Geo Portogallo agosto 2015

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A G O S T O 2015 . numero 116 .

€ 4,90

G

le rovine dell’ex paradiso dell’auto

PORTOGALLO Panorama Viaggio per immagini dall’Algarve al Douro Alentejo Un gioiello sconosciuto Lisbona La capitale della nostalgia

Poste Italiane Sped. in A.P. D.L. 353/03 art. 1 - comma 1 - Verona CMP

Mensile - Germania € 11,50 - Canada CAD 14,00 - Usa $ 14,00 - Canton Ticino CHF 10,40 - Austria, Belgio, Francia, Portogallo, Spagna € 8,00

UNO SGUARDO DIVERSO SUL M O N D O

Detroit: segnali di rinascita tra

Neuroscienze

Un italiano sta cercando la sede della coscienza

Castoro

Il roditore anarchico ritorna in Europa

Architettura I progetti che non si realizzeranno mai

Megafauna

In Australia, quando i canguri erano giganti



editoriale

Cari lettori, sarà nostalgica, ma certo Lisbona è una delle città europee più affascinanti, e non solo per i secoli di storia che ha sulle spalle. Secoli che, va detto, porta benissimo. Ma anche, anzi soprattutto, per l’effervescenza che la anima in questi ultimi anni. Anni non certo di vacche grasse dal punto di vista economico (del resto dov’è quel posto in Europa dove i soldi non mancano?), ma di vero boom per quanto riguarda le idee e i progetti per rendere VITTORIO EMANUELE la città sempre ORLANDO direttore di GEO veorlando@gujm.it più vivibile e a misura d’uomo. Bella, in una parola. Direi che la capitale lusitana ha preso il testimone da Berlino (e dalla Milano “Expo” di questi mesi) come faro culturale del vecchio continente. È sicuramente un luogo da non perdere, se ancora non ci siete stati, posso garantirlo personalmente. Cosa che invece non posso fare per l’Alentejo, una regione fuori dalle rotte turistiche più battute ma che, a giudicare dal servizio di Jörg Spaniol e dalle foto di Jens Schwarz, merita una visita al più presto. Magari, anche se è un consiglio fin troppo scontato, in compagnia del bellissimo romanzo di José Saramago Una terra chiamata Alentejo.

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SOMMARIO AGOSTO 2015

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DOSSIER PORTOGALLO

Solare, ma nostalgico... Un Paese di navigatori, fatto di coste solitarie, villaggi nascosti e una metropoli che emana l’antico splendore del passato.

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A nord della costa dell’Algarve, delimitato da spiagge che sembrano non finire mai, c’è l’Alentejo, una regione che non conosce il turismo di massa, in cui la natura vede rispettati tutti i suoi diritti e l’uomo ritrova la pace.

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Vecchi tram, vicoli ripidissimi e facciate sgretolate. Lisbona, la capitale del Portogallo, continua a incantare i viaggiatori con il suo potente charme intriso di nostalgia. Gli abitanti, invece, guardano avanti e provano a (ri)dare una nuova vita ai quartieri dimenticati.

Un geniale anarchico

I castori, con le loro costruzioni, trasformano il paesaggio come solo l’intervento dell’uomo sa fare, ma senza autorizzazioni ufficiali. Un’équipe di GEO ha spiato questo timido animale sulla riva, sott’acqua e nella sua tana...

66 si forma 92 Come la coscienza?

Giulio Tononi, un insigne neuroscienziato italiano stimato in tutto il mondo accademico, ama provocare i suoi colleghi: «Dimenticate le vecchie teorie su come nasce la nostra coscienza», dice. E sta cercando di provare che non si forma solamente all’interno del cervello umano.

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CI TROVI ANCHE SU:

Geovision. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Notizie dalla scienza e dalla ricerca. Agenda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 Mostre, festival e appuntamenti. In copertina PAESI Portogallo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 Solare patria della nostalgia. Alentejo: la costa della libertà. . 44 Una regione non ancora contaminata dal turismo di massa. Lisbona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 La nuova vita della “bella sul Tago”. REPORTAGE IN UN’IMMAGINE Infografica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 Tutti i fronti del jihadismo.

80 Sogni, sfide e detriti

Nel giro di pochi decenni, Detroit ha perso più della metà dei suoi abitanti. Al loro posto solo terreni incolti e rovine. Chi resterà in questa metropoli dissestata? Un viaggio tra i sopravvissuti di una città in declino.

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NATURA Il roditore anarchico. . . . . . . . . . . . . . 66 I castori son tornati con le loro costruzioni di alta ingegneria. VITA MODERNA Sogni, ostinazione e macerie. . . . 80 Viaggio tra chi sopravvive nel declino di Detroit. SCIENZA Dal cervello alla coscienza. . . . . . . 92 Neuro-viaggio nei misteri dell’io. AVVENTURA A dorso di cammello. . . . . . . . . . . . 104 In Australia i ricercatori riportano alla luce creature primitive dalla storia misteriosa. ARCHITETTURA I grattacieli del futuro. . . . . . . . . . 120 Fantasie avveniristiche destinate a non diventare mai realtà.

Preistoria nell’outback

In Australia, in una zona desertica accessibile solo ai dromedari, un gruppo di ricercatori ha riportato alla luce gigantesche creature misteriose e primitive per rispondere a una domanda: chi o cosa ha fatto scomparire questi colossi?

120 inPuntare alto

Cosa fanno gli architetti nel tempo libero? Sviluppano progetti di costruzioni futuristiche: ecco una selezione delle proposte più audaci e innovative.

VOLETE METTERVI IN CONTATTO CON NOI? ECCO COME FARE. Posta: GEO, via Battistotti Sassi 11/A, 20133 Milano E-mail: redazione@geo-italia.it Facebook: cercate la pagina Geomagazine In copertina: spiaggia di Alvor in Algarve fotografata da Luca Da Ros

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GEOvision IMMAGINI, STORIE E NOTIZIE DAL MONDO

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Anup Shah/www.shahrogersphotography.com

Al riparo sull’isola

Fino a un milione di fenicotteri nidificano sul Lago Natron, in Tanzania. In questa bolgia non deve essere affatto facile tenere la situazione sotto controllo: quale piccolo è uscito da quale uovo? Sull’isola in mezzo al lago, le cui acque possono raggiungere i 60 °C di temperatura, i piccoli e i loro genitori sono protetti dalla maggior parte dei predatori.

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Ami Vitale

Bacio!

Anche i rinoceronti apprezzano le dimostrazioni d’affetto. Questo nella fotografia è uno dei tre giovani esemplari che il ranger Kamara ha in custodia nella Riserva Naturale di Lewa, nel cuore del Kenya. Come padre surrogato di questi animali, vigila su di loro anche per 12 ore al giorno, con il sole e con la pioggia. E qualche volta corre anche dei rischi: per esempio, recentemente ha dovuto disperdere alcuni leoni affamati. Oggi, però, il giovane rinoceronte ha solo bisogno di un ombrello colorato, e magari di un bacetto.


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Ami Vitale

Un nido per orsetti È l’ora del riposino per i 14 piccoli panda custoditi nel centro di ricerca di Bifengxia, presso Ya‘an, in Cina. I panda giganti che ancora vivono liberi in natura sono circa 1.600. Per assicurare la sopravvivenza alla specie, i ricercatori preparano alla vita libera un numero sempre maggiore di esemplari nati in cattività. Prima di spedirli nella natura selvaggia, però, è previsto che i cuccioli vengano coccolati per un po’.


Il Carnevale delle zecche Beautiful beasts, belle bestie, è il titolo che il neurologo e fotografo polacco Igor Siwanowicz ha dato alla sua collezione di ritratti. E in effetti, messe nella giusta luce come in questa foto, anche creature orripilanti come la zecca del cane e (dietro) la zecca americana, hanno una loro bellezza pittorica. Per vedere altre immagini di Siwanowicz: www.hhmi.org/bulletin/ spring-2013/beautiful-beasts

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Igor Robert Siwanowicz/Janelia Farm Research Campus/Howard Hughes Medical/courtesy of Nikon Small World

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Uno sguardo all’interno di questi alberi giganteschi. Il baobab, chiamato anche albero del pane, è tra le piante più curiose che si possano vedere in Africa. Un tempo il loro misterioso aspetto veniva spiegato con un capriccio celeste: Dio, irritato perché l’insaziabile albero consumava troppa acqua rispetto alle altre piante, per punizione lo aveva estirpato e poi ripiantato nel terreno al contrario, con le radici rivolte verso l’alto. Ora però si sa che il particolare tipo di sviluppo del baobab, con un fusto enorme e una corona in proporzione minuscola, permette alla pianta di accumulare acqua in grande quantità.

Ma anche un altro enigma è stato finalmente risolto: la questione del perché all’interno dei baobab più grossi spesso si trovino grandi spazi vuoti. Non è opera di funghi, e nemmeno di roditori, come si è pensato a lungo. In genere le cavità si formano perché diversi fusti di baobab crescono insieme in una disposizione ad anello. È quanto ha scoperto un gruppo di ricerca dell’Università Babes-Bolyai di Cluj-Napoca, in Romania, condotto da Adrian Patrut. In collaborazione con ricercatori sudafricani e statunitensi, il gruppo di Patrut ha perforato

Cresciuti al contrario? I baobab danno quasi l’idea di avere le radici rivolte verso il cielo. alcuni baobab per poterne determinare l‘età con il metodo del radiocarbonio. Si sarebbe aspettato che gli strati di legno più giovani si ritrovassero all’esterno, direttamente sotto la corteccia, e quelli più vecchi all’interno. Ma un esemplare particolarmente grande del Mozambico, con una circonferenza di 21 metri, ha dato un risultato sorprendente: anche quando le perforazioni raggiungevano lo spazio cavo all’interno dell’albero, l’ultimo strato prima del vuoto era costi-

tuito dal legno più giovane. Ecco la spiegazione: dalla radice dell’albero si erano sviluppati verso l’alto cinque tronchi distinti, che con l’andare del tempo si sono riuniti formando una spettacolare cavità arborea. Questo processo ha richiesto vari secoli: il tronco più antico ha la bellezza di 1.400 anni. E tuttavia si può dire giovane in confronto a un esemplare della Namibia, che è databile a 1.750 anni fa e raggiunge una circonferenza di 35 metri.

Veleggiare senza vele Ecologica ed economica: un norvegese appassionato di fai-da-te sviluppa una nave da carico futuristica. muove spinta dal vento, eppure non ha bisogno di vele, dato che il suo scafo offre al vento una superficie di attacco sufficiente. E così come si può dirigere un veliero contro vento disponendo le vele con una certa anLADE AS

“Chi può veleggiare senza vento e remare senza remi?”, chiede un canto popolare scandinavo. Naturalmente nessuno, ma non è detto... L’ingegnere norvegese Terje Lade ha sviluppato una nave da carico, che si

Spinta dal vento, ma priva di vele.

golazione, la Vindskip di Lade avanza quando il flusso d’aria colpisce di sbieco la sua parte prodiera. «Infatti, sul lato opposto a quello investito dal vento, si instaura una depressione che ha l’effetto di risucchiare la nave in avanti», dice Lade. Il prototipo è già stato sottoposto a numerosi test in galleria del vento. In caso di bonaccia, la nave è anche dotata di un propulsore alimentato a gas liquido. La combinazione di uso del vento e combustione non inquinante di gas naturale dovrebbe essere potenzialmente conveniente anche per le compagnie di navigazione: si stima che in confronto alle navi da carico convenzionali il consumo di combustibile possa diminuire all’incirca del 60 per cento, e l’emissione di gas di scarico dell’80 per cento.

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Stefan Huwiler/Mauritius Images

Il mistero dei baobab cavi


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Brevi verdi

LA BIODIVERSITÀ PROTEGGE IL CLIMA

Il cammello da combattimento del Danubio

The Art Archive/alamy

A Tulln, in Austria, gli archeologi hanno fatto una sorprendente scoperta: lo scheletro di un animale usato in battaglia risalente all’epoca della guerra contro i Turchi.

Il secondo assedio di Vienna, nel 1683, in un dipinto dell’epoca. Quando le truppe dell’Impero ottomano giunsero a ridosso delle mura di Vienna, nel XVII secolo, si portarono dietro dalla madrepatria moltissimi oggetti esotici. Fino a non molti anni fa gli scavi fatti nelle vicinanze della capitale austriaca avevano portato alla luce armi, indumenti e oggetti di uso quotidiano dell’esercito turco. Ma nel 2006, i ricercatori dell’Istituto di Medicina Veterinaria dell’Università di Vienna hanno fatto un’altra scoperta insolita nella vicina cittadina di Tulln, identificando lo scheletro di un cammello da guerra. «In un primo momento ho pensato che si trattasse di ossa di un cavallo o di un manzo», racconta l’archeozoologo Alfred Galik. «Ma appena ho gettato uno sguardo più attento, non ho avuto dubbi. Le lunghe ossa, il collo, il cranio: poteva trattarsi solo di un cammello». I ricercatori hanno datato il reperto a un’epoca compresa tra il 1643 e il 1715: il cammello potrebbe essere morto poco prima o poco dopo l’asse-

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dio di Vienna del 1683 da parte dei Turchi. Le analisi genetiche hanno portato a chiarimenti sulla storia familiare dell’animale, che in realtà non era un vero cammello, bensì un tulu, cioè l’incrocio tra un cammello della Battriana maschio e una femmina di dromedario. Gli Ottomani portavano al seguito un gran numero di questi animali, che servivano come bestie da soma e, in caso di necessità, anche come riserva di carne. Il tulu di Tulln, tuttavia, doveva essere piuttosto un animale da cavalcare in battaglia. I ricercatori lo hanno dedotto dal fatto che sullo scheletro dell’animale non sono riscon-

Alfred Galik/Vetmeduni Vienna

trabili le tipiche lesioni ossee di un animale da soma. Rimane una domanda irrisolta: come sia arrivato l’animale all’interno delle sicure mura della città di Tulln.

Che una grande biodiversità vegetale offra più habitat per gli animali rispetto alle monocolture, è cosa risaputa. Ma la molteplicità delle specie di piante serve anche al clima, come ha evidenziato uno studio a lungo termine del Max-Planck-Institut per la Biogeochimica di Jena, in Germania. Nei suoli su cui crescono diversi tipi di vegetazione si riscontra infatti una maggiore varietà anche di microrganismi, che sono particolarmente attivi nel convertire il carbonio delle piante in sostanza organica. In questo modo il carbonio rimane legato più a lungo al suolo, senza poter ritornare nell’atmosfera sotto forma di gas-serra, e contribuire così al riscaldamento globale.

ELETTRICITÀ DALL’IMBUTO Le turbine eoliche producono energia elettrica pulita, ma non sono sempre ben accolte: chi ci vive vicino è disturbato dal rumore, mentre gli ambientalisti lamentano la morte di uccelli colpiti dalle pale. Una ditta americana ha sviluppato un’alternativa: le turbine eoliche a imbuto. Torri di pochi metri aperte in alto e chiuse a imbuto. Il vento scorre nell’apertura, e in corrispondenza del restringimento il flusso d’aria accelera (per il fenomeno fisico detto effetto Venturi) e mette in moto un generatore. Così per azionare il dispositivo basterà una leggera brezza.

La buona notizia!  |

35.000 Cammello da parte di padre e dromedario da parte di madre: il suo scheletro è ancora perfettamente conservato.

nuovi posti di parcheggio per biciclette sono in programma per la città di Amsterdam da qui al 2030. Già oggi, nella capitale olandese, più di metà degli 800 mila abitanti si sposta ogni giorno in bicicletta; e in futuro potrebbero diventare anche di più. Cosa piacevole, ma non del tutto priva di problemi: sempre più spesso le biciclette devono essere spostate perché intralciano i marciapiedi o i percorsi dei vigili del fuoco. Per creare nuovi spazi dove installare le rastrelliere, si progetta di costruire un garage per biciclette sotto il fondo dei canali, collegato a un’uscita della metropolitana. Si sta pensando anche a due isole di parcheggio galleggianti.



Ben Hallam/Getty Images

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I chimici sono riusciti a far diventare nuovamente liquido l’albume solidificato dalla cottura. Ma a che pro?

Magia in laboratorio: come far tornare liquido un uovo sodo? Gregory Weiss, professore di Biochimica presso l’Università della California a Irvine, ha trovato un modo per invertire la cottura delle uova. A sentirlo suona strano, ma potrebbe essere di aiuto nella cura del cancro. GEO: Professor Weiss, ma se è possibile far tornare crude mori. Gli anticorpi possono impedire che ciò accada, ma la loro le uova cotte, riesce anche a invertire il processo di cottura produzione artificiale è complicata, perché le catene proteiche spesso si intrecciano tra di loro. di una torta? Weiss: o magari a de-tostare un toast? No, non possiamo inver- Come si è svolto l’esperimento? tire processi chimici così complessi. E d’altronde i nostri tentativi Abbiamo comprato uova di gallina al supermercato e separato non sono finalizzati a questo. Il nostro problema è un altro: nei tuorlo da albume. Il lisozima, una proteina che abbiamo studiaprocessi chimici a volte le proteine si ingarbugliano creandoci to, si trova infatti anche nell’albume dell’uovo di gallina. Questo dei problemi. Il modo per sbrogliarle esiste, ma è molto dispen- albume è stato cotto per 20 minuti, fino a diventare sodo, e poi è dioso in termini di tempo. Ho voluto quindi trovare una soluzio- stato liquefatto di nuovo in una soluzione di urea. In questo mone più semplice, sperimentando il procedimento sulle uova di do le catene proteiche sono state sbrogliate, ma la disposizione gallina: durante la loro cottura, infatti, le catene proteiche che delle proteine era ancora caotica. Per questo le proteine sono state successivamente messe in un dispositivo che, attraverso un costituiscono l’albume si intrecciano le une con le altre. processo di centrifugazione, le ha nuovamente distese, facendoE perché è importante sbrogliare proteine? Soprattutto nella ricerca sul cancro, le proteine svolgono un ruo- le ritornare a quello che era il loro ordine originario. Questo ci dilo fondamentale. Le cellule tumorali, comportandosi da “cellule ce che potrebbe essere possibile distendere proteine ai fini della pirata”, entrano in altre cellule e danno l’ordine di formare tu- produzione di anticorpi.

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XXVII Edizione

7-16 AGOSTO 2015

Caparezza Scopri il programma completo su Festambiente.it

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AGOSTO ore 22,30

PARCO NAT UR ALE DELLA MAREMMA Cent ro per lo Sviluppo Sos tenibile di Legambiente

Località Enaoli RISPESCIA (GR)

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Città di Grosseto

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OR E1 7, 30

Ristoranti tipici e bio Concerti e spettacoli La Città dei Bambini Area Energie Rinnovabili Clorofilla Film Festival Dibattiti Area Espositiva Ecomercato La Casa Ecologica Mostre Spazio Benessere


GEOvision Dalla carenza di polline alla morìa delle api blickwinkel/alamy

Gli apicoltori europei lamentano un drammatico declino nel numero delle loro colonie. Molti danno la colpa a un acaro proveniente dall’Asia, ma esiste anche un altro motivo...

Sparisce il polline e anche le api selvatiche.

Circa il 30 per cento delle popolazioni di api da allevamento non ce l’ha fatta a superare l’ultimo inverno. Anche se di questo è in parte colpevole l’acaro Varroa, giunto in Europa dall’Asia ormai da 40 anni, il declino delle api è da ricondurre a una causa ancora precedente, come hanno evidenziato le analisi dei residui di polline sulle zampe delle api conservate nei musei olandesi. Tutti gli esemplari erano stati catturati prima del 1950, ossia prima che l’agricoltura olandese diventasse intensiva, si passasse al sistema delle monocolture e molte piante selvatiche venissero estirpate completamente. Nella metà di tutti i casi l’andamento delle popolazioni di api va

di pari passo con la scomparsa delle loro piante preferite. Sulle zampe di una specie di bombo (Bombus soroeensis), per esempio, i ricercatori hanno trovato quasi esclusivamente polline di campanula e di vedovella. E mentre accadeva che tra il 1949 e il 1999 rispettivamente il 41 e il 17 per cento di queste piante scomparissero dai prati olandesi, nello stesso periodo c’è stato un calo delle popolazioni di Bombus soroeensis, quantificabile intorno all’88 per cento. «Per aiutare le specie di api selvatiche in pericolo, quindi, occorre cercare di favorire la crescita delle loro piante preferite», spiega Jeroen Scheper dell’Università olandese di Wageningen.

Perché Ötzi era pieno di tatuaggi? I segni sulla pelle della mummia preistorica a quanto pare avevano uno scopo curativo.

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che Ötzi soffriva di problemi articolari, i ricercatori presumono che i tatuaggi potessero avere un significato medico. Tuttavia, gli scienziati hanno scoperto tatuaggi anche in una zona diversa dalle articolazioni, e precisamente nella parte destra del torace. Che Ötzi abbia sofferto anche di dolori in quella parte del corpo?

La posizione dei tatuaggi a strisce e croci.

Marco Samadelli/EURAC/Südtiroler Archäologiemuseum

loranti per il tatuaggio, si sono fortemente sbiadite. Ma ora alcuni ricercatori italiani sono riusciti a catalogare completamente i suoi tatuaggi: si tratta complessivamente di 61 incisioni in 19 raggruppamenti. Per mezzo di un irraggiamento della mummia con onde luminose di lunghezza diversa – dall’infrarosso all’ultravioletto – è stato possibile rendere i tatuaggi nuovamente visibili. A quanto pare non si tratta di immagini o di simboli pittorici. I motivi sono perlopiù croci o righe orizzontali ordinate in blocchi. Dato che questi disegni si concentrano soprattutto in corrispondenza delle articolazioni delle mani, dei piedi e delle ginocchia, e considerato

Südtiroler Archäologiemuseum/www.iceman.it

Ancore, draghi, cuoricini, giuramenti di amore… Innumerevoli sono i soggetti che un numero sempre crescente di persone decide di farsi tatuare sulla pelle. Ma questa tendenza non è certo una prerogativa dei nostri giorni: già l’uomo dei ghiacci, Ötzi, aveva tatuaggi sulla pelle, pur vivendo nell’era preistorica. Finora non era ben chiaro quale fosse il numero dei tatuaggi che ornavano il suo corpo: molti erano difficili da individuare perché la pelle mummificata di Ötzi, nei circa 5 mila anni trascorsi dal decesso dell’uomo, ha assunto una colorazione intensa, e al tempo stesso le tracce delle particelle carboniose che erano state introdotte sottopelle come co-


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GEOvision Giù le mani dal telefonino

PERCHÉ L’ARIA HA UN ALTRO ODORE DOPO LA PIOGGIA?

Escogitato un metodo per incentivare gli studenti a seguire le lezioni senza distrarsi con il cellulare.

C

Courtesy of Youngsoo Joung/MIT

onosci la parola petricor? Probabilmente no, anche se certamente hai già sperimentato – o per meglio dire odorato – il fenomeno che da questa espressione è descritto. Petricor, o petricore, è il nome scientifico di quel particolare odore che aleggia nell’aria dopo un forte acquazzone. La parola deriva da due vocaboli mutuati dal greco antico: pétrā, che significa roc’ ossia linfa (intesa come sancia, e ichōr, gue degli dei dell’Olimpo). Sono stati due australiani a coniare questa particolare espressione, nel 1964, per un articolo destinato alla rivista scientifica Nature.

Ma perché allora subito dopo un acquazzone l’aria assume un odore diverso? Inoltre, è l’aria quella che si

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Con le gocce, si diffondono anche i sentori. anche in questo caso il fenomeno odoroso che si manifesta deriva da una sostanza disciolta in un gas. Sono innanzitutto gli aerosol dispersi nelle goccioline dello champagne, infatti, a conferire alla bevanda quella sua particolare nota olfattiva, inconfondibile per molti.

Floresco Productions/Getty Images

annusa, o è piuttosto la pioggia ad avere un odore proprio? Verrebbe da escludere quest’ultima ipotesi, perché notoriamente l’acqua ha un odore neutro. Ma forse, potrebbe trascinare con sé, quando cade dalle nubi sulla Terra, qualche misteriosa sostanza odorosa. Alcuni studenti del Massachusetts Institute of Technology sono riusciti a chiarire la faccenda attraverso riprese video, ovvero filmando con una videocamera ad alta velocità la goccia d’acqua proprio nel preciso istante in cui colpiva il suolo. In questo modo i ricercatori hanno osservato che l’impatto della goccia possiede un’energia sufficiente per far sì che particolari essenze oleose di origine vegetale, trattenute dal suolo, vengano liberate nell’aria circostante sotto forma di aerosol, diffondendo così un sentore inconfondibile. Il petricor, quindi, si può paragonare, per esempio, al particolare bouquet di profumi che emana una coppa di champagne:

Un’applicazione per smartphone per premiare chi non tocca lo smartphone? Negli Stati Uniti è già sul mercato: l’app assegna agli studenti una ricompensa monetaria se durante le lezioni fanno i bravi, lasciando il telefonino in tasca senza sbirciarlo. Come funziona? L’applicazione Pocket Points aggiunge un punto sul conto virtuale del “non-utente” ogni 20 minuti che il cellulare non viene toccato. Il programma registra esattamente se il proprietario del dispositivo si trova a scuola e se viene avviato nel momento in cui iniziano le lezioni. Per ogni otto ore trascorse senza tenere in mano il telefonino si guadagna all’incirca l’equivalente del prezzo di un caffè.

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GEOvision shutterstock

Come su una foglia di loto... Gli scienziati statunitensi stanno sviluppando un metallo estremamente idrorepellente. Una goccia d’acqua che cade su questo metallo rimbalza come su un trampolino. Ma a che cosa potrebbe servire un metallo idrorepellente come questo? Chunlei Guo, professore di Ottica a Rochester (Usa), spiega lo scopo della sua scoperta con una padella: sul teflon, che costituisce le superfici antiaderenti, l’acqua inizia a formare goccioline isolate a partire da 70 gradi. Sul metallo superidrorepellente, invece, lo fa già a partire da 5 gradi. Inoltre, l’effetto estremo di repulsione dell’acqua non dipende da uno strato di rivestimento, e quindi non può venir meno con l’usura della superficie. Su un materiale di questo tipo non si può formare ghiaccio, e questa proprietà lo rende particolarmente utile per le superfici portanti degli aerei o per le celle solari. Il principio deriva dalla foglia di loto. Guo

Gruner+Jahr/Mondadori SpA Via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano

Direttore responsabile Vittorio Emanuele Orlando Ufficio grafico Francesca Abbate Redazione Paola Panigas Segreteria Daniela Pompili Hanno collaborato a questo numero Lars Abromeit, Ralf Berhorst, Jessica Grose, Sebastian Kretz, Ofelia de Pablo, Fernando Mazzoldi, Uwe Schmitt, Michael Stührenberg, Kim Tingley, Andreas Weber Traduttori Costantino Andruzzi, Riccardo Cravero, Fiammetta di Pierro, Elisabetta Lampe, Alberto Orlando, Maria Emanuela Pozzi, Massimo Scaglione Business manager Barbara Ferro Subscription manager Alessandro Scampini Coordinamento tecnico Valter Martin

Amministratore delegato, chief operating officer e publisher Roberto De Melgazzi Direttore del personale e affari legali Lucio Ricci Direttore controllo di gestione Paolo Cescatti

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Grazie alla particolare struttura della loro superficie, le foglie di loto si imperlano di umidità.

ne ha trasferito la struttura superficiale della foglia al metallo. Con impulsi laser della durata di un miliardesimo di secondo, la superficie metallica viene dotata di una struttura di scala nanometrica che ricorda la lamiera ondulata. Funziona con il platino, con il titanio o con

GEO: Pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Milano, n. 808 del 24/10/2005. Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Il materiale ricevuto e non richiesto (testi e fotografie), anche se non pubblicato, non sarà restituito. Direzione, redazione, amministrazione: Via Battistotti Sassi 11/A, 20133 Milano. Telefono 02/762101. Fax amministrazione: 02/77331114. Fax redazione: 02/783153. E-mail: redazione@geomondo.it. Servizio Abbonamenti: 12 numeri € 32 + spese di spedizione. Non inviare denaro. Per informazioni o per comunicare il cambio di indirizzo telefonare esclusivamente ai numeri: dall’Italia 199 111 999 costo da telefono fisso € 0,12+ Iva al minuto senza scatto alla risposta, costo da cellulare in funzione dell’operatore; dall’estero +39 041.5099049; fax 030.7772387. Il servizio abbonamenti è in funzione da lunedì a venerdì dalle 9.00 alle 19.00. Oppure scrivere a Press-di Srl Servizio Abbonamenti – Via Mondadori, 1 – 20090 Segrate (MI); E-mail: abbonamenti@mondadori.it. Internet: www.abbonamenti.it/gruner Garanzia di riservatezza per gli abbonati: L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi dell’art. 7 D. leg. 196/2003 scrivendo a: Press-Di srl Ufficio Privacy – Via Mondadori, 1 – 20090 Segrate (MI). E-mail: privacy.pressdi@pressdi.it. Servizio collezionisti: Arretrati: I numeri arretrati possono essere richiesti direttamente alla propria edicola, al doppio del prezzo di copertina per la copia semplice e al prezzo di copertina

l’ottone: i metalli acquistano proprietà autopulenti, dato che le perle d’acqua si portano via anche lo sporco. Inoltre non si ossida, e i batteri non hanno la possibilità di proliferare. Questa scoperta, quindi, risulta interessante anche per essere impiegata nelle toilette.

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Periodico associato alla FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) - Codice ISSN: 1826-8307 Accertamento Diffusione Stampa Certificato n° 7017 del 21/12/2010

International Brands and Licenses G+J International Magazines GmbH International Brands and Licenses DEPUTY: Daniel Gesse Am Baumwall 11, 20459 Hamburg / Germany Phone: +49 40 3703 6331, Fax: +49 40 3703 5867 Websites: www.guj.de and www.guj-international-brands.com

MANAGING EDITOR / PICTURE EDITOR: Maike Köhler MANAGING EDITOR (TEXT): Tilman Botzenhardt ART DIRECTION: Sandra Kaiser /Katja Wegener EDITORIAL COORDINATOR: Dörte Nohrden Copyright © 2015 by G+J International Magazines GmbH, Hamburg This magazine is published under license from G+J International Magazines GmbH. All rights to the licensed material are owned by G+J International Magazines GmbH. Reproduction whether in whole or in part without permission of G+J International Magazines GmbH is prohibited. The name of GEO and the logo thereof are registered trademarks of or in trust of G+J International Magazines GmbH.



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12 stelle su sfondo blu: è la bandiera dell’Unione Europea. Come mai 12? Perché è il numero della perfezione. Non ha nulla a che fare con il numero degli Stati appartenenti all’Unione.

METTI ALLA PROVA LE TUE CONOSCENZE SU…

L’UNIONE EUROPEA

Nella realizzazione di questa pagina di quesiti abbiamo cercato alcune domande interessanti che toccano i più disparati campi della cultura, avvalendoci della collaborazione di esperti del settore. Buon divertimento!

1 Agli organi della Ue appartengono…

la Carta Blu un cittadino extra-europeo, in pos2 Con sesso di alta qualificazione professionale, riceve...

A| B| C| D|

A | Un permesso illimitato di soggiorno e lavoro nell’Unione Europea, assegnato tramite estrazione a sorte B | Un permesso di lavoro nel proprio settore professionale della durata minima di un anno C | Un bonus di 1.826 euro

La Corte di Giustizia Europea La Banca Centrale Europea L’Ufficio Brevetti Europeo Epo Il Consiglio d’Europa

24 GEO 08/2015


25 GEO 08/2015 Per le risposte girare la rivista

SOLUZIONI

L’acronimo Olaf designa l’Ufficio Europeo per…

1 A, B| Il Consiglio d’Europa, fondato nel 1949 con sede a Strasburgo, comprende attualmente 47 Stati e si occupa tra l’altro di problemi sociali, economici e relativi ai diritti umani. Non è comunque un organismo dell’Unione Europea, e non deve essere confuso con il Consiglio Europeo (si veda la domanda 8). Organi dell’Ue sono invece la Corte di Giustizia Europea e la Banca Centrale Europea, ossia l’istituto che emette tutta la valuta dell’Eurozona e ha il compito di garantire il potere di acquisto dell’euro e la stabilità dei prezzi nello spazio europeo. La Bce, con sede a Francoforte, pompa oltre 1,1 miliardi di euro nel sistema finanziario per contrastare la deflazione e stimolare l’economia. 2 B | Non si tratta di un premio, e neppure di un permesso di soggiorno senza limiti assegnato tramite lotteria. Secondo la direttiva del 25 maggio 2009 la Carta Blu dovrebbe facilitare l’ingresso e il soggiorno di forza lavoro altamente qualificata di Paesi terzi a patto che vengano soddisfatte alcune condizioni, la più importante delle quali è un’offerta vincolante di posto di lavoro. Ha validità da uno a quattro anni. 3 A | Con le lingue nordiche e la genealogia, Olaf non ha niente a che fare. L’acronimo è francese e sta a significare Office européen de lutte antifraude (Ufficio europeo per la lotta antifrode). L’ufficio europeo di Bruxelles è pertanto responsabile della lotta contro la corruzione e la frode, nel caso in cui vengano danneggiati gli interessi finanziari dell’Ue. L’Olaf interviene per esempio a contrasto dell’evasione fiscale e dell’uso improprio delle sovvenzioni Ue. Nel 2012, l’Olaf ha recuperato grazie alle sue indagini 94,5 milioni di euro a beneficio del bilancio dell’Unione. 4 A, C | Il regolamento sulla curvatura delle banane è una bufala, ma solo pochi anni fa esisteva effettivamente un regolamento sulla curvatura dei cetrioli… 5 C | L’inno europeo è preso dall’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven, una messa in musica dell’Inno alla Gioia del poeta tedesco Friedrich Schiller. Con questa poesia Schiller dava espressione alla sua visione di fratellanza universale tra tutti gli uomini. L’Unione Europea, tuttavia, ha scelto di non adottare il testo in tedesco della versione corale per non privilegiare una lingua europea rispetto a tutte le altre. 6 B | Il costo complessivo relativo al 2013 delle prestazioni di interpretariato per i lavori della Commissione Europea è stato di circa 127 milioni di euro, che ripartiti su una popolazione europea di circa 506 milioni di persone implicano una spesa pro capite di soli 25 centesimi di euro. Calcolando i costi di traduzione e interpretariato di tutti gli organi dell’Unione Europea, compreso quindi il Parlamento Europeo, si arriva a un costo pro capite pari a quello di una tazzina di caffè. E le prestazioni a fronte di questa spesa sono imponenti: le istituzioni dell’Ue trafficano con 24 lingue ufficiali che necessitano di un lavoro costante di traduzione, simultanea o su documenti cartacei. Un esercito di giocolieri della parola segue innumerevoli sessioni volgendo discorsi dal lettone al rumeno, o dall’ungherese al portoghese, e traduce ogni giorno migliaia di documenti. 7 B | L’isola atlantica di Madeira fa parte del Portogallo, e pertanto dell’Unione Europea. La piccola Isola di Man, nel Mare d’Irlanda, non appartiene ufficialmente al Regno Unito (e quindi non fa parte dell’Ue), anche se è alle dirette dipendenze della Corona Britannica. Capo dello Stato è pertanto la regina Elisabetta II, a cui spetta il titolo di Lord of Mann. L’isola caraibica di Guadalupa, al contrario, in quanto Dipartimento d’oltremare francese è a tutti gli effetti parte dell’Unione Europea. 8 C | Horizon 2020 è il programma autosufficiente di ricerca e innovazione più grande al mondo. Membri e promotori, oltre agli Stati dell’Unione Europea, sono Stati come l’Islanda o il Montenegro, o anche partner di Paesi terzi come per esempio l’Afghanistan, Gibuti o le Figi. Ci sono progetti multidisciplinari in cui la cooperazione tra scienza ed economia dovrebbe essere migliorata. Imprese costituite da istituti universitari o scientifici hanno la possibilità di richiedere finanziamenti. La fase esecutiva del programma va dal 2014 al 2020. 9 B | Il Consiglio Europeo riunisce tra l’altro i capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Unione Europea. Durante gli incontri trimestrali (i cosiddetti vertici dell’Ue) stabilisce traguardi politici e priorità dell’Unione Europea. La Commissione Europea a sua volta costituisce l’Esecutivo dell’Ue, per il quale ogni Paese membro dell’Ue ha un suo Dörte Nohrden rappresentante.

A | Sono membri della Commissione Europea B | Sono membri del Consiglio Europeo C | Non fanno parte di alcun comitato dell’Ue di Stato e di 9 Capi governo europei… A | Il progetto dell’Agenzia Spaziale Europea Esa B | Lo sviluppo di parchi eolici offshore e di centri per lo sfruttamento dell’energia marina sulle coste europee C | Progetti internazionali di scienza e innovazione cosa promuove l’Ue nel programma 8 Che Horizon 2020 con circa 70 miliardi di euro? A | Madeira B | Isola di Man C | Guadalupa di queste isole 7 Quale non appartiene alla Ue? A | Quanto un libro tascabile B | Meno di un panino C | La bellezza di 763,24 euro cittadino dell’Unione… Nel 2013, gli interpreti impiegati dalla 6 Commissione Europea sono costati a ogni A | Abbracciatevi o milioni di uomini! B | O cittadini, che l’Europa risplenda! C | Non c’è nessun testo

5 Che cosa dice il testo dell’inno europeo? A | Che un casco di banane importato nell’Ue debba contenere come minimo quattro banane B | Ogni banana che viene venduta all’interno dell’Unione Europea deve avere una curvatura di almeno 20 gradi C | Ogni banana che viene venduta all’interno dell’Unione Europea deve avere una lunghezza di almeno 14 centimetri e un diametro di almeno 27 millimetri cosa prescrive il regolamento 4 Che sulle banane dell’Ue? A | La lotta contro le frodi B | Le ricerche genealogiche C | La tutela dei dialetti nordici minoritari

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GEOagenda

Alla scoperta dei giardini più belli La Tenuta Regaleali di Palermo è entrata a far parte del circuito dei Grandi Giardini Italiani (www.grandigiardini.it): un modo per salvaguardare i beni paesaggistici e culturali mettendoli a disposizione del pubblico. Qui due casali dell’Ottocento, che ospitano anche una scuola di cucina, sono circondati da giardini ornamentali, vigne, orti, piante autoctone (rosa canina, ginestra bianca), rare specie aromatiche (origano dei monti Iblei, basilico delle Madonie) e piante commestibili (giuggiolo, sorbo, corbezzolo, azzeruolo, gelso, fico, nespolo, bergamotto). Visita su prenotazione.

Musica, parole e luoghi magici Abbabula: festival di musica e parole d’autore, alla 17° edizione, quest’anno va in scena dall’altare preistorico di Monte d’Accoddi a Sassari. Dal 30 luglio al 1° agosto qui si alterneranno nomi della musica italiana, indie e cantautorale, interpreti della musica internazionale, artisti teatrali e maestri dell’elettronica che si fonderanno in un cartellone denso di eventi. Info www.lera gazzeterribili.com

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Tutte le facce del Mediterraneo Fino al 26 luglio Ragusa Foto Festival propone un percorso fatto di immagini in esposizione tra i palazzi del centro storico di Ragusa Ibla, una delle più belle città barocche d’Italia. Il tema di questa quarta edizione del festival è il mar Mediterraneo, inteso come una frontiera che circonda tante patrie e rappresenta un processo culturale in continuo movimento da millenni. L’immagine è di Francesco Zizola. Per info www. ragusafotofestival.it



GEOagenda Musica in quota Jam session estiva in Engadina. A Muottas Muragl (2.453 metri), il 23 luglio, nell’ambito del Festival da Jazz St. Moritz, si terrà un concerto open air gratuito dei britannici Incognito, uno dei più famosi gruppi di acid jazz al mondo. Per info www.engadin.stmoritz.ch/it

Mare nostrum Salvataggi. Quando il mare chiede aiuto di Lucio Biancatelli è un libro che racconta, attraverso le parole dei protagonisti, spesso volontari, i salvataggi avvenuti in mare aperto e sulle coste italiane di cetacei, tartarughe marine, squali e mante, tutte specie protette del Mediterraneo. Orme Editori.

100 anni d’arte in più di 100 musei 1 app, 11 mostre, 18 eventi collaterali e 108 musei coinvolti: questi i numeri di , Toscana 900, un progetto che prosegue fino al 31 dicembre, per raccontare la storia di una regione e di un secolo. Per info www. toscana900.com All’interno degli eventi collaterali, da segnalare il museo del Magma di Follonica che fino al 5 settembre ospita un’incursione nell’arte contemporanea con un intervento di videoarte di Studio Azzurro dedicato al tema delle migrazioni. Un’esperienza che ci avvicina, senza l’uso delle parole della cronaca, in modo quasi “fisico” al mondo dei migranti. Nell’immagine la videoinstallazione interattiva Dove va tutta ‘sta gente? di Studio Azzurro.

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96.391.933

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TOTAle PASSIVITà cOrrenTI

TOTAle ATTIVO

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Debiti per imposte sul reddito Altre passività correnti Debiti commerciali Debiti verso banche e altre passività finanziarie

elencO Delle TeSTATe SerVITe

500.602 303.400

Crediti tributari Altre attività correnti Rimanenze Crediti commerciali Altre attività finanziarie correnti Cassa e altre disponibilità liquide equivalenti

544.400 1.565.053

Fondi Indennità di fine rapporto Passività finanziarie non correnti Passività per imposte differite Altre passività non correnti 2.109.453

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TOTAle PATrImOnIO neTTO

TOTAle PASSIVITà nOn cOrrenTI

1.534.226 -1.277.882

2.400.000

(Valori in Euro)

Capitale sociale Riserva sovrapprezzo azioni Altre riserve e risultati portati a nuovo Utile (perdita) dell’esercizio

PASSIVO

Attività destinate alla dismissione

3.101.456

TOTAle ATTIVITà nOn cOrrenTI

200.000 614.091

50.000 50.000

Partecipazioni contabilizzate al costo Altre partecipazioni Totale partecipazioni

Attività finanziarie non correnti Attività per imposte anticipate Altre attività non correnti

63.061 63.061

2.174.304

(Valori in Euro)

Attività immateriali Investimenti immobiliari Terreni e fabbricati Impianti e macchinari Altre immobilizzazioni materiali Immobili, impianti e macchinari

Stato patrimoniale al 31 dicembre 2014 ATTIVO

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rISulTATO neTTO

Imposte sul reddito

rISulTATO PrImA Delle ImPOSTe

Proventi (oneri) finanziari Proventi (oneri) da altre partecipazioni

rISulTATO OPerATIVO

-1.277.882

29.800

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-532.160

-775.522

-22.662 -7.597

-745.263

-184.791.927 -8.224.422 6.444.572

185.826.514

(Valori in Euro)

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Ammortamenti e perdite di valore di immobili, impianti e macchinari Ammortamenti e perdite di valore delle attività immateriali

mArgIne OPerATIVO lOrDO

ricavi delle vendite e delle prestazioni Variazione delle rimanenze Costi per materie prime, sussidiarie, di consumo e merci Costi per servizi Costo del personale Oneri (proventi) diversi

conto economico esercizio 2014

Sede: Milano - Via Bianca di Savoia, 12 - Capitale Sociale Euro 2.400.000 Iscritta al Tribunale di Milano n.06703540960 - Codice Fiscale 06703540960 Società per azioni - soci Mondadori Pubblicità SpA e Publitalia 80 SpA

meDIAmOnD S.p.A.


IN UN’IMMAGINE

FRONTE AL-NUSRA (2012) Questo braccio armato di Al-Qaeda si prefigge la caduta di Bashar al-Assad e la nascita di uno Stato islamico in Siria, intenzione, questa, che lo distingue dai ribelli dell’Esercito Siriano Libero.

ANSAR BEIT AL-MAQDIS (2011)

ANSAR-AL-SHARIA (Tunisia)

Gruppo terroristico che opera nel Sinai, da dove attacca l’esercito egiziano e compie attacchi missilistici contro Israele. Nel novembre 2014 questi estremisti hanno aderito ufficialmente allo Stato Islamico.

DAESH (2006) Sinonimo di Stato Islamico, sorto da una scissione di Al-Qaeda. Nel 2014 l’organizzazione ha proclamato un califfato nella zona controllata in Iraq e Siria, causando l’afflusso di islamisti da ogni parte del mondo.

Il movimento fu fondato nel 2011, dopo la caduta del dittatore Ben Ali, e lotta per introdurre la sharia in Tunisia; molti seguaci di questo gruppo armato partecipano a conflitti all’estero.

AQIM (2007) Al-Qaeda nel Maghreb islamico è nato dalla guerra civile algerina degli anni Novanta. La milizia terroristica esegue attacchi contro obiettivi occidentali soprattutto nella zona del Sahel.

IRAN SIRIA

TUNISIA MAROCCO

IRAQ EGITTO ALGERIA

LIBIA ARABIA SAUDITA

ANSAR AL-SHARIA (2011) La roccaforte di questa milizia, sorta durante la guerra civile in Libia, è la città di Bengasi, dove è stata coinvolta nell’attacco al consolato statunitense in cui è stato ucciso l’ambasciatore.

MAURITANIA MALI

NIGER

CIAD

SUDAN

YEMEN

ANSAR DINE (2012) La milizia, guidata da uno dei capi principali della rivolta tuareg del 1990-1995, fu tra i protagonisti della guerra civile in Mali. In seguito all’intervento francese il gruppo ritornò in Libia.

NIGERIA CAMERUN SOMALIA KENYA

AL-MURABITUN (1990) Sequestri e traffico di droga sono le attività principali di questo gruppo attivo in Niger, Mali e Algeria del sud. Nel 2013 rivendicò la responsabilità dell’attacco contro un giacimento di gas del gruppo petrolifero Bp.

Z one di azione dei gruppi islamisti armati

BOKO HARAM (2002) La milizia islamica radicale imperversa in Nigeria Nordoccidentale e in Camerun dove cerca di destabilizzare il governo con atti di violenza estremamente crudeli.

Stati in cui la sharia è l’unica forma di governo

I FRONTI DEL JIHADISMO Testo Clément Imbert / Illustrazione Hugues Piolet

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AL-SCHABAAB (2006) Il gruppo è la fazione più radicale di quell’Unione delle Corti Islamiche che nel 2006 assunse il controllo di Mogadiscio, la capitale somala. Scacciata dalla città, la milizia è attiva come gruppo terroristico in Somalia, Uganda e Kenya.


EMIRATO DEL CAUCASO (2007) Durante la guerra cecena molti gruppi di separatisti e terroristi si unirono per combattere insieme e fondare uno Stato islamico indipendente dalla Russia.

IBU (1998) Questo movimento islamico uzbeko legato ad Al-Qaeda vorrebbe formare un califfato tra Cina e Mar Caspio. Conduce una guerriglia sul territorio nazionale, ma opera anche in Afghanistan e Pakistan.

RUSSIA

GLI EREDI DI BIN LADEN

UZBEKISTAN

AFGHANISTAN

PARTITO ISLAMICO DEL TURKESTAN ORIENTALE (1997)

PAKISTAN INDIA

LASHKAR-E TAIBA (1981) Ovvero “l’esercito dei puri”, era l’ala militare di un gruppo di fondamentalisti che combatteva in Afghanistan contro i sovietici. Oggi il suo obiettivo è l’annessione della regione indiana del Kashmir al Pakistan.

Il gruppo terroristico combatte per uno Stato teocratico indipendente sul territorio della regione dello Xinjiang nella Cina Occidentale.

FILIPPINE

THAILANDIA

AL-QAEDA (1988) La rete terroristica di Osama bin Laden avrebbe voluto portare a compimento la jihad in patria dopo il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan. Oggi il gruppo organizza dal Pakistan attacchi terroristici contro l’Occidente.

MALESIA

INDONESIA

JEMAAH ISLAMIYAH (1993) AL-QAEDA NELLA PENISOLA ARABICA (2009) Gruppo terroristico nato dalla fusione delle cellule yemenite e saudite di Al-Qaeda, compie attacchi terroristici soprattutto in Yemen.

C

osa vogliono i terroristi islamici? Il jihadismo (da jihad, “guerra santa”) è nato negli anni Ottanta in Afghanistan durante la guerra dei mujaheddin (“combattenti della fede”) contro l’Urss. Le radici di questa corrente, sostenuta da una minoranza di musulmani, affondano nel salafismo (da salaf al-salihīn, “pii antenati”), una dottrina di derivazione arabo-saudita che prescrive un ritorno all’islam di Maometto. La maggior parte dei salafiti, però, appartiene a correnti non violente, solo una parte sostiene la lotta armata contro gli infedeli (takfir) o i

Questa milizia terroristica vuole fondare con la lotta armata una teocrazia in tutto il sud-est asiatico. La sua reale influenza, però, è confinata all’Indonesia.

ABU BAKR AL-BAGHDADI DAESH Culto della personalità e mistero circondano il teologo iracheno che, dopo l’occupazione dell’Iraq da parte degli Usa, ha attirato sotto il suo comando circa 10 mila combattenti salafiti ribelli e si è autonominato califfo nel 2014. ABUBAKAR SHEKAU BOKO HARAM Nigeriano, ha assunto il comando dell’organizzazione terroristica nel 2009 dopo la morte del fondatore Mohammed Yusuf, rispetto al quale è sicuramente meno eloquente e autorevole, ma molto più spietato. AIMAN AL-SAWAHIRI AL-QAEDA In Egitto, sua terra natale, il chirurgo comanda un’organizzazione paramilitare, unitasi poi ad Al-Qaeda. Era considerato il dottore nonché il principale collaboratore di Osama bin Laden, dopo la cui morte ha assunto il comando dell’organizzazione terroristica.

“traditori” dell’islam. Il successo dei jihadisti in Afghanistan nel 1988 segna la nascita di Al-Qaeda, fondata dal saudita Osama bin Laden, che globalizza la jihad portandola fino in Nordafrica, nei Balcani, nel Caucaso e in Asia Centrale. L’ascesa di Al-Qaeda culmina con gli attacchi terroristici di New York (2001) e Londra (2005). Nel 2011, la morte di Bin Laden e la guerra civile siriana hanno aperto la strada a una nuova organizzazione: Daesh (acronimo arabo per Stato Islamico) il cui obiettivo è la conquista di un territorio; in aumento i gruppi terroristici che seguono la sua bandiera nera. 31 GEO 08/2015

Fonti: Trac (Terrorism research and analysis consortium), Isw (Institute for the study of war)

CINA

TAGIKISTAN


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VIAGGI

PORTOGALLO

SOLARE PATRIA DELLA NOSTALGIA

Alla scoperta di un Paese di fieri navigatori, fatto di coste solitarie, villaggi nascosti e una metropoli che emana ancora lo splendore del passato. Viaggio attraverso una piccola nazione che vanta una grande storia, ma è piena di idee per il futuro.

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M. Swiet Productions/Getty Images

L AGOS

L A F R A S T A G L I AT A ESTREMITÀ D E L L’ E U R O PA Presso la Ponta de Piedade, il vento e l’acqua hanno scavato nella roccia ponti e caverne. La ripida costa dell’Algarve attorno a Lagos, punteggiata di piccole baie e spiagge nascoste, è una delle mete di viaggio più amate in Portogallo. Pochi chilometri più a ovest, il territorio europeo finisce a Cabo de São Vicente.

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38 GEO 08/2015


Oliver Tjaden/laif

SERRA DE SINTRA

UN GIARDINO TRA LE NUVOLE Le mura merlate del Castelo dos Mouros, una fortezza moresca dell’VIII secolo, poggiano su una parete rocciosa della Serra de Sintra. La zona collinare a nord-ovest di Lisbona è conosciuta per la vegetazione lussureggiante, per i parchi e per i giardini che circondano i castelli. Quando la nebbia si dissolve, la vista spazia sul paesaggio verde fino al vicino Atlantico.

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SERR A DE ARR ÁBIDA

G I TA I N C A M PAG N A Benvenuti nel Giardino dell’Eden portoghese, dove uliveti e frutteti ricoprono le dolci colline settentrionali della Serra de Arrábida. La catena di rilievi alti fino a 500 metri costituisce un parco naturale vicino alla città di Setúbal. Sul lato meridionale le montagne scendono a picco sul mare creando un meraviglioso scenario costiero dove l’aria profuma di macchia mediterranea.

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41 GEO 08/2015 Mauricio Abreu/JAI/Corbis


PORTO

LA SEZIONE AUREA Il Douro, o “fiume d’oro”, taglia in due la seconda città del Portogallo. Verso sera, sulle due sponde si vedono luccicare la città vecchia e la vicina Vila Nova de Gaia. Tra i simboli di Porto ci sono il ponte Dom Luis I, la Torre dos Clérigos (detta “dito indice”) e la Cattedrale alla sua destra; il grande edificio illuminato che la precede è il Palazzo Vescovile.

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43 GEO 08/2015 Jens Schwarz/laif


ALENTEJO:

LA COSTA DELLA LIBERTÀ

La bellezza del Portogallo non si limita alle famose baie dell’Algarve. Delimitato da spiagge pressoché infinite, l’Alentejo è una regione in cui la natura vede rispettati i suoi diritti e l’uomo ritrova la pace. Testo Jörg Spaniol / Foto Jens Schwarz

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Quando c’è bassa marea, cavalcare in spiaggia è ancora più piacevole, come sulla Praia do Malhão.

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Nell’entroterra dell’Alentejo si vedono brillare nella natura villaggi dalle case bianche come Santa Clara-a-Velha.

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I contadini della regione vendono il loro raccolto col nome di cabaz da horta, ovvero cesti dell’orto. Si chiama cosÏ anche l’associazione di produttori che li riunisce.


Oziare tra dolci colline, scogliere selvagge e la grandezza dell’oceano: l’Alentejo significa turismo non di massa

Le scogliere a picco di Cabo SardĂŁo, spesso battute da venti impetuosi, sono uno dei gioielli della costa atlantica. 48 GEO 08/2015


Un capitano con un cappello di paglia in testa e un polpo in mano. Bruno è uno dei temerari che raccolgono crostacei percebes tra le rocce piĂš esposte dell’Atlantico.


All’ombra di grosse sughere è più facile dimenticare il caldo estivo. Al di là della costa, vicino alla cittadina di Odemira, le colline marroni dell’entroterra bruciate dal sole raggiungono altezze notevoli.

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Quanto posto c’è in spiaggia? Le infinite coste dell’Alentejo non sono mai affollate nemmeno in estate. Qui le onde dell’Atlantico si infrangono sulla sabbia della pittoresca Praia da Amália nei pressi di Azenha do Mar.

L’Alentejo è anche un posto ricco di cultura. Quasi ogni villaggio ha, per esempio, un proprio coro. A São Teotónio i cantanti stanno provando nella cucina di un liutaio (sopra). Per il contadino e maestro di surf Filipe Queimada la musica è invece quella del mare e della spiaggia di Vila Nova de Milfontes. 52 GEO 08/2015


SE SI FA SCORRERE IL DITO sulla mappa della costa

occidentale del Portogallo a sud di Lisbona, sono pochi i nomi delle località evidenziati in grassetto. Vila Nova de Milfontes è

Porto Douro

Viseu

Coimbra

PORTOGALLO

o

g Ta

SPAGNA

j

o e

Sintra

t

Lisbona

n

Évora

l

e

Setúbal

A

Guadiana

Questi crostacei assomigliano a una zampa di lucertola dalla quale fuoriesce un mazzetto di minuscole cozze. Hanno lo spessore di un dito, sono lunghi un paio di centimetri e leggermente trasparenti nel punto in cui erano attaccati agli scogli. Aldemiro Hadeirinha, detto Miro da tutti, ne tira fuori uno dal retino gocciolante fissato alla sua muta di neoprene e lo spezza a metà. La dura pelle dell’animale si lacera e dall’interno schizzano fuori alcune gocce di acqua dell’Atlantico. Compare il frutto, liscio e di colore roseo, una prelibatezza che ricorda la polpa dei gamberetti e per la quale i pescatori rischiano la vita sugli scogli davanti a Azenha do Mar. Il loro è un tipo di pesca a dir poco adrenalinico. Azenha do Mar è il porticciolo di un piccolo villaggio arroccato sugli scogli e fatto di case piatte e bianche dai tetti rossi. Giù in basso si vede l’acqua verde scura e turchese dell’oceano che entra ed esce dalla baia protetta dove sono ancorate le barche da pesca. A Lisbona, distante 200 chilometri, per un chilo di percebes provenienti dalle coste dell’Alentejo si pagano dai 25 ai 50 euro al chilo. Un prezzo adeguato per animali che crescono nei punti in cui le onde dell’Atlantico si abbattono con forza sulla costa. Più un pescatore vi si avvicina, più probabilità ha di raccoglierne parecchi, ma più alto diventa il rischio di essere sbattuto dal mare contro le rocce. Anche stavolta Miro ha corso un grosso rischio. Si era recato con quattro compagni su uno scoglio che spuntava isolato dal mare. All’improvviso da terra si è vista una grande onda agguantare il pescatore e scagliarlo dentro a un mulinello spumeggiante; e il fischio di allarme dalla barca d’appoggio è arrivato troppo tardi. Ora Miro sta parlando agitato dei crostacei pescati, e dal suo racconto traspare il sollievo per essersela cavata ancora una volta. «È fantastico, no? Noi siamo gente semplice ma mangiamo le cose più ricercate». Miro non si definisce un pescatore, piuttosto un commerciante di sughero che qualche volta fa anche il meccanico. «Insomma faccio un po’ quello che capita, tutti qui vivono così!». Poi i cinque avventurieri del mare, tutti con la sigaretta in bocca, montano su una vecchia Volkswagen Golf e se ne vanno con l’auto che arranca sulla rampa di cemento del porto. Il loro bottino, del peso di alcuni chili, è atteso dallo chef di un ristorante dalle parti di Vila Nova de Milfontes.

A t l a n t i c o

I

PERCEBES O PEDUNCULATA sono creature singolari.

Bragança

O c e a n o

Una terra dove l’arte di vivere consiste nel sapersi rilassare e cercare la ricchezza nella vita invece che nel lavoro

Vila Nova de Milfontes Cabo Sardão Azenha do Mar

Praia do Malhão Odemira Corte Brique Monchique

A l g a r v e Parque Natural do Sudoeste Alentejano e Costa Vicentina

Lagos

Faro

75 km

L’Alentejo si stende a nord della costa dell’Algarve dall’Atlantico fino ai confini con la Spagna.

uno di questi. A nord e a sud della cittadina, relativamente grande, la cartina della costa dell’Alentejo è tratteggiata di verde. Le righe indicano un parco naturale che si protrae per più di 100 chilometri fin giù nell’Algarve e ha una larghezza media di 15 chilometri. Di questa zona non parla mai nessuno, a parte qualche sito internet di nicchia, ma chi la conosce ne è entusiasta sia per la poco frequentata costa dell’Alentejo, sia per il suo entroterra selvaggio e per la cordialità della gente che vi abita. Il sole ha riscaldato per tutto il giorno la terra sabbiosa intorno alla semplice casa di Filipe Queimada, ai margini di Milfontes. I suoi pomodori splendono appesi a una pianta rinsecchita. Davanti a due casette nel giardino, quelle dove alloggiano gli

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Marta Cabral promuove il turismo dolce. La Rota Vicentina, nuovo sentiero escursionistico lungo la costa, è in gran parte opera sua.

Shopping “personalizzato” alla Tasca Clemencia di Luzianes, una via di mezzo tra bottega e osteria di paese.

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ospiti, sono state messe ad asciugare tavole da surf e mute di neoprene. Filipe è un istruttore di surf. Dopo aver studiato agraria a Lisbona ha sentito il richiamo del mare ed è tornato nell’Alentejo. «Una grande azienda agricola con prodotti chimici in abbondanza non sarebbe il mio mondo», spiega l’uomo. «A Milfontes sono padrone di me stesso. La nostra verdura cresce su un terreno piuttosto piccolo, ma a me va bene così. Ho poche spese fisse, giusto l’elettricità e un po’ di benzina per la mia auto. Qui si riesce a vivere con poco». Filipe sente il profumo di un melone e lo ripone, probabilmente non è ancora maturo. Poi ci porta nel villaggio con la sua Renault rossa coperta di polvere. Stanchi e con una sigaretta tra le labbra, alcuni uomini stanno seduti davanti al ripostiglio degli attrezzi nel porto. Da fili stesi pendono polpi tagliati a metà, mentre un uomo sta girando lentamente i pezzi di carne che cuociono sulla griglia appoggiata a un vecchio bidone. La giornata è stata lunga e sta volgendo al termine. Ma quando si accendono le prime luci, Milfontes si ravviva. Filipe ci fa scendere nel centro della città. «Non siamo ricchi», ci dice, «ma nell’Alentejo a nessuno verrebbe in mente di risparmiare sul cibo e sulle bevande per comprarsi un’auto costosa». I TURISTI HANNO SCOPERTO questa località, che oggi è la più

amata della Costa alentejana, solo negli anni Settanta. Il motivo principale è l’acqua color turchese che il fiume Mira e l’Atlantico spingono all’interno di un ampio delta. Sotto la pressione dell’alta marea l’acqua risale il corso del fiume per diversi chilometri, poi viene risucchiata dalla bassa marea. I banchi di sabbia sono testimoni dei movimenti giornalieri dell’acqua; dividono il mare agitato dal placido fiume e creano piatte spiagge ai due lati della foce del Mira. L’Atlantico non supera mai i 20 °C di temperatura, ma qui si sta bene. Lo si capisce dalle tante impronte sulla sabbia che al tramonto indicano il viavai di gente in spiaggia nel corso della giornata. Milfontes conta 5 mila abitanti che in agosto diventano quattro volte tanti. In tarda estate, invece, solo i weekend ricordano la bolgia agostana. L’aspetto interessante di una villeggiatura nell’Alentejo è il persistere durante tutto l’anno di un’atmosfera tranquilla. Coppie e famiglie con bambini passeggiano tra le basse case bianche, e il marciapiede della strada principale, la Rua Custódia Brás Pacheco, può essere anche molto affollato. Le finestre dei ristoranti vengono tenute spalancate, consentendo ai passanti un’occhiata discreta nei piatti dei commensali. Si mangia pollo arrosto o pesce fresco alla griglia, poi ci si concede un caffè e un liquore in uno dei tanti bar sulla strada. Quasi ovunque si vedono tovaglie a quadretti e caraffe di vino sfuso. È un ambiente accogliente in cui ci piacerebbe indugiare ancora un po’, ma abbiamo un piano ambizioso per il giorno seguente: una camminata nel cuore dell’Alentejo. Solo 12 ore più tardi ci troviamo sulle assolate colline dell’entroterra, a circa 50 chilometri da Milfontes. È ora di concederci una pausa, e lo


La gente qui si lascia imporre ben poco e coltiva varie identità: pescatore, commerciante di sughero, meccanico e talvolta anche distillatore... facciamo in un piccolo villaggio che si chiama Corte Brique, una manciata di case con una trattoria dove contiamo di riposarci dopo quattro ore di marcia. Qui l’oste ci porta una grande pentola di latta e alza il coperchio. La densa zuppa profuma di carne, fagioli, patate e cipolle, rosmarino e maggiorana. Un piatto rustico e sostanzioso, completo di ossa e con un profumo che riempie l’intera stanza.

C

ONCLUDIAMO IL PASTO con un medronho,

un’acquavite limpida e forte di corbezzolo versata da una vecchia bottiglia di vino. Senza saperlo, abbiamo peccato due volte. L’acquavite è stata prodotta clandestinamente, il maiale, come confessa l’oste, è stato catturato nel bosco dove si aggirava libero. «Queste cose qui non le prendiamo troppo sul serio», spiega il nostro accompagnatore Rudolfo Müller quando ci rimettiamo in marcia. «Gli alentejani nutrono un certo disinteresse nei confronti dello Stato. Va ricordato che fino al 1974 qui c’era una dittatura di destra. Poi sono stati i socialisti a dire la loro per lunghi anni. A un certo punto la gente si è stufata delle leggi, e l’atteggiamento continua a essere questo». Più di 20 anni fa Rudolfo, di origine svizzera, si innamorò prima di una donna di qui, poi della sua terra. La storia con la donna si è conclusa, mentre l’Alentejo lo ama ancora, forse più di tanti alentejani. Rudolfo, detto Rudi, Müller ha conquistato questa terra a piedi, prima come guida per conto di tour operator per stranieri, poi per aiutare a disporre la segnaletica di un sentiero a lunga percorrenza, quello che stiamo seguendo per un tratto. È la Rota Vicentina che attraversa un paesaggio selvaggio. Entriamo nel bosco dal quale proveniva il maiale che abbiamo mangiato con la zuppa. Il terreno è arido e scricchiola sotto ai nostri piedi mentre camminiamo tra lecci e sugheri, calpestando profumati frutti di eucalipto. Solo pochi steccati sbarrano il cammino. Le pecore ammassate all’ombra degli ulivi sono controllate a vista dai cani sonnecchianti dei pastori. Poi le colline si fanno più scoscese, grandi felci nascondono le radici delle piante e si sente il ronzio delle libellule. Più avanti, rocce sporgenti restringono il sentiero che si riduce a una fila di pietre scivolose nel torrente e conduce a uno specchio d’acqua stretto e arcuato. Nella valle c’è anche un lago naturale lungo quasi 100 metri, una spettacolare piscina naturale nel bosco.

LE ROCCE AI DUE LATI del lago distano soltanto un paio di

metri tra loro. Mentre nuotiamo in questa fantastica e rinfrescante vasca fuori dal mondo, due tartarughe sono intente a riscaldarsi al sole. Poco distante, dove la valle scoscesa si apre, una coppia sta facendo il bagno. Sono i primi esseri umani che scorgiamo da ore. È merito della crisi economica se l’Alentejo ha potuto conservare quasi intatta la sua natura. Il Parque Natural do Sudoeste Alentejano e Costa Vicentina comprende quasi l’intera costa tra Sines e Cabo de São Vicente, l’estremità sud-occidentale del Portogallo. Pescatori, contadini e albergatori devono gestire l’economia locale secondo le regole del parco che pongono limiti all’ingordigia umana. Così questo tratto del confine occidentale dell’Europa ha potuto conservare il suo carattere originario. Abbiamo lasciato l’automobile da qualche parte a nord del porto di Azenha do Mar e stiamo proseguendo a piedi. Ci hanno detto che qui esistono ancora spiagge incredibilmente tranquille. La scogliera frastagliata che si erge sopra i frangenti del mare è bordata da un sentiero di sabbia vicino al quale Paula Canha scruta tra i cespugli che le arrivano al ginocchio. Insegnante di biologia al liceo di Odemira, il capoluogo distrettuale, ha una cinquantina d’anni e per carisma e aspetto sembra una versione outdoor della cantante folk Joan Baez. Paula conosce alla perfezione la natura dell’area costiera, la frequenta assiduamente e si adopera con passione per la tutela di piante e animali. La rana che sta cercando di afferrare sguscia via e sparisce in una pozzanghera. Ogni due metri c’è qualcosa che ci vuole spiegare, come l’odore aspro di un arbusto dalle foglie appiccicose e simili al cuoio che quando vengono bruciate tengono lontane le pulci dai polli. Ci indica fiori rosa dalle virtù terapeutiche e l’habitat di piccoli e innocui serpenti. Stavolta le mani della biologa sono più veloci del rettile marrone dai riflessi dorati. Mentre lo osserva teneramente, Paula racconta delle lontre che dopo la caccia in mare amano rinfrescarsi nell’acqua dolce, poi delle cicogne che nidificano sul vicino Cabo Sardão, le uniche al mondo, a suo dire, a farlo sugli scogli. «All’inizio nessuno sembrava voler spiegare alla gente qual è il senso di un parco naturale. Molti lo vivevano come un’imposizione delle autorità, un mucchio di divieti. Invece bisogna far capire alle persone che qui abbiamo un tesoro da proteggere». Da un avvallamento sabbioso scendiamo verso il mare, dove una spiaggia dorata si stende tra gli scogli. Nella baia incorniciata da rocce scure, la sabbia si sta asciugando. Una coppia di anziani è intenta a osservare i granchi nascosti nelle buche piene d’acqua scavate nella roccia, mentre due famiglie sotto l’ombrellone preparano un pic-nic. Scendiamo scalzi saltellando e lasciando che l’acqua fredda dell’Atlantico ci bagni le caviglie. Al largo, prima della secca più vicina, le onde sono abbastanza alte da regalare grandi emozioni ai surfisti. E qui ormai si avverte solo il rumore del mare, del vento e della pace dell’Alentejo.

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Lisbona è costruita su sette colli. Per salire al Largo da Calhariz, dal 1892 è in funzione l’Elevador da Bica, una delle tre funicolari della città.

LISBONA:

LA NUOVA VITA DELLA “BELLA SUL TAGO” Vecchi tram, vicoli ripidissimi, facciate sgretolate. La capitale del Portogallo incanta i viaggiatori con il suo charme intriso di nostalgia. Gli abitanti, invece, guardano avanti e portano nuova vita nei quartieri dimenticati. Testo Simon Barthélémy / Foto Jan Windszuz

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L’antico splendore dei tempi andati incontra una nuova voglia di rinascita. Persino il fado si è reinventato negli ultimi anni La cantante di fado Ana Marta prima di un’esibizione nel quartiere dell’Alfama. Molti giovani artisti onorano la tradizione e la ravvivano con influenze di altri stili musicali.

Una città benedetta: dall’alto dell’Almada, la statua di Cristo Re veglia su Lisbona.

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Le mattonelle che decorano molte facciate di edifici in Portogallo sono chiamate azulejos.

Per molti portoghesi sono le feste cattoliche a scandire il ritmo dell’anno. Nell’immagine una processione per la Vergine Maria: Nossa Senhora da Saude.

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Come New York ha i taxi gialli, la Baixa i suoi tram storici. I turisti amano quello della linea 28 che nella foto sferraglia in Rua da Conceição.

Il centro di Lisbona si sta spopolando. Molte case sono abbandonate, come questo insediamento operaio sulle rive meridionali del Tago.


S

ul lungofiume Ribera das Naus la gente passeggia godendosi la brezza marina che rinfresca la città dopo ore di caldo sole. Da qui, ai piedi delle sette colline di Lisbona, le caravelle portoghesi partirono 500 anni fa per conquistare il mondo. Fino a poco tempo fa passava di qua una strada trafficata che portava in periferia tra edifici abbandonati e parcheggi. Ora, invece, il lungofiume carico di storia è diventato più invitante e i cittadini di Lisbona passeggiano lungo i suoi argini e si godono bagni di sole tra alberi e prati. La città sul Tago sta finalmente riconquistando i litorali di cui i suoi 550 mila abitanti erano stati a lungo privati da strade, binari, industrie e insediamenti militari. Stavolta, però, il cambiamento sta avvenendo in modo diverso rispetto ai giganteschi progetti infrastrutturali realizzati per l’Expo del 1998 o gli europei di calcio del 2004. La crisi economica costringe la capitale a rigorosi risparmi, ma i suoi amministratori hanno il dovere di provare a mantenere lo splendore storico della città. A eccezione del Chiado, il quartiere ricostruito dopo il grande rogo del 1988, Lisbona si sta sgretolando e rischia il disfacimento. 12 mila edifici su un totale di 55 mila versano in gravi condizioni, altri 2 mila sono disabitati. Di fatto, sono troppe le persone che hanno abbandonato la città. In tre decenni Lisbona ha perso 350 mila abitanti; molti di loro erano giovani andati a cercare lavoro all’estero, oppure famiglie che hanno preferito trasferirsi nei sobborghi piuttosto che restare nei fatiscenti appartamenti cittadini. Mentre da una parte gli affitti venivano tenuti bassi per legge, dall’altro i proprietari non hanno più investito un soldo nella manutenzione dei loro immobili. Oggi nel cuore della città vivono soprattutto persone anziane; un abitante su quattro ha più di 65 anni. Quasi in ogni strada si incontrano case che assomigliano a residui di una civiltà ormai scomparsa: palazzi dalle facciate maestose, decorate con splendide mattonelle ma piene di crepe e finestre sigillate da mattoni tra cui spuntano erbacce. Testimoni di una passato glorioso, quasi tutti questi edifici sono di proprietà privata. Spesso appartengono a banche e assicurazioni, in attesa di una nuova crescita dei prezzi degli immobili per vendere. Altri palazzi vengono ereditati da famiglie che non hanno più il denaro necessario per ristrutturarli. Circa il 40 per cento degli immobili appartiene alla città o allo Stato, anch’essi a corto di liquidità. Persino sul Rossio, una delle piazze principali di Lisbona, si erge un sontuoso palazzo settecentesco, vuoto da vent’anni e con il tetto invaso da erbacce e arbusti. «Se avessimo i soldi necessari ci piacerebbe acquistare e rinnovare quella casa», dice Manuel Salgado, l’architetto responsabile

dell’urbanistica di Lisbona. Salgado non ha però la possibilità di accollarsi un mutuo per il capitale necessario, perché nuove leggi hanno chiuso i rubinetti finanziari alle amministrazioni cittadine. «Per ristrutturare completamente Lisbona occorrerebbero 8 miliardi di euro, ovvero dieci volte il budget annuale che la città ha a disposizione». I socialisti che dal 2007 governano la capitale continuano però a ripetere che l’eredità architettonica ha la massima priorità. Per bloccare il declino degli edifici, si sono messi a caccia di possibili acquirenti offrendo loro una particolare opportunità. «Possono ritardare il pagamento degli immobili se iniziano subito la ristrutturazione», spiega Manuel Salgado. In questo modo la città ha già venduto più di 50 palazzi, e c’è la speranza di concludere dozzine di altri accordi. «Con i soldi che otteniamo potremo realizzare altri progetti», aggiunge l’architetto. «Vogliamo costruire scuole, migliorare il traffico urbano e rivitalizzare le aree pubbliche». Un primo successo è testimoniato dalla rinascita dei chioschi Belle Époque, strutture addirittura importate, all’epoca, da Parigi. Nei primi anni del Novecento nelle piazze di Lisbona ce n’erano circa un centinaio, dieci anni fa ne erano rimasti appena una dozzina. «Vederli chiudere uno dopo l’altro mi rattristava», racconta l’ex giornalista Catarina Portas. Nel 2009 propose ai politici cittadini di riaprirli, e oggi ne gestisce cinque trasformati in snack bar. Aperti dalle otto della mattina a mezzanotte, sono diventati un’attrazione locale. Anche i turisti amano questi caratteristici baracchini dislocati generalmente sui mirodouros, i belvedere che offrono splendide vedute della città e del suo fiume.

Al comune spesso mancano i soldi per salvare le meraviglie di Lisbona. Le buone idee, invece, non mancano...

A DISPETTO DELLE MURA MALCONCE, la “bella sul Tago”

continua a richiamare sempre più visitatori. Nel 2013 i turisti sono stati dieci milioni, e per attirarne altri la città ha realizzato un terminal per le navi da crociera ai piedi del vecchio quartiere dell’Alfama. Entro il 2015 sono attesi a Lisbona circa 1,8 milioni di crocieristi, circa il triplo degli abitanti della città. Approdano a Lisbona sulle tracce dei navigatori che un tempo arrivavano con i loro velieri dall’Atlantico e risalivano il fiume fino all’odierna Praça do Comércio dove sbarcavano su scalinate di marmo. Ancor oggi la grande piazza è uno dei centri più importanti di Lisbona. Da qui i vecchi tram gialli si arrampicano nella città vecchia dell’Alfama o sul vicino Bairro Alto. Alle spalle dei porticati della Praça si stende invece la Baixa, la città bassa. Questo quartiere commerciale, ricostruito dopo il terremoto del 1755 con una struttura a scacchiera, ha patito molto negli ultimi decenni. Poco a poco gli abitanti se ne sono andati, hanno chiuso botteghe e uffici. «Un tempo la Baixa era un importante centro

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Approdi nel cuore della cittĂ . Un tempo i navigatori sbarcavano in cittĂ scendendo sulle gradinate di marmo del Cais das Solunas (sullo sfondo).

Capitale del passato? Ovunque Lisbona è un viaggio nel tempo.

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finanziario e molte banche avevano qui la loro sede principale», ricorda Rui Coelho di Invest Lisboa, un’agenzia cittadina per il sostegno dell’economia. «Ma ora si sono trasferite in edifici più moderni». Poiché le case della Baixa erano tutelate dalle Belle Arti, non è stato possibile adattare la loro architettura alle nuove esigenze, creando per esempio grandi uffici con open space. Ma con le imprese la Baixa ha perduto poco a poco anche la sua vita quotidiana, finché un giorno è sparito anche l’ultimo supermercato e l’ultima scuola del quartiere. Nel frattempo il governo ha rivisto i regolamenti per gli edifici sotto tutela, permettendo per esempio l’installazione di ascensori. Si sta anche cercando di convincere i protagonisti della scena culturale a insediarsi nella Baixa. Lo ha già fatto il Mude, il museo di moda e design che alcuni anni fa ha preso possesso degli spazi dell’ex Banca d’Oltremare del Portogallo. Passando dalle sue camere blindate, ora si possono ammirare opere di artisti contemporanei. Anche l’ex ministero delle Finanze ha trovato nuovi affittuari e ora è occupato da una discoteca.

porta i vecchi affittuari dando loro una misera buonuscita. Nel mio caso 3.600 euro». Così sui muri della Baixa capita di vedere manifesti che condannano l’invasione di turisti da tutta Europa. Alcuni abitanti temono che il loro quartiere cambi diventando un’area riservata al tempo libero solo con alberghi, ristoranti e negozi di souvenir. Altri distretti cittadini sperano invece di godere di iniezioni finanziarie da parte di investitori stranieri. È il caso della Mouraria, un labirinto di vicoli e ripide scalette che deve il suo nome ai Mori che vi abitavano nel Medioevo. Oggi la Mouraria è uno dei quartieri più antichi e cosmopoliti della città, dove vivono persone provenienti da 56 diversi Paesi. Molti sono originari delle ex colonie portoghesi in Africa, altri provengono dall’India e dal Pakistan; nelle loro bancarelle i sari sono appesi accanto alle magliette di Cristiano Ronaldo. Il quartiere, però, se la deve vedere anche con la povertà, la prostituzione e il commercio di droga. Con una sorta di atto simbolico, nel 2011 il sindaco trasferì qui per due anni la sede del suo ufficio, in Largo do Intendente. «Prima era impensabile che una famiglia con figli decidesse di trasferirsi qui», dice Pires Silva, un abitante seduto in un bistrò ai margini della piazza. Il locale è nato nel 2013 nell’ambito di un’iniziativa civica; ci sono anche 22 camere che vengono affittate ai turisti, oppure concesse gratis ad artisti che vogliano realizzare in loco i loro progetti. Un’altra iniziativa civica organizza visite guidate nella Mouraria accompagnandole con melodie di fado. Perché è proprio nei locali di questo quartiere malfamato che è nato il famoso genere musicale strettamente legato all’anima portoghese. È qui che la prima grande diva del fado, Maria Severa, trascorse la sua infanzia nell’Ottocento. Nel 2013 è stato aperto un nuovo teatro nella casa della sua famiglia. Poco distante, sulla bella collina di Santana, si sta realizzando un altro grande progetto: il restauro del monastero di Desterro, utilizzato a lungo come ospedale. Già tra breve ospiterà sedi di imprese start-up ma anche orti, studi di medicina naturale, scuole sperimentali e gallerie d’arte. Il vecchio ospedale diventerà così sede di un think tank creativo, un altro pezzo di futuro per la “bella sul Tago”.

Una pista da ballo nel ministero delle Finanze, una strada dipinta di rosa e un sindaco che si trasferisce nel quartiere degli immigrati

“POVERA MA ATTRAENTE”: è con questo slogan che Lisbona ora vorrebbe ricrearsi una nuova immagine. «Questa è l’unica capitale europea in cui si può fare surf in pausa pranzo», afferma Antonio Costa che è stato sindaco della città fino all’aprile del 2015 e che a ottobre spera di diventare il nuovo capo del governo portoghese. In effetti, è possibile godersi la vita nei caffè e nelle osterie del Bairro Alto anche con pochi soldi in tasca. E si spende poco anche nei tanti pub e locali allestiti in edifici storici abbandonati o nelle ex baracche del porto dove i lisbonesi fanno le ore piccole. Per esempio nel Cais do Sodré, l’ex distretto a luci rosse della Baixa, un tempo malfamato e ora molto di tendenza. La sua strada principale dalle case dipinte di rosa, la Rua Nova do Carvalho, è piena zeppa di bar molto particolari come il Musicbox, un club dove si suona musica dal vivo sotto le arcate di un ponte, o l’osteria Pensão Amor allestita in un ex bordello. Del resto un vecchio proverbio portoghese dice: “Lisbona si diverte, Coimbra canta, Braga prega e Porto lavora”. La Baixa sta approfittando del boom di turisti e nel quartiere sono nati una trentina di nuovi alberghi, ma dietro ai ponteggi si nascondono molte botteghe con le saracinesche ormai definitivamente abbassate. Tra non molto chiuderà anche la gioielleria di Horacio Zagalo. Questo commerciante di 75 anni ormai era l’ultimo affittuario rimasto nel palazzo. «Le nuove leggi non ci consentono di difenderci da chi mette in affitto questi edifici», si lamenta Zagalo. «Quando ristrutturano i palazzi, possono aumentare l’affitto di dieci volte e mettere alla

Il fotografo Jan Windszus è stato a Lisbona quattro volte, l’ultima si è fermato per più di due mesi nella capitale portoghese. Le foto di questo reportage sono tratte dal libro Lissabon. Windszus vive e lavora a Berlino, dove collabora con prestigiose riviste edite in tutto il mondo.

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DAL PASSATO AL PRESENTE Un giro a Lisbona è un appuntamento con la Storia. La vecchia metropoli di navigatori però ha saputo costruire anche ponti verso l’era moderna. Ne esploriamo entrambi i volti, facendo una puntatina fino all’oceano.

Lisbona del passato

Da secoli l’arte nella capitale portoghese viene calpestata. I piedi si posano su rose dei venti e onde, su navi e astri, talvolta anche su figure astratte. Circa 500 anni fa i lisbonesi iniziarono a lastricare le loro strade con elaborati ornamenti. Camminando lentamente e guardando in basso, a ogni passo si scoprono opere di abili artisti di strada del passato, particolarmente operosi nel XIX secolo. Le loro tracce portano su e giù dai sette colli di Lisbona, e prima o poi si approda su una cima che domina il quartiere Graça. UNO SGUARDO ALLA STORIA È qui che troneggia il MOSTEIRO DE SÃO VICENTE DE FORA . Ci sono due modi per raggiungere questo monastero. Il più faticoso è percorrere la scalinata a piedi, ma i turisti preferiscono decisamente la salita con l’ascensore di ferro ELEVADOR DE SANTA JUSTA . La chiesa sulla collina ricorda la resistenza di Lisbona, che proprio qui nel XII secolo riuscì a sconfiggere i Mori che l’avevano occupata. Insieme alla TORRE DE BELÉM il monastero rappresenta uno dei più importanti edifici storici sopravvissuti al grande terremoto del 1755. Passando accanto ai sarcofaghi dei re portoghesi, si raggiunge la terrazza sul tetto che offre una grandiosa vista sul Tago, sulla bianca cupola del monumento ai navigatori PANTEÃO NACIONAL e sulla FEIRA DA LADRA , considerata il più

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antico mercato delle pulci d’Europa. Un tempo era qui che venivano smerciati i beni rubati. Dal tetto si riconosce il carattere particolare della città che non ha un centro, né grattacieli spettacolari o grandi piazze. Ai piedi della chiesa si stende il groviglio di vicoli dell’ALFAMA , il cuore storico della città. LASCIARSI ANDARE L’Alfama è il quartiere che più di ogni altro corrisponde al cliché di Lisbona, con i suoi tram che cigolano nei vicoli, la vernice scrostata sui portoni di legno intagliato e le facciate decorate e un po’ sbilenche come barche in procinto di affondare. Durante il dominio dei Mori l’Alfama era il centro della città, ma a partire dal XVII secolo i portoghesi più ricchi si spostarono a ovest, in quartieri eleganti come la BAIXA o nella lontana e verde BELÉM tappezzata di verde, rododendri e palme. L’Alfama divenne il quartiere dei poveri, conobbe una forte decadenza e si trasformò in una zona di rovine che di sera era buio e pericoloso. La sua rinascita iniziò alla fine della dittatura di Salazar, nei primi anni Ottanta del Novecento. Molte case sono state risanate, le piazzette rimesse a nuovo. A chi attraversa l’Alfama con i tram della linea 28 viene voglia di scendere a ogni fermata, per ascoltare i cantanti di fado che si esibiscono di domenica o per

godersi una bottiglia di birra lisbonese Superbock in uno dei locali lungo il tragitto. Il fado risuona anche nella vicina MOURARIA , un altro quartiere di origine moresca dove convivono in ristrettezza immigrati dalle ex colonie portoghesi originari del Mozambico, di Macao, Goa o delle Isole di Capo Verde. Incastonata nel fianco di un’altura, la Mouraria ricorda i suq del Nordafrica, con un groviglio di stretti e rumorosi vicoli. Le case sono dipinte di marrone come se fossero d’argilla, le porte sembrano costruite con legno recuperato in mare, ovunque fioriscono clematis lilla e bougainvillee rosa. Minuscoli negozi offrono frutti colorati, piccole e succosissime arance, mele cotogne e nespole gialle.

Lisbona del presente

Arte e gusto non sono un’esclusiva dell’eredità culturale lisbonese; ancor oggi influenzano il carattere della città. Lo si avverte sin dalla prima colazione bevendo una bica, il tipico espresso portoghese che consiste in una spessa tazzina piena di caffè forte e speziato, tanto bollente da scottarsi quasi le dita. Poi la giornata per chi visita Lisbona è una lunga passeggiata tra musei contemporanei e shopping, con un po’ di pasticceria locale al pomeriggio, crostacei o stoccafisso alla sera e notti tiepide che invitano magicamente nei locali e club più trendy sulle rive del Tago. ARTE E DESIGN Inaugurato nel 2009, il Museo di design e arte nel quartiere centrale della Baixa espone una raccolta di mobili e oggetti di designer famosi come Charles Eames, Arne Jacobsen e Philippe Starck, insieme alla moda di Jean Paul Gaultier, Christian Dior e Vivienne Westwood. Non a caso è considerato uno dei maggiori templi europei del design. Gli amanti dell’arte possono prendere il tram della linea 15 e visitare il MUSEU COLLECÇÃO BERARDO nel sobborgo di BELÉM . Sulle rive


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a Pa anan Denis Van De Water/123rf Ken Welsh/alamy

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A Lisbona la vista più bella si gode dalle sette colline della città o dalla terrazza della Torre di Belém. Un caffè al mattino addolcisce la vita, d’estate si fa vita di spiaggia all’Estoril.

del Tago, da dove un tempo Vasco da Gama salpò per esplorare il mondo, oggi si possono ammirare opere di artisti come Pablo Picasso, Salvador Dalí, Joan Miró e Jeff Koons. Inaugurato nel 2007, il Berardo nel frattempo è diventato uno dei più importanti musei di arte moderna. Il pomeriggio è il momento migliore per lo shopping, quando il sole cala e non arroventa più le strette stradine del BAIRRO ALTO. Oltretutto, molti dei negozietti più originali di moda, scarpe e vinili aprono soltanto verso le 16 ma poi restano aperti fino a tarda sera. Le strade migliori da esplorare sono Rua da Rosa e Rua do Norte. BALLARE SUL TAGO Per i nottambuli le rive del Tago sono un’attrazione irresistibile. Nel CAIS DO SODRÉ , l’ex distretto a luci rosse della città, al posto di bordelli e club a luci rosse aprono in continuazione nuovi ristoranti, bar e discoteche. Alcuni chef della zona sperimentano sorprendenti creazioni mescolando influenze portoghesi e africane. Un esempio? Filetto di polpo con fagioli e riso al coriandolo. Anche la musica qui segue diverse ispirazioni. C’è una nuova generazione di cantanti di fado come Ana Mouna, Mariza e Sara Tavares che reinterpretano le vecchie musiche tradizionali, portandole anche sul palcoscenico internazionale. La Tavares per esempio, figlia di immigrati di Capo Verde, mescola la saudade portoghese con suoni funk, pop e afrobeat, dando vita a uno stile musicale molto personale. Questo genere di fado di nuova generazione non viene suonato nelle balere dell’Alfama ma soprattutto qui, nei locali in riva al Tago. Chi vuole ballare deve armarsi di pazienza, perché le discoteche più popolari si riempiono soltanto verso le tre di notte; ma poi non ci si ferma più fino alla prima bica del giorno dopo.

Lisbona sul mare

L’odore di sale e fuco aleggia nell’aria, ci sono gabbiani in volo sulle strade e sulle piazze. Lisbona sembra una città di mare, sebbene disti dieci chilometri dall’Atlantico. Per i suoi abitanti non è un problema. Basta prendere la metropolitana per il sobborgo dell’Estoril e ci si ritrova in spiaggia. Fanno parte dell’escursione un tuffo in piscina, una visita al grand hotel e una porzione del miglior gelato di tutto il Portogallo. SUSSURRI IN SPIAGGIA Nei fine settimana molti lisbonesi vanno al mare, partendo dalla stazione di SANTA APOLÓNIA con uno dei rumorosi treni di periferia color giallo, verde e argento. È consigliabile scendere a SÃO JOÃO DO ESTORIL e fare una passeggiata in questo curatissimo sobborgo fino al mare. Poi si segue un sentiero che costeggia le pareti rocciose toccando numerose spiagge. In quest’area c’è una brezza molto piacevole, anche d’estate l’acqua supera raramente i 19 gradi e per fare il bagno si va nelle PISCINAS lungo le spiagge. Uno dei bagni più belli si trova vicino alla fermata ESTORIL . GRAND HOTEL E GELATO Il leggendario Grand Hotel PALÁCIO è un sontuoso edificio bianco dove durante la Seconda guerra mondiale si fermavano gli intellettuali europei in attesa di un passaggio per l’America. Al SANDALWOOD CAFÉ nella spa dell’albergo preparano ottimi sandwich con petto di pollo e avocado. Poco distante, mentre i bambini giocano con la sabbia e le mamme prendono il sole, i papà fanno la coda davanti alla gelateria. Quella di ATTILIO SANTINI all’Estoril è un must; dal 1949 la famiglia di un immigrato italiano vende deliziosi gelati alla frutta sulla spiaggia di Tamariz, e la ricetta è uno dei segreti meglio custoditi del Portogallo.

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Occhi e orecchie restano fuori dall’acqua quando il castoro attraversa nuotando gli stagni e le pozze che crea lui stesso. Il grosso naso serve per fiutare rivali... e fotografi.

IL RODITORE

NATURA

I castori son tornati. E con le loro costruzioni trasformano il paesaggio come solo l’intervento dell’uomo sa fare, ma senza chiedere autorizzazioni. Gli am66 GEO 08/2015


ANARCHICO

Testo Andreas Weber / Foto Ingo Arndt

bientalisti sono soddisfatti, chi ha subito danni, invece, chiede che siano abbattuti. Un’équipe di GEO ha spiato questo timido animale sott’acqua e nella sua tana. 67 GEO 08/2015


Depositi di ferro nello smalto dei denti colorano gli incisivi di arancione e li rendono più duri. I denti crescono per tutta la vita e mordono con una forza pari a sei volte quella dell’uomo.

Preso! Questa volta il fotografo ha avuto fortuna: il castoro a destra è stato sorpreso dalla trappola fotografica mentre si dà da fare sul tronco per arrivare ai rami superiori più sottili.


UN TAGLIABOSCHI CON MORDENTE

L

a sera arriva silenziosa sulla valle laterale dello Jossa nello Spessart, una zona collinosa nella zona dell’Assia, in Germania. Un pipistrello sorvola zigzagando uno stagno, nella radura circondata dagli alberi. Più a valle si sente il canto di un merlo – uno scenario che ricorda gli albori della civiltà. A dire il vero, in questo punto uno stagno non dovrebbe proprio esserci. Il registro catastale indica un piccolo corso d’acqua, che si fa strada tra gli alberi. Ma da un paio d’anni la valle ha subito vari cambiamenti. L’acqua ha smesso di scorrere, e così sono arrivati pipistrelli, rane e libellule. Ci sono tronchi di salici e pioppi abbattuti accatastati gli uni sugli altri. Sopra cui ronzano pigramente insetti d’acqua. Ed ecco che il responsabile di tutti questi cambiamenti fa la sua comparsa: un castoro si erge su una diga formata da rami e fango, fiuta, in piedi come una marmotta, ma ben più massiccio. Si gratta la pancia con la zampa anteriore e scivola in acqua. La sua coda larga, piatta e coperta di scaglie batte piano sull’acqua. Il castoro si lascia trasportare lentamente fino a una radice di salice; naso, occhi e schiena restano a pelo d’acqua. Si sente uno scricchiolio,

con il muso spinge un ramo fino alla penombra della riva. Poi un fruscio e un leggero rumore come di una macina fa capire che sta mangiando di gusto. Irmgard Schultheis è soddisfatta. Da oltre 40 anni questa ambientalista 73enne lavora per favorire il reinserimento di questi animali nello Spessart. E nelle serate calde come questa si gode i frutti del suo impegno. Ma quando, la sera dopo, torna nella valletta, osserva una scena che la fa molto arrabbiare. Durante la notte qualcuno ha distrutto la diga più bassa del castoro. Rami, bastoni e terra sono sparpagliati ovunque. Il fondo dello stagno ormai vuoto scintilla umido al sole del tramonto. Forse, ad arrestare l’avanzata del roditore è stato un contadino col suo trattore, preoccupato per il pascolo del suo bestiame. Qui è in atto una guerriglia contro una specie chiave per l’ecologia – uno scenario sempre più frequente negli ultimi tempi, e non solo in Germania. In quasi tutti i Paesi europei a nord delle Alpi il castoro è tornato a essere un elemento del paesaggio. Il ritorno del più grande roditore europeo è uno dei principali successi per la tutela dell’ambiente del Vecchio Continente: cacciato per seco-

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Tana

Area per mangiare

Riserva di cibo

Diga 1

I COSTRUTTORI DI DIGHE DELLO SPESSART Circa 15 anni fa una famiglia di castori iniziò a sbarrare un rigagnolo nel Parco Naturale Spessart (Germania Centrale) trasformandolo in un paesaggio lacustre. Attorno al centro della loro vita, la tana, la famiglia costruì cinque dighe lunghe 150 metri (i numeri indicano l’ordine di costruzione). Il loro territorio si estende 1.000 metri a monte del torrente, dove la famiglia ha costruito altre dighe. I roditori abbattono gli alberi sulle rive e trascinano nell’acqua nuovi rami.


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PELLICCIA PERFETTA GRAZIE ALL’OLIO


Il castoro si gratta la pancia per un motivo

ben preciso: qui si trovano ghiandole che producono una sostanza oleosa idrorepellente che con gli artigli distribuisce su tutta la sua pelliccia.

Le zampe posteriori

sono palmate per permettere ai castori di muoversi agilmente nell’acqua. Invece sulla terraferma sono goffi.

li per via della sua pelliccia e delle secrezioni delle sue ghiandole odorifere, che si dice abbiano proprietà curative, negli anni Venti questo roditore si è quasi estinto. A quei tempi in Francia, Germania, Norvegia e Unione Sovietica erano sopravvissute solo alcune centinaia di esemplari.

O

ggi in Germania vivono di nuovo circa 15 mila castori, e più di 10 mila hanno riconquistato i fiumi del sudovest francese. In Svezia oggi sono 100 mila gli esemplari di questo animale sterminato nel 1871, 20 mila popolano nuovamente le pianure incontaminate dell’Estonia. E persino sulle isole britanniche si incontrano i castori fuggiti dagli allevamenti: i primi esemplari selvatici da quando questo animale da pelliccia si estinse, nel lontano XVI secolo. Ormai il castoro fa la sua comparsa un po’ ovunque, sbarra anche i fossati più piccoli, i terreni agricoli ben tenuti si trasformano in un mosaico di varietà dal punto di vista ecologico. Il roditore modifica il paesaggio come solo l’intervento dell’uomo è in grado di fare in Europa. Diversamente da quest’ultimo, però, non richiede alcuna autorizzazione amministrativa. Allaga campi coltivati, abbatte alberi da frutta, sbarra gli scarichi degli impianti di depurazione, e se ne ha voglia prende possesso dello stagno di un giardino ben curato.

Il castoro è un anarchico pacifico. Ci dimostra come sia possibile ricreare velocemente un pezzetto di natura selvaggia, a volte ancora prima che i vicini se ne rendano conto. Diversamente da quanto si è ritenuto per molto tempo, il castoro ha ben poche esigenze. Può insediarsi ovunque ci sia dell’acqua, e si ciba di ciò che trova: corteccia degli alberi d’inverno, soprattutto legno dolce, e piante erbacee, bulbi e radici di ninfee o giovani germogli nel periodo estivo. Se il suo territorio confina con campi coltivati, non disdegna nemmeno mais e rape. E sbarrando il canale di scolo tra due campi crea un fossato dove stabilisce la sua tana. Nel costruirla il roditore dimostra di essere molto abile e creativo. Gli accessi devono essere sommersi, il resto dell’architettura è variabile. Partendo da buchi nascosti nelle scarpate che costeggiano la riva, spesso scava gallerie che conducono alla sua tana asciutta, coperta con rami e altri vegetali. In caso di necessità vanno bene anche passaggi, schermati da bastoni e rami, ricavati tra le pietre delle rive dei fiumi. Se il livello dell’acqua si alza, il castoro ammonticchia tronchi, rami e fango sul tetto e rosicchia dall’interno la volta della tana per renderla più confortevole per la sua famiglia. In caso di variazioni eccessive del livello dell’acqua, invece, il castoro costruisce molte dighe intorno alla sua tana. La sua opera

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I due piccoli di castoro sono venuti al mondo in una tana creata apposta per girare un documentario televisivo e – a quanto pare – la sua disposizione è piaciuta. Così è stato possibile filmare e fotografare la vita della famiglia senza arrecare eccessivo disturbo.


FELICITÀ NELLA TANA DEL CASTORO

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Come un siluro. Il castoro esce dalla sua tana; la coda larga e piatta serve da timone e gli dà lo slancio per muoversi. Dalla pelliccia, invece, escono bollicine d’aria.


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di ingegneria in questo caso ha un doppio scopo: dove il corso d’acqua è sbarrato, questo roditore un po’ impacciato sulla terraferma può nuotare e far galleggiare il suo cibo fino alla tana con tutta calma. Però la sua straordinaria creatività ha un rovescio della medaglia: i contadini e i proprietari terrieri che subiscono danni se la prendono con i castori e i cacciatori spingono per “regolamentare” il numero di questi animali selvatici rigorosamente protetti. Gli ambientalisti, però, si oppongono con fermezza a questa mentalità “ottusa”. Ritengono, infatti, che dal punto di vista economico le perdite finanziarie dovute a pascoli allagati, rive scavate o alberi abbattuti siano piuttosto marginali. Potrebbero essere tranquillamente gestite con risarcimenti statali di media entità – placando così gli animi dei diretti interessati. Molti conflitti dovuti ai castori potrebbero essere mitigati anche applicando regole un po’ meno rigide sui corsi d’acqua. Gli esperti di castori sostengono che ai roditori basterebbe che fosse loro riservata una striscia di terreno larga 20 metri lungo fiumi e torrenti. Queste zone non utilizzate sarebbero molto utili per rigenerare i corsi d’acqua. Creerebbero punti di rifugio per piante e insetti – e perché no, anche zone alluvionali utili per mitigare l’impatto delle inondazioni. Le problematiche, però, non sono uguali in tutti i Paesi europei. In Germania e Svizzera, densamente popolate, lo scontro con la civiltà è più forte che nella Masuria polacca, sul delta del Rodano in Francia o nei bassipiani paludosi della taiga estone ricca di betulle. Infatti qui il castoro, insieme all’orso bruno e al lupo, è addirittura un’attrazione per la fiorente industria del turismo naturalistico. Il ritorno della specie potrebbe far sì che l’uomo stipuli un patto con la natura: se lasciassimo a disposizione di questo roditore, che è anche un po’ architetto paesaggista, degli spazi lungo i corsi d’acqua, l’animale potrebbe fornire alcuni importanti servizi per la biodiversità e persino per la società. Le sue costruzioni, infatti, contribuiscono anche a rallentare il flusso dell’acqua e favoriscono l’auto-depurazione dei fiumi, al punto che piano piano i depuratori risulterebbero superflui. In pratica i servizi forniti dai castori porterebbero un risparmio netto nelle casse dello Stato. Molti agricoltori, tuttavia, non vogliono sentirne parlare. In Germania, in particolare in Baviera, ogni anno vengono catturati e spesso uccisi circa 800 castori. Ma chi vuole cacciare questi animali come si cacciano i caprioli trascura il fatto che i roditori non si riproducono in modo così incontrollato come la selvaggina. Un severo ordinamento territoriale fa sì che gli esemplari che sbarrano i torrenti non possano essere più di quanti trovano nutrimento lungo le loro rive. Al raggiungimento dei due anni di età i giovani castori abbandonano la famiglia e migrano. Se i territori vicini sono occupati, i migratori vengono uccisi dai loro stessi simili. Un sistema di regolamentazione sanguinoso ma efficiente. Questo tra l’altro impedisce che i castori danneggino interi boschi – come fanno invece ca-

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prioli e cervi, che si accaniscono sui giovani germogli. I castori si cibano di alberi solo durante l’inverno. Una famiglia composta da cinque elementi in un anno abbatte circa 50 tronchi. In Germania i castori abbattono in un anno solo lo 0,07 per cento della crescita boschiva. Ovvero circa un millesimo di quello che usa l’industria del legno. Sono molti di più gli alberi abbattuti perché le autorità adempiono al loro “obbligo di sicurezza sulla viabilità”: «I castori tedeschi potrebbero cibarsi per anni con i tronchi che le autorità responsabili delle risorse idriche abbattono ogni anno lungo le rive dei torrenti», spiega Gerhard Schwab, responsabile dei castori in Baviera. La forza delle armi serve a ben poco contro questi roditori. I giovani castori, infatti, sono sempre alla ricerca di nuovi territori ed è praticamente inutile sparare ai loro simili – ci sono sempre nuovi rinforzi pronti a prendere possesso della postazione. L’unico risultato che si otterrebbe è di trasformarli in animali timorosi e Mischiando fango e rami questi abili costruttori durante l’autunno riescono a isolare la loro residenza invernale. L’ingresso è sott’acqua, ma la tana dove dormono è all’asciutto.


INGO ARNDT FOTOGRAFO DELLA NATURA

SPIRITI DELL’ACQUA Ingo Arndt ha percorso più di 20 mila chilometri tra il Parco Naturale Spessart, Baviera, Svizzera e Francia sulle tracce dei castori, in 94 giorni nell’arco di due anni ha scattato foto e trascorso innumerevoli notti appostato all’aperto nel bosco e in acqua. Ecco perché il fotografo di GEO non si è affatto stupito che prima d’ora non sia mai stato realizzato un reportage fotografico completo sui castori europei. Fotografare questi roditori è una vera sfida. I castori sono animali timidi e notturni, con schemi comportamentali difficili da intuire. Cambiano frequentemente tana e amano nuotare anche in acque torbide. Arndt non voleva attirare i suoi fotomodelli selvatici con il cibo, ma lasciare incontaminato il loro ambiente naturale. E quindi si è dovuto preparare in modo ancor più minuzioso: ha costruito trappole fotografiche sugli alberi che recavano tracce dei morsi del castoro – purtroppo spesso inutilmente, perché gli animali andavano avanti a rodere altrove. Ha modificato una custodia impermeabile importata appositamente dagli Stati Uniti per la sua macchina fotografica speciale, in modo da poterla azionare con un telecomando; si è nascosto usando tute mimetiche fantasiose e ha aspettato il momento giusto, anche per ore. La passione del fotografo per i castori è iniziata più di 25 anni fa, con un progetto in Assia (Germania) dove i roditori sono stati reintrodotti con successo nel 1987. Oggi come allora ammira l’eleganza di questi animali: «I topi muschiati e le nutrie nuotano goffamente, i castori invece scivolano nell’acqua privi di peso, come spiriti». Lisa Gnirss

riservati, cosicché l’uomo non riuscirebbe più a osservarli liberamente, come invece avviene ora. Cosa bisogna fare, allora, se un castoro affonda i suoi denti in un giardino privato? Innanzitutto vale la regola base di mantenere la calma e osservare la situazione dal punto di vista di un erbivoro. «Talvolta i proprietari, innervositi, eliminano subito l’albero da frutta che era stato preso di mira dal castoro. E poi si stupiscono quando l’animale affamato ne abbatte un altro la notte successiva», afferma Schwab. Invece sarebbe molto meglio aspettare. Già, perché nella maggior parte dei casi il roditore torna per finire il suo pasto. Talvolta però, a onor del vero, i durissimi incisivi del castoro, che ricrescono in continuazione per tutta la vita e sono rossastri per via dei depositi ferrosi che contengono, rodono alberi un po’ particolari. Come le piante più antiche del parco attorno al Castello di Charlottenburg a Berlino, la cui area, attraversata dalla Sprea, è diventata una roccaforte della popolazione di castori della capitale. Gerhard Klein, direttore del parco, è tutt’altro che contento della situazione che si è venuta a creare. «Il nostro è un parco dal valore inestimabile, e non un istituto di ricerca sui castori», afferma con un’ombra di rassegnazione. Lo scorso inverno i roditori hanno abbattuto 30 alberi in questo prezioso parco storico, i cui fondi non bastano per proteggere dai castori tutti i tronchi utilizzando solide guaine di rete. Negli ultimi tempi, proprio per questo motivo, i giardinieri verniciano le cortecce con un composto a base di sabbia al quarzo che riesce a tenere a freno l’appetito del roditore. «Da tempo ormai il castoro è parte del nostro paesaggio, che lo vogliamo o no», spiega Derk Ehlert, incaricato di occuparsi dei danni che procurano gli animali selvatici presenti a Berlino. «Se non abbattiamo sistematicamente tutti gli esemplari, non riusciremo mai a scacciare questa specie». Berlino, infatti, pur essendo una metropoli, nella zona intorno al parco è popolata da animali selvatici. Anche se c’è molto passaggio di persone e nonostante la vicinanza dell’aeroporto di Tegel, dal bosco proviene addirittura il canto degli usignoli e rumori “sospetti” dai corsi d’acqua. Ci appostiamo dietro a un nocciolo e osserviamo un castoro che scivola gorgogliando piano nel canale. Si spinge sotto il ponte, compie un ampio cerchio nel bacino davanti al castello, nella cui acqua si rispecchia il cielo della sera, e poi si immerge fin quando arriva alla riva. Per un istante si compie ciò che Michael Succow, un ambientalista e vincitore del Premio Nobel Alternativo, ha ripetuto innumerevoli volte: «Non si tratta di ecosistemi perfetti. Si tratta di ridare pace a un territorio». In Europa il castoro è uno dei suoi messaggeri. Il redattore berlinese Andreas Weber ama rilassarsi osservando i castori nel parco del castello nel centro della capitale.

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VITA MODERNA

Sogni, ostinazione e macerie Nel giro di pochi decenni, Detroit ha perso più della metà dei suoi abitanti. Al loro posto terreni incolti e rovine. Chi ha deciso di restare in questa metropoli dissestata e perché? Un viaggio tra chi sopravvive nella città del declino. Testo Markus Wolff / Foto Dave Jordano

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Questo cittadino vuole trasformare una strada abbandonata di Detroit in un rifugio colorato per tutti: famiglie, uomini d’affari, artisti e uomini con la sega elettrica.



Miniere cittadine: da terreni industriali abbandonati, uomini come Brad estraggono rottami di metallo, un’eredità lasciata dall’industria automobilistica.

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rmai tutti sanno che razza di città sia questa: in rovina, decaduta, pericolosa. Uno dei luoghi più desolati sotto il sole del Nord America. Chi però vuole rendersi conto di quanto Detroit sia realmente colata a picco, deve incontrare Floyd. Aspettando, per sicurezza, che abbia legato Bär, il suo cane da combattimento che continua a latrare in mezzo a mucchi di cassette e bidoni arrugginiti. Poi Floyd tira su il cappuccio della sua giacca da lavoro tutta imbrattata di sporcizia, si mette in spalla un piccone riparato alla meglio con il nastro adesivo e attraversa lentamente il terreno fino alla “miniera”; da lontano sembra uno dei sette nani. Dopo una cinquantina di metri raggiunge il punto più profondo del terreno. Qui comincia a prendere a picconate una parete della buca, finché non estrae dalla terra un pezzo di metallo arrugginito. Rottami, ecco cosa estrae Floyd dalla sua miniera. Lo fa sul terreno di quella che un tempo era una fabbrica di assi per veicoli, una di quelle imprese che erano l’orgoglio di Detroit, la città dell’automobile. Ma di orgoglio qui ne è rimasto ben poco, in questa fabbrica che per decenni è stata esposta all’acqua pio-

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vana. Detroit non è solo a terra, sembra proprio che vi stia sprofondando dentro. Almeno questa è una cosa positiva per un tipo come Floyd, il digger che da 15 anni viene qui a scavare. Lo fa ogni giorno, tranne quando si trova in prigione. Altrimenti è sempre qui, a due passi dalla casa della zia dove abita. Anzi, abitava, perché due giorni fa l’ha danneggiata un incendio. Ma poco importa. Da quando Floyd si è comprato per 200 dollari un motorino con un sedile di legno, ci mette ancora meno per venire al lavoro. Ogni giorno scava per sei o sette ore, spesso lo fa di notte. Per vederci meglio accende un falò soprattutto nei mesi invernali, quando il suolo indurito dal gelo va riscaldato per poter rovistare sottoterra alla ricerca di rottami. Il metallo estratto viene poi ritirato da altri che non fanno troppe domande e sanno dove portarlo. Avere le conoscenze giuste è molto importante, perché la maggior parte dei rottamatori ufficiali richiede un documento di autorizzazione. Lo hanno deciso le autorità per evitare che l’intera città venisse sventrata come se fosse un unico rottame. Floyd riesce comunque a ricavare abbastanza dalla sua

miliardi di euro di debiti hanno causato la bancarotta della città nel 2013

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delle più grandi aziende di automobili hanno ancora il loro quartier generale a Detroit (Chrysler, Gm, Ford)


Per lungo tempo questa villa è rimasta abbandonata, finché Dave non l’ha comprata per una manciata di dollari. Anche le case circostanti sono rimaste più o meno intatte. Pochi metri più in là abitano il sindaco e il musicista Kid Rock. 83 GEO 08/2015


Qui ci abita qualcuno o si può spazzare via tutto? Quando a Brightmoor, uno dei quartieri più poveri di Detroit, arrivano i volontari della nettezza urbana, ne dà notizia persino la televisione.

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attività. Gran parte dei dollari finisce alla sua ex compagna, che non gli rivolge più la parola e li usa per il loro figlio di due anni, che Floyd non vede più già da molto tempo. Per qualche anno i rottami ancora nascosti sottoterra dovrebbero bastargli per campare, quindi perché andarsene da Detroit? Il futuro di Floyd sta nella rovina della città. Ma non tutti la vedono così. Da quando, 50 anni fa, l’industria automobilistica iniziò a vacillare, molti abitanti di Detroit hanno sviluppato una decisa tendenza alla fuga. E se ne sono andati in massa da una città che ai bei tempi contava quasi due milioni di abitanti. Dei circa 680 mila rimasti, un terzo afferma di volersi trasferire altrove entro i prossimi cinque anni. Già oggi una casa su tre è vuota. Come un virus maligno, la decadenza assale e sbriciola una strada dopo l’altra, lasciando dietro di sé soltanto rovine. Dalle finestre prive di vetri si vedono sventolare brandelli di teli bianchi, come se la città vivesse una capitolazione collettiva. Ma chi vive nelle rovine o nelle case ancora integre tra le macerie? Come si fa a organizzare la propria vita quotidiana quando lo scenario che ci circonda diventa apocalittico? Restano veramente solo coloro che non

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possono fare altrimenti? Uno di questi è Tom, uno strano personaggio la cui silhouette si materializza improvvisamente su un terreno circondato da officine abbandonate. L’uomo sta trafficando attorno a una mountain bike sulla quale è montata una cassetta della capienza di 20 chilogrammi. L’ha costruita da solo utilizzando pezzi di scarto, come quasi tutti gli oggetti che possiede. «Prima che qualcosa venga buttata via definitivamente deve passare da me che sono l’ultimo ispettore», afferma Tom gesticolando lentamente, come se stesse facendo esercizi di tai-chi. Poi si infila un mozzicone di sigaretta tra i pochi denti che gli sono rimasti. Anche le due casette in cui vive sono opera sua, costruite con pezzi di legno raccolti qua e là in città. Quella più grande è una capannetta ben verniciata. Misura appena quattro metri quadrati, poggia su un vecchio edificio ed è raggiungibile grazie a due scale di alluminio sporche di vernice colorata. A prima vista sembra una costruzione fragile, una specie di casa per le bambole troppo grande. Eppure è più stabile di tante case vere della città, ed è riuscita a sopravvivere persino all’ultimo inverno. Mentre nel Detroit River galleggiavano grumi di ghiaccio e la temperatura scendeva a 20

dollari è il prezzo pagato nel 1987 dalla madre del rapper Eminem per la casa vicino alla Eight-MileRoad dove il cantante è cresciuto. Nel 2013, messa all’asta da una banca al prezzo base di un dollaro, andò in fiamme prima della vendita

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sono i minuti impiegati mediamente dalla polizia di Detroit per raggiungere il luogo da dove è partita una chiamata d’emergenza


gradi sotto zero, Tom se ne stava soddisfatto nella sua capanna a ordinare la sua raccolta di minestre in busta. «Sa Dio se questo non è un buon rifugio! Chi dice che sono un senzatetto?», sbotta Tom battendo la mano sulla sua capanna. «Possiedo due case!». DIVENTARE PROPRIETARI di casa a Detroit non è

così difficile, specialmente da quando i competenti uffici amministrativi della Wayne County svendono gli edifici come se fosse tempo di saldi. Fuori tutto prima che le case crollino o vengano distrutte dalle fiamme. I roghi qui sono all’ordine del giorno, causati da vagabondi che si mettono a fumare crack in case abbandonate e si addormentano accanto al fuoco, oppure da piromani. La polizia e gli ormai esausti vigili del fuoco registrano una media di 14 incendi dolosi al giorno, così tanti che il fuoco sembra ormai far parte della cul-

tura urbana. Nelle gigantesche rovine della Michigan Central Station un artista ha creato un’opera ammassando cubi di avanzi di case bruciate. Prima che l’intera città, dichiarata ufficialmente in bancarotta nel 2013, finisca in cenere, il sindaco e i commissari per l’emergenza nominati dallo Stato cercano ancora di vendere più edifici possibile. In pochi altri posti al mondo si sono viste così tante aste di immobili. Dal 2000 circa il cinque per cento di tutte le case cittadine è stato venduto all’incanto. 80 mila case sono così malridotte che non vale neanche la pena di metterci mano, mentre dei 380 mila edifici che esistevano un tempo ben 114 mila sono scomparsi del tutto. Intere strade sono praticamente rase al suolo, e continua a crescere il numero dei quartieri che rimangono totalmente vuoti. A Detroit si ha l’impressione di assistere a un film sulla

Questo non è un muro del pianto, anzi. Il disoccupato Hakeem trae forza dalla lettura delle massime e dei pensieri scarabocchiati sui muri.


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Riveduti, corretti e innalzati: gli High Riders, ricavati da modelli della General Motors degli anni Settanta e Ottanta, sono oggi l’orgoglio della classe media di colore; la loro condizione spesso è migliore di quella delle strade che percorrono.

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Vivere tra le macerie: la bandiera sulla veranda di Cynthia ricorda il genero caduto in Iraq. La schiera di figli che ha lasciato ha trasformato la casa della nonna in un orfanotrofio.

nascita di una città, solo che la pellicola viene proiettata alla rovescia. C’è l’intenzione, però, di salvare il salvabile. Solo nel 2013, circa 2.300 offerenti si sono aggiudicati ben 10.500 immobili; alcuni ne hanno comprati più di cento. La maggior parte degli acquirenti si è però limitata a una o due case. Tra loro ci sono il giovane Chris McGrane e la sua ragazza Minehaha Forman. In una domenica mattina di sole, i due stanno piantando germogli nel giardino della loro casa in Buffalo Street che hanno comprato dalla Michigan Land Bank. L’hanno ottenuta a un prezzo molto vantaggioso, con il solo obbligo di non specularci su e di ristrutturarla decentemente entro 18 mesi. Per la casa hanno speso 500 dollari, altri 15 mila ce ne sono voluti per rimetterla in sesto. «Ora vale già 5 mila dollari», dice MacGrane incrociando le braccia piene di tatuaggi. Detroit, evidentemente, ha una propria aritmetica. La casa si trova nell’Eastside, una delle più malandate tra le peggiori zone della città, e assomiglia all’unico dente sano in una dentatura guasta. La coppia l’ha riverniciata di color albicocca, ha montato finestre usate ma in buone condizioni e rinnovato l’impianto elettrico. Sul nuovo e solido tavolone della veranda sono ammucchiati i frutti del loro lavoro di giardinaggio; ci

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sono pomodorini, carote, cavoli, insalatina, rape ed erbe varie e le uova depositate dalle loro 20 galline. Il terreno attorno alla casa dove i due nel 2010 hanno creato la Buffalo Street Farm è grande circa 3 mila metri quadrati. Praticamente una fattoria in miniatura, un minuscolo idillio contadino in città allietato dal canto di un galletto rosso. Ma il raccolto nel frattempo si è talmente moltiplicato da richiedere l’intervento di aiutanti volontari, mentre parte degli ortaggi viene venduta attraverso un collettivo di urban farms. I contadini di città sono tutti accomunati dallo stesso modo di pensare: gente ottimista che crede in Detroit e che nei terreni abbandonati non vede il simbolo della disfatta, quanto piuttosto un segnale di rinascita. Sono spazi dove si può sperimentare, che altrove sono scomparsi del tutto e che qui invece si ottengono con pochi soldi. Per molti, come MacGrane, questo è un buon motivo per restare a Detroit, e c’è persino chi sceglie di venirci a vivere proprio ora. Da anni a Detroit sta crescendo il numero degli artisti, che qui trovano a costo zero (o quasi) atelier grandi come hangar. L’arte è forse l’unico settore nel quale la città può vantare ancora un boom. Anche se la vera arte a Detroit consiste nella capacità di non rassegnarsi al decadimento, persino di fronte a strade un tempo

5

Il tasso di criminalità a Detroit è cinque volte maggiore della media Usa. Da quando l’organico della polizia è stato tagliato del 40 per cento, viene risolto solo un crimine su dieci

16,9

per cento è il tasso di disoccupati rilevato nel 2013, il più alto tra le 50 maggiori città degli Usa


Una vecchia casa decorata ad arte. Sotto gli occhi di Martin Luther King, Lynn esprime la sua creativitĂ a tinte vivaci.

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I vigili del fuoco che lavorano qui sono ormai esausti: a Detroit si registra una media di 14 incendi dolosi al giorno.

Detroit 688.701 abitanti

San Francisco 837.442

Manhattan 1.626.159

Lo sfacelo di Detroit ha regalato un lusso ai suoi abitanti: spazio a volontà

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vivaci come la chilometrica Chene Street che dista pochi chilometri dalla Buffalo Street Farm. Come in un esperimento socioeconomico, l’ex arteria commerciale mostra le reazioni a catena che provocano il declino. Uno dopo l’altro, tutti i negozi hanno chiuso i battenti, e anche le ultime finestre della scuola sono scomparse sotto strati di graffiti. Restano solo un jazz club e un barbiere capace di realizzare qualsiasi tipo di pettinatura al prezzo fisso di 15 dollari. Continuando a esplorare la città a zig-zag, si passano incroci con semafori dismessi i cui fuochi penzolano dai fili come sfere di un albero di Natale. La sfilata di fabbriche con i vetri rotti sembra non finire mai, ci sono interi tratti di binari ferroviari abbandonati e vecchie auto che arrugginiscono nei giardini davanti alle case. Nelle aree ancora vitali spuntano invece orti e alberi da frutta. Dato che molti non possono permettersi nemmeno i prodotti poco costosi delle fattorie urbane, stanno nascendo sempre più community gardens, orti che gli abitanti del quartiere coltivano per sé e la loro comunità. Più spazi vengono loro concessi, più i cittadini di Detroit si stringono gli uni agli altri per aiutarsi. Mark Covington, un cortese disoccupato dal fisico imponente, ci racconta che qualche volta di primo matti-

no vede gente che rovista nell’orto sull’altro lato della strada con l’aiuto di torce elettriche. Non c’è da meravigliarsi se la sua creatura, il Georgia Street Community Garden, gode di tanto successo. Nelle varie sezioni dell’orto si trova una scelta di prodotti molto più ampia di quella della gran parte dei negozi in città. Ci sono ben sei diversi tipi di pomodori, due tipi di cetrioli, cavoli rossi e cavoli verdi, peperoni, frutti di bosco. Uova e carne vengono forniti da 60 galline, quattro capre e tre anatre. Per la festa di ringraziamento per il raccolto viene servito un extra a tutti i membri della comunità: una porzione del tacchino che Covington macella per l’occasione; ha imparato a farlo guardando i filmati di Youtube. Ma il giorno della festa è ancora lontano. Covington ora è impegnato a organizzare l’attività quotidiana del Georgia Street Community Collective, in modo che d’inverno ogni sabato sia garantita la distribuzione gratis di zuppa calda nella sede del collettivo o che la piccola biblioteca al primo piano venga arricchita da nuove donazioni. Va trovato qualcuno che ogni mercoledì insegni agli allievi come si coltivano zucche e angurie, e occorre accertarsi che d’estate arrivi il camion con 30 tonnellate di generi alimentari gratuiti destinati all’intera collettività. È un sacco di lavoro,


assicura Covington. Qualche tempo fa la sua vecchia azienda gli ha offerto una nuova occupazione. Ma sarebbe impegnato dieci ore al giorno e non saprebbe a chi affidare la cura del suo orto. QUALCUNO, PROBABILMENTE, si troverebbe. Per-

ché proprio come nel giardino di Covington, in tutta Detroit si è rafforzato il senso per la comunità, nell’Eastside come nel Westside. C’è l’idea di doversi impegnare in prima persona ogni volta che la città, ormai vecchia e malmessa, rischia di capitolare davanti a nuovi problemi. Detroit non ha più nemmeno la forza di opporsi all’oscurità notturna. Dei circa 88 mila lampioni esistenti ne funzionano poco più di 35 mila; chi se lo può permettere compra e installa un proprio impianto di illuminazione. Le possibilità di impegnarsi per chi lo desidera sono molte, a partire dai progetti più semplici come quello di Brooke Henderson, una giovane donna originaria di una cittadina del Michigan. Arrivata anni fa a Detroit per sperimentare la vera vita di una metropoli, le ha provate tutte, compresi i furti di automobili e le loro immaginabili conseguenze. Ma non se ne è più andata da qui. Il pomeriggio è appena cominciato e la donna in leg-

gings si trova nel centro di Detroit, dove un tempo si trovavano le case padronali dei ricchi. Ora invece si notano i tombini dai quali salgono impressionanti colonne di vapore, come se dei diavoli stessero sbuffando nella vetusta rete di riscaldamento sotterraneo. La Henderson è accompagnata da due amici. In tre vogliono occuparsi di un mucchio di pietre che si rivelano essere parte di un labirinto. Un anno fa la donna lo ha creato per offrire un po’ di svago a chi passa di qui, un passatempo contemplativo. Ma le pietre sono state mescolate, qualcuno le ha usate per scrivere la parola love. «Beh, almeno è un messaggio positivo, non hanno scritto parole oscene», osserva la donna. Il labirinto, aggiunge, non è un grande progetto, ma bisogna comunque occuparsene. C’è anche la speranza che qualcuno finanzi una panchina, dalla quale si potrebbe guardare lo stadio di baseball e la skyline della città, ancora affascinante anche se sembra congelata. E soprattutto priva di scempi urbanistici perché non c’erano i soldi per costruire. Quando ci sarà la panchina, la donna intende sviluppare un altro microprogetto che contribuisca, anche se in minima misura, ad abbellire la città. Di posto ce n’è abbastanza. Il piano urbanistico per la Detroit del futuro prevede una città di circa 600 mila abitanti. Fino alla sua realizzazione, verranno abbattute ogni mese circa 600 case fatiscenti per creare parchi e giardini. Dovrà essere una città verde e più luminosa. Il sindaco intende far installare, sempre ogni mese, anche 2.400 nuovi lampioni. La rinascita di Detroit, forse, inizia proprio dall’illuminazione.

Verdure di città: Shane ha lasciato New York per Detroit, si nutre di verdura coltivata in proprio e avanzi del supermercato. E si sente meglio di prima.

Il fotografo Dave Jordano (destra) e il redattore di GEO Markus Wolff (sinistra) nel salone del barbiere Tyrell. Jordano ha studiato negli anni Settanta a Detroit e torna regolarmente nella città natale per un progetto fotografico. È impressionato dalla sua resistenza e voglia di sopravvivere.

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SCIENZA

DAL CERVELLO ALLA COSCIENZA COSA SUCCEDE NELLA TESTA di quest’uomo? Giulio Tononi è un neuroscienziato che ama provocare i colleghi: «Dimenticate le vecchie teorie su come nasce la nostra coscienza», dice. E sta cercando di dimostrare che non si forma solo nel cervello umano. Testo Christian Schwägerl

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Roberto Toro/Institut Pasteur, Paris

Impegnati nella ricerca della coscienza, i ricercatori tentano di scandagliare il nostro cervello fin nei minimi dettagli. Quest’immagine è in realtà una rappresentazione visiva dei fasci nervosi che collegano tra loro i centri cerebrali. In basso al centro si trova il cervelletto. I colori indicano la direzione in cui si orientano i tratti fibrosi nel cervello: rosso = sinistra-destra, verde = avanti-indietro, blu = sopra-sotto. A destra, Giulio Tononi.


Tamara Voninski/Oculi/L’agence VU/laif


A

volte Giulio Tononi si sveglia e non sa più chi sia, dove si trovi e come si chiami, e nemmeno se sia un uomo o una donna. Succede per lo più quando è in viaggio, nel buio e nel silenzio di una stanza d’albergo all’estero. Per un attimo scompare la sua identità e la consapevolezza del proprio posto nel mondo. La maggior parte di noi sarebbe terrorizzata se capitasse una cosa del genere. Tononi, neuroscienziato di fama internazionale, invece è contento: «È esattamente quello che cerco», rivela. Momenti di una forma dell’essere particolarmente pura, ridotti alla sensazione più semplice di tutte: io esisto, io ci sono. E nient’altro. Non si tratta solo di un tic, ma di una nuova visione scientifica di uno dei fenomeni più basilari della nostra vita: la coscienza. Per Tononi, titolare dal 2001 della cattedra di Ricerca sul sonno e sul-

LA COSCIENZA SI TROVA NELLE SINAPSI E NEI NEURONI? la coscienza presso l’Università di Madison, nello Stato americano del Wisconsin, la coscienza, e quindi soprattutto la nostra esperienza soggettiva nella sua totalità, non rappresenta soltanto un interessante argomento di studio, ma piuttosto il punto di partenza di tutto, la prospettiva da cui si osserva il mondo o ciò che riteniamo essere il mondo. In hotel all’alba, solo in presenza di se stesso, al buio e in silenzio, Tononi sperimenta tutto questo in modo particolarmente nitido. Lo studioso italiano siede al tavolo nel sole della sua veranda, in una radura in mezzo a un querceto. Vive in una lus-

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suosa casa di legno fuori Madison. Il marrone caldo delle travi, il suono dell’impianto stereo, il giardino d’inverno inondato di luce, il canto degli uccelli di bosco e dei tordi sugli alberi, il profumo acre del terreno sono tutti elementi che percepisce in modo differente rispetto alla maggior parte delle persone: Tononi considera ciò che prova in primo luogo non come ambiente esterno, bensì come prodotto della coscienza, che prende forma nel cervello. Tononi picchietta con le nocche sul tavolo di legno: «Nasciamo con la convinzione che esista il mondo là fuori, questo tavolo per esempio. Ed esiste veramente. Le scienze naturali ci hanno permesso di raggiungere risultati straordinari e siamo riusciti a descrivere il mondo esterno in modo sempre più preciso. Tuttavia siamo prigionieri della nostra coscienza. Tutto ciò che sappiamo nasce da dentro». Ma la domanda delle domande è: come si arriva a questo “dentro”? Con quali trucchi gli studiosi riescono a comprendere la natura e la meraviglia della coscienza se tutta la conoscenza umana è necessariamente caratterizzata, filtrata, rielaborata dalla coscienza stessa? La scienza discute animatamente da secoli su questo dilemma, vero circolo vizioso della percezione, e su quale delle due possibili strade per raggiungere il nostro io sia la migliore. In primo luogo ci sono i cosiddetti riduzionisti, convinti che la nostra coscienza debba un giorno rivelarci il suo segreto, quando capiremo finalmente, in tutti i singoli componenti, la “macchina” che la genera: il cervello. Un compito senza dubbio difficile, ma, grazie alla sua curiosità scientifica, l’uomo può trovare una spiegazione convincente, basata anche sui diversi miliardi di quei singoli pezzi, anche sul nostro senso dell’io, la nostra coscienza. Proprio come già av-

venuto, con successo, per enigmi altrettanto complessi quali l’evoluzione, la fotosintesi o il Dna. Il riduzionismo ha una lunga tradizione. La scienza deve occuparsi della natura dettaglio per dettaglio, dopodiché il quadro d’insieme prenderà corpo in modo quasi automatico. Ed è necessaria la massima obiettività, perché ogni sentimentalismo è solo deleterio. Già Galileo Galilei, uno dei padri fondatori del naturalismo moderno, bandì tutte le sensazioni soggettive da ciò che considerava scientifico. “Misura ciò che è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è”: gran parte dell’odierna ricerca sul cervello segue alla lettera questo principio galileiano. Gli studiosi misurano infatti i flussi cerebrali e i neurotrasmettitori e, dai risultati conseguiti, cercano di dedurre le cause prime di quella che chiamiamo coscienza. Una cosa sensata, a giudizio di molti. Ma c’è un problema, dice Tononi, perché la scienza, pur addentrandosi nel profondo della materia del cervello, vi trova sempre e solo materia, ma nessuna informazione sulla coscienza. In che modo, guardando una ciliegia rossa, percepiamo davvero il colore rosso? O, ascoltando le opere per organo di Bach, avvertiamo un rimbombo dentro di noi? Oppure, toccando il legno del tavolo da pranzo, lo sentiamo liscio e caldo? Come fa questa massa grigia di grassi, proteine e acqua che abbiamo nella testa a sapere di esistere e che c’è

LA RETE DELL’ESPERIENZA Christof Koch, il convertito: fino a poco tempo fa lo studioso americano credeva di poter trovare la coscienza nella “giungla” delle cellule nervose. Poi però si è convinto che essa si forma sempre quando le informazioni vengono messe in relazione in modo complesso, per esempio tramite le vie di segnalazione del cervello, evidenziate in modo chiaro nella figura a destra. Per i colori si veda la legenda dell’illustrazione nella pagina precedente.


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Alfonso Nieto Casta帽贸n/Gabrieli Lab. McGovern Institute for Brain Research/MIT


Deanne Fitzmaurice


Determinate regioni cerebrali si “accendono” in perfetta sincronia. Tramite lo studio di queste correlazioni (nella figura rappresentate mediante linee colorate), gli studiosi sperano di scoprire come è organizzato il nostro organo del pensiero. A sinistra, Christof Koch.

Joachim Böttger; Ralph Schurade & Daniel Margulies/Max- Planck-Forschungsgruppe „Neuroanatomie & Konnektivität“, MPI für Kognitations-und Neurowissenschaften, Leipzig/www.cbs.mpg.de/groups/misc/nac (4)

FUOCHI D’ARTIFICIO SINCRONIZZATI

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PUNTI COLLEGATI Gli scienziati sono riusciti a stabilire quanto sia stretto il collegamento esistente tra oltre 20 mila punti della corteccia cerebrale. Il colore dei punti simboleggia la direzione della connessione (rosso = sinistradestra, verde = avanti-indietro, blu = sopra-sotto). Nella figura sono visibili zone del cervello che svolgono le stesse funzioni: per esempio al centro, in rosso, la corteccia motoria, responsabile del controllo e dell’esecuzione dei movimenti.

tutto un mondo intorno a lei? Giulio Tononi crede che la risposta a questa domanda fondamentale della nostra esistenza non sia nello spazio infinitesimale delle sinapsi e dei neuroni. La scienza, secondo lo studioso, dovrebbe osservare il mondo direttamente dal punto di vista della coscienza. «Alla fine la coscienza è l’unica cosa veramente reale», commenta il neuroscienziato italiano. Abbiamo una percezione e nella nostra coscienza si forma un’immagine, un’esperienza, e solo questo dato di fatto è indiscutibilmente vero. E tutto il resto? Pura speculazione. La domanda se il rosso di una ciliegia sia lo stesso colore rosso per tutti noi sfugge a ogni misurabilità. Descrivere qualcosa come rosso è di per sé una mera convenzione. Questo approccio di Tononi stravolge tutte le teorie formulate finora e sta creando grande scompiglio nella comunità neuroscientifica. Inoltre ha fatto molto riflettere la posizione di uno scienziato influente, in teoria uno dei più strenui oppositori di Tononi, che invece da

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qualche tempo condivide la sua teoria: Christof Koch, collaboratore di Francis Crick, il biologo inglese che fu tra gli scopritori della struttura del Dna. Oggi Koch è direttore scientifico dell’Allen Institute for Brain Science di Seattle, negli Stati Uniti, una delle istituzioni più importanti e meglio finanziate nel campo delle neuroscienze a livello mondiale. Un tempo era un appassionato sostenitore della tesi classica: la coscienza umana è un fascio di cellule nervose e se comprendiamo come funzionano, riusciremo a svelare anche i segreti della coscienza. I NEUROSCIENZIATI SONO PASSATI DA UNA VITTORIA EFFIMERA ALL’ALTRA. Hanno cercato, ma sempre

invano, di trovare l’origine della coscienza nelle strutture piramidali della corteccia cerebrale, in una determinata forma di sincronicità nell’accensione dei neuroni, nella modalità in cui le informazioni si muovono nell’organo del pensiero tramite migliaia e migliaia di cicli di feedback, presenti anche nel termostato di un termosifone. E anche se le

cellule piramidali fossero la sede del sentire soggettivo, questo non spiegherebbe ancora come e perché esso possa nascere dalla vile materia. Ciò rimarrebbe un mistero, come quello di Aladino, che sfrega la sua lampada e ne fa uscire il genio. Ma nel nostro caso la lampada è microscopica e il genio è l’io. Poi, finalmente, Koch e Tononi si sono incontrati e il secondo ha fatto cambiare idea al primo. I due neuroscienziati formano un “duo neuronale” di straordinaria efficacia. Christof Koch immette le conoscenze in un megacomputer sperimentale. Lo studioso americano guida un team di 240 scienziati, che negli ultimi anni ha prodotto mappe estremamente precise di cervelli di uomini e topi e oggi si occupa di analizzare il cervello mentre lavora, in tempo reale. Entro il 2022 il numero dei collaboratori di Koch dovrebbe raddoppiare e Paul Allen, fondatore di Microsoft insieme a Bill Gates, investirà complessivamente un miliardo di dollari nei suoi progetti di ricerca sul cervello. Dal canto suo, Giulio Tononi cerca di capire l’enigma della coscienza in ma-


Livet, Weissman, Sanes & Lichtman/Harvard University

L’ARCOBALENO NELLA TESTA Gli studiosi non solo cercano le connessioni su vasta scala, ma analizzano anche i microcollegamenti tra i singoli neuroni. Per distinguere le cellule individuali e le loro appendici si ricorre a topi geneticamente modificati, i cui neuroni “brillano” di diversi colori, come, nella figura a sinistra, in una parte della formazione dell’ippocampo, dove vengono organizzati i ricordi.

niera diretta. Qual è la natura del senso dell’esistenza che ricerchiamo? Forse è un fenomeno che nasce quasi da solo con l’unione di un numero sufficiente di cellule cerebrali di fatto inconscie (qualcosa di analogo all’“umidità” dell’acqua, che non è insita nelle singole molecole, ma si sviluppa solamente quando milioni di esse insieme formano un liquido)? Oppure la coscienza è piuttosto una qualità universale, come la massa che possiede ogni singola particella elementare fin dal principio e che quindi è già esistente? E, in determinate condizioni, il fenomeno naturale della coscienza non potrebbe nascere anche sotto forma di cellule cerebrali con un’altra materia? PER RISPONDERE A QUESTE DOMANDE, GIULIO TONONI È PARTITO DALLO STUDIO DEL SONNO. Tutte le

notti, quando chiudiamo gli occhi, la nostra coscienza si perde nel sonno profondo. Ma, anche se l’esperienza soggettiva è “disattivata”, il nostro cervello continua a essere attivo, le cellule nervose si “accendono”, i neurotrasmettitori molecolari sono in circolo. Come è possibile?

Durante la fase del sogno, invece, la coscienza “vibra” con immutata intensità: attraversiamo un campo di fiori sotto il cielo azzurro, proviamo felicità o paura e queste esperienze sono per noi tanto intense e reali quanto quelle del mondo esterno. Secondo Tononi, ciò dimostra che la coscienza funziona anche senza una dimensione esteriore e che questa è solo un prodotto della coscienza stessa. «Sogniamo continuamente. Anche quando siamo svegli», osserva lo studioso italiano. Per affinare la sua opera intellettuale Tononi si è creato negli anni un ambiente speciale: con un trattore ha realizzato un lungo sentiero nel grande bosco di querce intorno alla sua abitazione, dove va spesso in compagnia di Christof Koch. Durante queste passeggiate i due discutono delle loro teorie. Ci sono voluti molti anni prima che Tononi elaborasse la sua tesi in modo così esauriente da poterla pubblicare. Il suo motto è: “La coscienza è informazione integrata”. Una frase un po’ criptica, il cui significato è il seguente: la coscienza si forma

ogni volta che i dati, interconnessi in modo complesso, si fondono in un agglomerato di informazioni indivisibili, in un’esperienza “integrata” appunto. Prendiamo come esempio l’imponente quercia nel parco di Tononi. La sua corteccia è ruvida, di colore brunastro, le sue foglie volano e cadono frusciando rumorosamente insieme a quelle di altri alberi e piante tutt’intorno. L’esperienza soggettiva che questo albero suscita nella percezione di un osser-

SOGNIAMO IN CONTINUAZIONE, ANCHE QUANDO SIAMO SVEGLI vatore racchiude un’infinità di informazioni simultanee e non separabili le une dalle altre. Ogni volta che si guarda la quercia, la conoscenza individuale è specifica e unica, a giudizio di Tononi. Questa singolarità diventa ancora più chiara paragonandola a un’altra tipolo-

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gia di elaborazione delle informazioni: ovviamente è possibile acquisire un’immagine dell’albero anche con l’ausilio di una fotocamera che utilizzi, per esempio, un chip con un milione di fotodiodi, ciascuno dei quali è in grado di indicare la presenza/assenza di luce. Essi accettano solo uno dei due valori: luce 1 o luce 0. Ogni scena ripresa produce un altro modello di valori 0 e 1. In totale sono possibili 21. 000. 000 di alternative,

COME CI SI SENTE A ESSERE UN GUFO O UN COMPUTER? una mole di informazioni gigantesca trasmessa in modo fulmineo. Eppure nessuno attribuirebbe alla macchina fotografica una forma definita di coscienza, per la cui creazione, secondo Tononi, è decisiva una seconda caratteristica, oltre all’elaborazione rapida dei dati: l’integrazione. Ossia tutte le componenti delle informazioni devono essere collegate tra loro per miriadi di volte ed essere messe in relazione le une con le altre. I fotodiodi della fotocamera digitale lavorano però in modo del tutto indipendente tra loro e non hanno alcuna possibilità di influenzarsi a vicenda, di formare un’“esperienza”. Ma nel cervello, sostiene Tononi, le cellule e le informazioni interagiscono, pertanto un’esperienza soggettiva dà vita a un insieme unitario senza lasciarsi scomporre negli elementi che percepiamo come individuali. Quando osserviamo la quercia in maniera conscia, il marrone del fusto e la sua forma, l’aspetto della chioma e il fruscio delle sue foglie sono un tutt’uno. Possiamo provare a vedere solo il colore e a nascondere la forma, ma non ci riusciremo. L’informazione integrata è quella che si sviluppa in un cervello in aggiunta alle attività delle singole componenti. Questa teoria della percezione vissuta è

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tanto semplice quanto avvincente, e Christof Koch, riduzionista convinto e tra i più autorevoli esperti nel campo delle neuroscienze, afferma: «Finora è il tentativo più elegante e concreto di sviscerare la coscienza con argomentazioni verificabili». UN BELL’ELOGIO, MA NON È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA. Infatti,

se è vero che la coscienza si forma quasi automaticamente appena le informazioni vengono collegate tra loro in modo ben determinato (e complesso), allora questo “cinema” interiore, l’esperienza soggettiva del mondo, può svilupparsi non solo nel cervello umano, ma dappertutto, in ogni sistema che sia organizzato in maniera sufficientemente complessa, per esempio negli animali o nella tecnologia inanimata, anche se noi uomini non possiamo sapere cosa provi un gufo o un computer. O magari internet. «La capacità di essere cosciente è una proprietà fondamentale di ogni materia», afferma Tononi. Il quale è perfettamente consapevole di quanto sia provocatoria questa teoria, poiché è simile a una filosofia naturalistica che, pochi anni fa, avrebbe fatto venire il voltastomaco solo a menzionarla a riduzionisti come Christof Koch o al suo padre spirituale Francis Crick: panpsichismo. L’idea che anche la materia sia animata e che la coscienza pervada l’intero mondo materiale ha una lunga e antica tradizione nelle filosofie dell’Estremo Oriente e nel pensiero di filosofi come Giordano Bruno, Baruch Spinoza e Pierre Teilhard de Chardin. Nell’Ottocento il panpsichismo fu bandito dalle scienze naturali e bollato come esoterismo. Oggi Tononi e Koch propongono una sorta di manifesto: «La teoria conferma alcune intuizioni spesso associate al panpsichismo, ossia che la coscienza sia una proprietà intrinseca e basilare, che si manifesta in maniera graduale ed è largamente diffusa sia tra gli esseri viventi biologici che tra i sistemi elementari».

Non tutti gli studiosi sono entusiasti del fatto che i neuroscienziati si occupino di tali questioni esistenziali. Vari filosofi, come l’australiano David Chalmers, considerano la coscienza inspiegabile con gli strumenti delle scienze naturali, perché si tratta di un fenomento puramente mentale. Altri, quali il francese Stanislas Dehaene, chiedono che vengano prese in considerazione solamente le funzioni cerebrali concrete e misurabili in modo inequivocabile, soprattutto la distribuzione spaziale delle informazioni all’interno del cervello. E il filosofo tedesco Jan Slaby inveisce contro l’eccessivo risalto dato alla coscienza, che a suo avviso annebbia la vista dei ricercatori: «Dal punto di vista filosofico è comunque un problema vedere la coscienza come un fenomeno separato, staccato per esempio dalla capacità di agire o dall’intelletto. Pertanto è facile che la ricerca si concentri solo su una porzione isolata artificialmente di un fenomeno molto più ampio e complesso, omettendo il resto». Ma allora come può uno studioso come Christof Koch approvare la teoria? Ciò dipende dal fatto che è nettamente diversa dalle vecchie formulazioni del panpsichismo. Innanzitutto la coscienza secondo Tononi non è affatto onnipresente (come una scintilla divina), ma si manifesta solo in determinate condizioni. Per esempio un mucchio di sabbia può non essere dotato di coscienza per mancanza di collegamenti. In secondo luogo il neuroscienziato italiano non ha del tutto accantonato l’antica richiesta di obiettività scientifica di Galilei e sta compiendo un grande passo per avvicinarsi ai suoi oppositori: anche Tononi, infatti, vuole misurare, ossia stabilire quanto siano effettivamente coscienti un uomo, un animale, una pianta o una macchina. USCIAMO DAL BOSCO E TORNIAMO VERSO CASA TONONI. Passiamo da-

vanti a un forno per la pizza all’aperto, sul quale campeggia, in metallo, la lette-


Kwanghun Chung & Karl Deisseroth/Deisseroth Lab/Stanford University

ra dell’alfabeto greco Φ (phi), che Tononi ha eletto a simbolo della propria teoria e che in futuro dovrebbe diventare una vera e propria unità di misura della coscienza. Maggiore è il valore di phi in un sistema, maggiore sarà la quantità di informazione integrata e di coscienza che si forma per esempio in un essere vivente, a parte la semplice somma delle singole componenti. In un fotodiodo, così come in un paziente in coma profondo, il valore di phi sarà estremamente basso, mentre risulterà elevato in persone sveglie o che stanno sognando. Tuttavia, per calcolare effettivamente il loro phi, occorre ancora comprendere con la massima precisione possibile il cervello e le relative funzioni, ed è qui che entra in gioco la macchina sperimentale di Christof Koch. Infatti la complessità delle connessioni va misurata e per farlo dobbiamo sapere esattamente dove e come si genera questa complessità nel cervello. La decodifica della coscienza non è un obiettivo ufficiale per l’Allen Institute, perché il fondatore Paul Allen si è posto

solo traguardi concretamente raggiungibili. Nei prossimi anni, tuttavia, l’istituto potrà concentrare il grosso delle proprie risorse su quella parte del cervello considerata indispensabile per la coscienza: la corteccia. In questo campo Koch in passato ha già ottenuto dei successi insieme a Francis Crick. I due studiosi hanno spiegato per esempio il motivo per cui il cervelletto, pur essendo costituito da miliardi di cellule, non offra alcun contributo alla coscienza: perché funziona piuttosto come una fotocamera digitale, che elabora i dati rapidamente ma con poche interconnessioni. Inoltre, in un articolo del 2005, Koch e Crick hanno postulato che il claustro, una sottile lamina di sostanza grigia nel telencefalo dei mammiferi, svolge un ruolo centrale nel collegamento e nella combinazione dei contenuti della coscienza. Per questo Koch ha reagito in maniera entusiasta quando, nel maggio 2014, i ricercatori hanno reso noto che la stimolazione elettrica in questa regione cerebrale di una paziente ha avuto l’effetto di un interruttore sulla coscienza.

Ebbene no, anche sulla base di questo nuovo dettaglio, la supposizione che la sede della coscienza si trovi davvero nel cervello non troverà conferma definitiva. Lo stesso Koch, che a lungo ha considerato l’uomo come un “mucchio di cellule nervose”, si è nel frattempo convinto che nel cervello non c’è un luogo chiaro e ben definito che possa ospitare la coscienza. Ma da queste singole conoscenze scaturiscono sempre nuovi indizi su come Tononi riuscirà effettivamente a misurare il suo Φ. RIPENSANDO ALL’ESPERIENZA IN LABORATORIO, KOCH PUÒ RITENERSI SODDISFATTO. I suoi 240 colla-

boratori hanno fatto un ulteriore passo avanti nell’universo del cervello e ogni nuovo dettaglio scientifico potrebbe andare ad alimentare la teoria della coscienza. Un giorno il giovane ricercatore americano Jonathan Ting si trovava davanti alla sala operatoria di un ospedale, nell’attesa che un chirurgo gli consegnasse un piccolo pezzo di cervello umano vivente, prelevato da una perso-

VISIBILITÀ PERFETTA FIN NEL PROFONDO Grazie a un sensazionale processo chimico, i ricercatori sono riusciti a vedere cosa c’è nel cervello dei topi. La figura accanto rappresenta una porzione dell’ippocampo deputata alla gestione della memoria; qui le cellule nervose possono assumere una colorazione diversa a seconda della funzione svolta, e in questo modo si possono riconoscere le reti neurali.

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Politiche di ricerca

ASSALTO AL CERVELLO Con due megaprogetti in Europa e negli Stati Uniti i ricercatori stanno facendo un ulteriore tentativo per decifrare l’organo del pensiero umano. Si tratta delle due iniziative neuroscientifiche meglio finanziate a livello mondiale, nelle quali americani ed europei adottano due approcci del tutto diversi. Il progetto targato Usa si chiama Brain Initia­tive. Lanciato nel 2013 dal presidente Obama in persona, ha una portata così ampia da essere stato paragonato al Programma Apollo e al Progetto Genoma Umano. Nel giugno 2014 una commissione di 20 esperti ha presentato la tabella di marcia del progetto e ne ha calcolato i costi: l’equivalente di circa 3,3 miliardi di euro fino al 2025. Initiative Brain sta per Brain research through advancing innovative neurotechnologies (Ricerca sul cervello tramite neurotecnologie innovative avanzate) e, come dice il nome stesso, si focalizza sullo sviluppo di nuove tecnologie, strumenti con i quali gli scienziati puntano a differenziare i vari tipi di cellule nervose nel cervello, a registrare i

na affetta da epilessia che era stata appena operato. In laboratorio il team di Koch ha sezionato il tessuto cerebrale in frammenti di 350 micrometri ciascuno, quindi, per analizzare le singole cellule, sono stati impiegati tutti gli strumenti che le moderne neuroscienze mettono a disposizione: piccoli morsetti per misurare gli impulsi elettrici, sensori per rilevare l’attività genetica, coloranti per distinguere i tipi di cellule. Ting è riuscito a osservare un cervello umano in vita e a raccogliere dati che forse in seguito serviranno come indizi. Alla fine Jonathan Ting ha pronunciato una frase molto amata dal suo capo: «È stata un’esperienza estrema, sembrava un film di fantascienza!». Nell’esperimento sono stati impiegati anche i topolini dell’Allen Institute: per

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modelli di attività delle reti neurali e a distinguere i circuiti locali da quelli che si estendono su regioni più vaste. Ma soprattutto non puntano più solamente a osservare le associazioni cellulari, bensì stimolarle o inibirle in modo mirato per poi interpretarne gli effetti. Nella prima fase i ricercatori americani intendono lavorare sugli animali. Solo successivamente studieranno anche il cervello umano “in azione”. Tra le finalità dell’iniziativa ci sono anche applicazioni meramente pratiche: gli scienziati auspicano infatti di giungere a conclusioni che possano rivelarsi utili nelle terapie contro il morbo di Parkinson o di Alzheimer, due malattie neurodegenerative causate dalla morte delle cellule cerebrali. Nell’ottobre 2013 l’Unione europea ha invece varato il suo Human Brain Project (Hbp), che si pone l’ambizioso traguardo di comprendere come funzionano le reti delle cellule nervose e di riprodurle digitalmente per riuscire a effettuare una simulazione integrale del cervello umano al computer. Al progetto partecipano 112 istituti di 24 Paesi, per un finanziamento che ammonterà alla

potere determinare la presenza della coscienza nel cervello Koch ritiene importante osservare l’intero organo dal vivo, ma nell’uomo ciò è possibile solo in maniera limitata, poiché la Tac ha una cattiva risoluzione e mostra mezzo milione di cellule cerebrali in un solo pixel. Koch però vuole vedere l’interazione delle cellule nel dettaglio, pertanto è necessario addentrarsi ancora di più nella fitta “giungla” neuronale. Il neuroscienziato ha quindi fatto correre le cavie su alcuni giradischi modificati in una stanza oscurata. Mentre correvano, gli animaletti si muovevano a volte in senso longitudinale, a volte in senso trasversale. Su grandi monitor i ricercatori di Koch osservavano direttamente i cervelli dei topi, ai quali era stato praticato un piccolo foro in testa, una sorta di finestrella da cui si poteva vede-

cifra di un miliardo di euro circa fino al 2023. Il progetto è la continuazione diretta del Blue Brain Project (Bbp), nel quale il neuroscienziato dell’Università di Losanna (Svizzera), Henry Markram, ha eseguito la copia digitale di un’unità funzionale del cervello del ratto, una cosiddetta colonna neocorticale di circa 10 mila neuroni. A dimostrazione della complessità dell’opera intrapresa dai ricercatori, bisogna dire, però, che la corteccia cerebrale dell’uomo è composta da circa 100 mila di queste colonne. A differenza della Brain Initiative americana, i programmi europei si concentrano sull’informatica, nell’intento di realizzare dei supercomputer “neuromorfi” che sfruttino i principi di funzionamento del cervello. Nel luglio 2014 l’Hbp è però finito nel mirino della critica: in una lettera di protesta, 154 scienziati hanno accusato la Commissione europea di scarsa trasparenza per quanto concerne le decisioni da parte dei dirigenti, mettendo inoltre in dubbio la strategia del progetto. Johannes Giesler

re la materia grigia. Le cavie sono state geneticamente modificate in modo che le cellule nervose attive fossero “accese”, e gli studiosi hanno potuto assistere al “concerto neuronale” della corteccia cerebrale attraverso quella piccola finestra. Il cervello in diretta: uno spettacolo inquietante. Secondo i ricercatori, le cavie non soffrono affatto durante i test e poter osservare le cellule pulsanti apre prospettive scientifiche completamente nuove, assolutamente impensabili fino a pochi anni fa. Nessun altro scienziato ha tante risorse a disposizione come Koch, che, a ragion veduta, afferma: «Un po’ come gli astronomi, che osservano miliardi di galassie e di stelle nell’universo con i loro telescopi, noi stiamo costruendo un osservatorio del cervello, grazie al quale pos-


DI QUESTO OSSERVATORIO FARÀ PARTE ANCHE LO STRUMENTO DI MISURA che Giulio Tononi sta testando

nel seminterrato del suo istituto in Wisconsin, dove ad alcuni volontari vengono misurati i flussi cerebrali tramite elettroencefalogramma (Eeg). Un metodo semplice e utilizzato da tempo negli interventi chirurgici per stabilire se nel paziente anestetizzato si verifichi davvero una perdita di coscienza. Tale metodologia presenta tuttavia delle lacune: ci sono stati infatti casi in cui l’Eeg ha dichiarato privi di sensi pazienti che invece dopo l’operazione hanno detto di ricordare tutto, anche il dolore. Ma se, in base alla teoria dell’integrazione dell’informazione formulata da Tononi, il livello di coscienza dipende soprattutto dalla complessità dei contatti tra le informazioni stesse, allora dovrebbe essere possibile determinarlo misurando tale complessità. Nel laboratorio del sonno ai volontari viene apposta una placca metallica sulla testa, che conferisce loro un forte impulso magnetico e stimola così le cellule cerebrali. Il nuovo “coscienziometro” di Tononi misura come il cervello reagisce all’interferenza, mostrando non più solo se e dove compaiono i flussi cerebrali, ma anche in quale modo incrociato e intregrato si muovono nell’intero organo. «Se le regioni cerebrali elaborano il segnale di disturbo in modo sconnesso le une dalle altre o se tutto il cervello risponde con un modello monotono, è probabile che il paziente sia in uno stato di incoscienza. Ma se l’elaborazione del segnale reagisce all’impulso magnetico in maniera molto complessa e molte regioni del cervello comunicano tra loro durante questo processo, allora ci sono molti elementi a favore della coscienza», osserva Tononi. Gli studiosi sperimentano la cosiddetta stimolazione magnetica transcraniale su volontari sani sotto anestesia e durante

la fase di sonno profondo, su pazienti in coma e affetti da sindrome locked-in, condizione nella quale il soggetto è cosciente e sveglio, ma non può muoversi né comunicare a causa della completa paralisi di tutti i muscoli volontari del corpo. «Le nostre misurazioni hanno fatto registrare esiti talvolta migliori rispetto alle valutazioni effettuate dai medici curanti sui loro pazienti», dichiara Tononi, che sogna una specie di indice in grado di aiutare dottori e parenti a riconoscere l’effettivo livello di coscienza del paziente. La teoria di Tononi e Koch tuttavia non si applica solamente a tali situazioni estreme, ma si propone di essere usata nella vita di tutti i giorni. In futuro, grazie alla teoria dell’informazione integrata, dovrebbe essere possibile stabilire in quale forma (e con quanto phi) anche le macchine possano sviluppare una coscienza. Al momento la risposta è negativa. Ai computer odierni mancano interconnessioni corrette e complesse. Ciò vale anche per internet, la rete delle reti che collega tra loro miliardi di computer. Non è concepibile che essa possa davvero fare concorrenza al cervello per quanto riguarda il valore di phi. Gli scienziati, invece, sono giunti a esiti diversi per quanto riguarda gli animali, ai quali non si addice comunque l’etichetta di “biorobot” affibbiatagli per tanto tempo, ma è probabile che siano largamente dotati di coscienza, anche se con un valore di phi inferiore rispetto a quello dell’uomo, che tuttavia è ancora da misurare. Queste conoscenze hanno inoltre una dimensione morale: «Fin dai tempi di Galileo Galilei la scienza tratta tutti i propri oggetti – pianeti, piante, animali, non così di rado addirittura anche l’uomo – come zombi senza coscienza, privi di valore interiore», commenta Tononi. A suo avviso, questo punto di vista ci ha indotti a considerare per molto tempo gli animali e tutta la natura come un mezzo per raggiungere uno scopo. «Se qualcosa possiede una coscienza,

non può essere soggetto a questa visione utilitaristica, ma va rispettato come avente un fine in sé», conclude Tononi. La sera, attraversando il bosco, vede tutt’intorno un paesaggio speciale, quello dell’onnipresente coscienza. Si immagina allora come sarebbe se si potesse vedere la coscienza come una foresta in cui si accendono sempre nuove luci appena gli animali si destano dal sonno. Da parte sua, Christof Koch non mangia

IL GRANDE TRAGUARDO: ASSISTERE A UN CONCERTO NEURONALE DAL VIVO più carne di mammifero dopo aver aderito alla teoria di Tononi, pur continuando a utilizzare cavie per i suoi esperimenti scientifici in laboratorio perché non vede alternative a questa prassi. Koch si definisce ora un “riduzionista romantico” ed è convinto che, se guardiamo dentro la coscienza e la complessità della vita, la nostra consapevolezza possa aumentare enormemente. La ricerca dell’origine della coscienza, almeno, ha già prodotto un risultato: quello di indirizzare il ricercatore a uno stile di vita più consapevole, più cosciente.

Christian Schwägerl

siamo vedere i miliardi di cellule all’interno delle nostre teste».

Un giorno la coscienza si svilupperà nei computer? Una questione di cui il redattore di GEO Christian Schwägerl si è occupato anche nel suo saggio Die analoge Revolution (La rivoluzione analogica), pubblicato in Germania nell’autunno 2014.

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In partenza verso lande desolate: 600 chilometri a nord di Adelaide i dromedari trasportano ogni genere di attrezzature attraverso il deserto di Simpson per conto della Onlus Australian Desert Expeditions.

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AVVENTURA

A dorso di cammello nel regno dei giganti In Australia, in una zona del deserto di Simpson accessibile solo ai dromedari, un gruppo di ricercatori vuole riportare alla luce creature primitive, gigantesche e dalla storia misteriosa, per rispondere a una domanda fondamentale: chi o che cosa ha fatto scomparire questi colossi? Testo Jรถrn Auf dem Kampe / Foto David Maurice Smith


Dopo quattro giorni di marcia a piedi la spedizione raggiunge quest’ansa del Kallakoopah Creek, dove c’è ancora dell’acqua salata lasciata dalle ultime abbondanti precipitazioni. Sopra il letto del fiume c’è una ripida scarpata piena di ossa.

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Ogni mattina i dromedari vengono caricati di sacchi, casse e taniche con 900 litri di acqua potabile. Ogni animale può trasportare fino a 3 quintali per una cinquantina di chilometri e riesce a stare senz’acqua per due o tre settimane.


Territorio del Nord Queensland

AUSTRALIA

Australia Occidentale

Australia Meridionale

Nuovo Galles del Sud Victoria

Tasmania

È

un po’ come un romanzo giallo. E, come tutti i gialli, anche questo ha un inizio tragico: tutto comincia con la morte delle più grandi creature dell’Australia, che per molto tempo hanno dominato il continente per poi scomparire tutte insieme. Nessuna è sopravvissuta: canguri di dimensioni eccezionali, imponenti leoni marsupiali con temibili artigli o parenti dei moderni vombati grandi quanto un minibus. Con loro scompare tutta una serie di animali enormi, che gli scienziati chiamano megafauna. Il regno dei giganti. Da decenni la scienza sta cercando di ricostruire l’evento sulla base di nuovi indizi, tuttavia questa improvvisa estinzione è ancora uno dei principali enigmi nella storia dell’evoluzione, sul quale si continua a discutere. Secondo alcuni studiosi, noi uomini abbiamo sterminato gli animali della megafauna in un batter d’occhio. 45 mila anni fa è stato perpetrato un genocidio zoologico, il primo di una lunga serie nella storia dell’Homo sapiens. Una tesi sostenuta soprattutto dai paleontologi australiani, i cercatori di fossili. L’altro schieramento, rappresentato principalmente dagli archeologi, replica invece che si è trattato di un incidente geologico: circa 40 mila anni fa il clima del continente australe divenne sempre più secco e i giganti della megafauna morirono di fame, estinguendosi a poco a poco. «Abbiamo bisogno di prove», sostiene Jillian Garvey. Per questo cammina faticosamente sulle dune del deserto di Simpson, nello Stato federale dell’Australia Meridionale, portandosi dietro gli attrezzi del mestiere: martello da geologo per i lavori più duri, spazzolino e ago per quelli più delicati. Garvey, 38 anni, sfrutta i metodi della polizia scientifica, ma non intende prendere una posizione precisa sull’oggetto del dibattito. Del resto non è solo un’archeologa, ma ha anche una laurea in paleontologia.

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La fortuna del ricercatore: Charlie Nicholson, il botanico della spedizione, trova diverse piante di notevole interesse scientifico (sopra). Accanto a destra: un gruppo di cacatua rosa. Il team può riposare solo dopo aver trovato un posto adatto per accamparsi dopo ore di marcia (qui sotto).


Nel profondo entroterra australiano, il cosiddetto outback, a 600 chilometri dalla costa più vicina, la ricercatrice spera di poter riesumare le ossa e i resti di creature scomparse. Forse troverà anche altro, magari indizi utili alla soluzione del caso: tracce di tagli sulle ossa che confermerebbero l’ipotesi secondo cui fu l’Homo sapiens a macellare le vittime. O anche solo schegge di una pietra tagliente, residui di un’arma rinvenuta accanto a un animale morto, che solo un uomo può avere costruito e utilizzato. Sarebbero entrambe scoperte sensazionali. Intanto la studiosa ha ancora qualche giorno di marcia davanti a sé e non è sola. È UNA MATTINA FRESCA quando la

spedizione si mette in cammino nel deserto. La dottoressa Harvey è accompagnata, tra gli altri, da un botanico e da un ecologo. Il team conta 20 persone in tutto, ci siamo anche noi di GEO. Il giorno prima le nostre jeep hanno percorso per ore una pista polverosa e accidentata, poi abbiamo incontrato gli altri in un campo base provvisorio. D’ora in poi il terreno sarà così impervio da risultare impraticabile anche per i fuoristrada. Troppo ripide le pendenze, troppo profondi i crepacci. Il deserto di Simpson è una fortezza che può essere espugnata solo a piedi. Con noi abbiamo 900 litri d’acqua, pasta,

mele, carne in scatola, un fucile a pallini e uno da caccia di grosso calibro. Per eventuali emergenze non mancano medicinali, due telefoni satellitari e una cassettina con un pulsante d’allarme che, se premuto, fa arrivare una squadra di salvataggio in elicottero. Il viaggio è reso possibile da 18 esemplari di Camelus dromedarius, il cammello a una gobba, oggi il più grande animale da fattoria in Australia. La natura lo ha dotato di uno sguardo languido e di un fiato maleodorante. Il team lo carica di selle, casse, sacchi e taniche. Gli animali procedono in due colonne sulla cima di una duna sabbiosa, mentre i cammellieri marciano alla testa di ciascuna colonna. I dromedari sono legati con delle funi come in una cordata. Lungo il Kallakoopah Creek la carovana va verso nord-ovest, supera il letto asciutto dei rami laterali del fiume e raggiunge la cresta di altre dune. Il traguardo dista 50 chilometri. Tra quattro giorni il team intende piantare l’accampamento là dove anni fa un’altra spedizione trovò casualmente alcuni scheletri nascosti nei sedimenti sulle rive del Kallakoopah Creek. Allora agli studiosi mancò il tempo per esplorare il sito, ma intuirono che si trattava dei resti di animali giganti. UNO CHIASSOSO STORMO DI CACATUA ROSA invade la chioma di un

eucalipto abbattuto da un fulmine, per il resto intorno a noi quasi non si muove una foglia. Il nostro cammino, su entrambi i lati, è costellato da grandi acacie ma i nostri sguardi sono attratti per lo più dalle affascinanti “sculture” formate dai rami morti. Ai tempi della megafauna qui, nel cuore dell’Australia, c’era una distesa verde di savana piena di alberi e pascoli che offriva cibo sufficiente per gli enormi animali presenti sul continente, come per esempio il Genyornis newtoni, un uccello simile all’odierna oca, ma alto oltre due metri e con zampe molto robuste. Si nutriva di verdura e probabilmente andava anche a caccia di insetti. Una creatura massiccia, che ricorda vagamente un rinoceronte; molto abile nel dissotterrare radici e tuberi. I canguri erano ancora più impressionanti. Pesavano fino a 230 chilogrammi (tre volte di più rispetto ai più grandi canguri odierni) e popolavano la savana. Le loro mascelle erano estremamente possenti e in grado di masticare ortaggi per ore. Malgrado fossero così corpulenti, riuscivano comunque a muoversi velocemente e ciò costituiva un vantaggio, perché nel sottobosco stavano in agguato i leoni marsupiali, che forse tendevano attacchi a sorpresa, come i moderni leopardi, e smembravano con facilità le loro prede, anche quelle di grossa taglia.

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Genyornis Erbivoro e foglivoro, due metri di altezza, parente dei moderni anseriformi (per esempio le oche). 2,5 milioni di anni fa

70.000 anni fa

60.000

50.000

Clima più umido

Il periodo aureo della megafauna La vegetazione dell’Australia cambia, le foreste pluviali diminuiscono, le savane si estendono e compaiono sia fitofagi di dimensioni sempre maggiori sia giganteschi predatori, che se ne cibano.

L’uomo si sposta verso Est Proveniente dall’Africa, l’Homo sapiens si è diffuso fino in Indonesia. In seguito raggiungerà via mare la Nuova Guinea.

Vi sono scarse testimonianze dell’epoca della megafauna, pertanto alcuni dati si basano su congetture scientifiche.

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N U O VA G U I N E A

AUSTRALIA ( 6 0 M I L A A N N I FA )

L’invasione Una glaciazione ha fatto scendere il livello del mare, di conseguenza i primi uomini arrivano in Australia via terra, attraverso un istmo. Il continente è molto più verde e di circa 2,5 milioni di chilometri quadrati più grande rispetto a oggi (questa superficie si trova ora sott’acqua).

Palude

Foresta pluviale

L’era della caccia grossa? Alcune specie della megafauna sono scomparse 45 mila anni fa, forse sterminate dalla caccia indiscriminata da parte dell’uomo.

Terreno boschivo aperto


La grande uscita di scena I motivi dell’estinzione della megafauna australiana sono sconosciuti, ma è chiaro che l’evento ebbe luogo quando l’uomo arrivò sul continente e il clima cambiò. Testo Martin Künsting / Illustrazione Roman Uchytel

Diprotodonte Il più grande marsupiale della storia. Peso: tre tonnellate.

Megalania Varano gigante lungo sette metri, con bocca dotata di ghiandole velenifere. 40.000

30.000

20.000

10.000

oggi

Clima più secco

Un mondo che cambia Circa 40 mila anni fa il clima diventa più freddo e più secco, e si formano i primi deserti. 20 mila anni dopo le zone aride raggiungono la loro massima estensione. Secondo molti studiosi, sono questi cambiamenti climatici la causa principale dell’estinzione.

Boscaglia

Pascolo/subdeserto

N U O VA G U I N E A

AUSTRALIA ( 2 0 M I L A A N N I FA )

Prateria

Deserto

Costa odierna

Nuovi pericoli Il clima si stabilizza sui livelli odierni, gli aborigeni hanno ormai sfruttato il continente. A partire dal 1770 gli europei danno inizio a un’epoca che dura tutt’oggi: quella dei cambiamenti troppo rapidi e improvvisi.

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Se qualche reperto rischia di sbriciolarsi, l’archeologa lo immerge in un liquido speciale sulla riva del fiume, indurendo così i

In rapporto al peso del corpo, infatti, i ricercatori attribuiscono loro il morso più potente tra i mammiferi. Tra i colossi della megafauna c’era un rettile: il megalania, un sauro lungo sette metri e pesante una tonnellata. Oltre che di denti aguzzi, era provvisto di ghiandole velenifere con cui uccideva le sue prede. In diversi posti dell’Australia gli studiosi hanno rinvenuto i resti di questi spaventosi giganti, di cui sono note circa 50 specie. Eppure il quadro della megafauna e della sua scomparsa continua a presentare varie lacune, quindi ogni fossile, ogni analisi è importante. QUALSIASI COSA troverà lungo il fiume, Jillian Garvey è preparata. È come un medico legale che vuole scoprire le cause della morte degli animali. A Melbourne si occupa di “archeologia sperimentale”. La studiosa batte le strade provinciali alla ricerca di canguri, vombati o emù investiti dalle auto per farne l’autopsia. Gli aborigeni le hanno raccontato le tecniche di caccia dei loro antenati e le parti degli animali che consumavano o scartavano. La dottoressa Garvey indaga su come lavorassero i macellai della preistoria, su quale parte dello scheletro di un vombato

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o di un uccello gigante abbiano lasciato segni di taglio e quali ossa abbiano spezzato. Sono interrogativi a cui è difficile rispondere, ed è anche per questo che la missione di Garvey è sponsorizzata dal governo australiano. La ricercatrice sa che i resti di un fossile vanno esaminati con cura. Per esempio è difficile riconoscere le incisioni, che comunque sono molto rare. Garvey va quindi alla ricerca anche di altre prove: «La cenere di un falò nei pressi del luogo di ritrovamento, dove i cacciatori primitivi hanno arrostito le prede, sarebbe un buon indizio». Già verso il pomeriggio del primo giorno il team decide di fare una sosta. I dromedari vengono alleggeriti del carico e legati con catene. Quando cala il buio sull’accampamento inizia a far freddo. Chi non è ancora dentro il sacco a pelo si mette guanti e berretto, mentre la Via Lattea risplende nel firmamento. Il giorno dopo attraversiamo un’immensa distesa di sabbia, con le dune che arrivano fino all’orizzonte. Jillian Garvey marcia in fondo alla colonna e si ferma in continuazione per raccogliere oggetti. Trova una selce e passa il dito sugli spigoli taglienti. Qualcuno l’ha lavorata tanto tempo fa e oggi nessuno conosce con

esattezza l’età di tutti gli utensili di cui è disseminata la zona, ma ciascuno di essi avrebbe una storia da raccontare. La storia degli uomini che vissero qui e forse anche quella sulla fine della megafauna. CIRCA 70 MILA ANNI FA gli antenati dei moderni aborigeni vagavano nella zona ovest dell’odierna Indonesia, vivendo di caccia e raccolta, e probabilmente talvolta gli abitanti dell’arcipelago si aggrappavano ad alberi galleggianti in mare e venivano trascinati verso est dalla corrente. Forse avevano anche imparato a costruirsi zattere con canne di bambù, perché arrivarono in Nuova Guinea via mare passando per Sulawesi o Timor. Gli utensili rinvenuti nella penisola di Huon, per esempio, vengono datati a un periodo compreso tra 52 mila e 61 mila anni fa. All’epoca il livello del mare era inferiore rispetto a oggi, di conseguenza i pionieri del mare riuscirono a raggiungere l’Australia, enorme continente ricco di foreste e savane, tramite un istmo di terra. Le tracce di questa “invasione” sono rare. Nel Nord dell’Australia, in un anfratto roccioso presso Darwin, gli studiosi hanno scoperto pitture murali, frammenti di carbone e selci risalenti a ben 50 mila anni fa. Il più antico fossile di Homo


frammenti più fragili. Le parti del cranio sono particolarmente preziose e, per proteggerle, vengono avvolte in un’apposita ingessatura.

sapiens in Australia è solo 10 mila anni più recente ed è stato rinvenuto nel Sud del continente. È quindi un dato di fatto che i primi esseri umani colonizzarono il Paese in un periodo di tempo non più lungo di 10 mila anni. «Molte specie della megafauna si estinsero proprio nella stessa epoca in cui ipotizziamo che l’uomo si sia spinto a Sud», osserva Jillian Garvey. «Ma esiste un nesso causale tra questi due eventi? E, se sì, è possibile provare la colpevolezza dell’uomo dopo così tanto tempo?». A QUESTA DOMANDA gli scienziati,

non solo australiani, stanno cercando di rispondere. In Europa o in America del Nord si trovano tigri dai denti a sciabola della stessa epoca, mammut, leoni delle caverne o rinoceronti lanosi, animali che si sono estinti almeno 15 mila anni dopo la megafauna australiana, tuttavia la comunità scientifica mondiale si divide sul fatto che l’uomo sia stato determinante o meno per la loro scomparsa. Questa ipotesi è particolarmente controversa in Australia. Senza dubbio però la comparsa dell’uomo nel continente australiano ha segnato l’avvento di un predatore efficiente e intelligente, che possedeva armi in pietra, forse utilizzava trappole o

appiccava il fuoco in modo sistematico. Una creatura non enorme, ma enormemente astuta. Ben presto la dottoressa Garvey perde il contatto con la carovana. Ha con sé una radiotrasmittente, ma la ricezione è pessima. L’archeologa, per riunirsi al gruppo, deve seguire le tracce dei cammelli e accelera il passo. È come se il deserto tutt’intorno fosse in attesa della prossima pioggia. Qui cadono violente precipitazioni ogni 10-20 anni circa, i fiumi si gonfiano e si spingono fino al punto più basso del Paese: il lago Eyre, un lago salato che si trova a 15 metri sotto il livello del mare. A quel punto c’è un’esplosione di vita. I pesci nuotano per centinaia di chilometri seguendo la corrente, provenienti da zone remote del continente dove sono sopravvissuti alla siccità stando in pozze d’acqua. I pellicani e i cormorani arrivano da lontano fin nel cuore dell’Australia per dar loro la caccia. 40 specie di rane, nascoste per anni sotto terra, si svegliano da una specie di coma e “occupano” il territorio. Schiere di ratti fanno lo stesso. Fioriscono gli eucalipti e le acacie. Sono già trascorsi quattro anni dall’ultima stagione delle piogge e ne è rimasto ben poco: escrementi secchi di dingo, tane di

coniglio abbandonate e ossa di ratto. Ai cammelli basta anche una rada vegetazione per sopravvivere; questi animali possono resistere alla sete per due o tre settimane. Garvey sa che i pochi aborigeni che vivevano qui lasciarono questa zona arida già oltre un secolo fa. Furono gli ultimi che sapevano sopravvivere nel deserto anche senza allarmi di emergenza, dromedari e taniche d’acqua. Molti degli attuali aborigeni si considerano paladini della natura che perpetuano l’eredità lasciata dai loro avi e non prendono più di ciò che offre la Madre Terra. Il ruolo di “ecoteppisti” della preistoria non si addice loro neanche un po’. La questione della megafauna va dunque oltre la mera disputa accademica. Si tratta piuttosto di un delicato tema politico: la reputazione dei primi australiani. Forse l’uomo distrugge l’ambiente da sempre perché è troppo ingenuo per prevederne le conseguenze? I

DIPARTIMENTI

DI

RICERCA

australiani stanno cercando di risolvere il caso, ma finora ci sono stati soltanto problemi e non soluzioni. Per esempio la datazione dei fossili risalenti all’epoca della megafauna risulta costosa e spesso

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Jillian Garvey ripulisce pazientemente i resti di un diprotodonte, tra cui vi sono frammenti di ossa delle gambe, delle costole, dell’anca e del cranio. L’enorme marsupiale era parente del moderno vombato e si estinse 45 mila anni fa.

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BREVE STORIA DEL CAMMELLO AUSTRALIANO

UN ANIMALE PROBLEMATICO

Di tutte le creature che gli europei hanno portato sul continente, i cammelli a una gobba sono tra le più “efficienti”. I dromedari possiedono infatti sfinteri per chiudere ermeticamente le narici in occasione delle tempeste di sabbia, hanno piante dei piedi ampie e callose per non sprofondare nella sabbia; riescono inoltre a immagazzinare grasso nella gobba e a produrre idrogeno che, con l’ossigeno dell’aria, crea l’acqua che permette loro di idratarsi anche in assenza di liquidi potabili. Grazie a queste caratteristiche si adattano perfettamente alle regioni calde e secche. Intorno al 1840 i primi cammelli furono spediti in Australia dall’Asia via mare e fino all’inizio del Novecento vennero utilizzati da esploratori, periti agrari o ditte di trasporti. Con l’avvento dell’automobile e del treno, le bestie da soma furono però abbandonate al loro destino e, come altri animali esotici, per esempio i conigli o i gatti domestici, i dromedari hanno avuto enorme diffusione e oggi attraversano in libertà le zone aride del continente. In Australia vive l’unica popolazione di dromedari selvatici del mondo, con oltre 300 mila esemplari attualmente presenti nell’outback, l’entroterra semidesertico australiano. E siccome i dromedari prosciugano gli abbeveratoi, danneggiano le recinzioni, divorano l’erba dei pascoli, si scontrano con le auto in corsa o cadono nei pozzi e contaminano l’acqua, il governo australiano sta cercando di tenere sotto controllo il numero degli esemplari mediante campagne di abbattimento, che prevedono l’impiego di tiratori scelti a bordo di elicotteri e suscitano l’ira degli animalisti. Una soluzione al problema potrebbe venire dalle esportazioni. I dromedari australiani sono infatti talmente sani e geneticamente vari che molti Paesi come l’Arabia Saudita hanno deciso di importarli per integrare il proprio patrimonio zootecnico.

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inesatta: troppi dettagli restano vaghi. Ciò suscita un acceso dibattito sulle pagine delle riviste specializzate, ma anche nelle conferenze scientifiche, nei blog, nelle aule scolastiche e nei talk show. Ci sono prestigiosi scienziati che sostengono la tesi dell’uomo killer, altri che difendono la teoria dei cambiamenti climatici, come in un’aula di tribunale. I giganti si sono veramente estinti quasi in contemporanea circa 45 mila anni fa? Sì, secondo i testimoni d’accusa contro l’Homo sapiens, e ciò indicherebbe un attacco in grande da parte dell’uomo. I difensori sostengono invece che il numero dei “conquistatori” umani non fosse sufficiente. Inoltre, come avrebbe potuto l’uomo uccidere quegli animali enormi solo con clave e selci? Dove sono le prove? Tutto si è svolto così rapidamente che non sono rimaste testimonianze, replicano gli accusatori, e le poche prove non si sono conservate. Parti dell’Australia Settentrionale, ancora aride all’inizio dell’invasione umana, oggi sono sommerse e hanno inghiottito tutto quello che potrebbe fornire informazioni circa un primo scontro tra uomo e megafauna. Forse non servì alcuna prova di forza: l’Homo sapiens arrivò sul continente in piccoli clan e, spinto dalla fame, ebbe gioco facile con i colossi, che non lo consideravano ostile.

Ma cosa successe con il cambiamento del clima? Nell’era glaciale deve esserci stata una terribile siccità, ma catastrofi simili hanno sempre avuto luogo, anche molto prima dell’Homo sapiens, e le specie della megafauna si sono sempre estinte. E vogliamo parlare dell’Africa? Lì i grandi animali, tra cui elefanti e rinoceronti, sono sopravvissuti, nonostante la caccia. L’uomo africano era forse meno spietato? No, ma in Africa gli esseri umani non poterono contare sul fattore sorpresa, perché uomo e animali si svilupparono insieme per milioni di anni. Invece l’Australia era come un parco dei divertimenti per l’Homo sapiens, con pochi nemici e molte prede. E siccome l’uomo sterminò in breve tempo soprattutto gli erbivori, anche i predatori scomparvero; la boscaglia si estese e gli incendi dilagarono, la vegetazione cambiò completamente, con conseguenti periodi siccitosi. Il nuovo arrivato cambiò il volto dell’Australia, rendendola la terra più ostile alla vita e arida di tutti i continenti abitati. E con una fauna in miniatura, i cui esemplari pesavano quasi tutti meno di 45 chilogrammi. L’arringa dell’accusa si chiuderebbe così e suonerebbe come la tesi più convincente delle due. IL SOLE DEL MATTINO inonda il

pendio con una luce dorata, mentre Jillian Garvey raggiunge il punto che potrebbe


A destra: inizialmente ripuliti alla meno peggio da sabbia e fango, i frammenti ossei vengono poi portati in laboratorio. Finora i ricercatori hanno scoperto circa 50 scheletri di vombati giganti in Australia, ma questo è il primo trovato nel deserto di Simpson.

A sinistra: nel deserto le temperature diurne possono toccare i 35 gradi centigradi anche d’inverno, ma dopo il tramonto fa molto freddo. L’unica fonte di calore è il fuoco. La legna da ardere non manca di certo: ci sono alberi morti dappertutto, che non sono sopravvissuti alla siccità.

essere una scena del crimine. Sotto, nel letto del Kallakoopah Creek, c’è ancora dell’acqua lasciata dalle ultime abbondanti piogge, di colore rosso acceso per via delle alghe e così salata da non essere potabile. Sopra, sul ciglio dell’alta sponda, spuntano ossa dall’arenaria argillosa. «Vombato gigante, nome scientifico Diprotodon optatum, parente dell’odierno vombato. Tre tonnellate di peso, abitante della savana», si affretta a dire la Garvey, chinandosi sui resti di un erbivoro della taglia di un ippopotamo. Si tratta del più grande marsupiale mai vissuto: all’esterno un incrocio tra un criceto e un grizzly, munito di denti incisivi da roditore e di un naso enorme. Probabilmente passava la giornata a rimpinzarsi di foglie e arbusti. Sull’altra sponda del fiume, a qualche centinaio di metri da qui, il team ha rinvenuto altre ossa di vombato gigante, oltre a denti di coccodrillo preistorico. L’archeologa raschia, spazzola e scava. I suoi collaboratori le danno una mano, organizzando turni per tutta la giornata. A poco a poco su un telone azzurro vengono raccolti frammenti ossei di gambe, costole e anche. Garvey trova pezzi di cranio e tre denti, ciascuno della lunghezza di un coltellino svizzero. Nessuna traccia di ferite e nessun utensile, però. La dottoressa Garvey farà analizzare a fondo i fossili in laboratorio per stabilire se vi siano scheggiature o segni di taglio nelle ossa.

Ma per il momento è già soddisfatta, perché finora il grande deserto di Simpson non aveva fornito prove dell’esistenza di animali giganti. Ormai invece è chiaro che gli strani marsupiali vivevano anche nel cuore del continente. Una scoperta che va a integrare il panorama della megafauna, al quale la scienza sta lavorando. I RESTI del vombato gigante vengono

sistemati in casse e in un sacco imbottito e prendono la via del ritorno. La maggior parte dei ricercatori è contenta di tornare a casa. Alcuni si bendano i piedi perché non sopportano più gli stivali, altri ne hanno abbastanza delle salviette detergenti umidificate che sostituiscono l’acqua e il sapone o sono sfiniti dalle miriadi di mosche che si posano su ogni parte del corpo. Torniamo indietro, ma con più domande che risposte. «Forse fu una via di mezzo: solo alcune specie animali della megafauna sono sopravvissute ai cambiamenti climatici stando in piccoli rifugi, poi è arrivato l’uomo e ha dato loro il colpo di grazia», osserva Garvey. Questa tesi è anche in linea con il fatto che grandi creature come l’emù, già vissute insieme ai colossi preistorici, esistano tutt’oggi. «Gli emù sono praticamente onnivori e forse proprio per questo uscirono indenni dai mutamenti del clima, riuscendo a sottrarsi ai cacciatori e a fuggire in altre regioni», aggiunge la

studiosa australiana. Garvey non crede che la scomparsa dei giganti possa avere un’unica causa e un nuovo studio rafforza questa sua convinzione: in Europa e in America del Nord i ricercatori non hanno trovato alcun indizio che attribuisca la responsabilità dell’estinzione della megafauna esclusivamente ai cambiamenti climatici, ma neanche al solo Homo sapiens. L’uomo quindi non sarebbe stato l’unico a svolgere un ruolo determinante. Si potrebbe addirittura affermare che, malgrado la sua intelligenza e le sue armi, fu alla mercé delle dinamiche globali quasi quanto il mondo animale. È un puro caso, quasi un miracolo, che sia riuscito a sopravvivere fino a oggi. E su questo mistero si potrebbe scrivere un altro romanzo giallo.

Il fotografo David Maurice Smith e il redattore di GEO Jörn Auf dem Kampe (2° e 3° da destra) sono stati risparmiati da vesciche e ustioni solari. La loro preoccupazione principale? Portarsi dietro una quantità sufficiente di dolci...

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Testo Volker

Kühn

Foto Tilman Botzenhardt

ARCHITETTURA

I GRATTACIELI DEL FUTURO

Cosa fanno gli architetti nel tempo libero? Sviluppano progetti di costruzioni avveniristiche e inviano le bozze più audaci alla rivista newyorkese eVolo, che ogni anno premia i progetti più sensazionali: i grattacieli più alti, più intelligenti, più ecologici. Fantasie destinate a non diventare mai realtà.

120 GEO 08/2015


DA PIATTAFORMA PETROLIFERA A OASI BIOLOGICA Ma Yidong, Zhu Zhonghui, Qin Zhengyu, Jiang Zhe | Cina

Il concetto, sviluppato da un team di architetti cinesi, è stato battezzato Oasi di Noè e ha come obiettivo la trasformazione delle piattaforme petrolifere in nuovi habitat per uomini e animali. Oggi nei mari del mondo queste isole artificiali sono oltre un migliaio, di cui 230 nel Golfo del Messico, dove l’esplosione della Deepwater Horizon nel 2010 ha provocato una catastrofe ambientale di dimensioni apocalittiche. Le piattaforme petrolifere “verdi” ideate dal team cinese hanno come obiettivo quello di ripulire gli oceani dopo catastrofi del genere

e di creare nuovi habitat per fauna e flora marine. L’idea alla base del progetto è la seguente: a seguito di un’avaria centinaia di pompe galleggianti che ricordano le radici di un albero riaspirano sulla piattaforma il petrolio fuoriuscito. Sulla piattaforma il petrolio viene trasformato in concime e reimmesso nell’acqua. Lungo i tubi crescono così piante marine e nascono nuovi ecosistemi. In una seconda fase la piattaforma viene trasformata in un biotopo che serve da tappa intermedia per gli uccelli migratori e può essere abitato anche dall’uomo.

Immagini dettagliate delle piattaforme petrolifere biologiche: piante rampicanti spuntano da strutture plastiche fabbricate con sottoprodotti del petrolio. Sott’acqua i tubi si sviluppano come le radici di un albero e vengono colonizzati prima dai coralli, poi da banchi di pesci. Il colosso di acciaio si trasforma così in un tripudio di verde adatto anche alla vita umana.


UN RITORNO ALLA NATURA? A NEW YORK È POSSIBILE, MA IN VERTICALE Con i suoi 1.730 metri di altezza, il grattacielo Essence svetta dalla skyline di Manhattan. Superando, secondo i suoi ideatori polacchi, il “contrasto tra architettura e natura” e ricreando vari paesaggi nel centro della città, comprese giungle e cascate.


CASA-PARCO IN CITTÀ

La torre ospita 11 paesaggi di ogni parte del mondo (vedi sotto).

Ewa Odyjas, Agnieszka Morga, Konrad Basan e Jakub Pudo | Polonia Un grattacielo che offre alla natura un posto in città: è con questa idea che il team di architetti polacchi Bomp si è aggiudicato il primo premio della rivista eVolo. Spiccando alto sopra la skyline newyorkese, il grattacielo Essence conduce i suoi visitatori, attraverso i vari piani, in zone climatiche e paesaggi diversi. Su una superficie di 100 per 300 metri e 11 piani di altezza, ospita tra le altre cose una giungla, una grotta, un deserto e un paesaggio fluviale: il luogo ideale in cui gli abitanti della metropoli potrebbero rifugiarsi per sfuggire allo stress. Il fine degli architetti è permettere ai cittadini di entrare a contatto con una complessa varietà di impressioni sensoriali altrimenti difficilmente sperimentabili in una metropoli come New York. Per raggiungere questo scopo l’architettura della torre, nonostante la sua altezza, rimane discreta proprio grazie alla sua facciata trasparente che non ne nasconde il cuore: la natura.

La vetta della felicità: l’ultimo piano del grattacielo ospita un ghiacciaio innevato come quelli della Groenlandia.

Ghiacciaio Locali di servizio

Montagne

Prateria Fiumi Locali di servizio

I visitatori crederanno di stare in una prateria. Solo il profilo degli edifici rischia di togliere quest’illusione.

Cascata

Grotta

Deserto Locali di servizio Steppa Palude Giungla Oceano Ingresso

L’ingresso simula il fondale marino: al di sopra dei visitatori è sospeso un acquario in vetro e una rampa conduce sulla superficie dell’acqua. 123 GEO 08/2015


L’ASCESA DEI POVERI Suraksha Bhatla e Sharan Sundar | India Un grattacielo in un quartiere povero? Per gli architetti indiani Suraksha Bhatla e Sharan Sundar è la logica conseguenza del numero crescente di persone che, nei Paesi emergenti, cercano un posto in cui costruire la propria baracca attorno al centro di numerose metropoli. Il Shanty Scraper verrebbe quindi costruito con gli stessi materiali utilizzati per molte delle baracche degli slum: soprattutto vecchi tubi e montanti in ferro, lamiere, legno e altri rifiuti edili riciclabili. Così, questa costruzione non solo combatte un’occupazione smisurata del suolo, ma partecipa anche al riciclaggio dei materiali. Gli abitanti potrebbero salire di piano in piano attraverso un intreccio di scale, anche se è comunque prevista la costruzione di ascensori meccanici con trazione a fune. La struttura a tenda del piano terra potrebbe essere utilizzata come mercato e punto di ritrovo del quartiere, facendo del Shanty Scraper un luogo di vita, lavoro e relax. Come punto in cui erigere l’edificio gli architetti hanno scelto un insediamento di pescatori nella metropoli indiana di Chennai. In caso di acqua alta potrebbe anche fungere da rifugio.


Vista dall’alto sulla geometria non convenzionale dello Shanty Scraper: la torre è al centro di tende da sole disposte in modo circolare. Sotto alle tende gli architetti hanno previsto delle bancarelle che possano dare lavoro agli abitanti del grattacielo, fornendo loro allo stesso tempo viveri e oggetti necessari alla vita quotidiana. Il piano più alto della torre, invece, dovrebbe restare incompiuto per consentire di ampliare ulteriormente la costruzione.

ALTA SUL MARE DI BARACCHE, LA TORRE OFFRIRÀ AI SUOI ABITANTI NUOVE PROSPETTIVE, PROTEGGENDOLI ANCHE DALLE INONDAZIONI 125 GEO 08/2015


UNA TORRE DI VETRO IN CAVE DI PIETRA Jethro Koi Lik Wai e Quah Zheng Wei | Malesia

Le cave di calcare lasciano spesso nel paesaggio delle ferite che rimangono aperte anche a distanza di decenni. Due architetti malesi hanno ideato un modo elegante per guarirle: con facciate di vetro aderenti alla roccia le cui linee tendono verso il cielo. Gli architetti malesi non si interessano solo a vecchie cave, ma anche ai fianchi spogli delle grandi rocce carsiche che caratterizzano molte regioni dell’Asia Sud-orientale. Sembra quasi che Jethro Koi Lik Wai e Quah Zheng Wei imitino ciò che nel paesaggio è andato naturalmente perduto in seguito alla disgregazione della roccia dovuta agli agenti atmosferici.

Le cave deturpano il paesaggio. Un caso per architetti!

Rocce carsiche a Li Jiang in Cina (a sinistra) e nella baia di Ha Long in Vietnam: ancora più belle con una facciata scintillante?

Prima la demolizione, poi la costruzione. E infine un tutt’uno di roccia e vetro: gli schizzi riportati sopra mostrano come la roccia carsica venga estratta dall’alto verso il basso. La roccia verrà stabilizzata con dei puntelli...

Città e natura in armonia: il progetto di un complesso di rocce calcaree con grattacielo sull’acqua. ... che fungeranno poi da ossatura per i grattacieli.

126 GEO 08/2015


FACCIATE LEGGERE RIMARGINANO LE FERITE NELLA ROCCIA


POSSIAMO ACCHIAPPARE LE NUVOLE PER PORTARE L’ACQUA NEI DESERTI DEL MONDO?


CONSEGNE CELESTI

LE ZONE ARIDE

Taehan Kim, Seoung Ji Lee e Yujin Ha| Corea del Sud

Asia 1.671.800.000 ettari (ha)

Africa 1.286.000.000 ha

Nord America 732.400.000 ha

Il fabbisogno di acqua nelle regioni aride del pianeta non è omogeneo. Gli architetti stimano che esso sia massimo in Asia, il continente con la più alta densità di popolazione. Anche nei deserti e nelle zone semi-desertiche dell’Africa il fabbisogno per l’uomo e l’agricoltura è enorme. È invece relativamente ridotto nell’America Settentrionale.

Libero da tutti i limiti del mondo reale, un team di architetti sudcoreani ha realizzato un progetto spettacolare. Un acchiappa-nuvole fluttuante delle dimensioni di un immobile che però non è un casa. Svolge tuttavia un’azione senza la quale qualsiasi costruzione sarebbe inutile: il suo scopo è infatti quello di portare l’acqua in regioni altrimenti troppo aride per essere abitate. E di evitare allo stesso tempo inondazioni catastrofiche in zone troppo piovose. Come? Il pallone dispone di una membrana richiudibile con la quale è possibile catturare le nuvole di umidità. Al suo interno reticoli di tessuto imprigionano l’umidità sotto forma di acqua che viene raccolta in un serbatoio e che il pallone rilascia in seguito nelle zone più aride. Ai meteorologi verrebbe probabilmente la pelle d’oca di fronte a un approccio del genere al problema del surriscaldamento climatico. Gli architetti invece non ci vedono alcun problema: per loro ciò che conta è il coraggio visionario. E il fatto che l’ambizione di realizzare l’impossibile ha già prodotto, nel loro settore, più di un capolavoro. Per maggiori informazioni sul concorso di architettura: www.evolo. us/competition/winners-2015-evolo-skyscraper-competition

IL VIAGGIO DEGLI ACCHIAPPA-NUVOLE MARE UMIDITÀ ELEVATA

DESERTO ARIDITÀ ESTREMA

Zone vicine all’Equatore

Sahara Gobi Mojave

FORESTA TROPICALE UMIDITÀ ELEVATA Asia Sud-orientale Amazzonia Congo

AREE URBANE POLVERE, SMOG, CARENZA DI ACQUA FREATICA Pechino Seul

Corrente d’aria Cumulonembo

Cattura

Trasferimento

Rovescio

Cattura

Trasferimento

Rovescio

Trasferimento

Il sogno degli architetti del clima: quando, nelle regioni calde attorno all’Equatore, l’umidità sale sugli oceani, la membrana del pallone si apre. Al suo interno l’acqua viene estratta dall’aria umida della nuvola catturata con l’aiuto di reticoli di tessuto. Quando infine il pallone raggiunge le regioni aride, rilascia piovendo il liquido raccolto mediante irrigatori.

129 GEO 08/2015


ANTEPRIMA

nel prossimo numero (settembre 2015)

In prima pagina

Blaine HarringtonIII/alamy

Somayya Jabarti è la prima donna a dirigere un quotidiano in Arabia Saudita, ma non può guidare, né viaggiare senza il consenso del marito...

Iman Aldabbagh/Agentur Focus

MAROCCO

Gli operatori ecologici australiani

Una dichiarazione d’amore fotografica ai funghi delle foreste primordiali del Nuovo Galles del Sud che fanno un duro lavoro: smaltiscono gli ingombranti rifiuti del bosco.

Daniel Rosenthal/laif

Steve Axford/hgm-press

Dalla rossa Marrakech alle case blu di Chefchaouen, passando per i verdi monti del Rif: un viaggio nel Paese che risveglia i sensi...

Una barca che schizza sull’acqua e un sognatore al timone. Con l’Hydroptère, il più veloce trimarano del mondo, il francese Alain Thébault vuole sfidare il Pacifico.

Il primo conquistador

Alonso de Ojeda moriva in povertà 500 anni fa. È la fine ingloriosa di un uomo che ha segnato il destino del Sud America. Storia dell’ascesa e della caduta di uno spietato conquistatore.

Trans Europa express

Ogni giorno milioni di migranti attraversano il nostro continente sui pullman per raggiungere il loro posto di lavoro. GEO è andato a conoscere alcuni di loro. Christophe Launay

Volando basso sul Pacifico


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