire: brahman, dharma e karma. Ma per saperne di più bisogna leggere il libro». Il linguaggio semplice e l’approccio ironico del testo sono funzionali allo scopo del libro, oppure sono caratteristiche del suo stile? «Come credo ormai si sia intuito, l’approccio ironico fa parte del mio stile di vita. E in quanto al linguaggio, ambisco a farmi comprendere da chi mi legge. Strano no? Non sono come uno di quegli autori ostici ma “celebrati" che utilizzano i termini come un’arma per minacciare il lettore e segnalargli che sono intelligenti e che “potrebbero distruggerlo in ogni momento”. A me, invece, il lettore è simpatico. Questo non vuol dire che ami la scrittura sciatta e decerebrata dei tanti miti letterari che spopolano qui da noi. Tutt’altro. Ma anche editor e “ghost writers” devono campare…». Arrivato alla fine del suo libro il lettore avrà più risposte o si farà più domande? «Spero che arrivato alla fine del mio libro il lettore mi consideri un amico. Che si è liberato di tanti orpelli e si è infilato un paio di infradito. Poco impegnative. Ma che aiutano a rilassarsi e ad andare in giro insieme, per vedere le cose con maggiore ponderazione. E, perché no, maggiore profondità».

ZAP MANGUSTA Al secolo Diego Roberto Pesaola, è attore e regista teatrale, autore di programmi televisivi di successo (Barracuda e Scherzi a parte per esempio), primo inviato de Le Iene, Oscar della radiofonia con Radio Zanzibar, ha scritto Le mutande di Kant, I calzini di Hegel, Il flipper di Popper e Platone e la legge del pallone. Da tutte queste attività trae origine il suo ultimo progetto filosofico, in onda per tre stagioni su Radio2, Così parlò Zap Mangusta, che superando il milione di ascoltatori è stata una delle trasmissioni più seguite e scaricate d’Italia.

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