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il punto Agrobiodiversità e ftoderivati funzionali
Agrobiodiversità
Varietà erbacee antiche censite nel database UNIMONT; i colori indicano diverse categorie e famiglie (cucurbitacee, cereali etc.)
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(per gentile concessione, tuti i diriti sono riservati)
Valeria Leoni1,2,3, Luca Giupponi1,2, Marco Zuccolo1, Davide Pedrali1, Alessia Bernardi1, Tiziana Zendrini1, Anna Giorgi1,2
1 Centro di Ricerca Coordinata «Centro di Studi Applicati per la Gestione Sostenibile e la Difesa della Montagna – Ge.S.Di.Mont» - Università degli Studi di Milano 2 Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Territorio, Agroenergia - DISAA - Università degli Studi di Milano 3 Scuola di dotorato in Environmental Sciences – PhD ES, Università degli Studi di Milano * valeria.leoni@unimi.it
e ftoderivati
funzionali
La Green Revolution ha incrementato vertiginosamente la produzione agricola, ma ha messo a rischio l’esistenza delle molteplici varietà di specie alimentari, fonti potenziali di risorse nutrizionali e salutistiche sempre nuove. La loro ricomparsa e la loro tutela nei territori naturali di origine può portare alla scoperta di innumerevoli sostanze biologicamente attive ancora poco conosciute. E’ quello che dimostrano gli studi condotti dal Polo Unimont dell’Università degli Studi di Milano attraverso il censimento di specie e varietà lungo tutta la penisola e lo studio ftochimico dei derivati di alcune landraces alpine. Un percorso importante che fnora ha compiuto appena i primi passi.
Con lo sviluppo di una nuova sensibilità verso la conservazione delle risorse del pianeta, la perdita della biodiversità è un tema corrente e molto sentito dal pubblico. Nonostante ciò, minore atenzione viene dedicata alla perdita di quella parte di biodiversità legata alla millenaria atività agricola dell’uomo, l’agrobiodiversità. Sfrutando la variabilità delle forme di vita, gli agricoltori hanno addomesticato centinaia di specie per millenni, il che ha portato a una ricca diversifcazione in razze animali da allevamento e varietà di piante di interesse agro-alimentare. Il mantenimento di questa biodiversità è essenziale per la produzione sostenibile di cibo e/o altri prodoti agricoli e per i benefci connessi, tra cui la sicurezza alimentare, la nutrizione e la salute (1).
La perdita di agrobiodiversità è un fenomeno dell’epoca contemporanea
Un moderno approccio vede la fusione di aspeti propri del mondo della farmaceutica e della nutrizione nel conceto di “nutraceutica”, e nasce dal riconoscimento della presenza di sostanze con efeti positivi per la salute, la prevenzione e persino la cura di malatie, negli alimenti. “Cibo salutare”, “che fa bene”, “curarsi con un’alimentazione sana” sono frasi frequenti nel corrente mondo della nutrizione.
Un pensiero piutosto recente, sicuramente parte della storia degli ultimi cinquanta anni, in quanto nell’immediato dopo guerra l’esigenza era soddisfare i bisogni primari dell’umanità, preda di fame e carestie. Nasceva allora l’epoca della “Green Revolution” (rivoluzione verde), fglia del grande corpus di scoperte scientifche realizzato tra la fne del XIX e la metà del XX secolo. Tale periodo, tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del secolo scorso, vede un incremento vertiginoso delle produzioni agricole atraverso l’impiego di varietà vegetali interessate da programmi di miglioramento genetico, fertilizzanti, ftofarmaci, un progresso nella tecnica irrigua e altri investimenti di capitale in forma di nuovi mezzi tecnici e meccanici. Tra le innovazioni, il miglioramento genetico e la ricerca della risorsa “migliore / più produtiva” ha avuto un ruolo da protagonista. In questo modo, si è arrivati a coprire il 95 % della richiesta alimentare utilizzando solo 30 colture altamente selezionate, con tre colture – mais, grano e riso – che forniscono da sole la metà del fabbisogno calorico, mentre in passato, secondo la FAO, erano circa
Campo di Caigua custodita dalle montagne della Vallecamonica presso l’azienda Il Castagneto (Esine)
7000 le specie utilizzate per l’alimentazione dell’umanità.
Nel processo di selezione e miglioramento delle colture, visto che il fne primario era “sfamare”, vennero privilegiati i macronutrienti, come amido e proteine, a discapito di tuti quei metaboliti secondari prodoti dalla pianta per la sua sopravvivenza e resistenza agli stress (come polifenoli, favonoidi etc.) che spesso hanno anche efeti importanti sulla salute umana. Svariati autori sotolineano come la Rivoluzione Verde abbia creato diversi problemi, tra cui erosione e salinizzazione dei suoli, uso irrazionale di ftofarmaci e concimi di sintesi, aumento delle disparità di reddito tra gli agricoltori e la perdita di biodiversità delle colture (2). Tra le varie perdite si può enumerare questo caleidoscopio di molecole interessanti. La perdita di biodiversità non è relativa quindi solo al numero di varietà coltivate ma comporta anche l’impoverimento del contenuto di micronutrienti e composti bioativi e la conseguente perdita delle loro atività benefche e salutistiche nell’alimentazione. Il fato che la diversità alimentare sia fortemente legata a una migliore alimentazione e quindi salute è stato riconosciuto dalla scienza, e lo studio di alcune diete tradizionali ha dimostrato come esse contengano un’ampia varietà di alimenti ricchi di micronutrienti e composti bioativi che favoriscono la salute (3).
Le diete popolari si basano spesso sul consumo di prodoti otenuti dalle varietà tradizionali, le così dete landraces, defnite come popolazioni dinamiche che hanno un’origine storica e un’identità distinta e mancano di un miglioramento formale delle colture, oltre a essere spesso geneticamente diverse, adatate localmente e associate a sistemi agricoli tradizionali (4). L’agrobiodiversità riguarda tre livelli di diversità genetica: gli agroecosistemi, la diversità tra le specie (diversità interspecifca) e all’interno delle specie (diversità intraspecifca), intendendo per quest’ultima cultivar vegetali e razze animali. L’agrobiodiversità è il fondamento dello sviluppo agricolo sostenibile e include tuta la diversità di piante, animali, pesci, e microbi che vengono utilizzati diretamente o indiretamente per l’alimentazione e l’agricoltura. Secondo la FAO il 75% dell’agro-biodiversità vegetale mondiale è stata persa negli ultimi decenni, ragion per cui varie strategie nazionali e internazionali sono state ativate per la caraterizzazione, la salvaguardia e la valorizzazione delle cultivar locali tradizionali.
Un tesoro nascosto negli orti
L’Italia è uno dei pochi paesi in Europa ad aver recepito le diretive europee sulla conservazione dell’agrobiodiversità (diretiva 98/95 e diretiva 62/2008) con regolamenti ad hoc a livello nazionale. A livello centrale, si sta legiferando per contrastare il problema della perdita di razze e varietà autoctone seguendo le linee guida dell’UE, ad esempio con la legge del 1º dicembre 2015 n. 194 (“Disposizioni per la conservazione e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”), con cui l’Italia ha riconosciuto i principi per l’istituzione di un sistema nazionale di conservazione e valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, volto a proteggere le risorse genetiche locali dal rischio di estinzione e/o erosione genetica.
In passato, tutavia, molte azioni di salvaguardia dell’agrobiodiversità hanno riguardato principalmente le piante arboree (vite, olivo etc.) piutosto che le colture erbacee. Ciò è probabilmente dovuto alla mancanza di informazioni sulle piante orticole, e alla maggiore difcoltà di censire tali varietà rispeto alle colture arboree. Mentre le varietà
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Alimenti piuttosto originali, ma non solo: tre casi di studio molto promettenti
Nero e spinoso: il Mais della Valcamonica
In Valcamonica (BS) esiste un tipo di mais (Zea mais L.), denominato “mais Nero Spinoso”, che fno a pochi anni fa veniva coltivato esclusivamente da un’unica famiglia (Saloni di Piancogno, Brescia). Questa varietà sopravviveva solo sui territori terrazzati dell’Annunciata, a Piancogno, fno a che, nel 2015, congiuntamente ai Comuni di Esine e di Piancogno, il Centro di Ricerca Coordinato Ge.S.Di.Mont. (Università degli Studi di Milano) ha avviato le pratiche per il suo inserimento nella sezione “Varietà da Conservazione” del Registro Nazionale di Specie Agrarie e Orticole (D.M. 17 dicembre 2010), lo strumento più importante per la tutela dell’agro-biodiversità nazionale. Tale mais è molto diverso dal classico con chicco giallo a dente di cavallo. Il mais Nero Spinoso è particolarmente pigmentato (color molto scuro-vinato) e rostrato, carateristiche di adatamento alla coltivazione in ambiente montano (anche a quote superiori ai 1000 metri) (8). Tale varietà ha una notevole concentrazione di fobafeni e antocianine, notevolmente superiore al contenuto medio delle comuni varietà di mais moderne (9). Queste molecole sono importanti dal punto di vista nutrizionale, visto che ne sono state verifcate le proprietà contro l’invecchiamento precoce. Nel mais Nero Spinoso, l’accumulo di tali sostanze nel pericarpo del chicco è determinato da un unico gene dominante, il che lo rende estremamente interessante anche per i programmi di miglioramento genetico. A seguito degli studi chimico-bromatologici e genetici condoti, la coltivazione del mais nero spinoso di Valle Camonica ha trovato nuovo impulso, suscitando l’interesse di vari agricoltori camuni che hanno deciso di coltivarlo, e a custodire il mais Nero Spinoso e le atività connesse è nata nel 2018 un’Associazione di Tutela. L’associazione “Mais Nero Spinoso”, fondata nell’aprile 2018, nasce per valorizzare questo tradizionale e unico tipo di mais coltivato dal 1800 nella piana di Esine e Piancogno. A oggi 7 agricoltori producono Mais Nero Spinoso nell’area di tutela su una superfcie totale di circa 30.000 m2 a fronte di un solo agricoltore in un campo da 100 m2 prima dei lavori, con la trasformazione della farina in diversi prodoti di qualità in fornerie, pasticcerie, pastifci e birrifci. Uno sviluppo sicuramente interessante potrebbe essere l’utilizzo degli estrati o delle farine ricchi di fobafeni anche in ambito erboristico.
Il mais Nero Spinoso di Vallecamonica dell’azienda Alena (Malegno,BS). Sopra il ricercatore Luca Giupponi presso la famiglia Saloni, agricoltori custodi del Mais Nero Spinoso
Numero di landraces erbacee (a) e numero medio per 1000 km2 (b) di ciascuna regione italiana
orticole selezionate svolgono un ruolo chiave nell’agricoltura professionale, molte varietà tradizionali continuano a essere importanti per molti agricoltori, sopratuto anziani e hobbisti che conservano atraverso le generazioni queste varietà che rappresentano un patrimonio unico delle varie famiglie. La memoria storica, e la moltiplicazione/conservazione delle “varietà antiche” condota da agricoltori locali e lo scambio di sementi, hanno sempre avuto un aspeto informale non soggeto a norme scrite, e questo ha rappresentato sia un aspeto positivo che ha contribuito al loro salvataggio, sia un aspeto negativo, in quanto queste varietà sono perennemente a rischio di estinzione se si perdono le conoscenze relative alla loro storia e coltivazione. Centinaia di varietà orticole continuano a essere importanti a livello locale o sub-regionale (5), in particolare nelle comunità delle aree marginali, come i borghi delle aree interne e montane. La conoscenza indigena di tali specie, accumulata per generazioni, è un patrimonio che potrebbe perdersi rapidamente a seguito dei cambiamenti demografci e culturali e dell’impato della globalizzazione e dello sviluppo dei mercati.
Un patrimonio delle aree interne e montane
La creazione di database interativi delle “varietà antiche”, come quello realizzato dal polo UNIMONT dell’Università degli Studi di Milano o da altre università italiane come quello dell’Università di Perugia, è fondamentale per stabilire le priorità per la conservazione, la ricerca, e la riproduzione di tali varietà. Gli inventari sono inoltre un primo passo per valutare la ricchezza e i modelli di distribuzione dell’agrobiodiversità. Dal lavoro di censimento e mappatura condoto dal polo UNIMONT, ad esempio, è stato possibile vedere come le aree interne (collinari e pedemontane) della penisola italiana siano hotspot (“punti caldi” ovvero a maggiore concentrazione) di agrobiodiversità orticola (6). L’aspeto molto interessante è che gli hotspot individuati da tale censimento georeferenziato delle landrace orticole (cioè collegato a delle coordinate territoriali) corrispondono quasi esatamente a quelle aree più appropriate per la ricerca della biodiversità (Most Appropriate Areas - MAPAs), defnite considerando anche la ricchezza di biodiversità spontanea e la diversità ecologica degli agro-ecosistemi (7).
Tali aree sono quelle delle colline, delle aree pedemontane degli Appennini e delle Alpi che vengono defnite oggi aree interne e che sono la peculiarità, con i loro borghi arroccati sui pendii delle montagne e le som-
Ricerche del polo UNIMONT dell’Università degli studi di Milano e del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali (DSA3) dell’Università degli Studi di Perugia hanno individuato gli hotspot dell’agrobiodiversità in Italia con risultati quasi identici
Quechua, la zucchina andina coltivata sulle Alpi
Esiste una cucurbitacea tradizionalmente coltivata nel territorio camuno, in provincia di Brescia, piutosto originale, che ricorda la forma di un peperone “friariello” ma che in realtà al sapore risulta più simile a una zucchina o un cetriolo. Tale ortaggio, Cyclanthera pedata (L.) Schrad., chiamato Quechua o Caigua/Kaiwa nella lingua di origine, è nativo della catena montuosa delle Ande in Sud America, ma sembra essere stato sul territorio italiano (in specifco Vallecamonica, Valtellina e alcuni versanti della zona lariana, tra Monza e Lecco) almeno da cinquanta anni, come testimonia la famiglia di Oriana Beloti e Giacomo Bontempi, che hanno sempre servito l’ortaggio sotaceto come antipasto nella loro tratoria. Curiosamente, nella regione andina esistono tre diverse varietà di Caigua, chiamate “Criolla”, “Serrana” e “Italiana” (10), quest’ultima che produce un fruto più piccolo. Il botanico brasiliano Correa, nel 1975, rivela di aver trovato inaspetatamente il fruto di questa pianta in vendita sui mercati italiani (11). Nel tempo, probabilmente, l’ortaggio ha dato origine a una varietà più piccola rispeto all’originale. Secondo studi ancora in fase di realizzazione da parte del C.R.C. Ge.S.Di.Mont., la cultivar italiana appare più adata alla coltivazione nelle valli alpine e prealpine rispetto alla cultivar sudamericana, e probabilmente i nostri habitat rappresentano un centro di diversità secondario emerso al di fuori dell’area di origine della coltura, ovvero il Sudamerica, che sono l’originale Centro di Diversifcazione di Vavilov (12) della pianta, intendendo con questa defnizione le aree che detengono un’elevata variabilità genetica della specie in considerazione (ovvero un elevato numero delle sue landrace), insieme a una presenza dei loro wild relative (ovvero i progenitori non addomesticati). La Caigua, chiamata nelle valli milione, milioncino (per la grande produtività di fruti) o chu-en-lai (l’ultimo nome dialetale così orientale forse per la forma “a codino” o per l’esoticità del fruto), sta trovando importanti applicazioni in campo erboristico, in preparati per abbassare i livelli ematici di colesterolo e grassi (13). La pianta sembra avere un interessante proflo di metaboliti secondari, compresi composti fenolici, favonoidi, cumarine, tannini, terpeni e altri composti minoritari (14). Dai fruti e dai semi sono stati isolati diversi composti appartenenti alla classe delle saponine e delle cucurbitacine (15,16). Sia in base a conoscenze etnobotaniche (17) che indagini farmacobotaniche, questa pianta sembra avere diversi efeti benefci, tra cui i più interessanti sono l’abbassamento della pressione sanguigna (18), un’atività ipoglicemizzante e la riduzione dei livelli di colesterolo ematico (18, 19, 20), oltre che atività analgesiche e antiossidanti (21, 22). Il C.R.C. Ge.S. Di.Mont., in collaborazione con l’azienda EPO (Estrati Piante Ofcinali) sta caraterizzando dal punto di vista ftochimico questa risorsa botanica così originale.
Fruti di caigua “milioncini” insieme ad altri ortaggi presso l’agricoltrice custode Oriana Beloti a Esine (Brescia)
Campo di grano siberiano valtellinese mità dei colli, del Bel Paese. Ovviamente le coltivazioni orticole non sono presenti eccessivamente in quota (anche se gli agroecosistemi delle diverse varietà antiche si trovano dal livello del mare a oltre 1000 m s.l.m.) e si concentrano nel range altitudinale tra i 150 e gli 800 m s.l.m. Le famiglie che annoverano la maggior parte delle landrace sono: Fabaceae, Poaceae, e Solanaceae, poiché contengono piante adatate e coltivate in questi ambienti, come fagioli (Phaseolus spp.), segale (Secale cereale), patate (Solanum tuberosum) e orzo (Hordeum spp.).
Il fato che le aree interne italiane siano crogiuoli di agrobiodiversità è in primo luogo legato alla lontananza di tali aree rispeto alle grandi pianure (come la Pianura Padana), dove si coltivano varietà commerciali o ibridi altamente produtivi. Le particolari condizioni ambientali delle zone collinari e montane e le difcoltà di comunicazione e/o scambi genetici, hanno garantito che le cultivar specifcamente adatate a quei territori si sviluppassero, diventando landraces. Allo stesso tempo, nelle grandi aree industrializzate (che sono generalmente situate nelle pianure), le cultivar commerciali hanno rapidamente sostituito le cultivar tradizionali, causando la scomparsa dei sistemi agricoli tradizionali e le conoscenze a loro associate.
Si possono tracciare parallelismi tra la situazione italiana e le aree collinari, sub-montane e, in generale, marginali (come piccole isole e arcipelaghi) di tuto il globo, che possono essere considerati hotspot di agrobiodiversità. Gli inventari, in particolare quelli dell’agrobiodiversità orticola, sono il primo passo verso lo studio, la conservazione e la promozione di queste risorse. La mancanza di informazioni, oltre a prevenire la conservazione dell’agro-biodiversità, non consente nemmeno lo studio e la valorizzazione delle landraces che potrebbero essere particolarmente interessanti per l’avvio di fliere alimentari a basso impato ambientale che potrebbero essere strategiche per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva dei territori interni.
Una risorsa per lo sviluppo sostenibile delle aree interne
In futuro, l’agricoltura e gli expertise della nutrizione e del benessere dovranno lavorare più stretamente insieme verso un sistema alimentare che colleghi meglio l’agricoltura, la dieta e la salute umana, coerentemente con gli UN GOALS (gli obietivi di sostenibilità fssati dalle Nazioni Unite). Le razze e le varietà autoctone costituiscono un patrimonio dallo straordinario valore sia storico che biologico e sono stretamente legate alle tecniche agronomiche e artigianali della tradizione contadina locale. Possono dare un contributo importante nel mantenimento dell’artigianato, del folklore e della gastronomia di un luogo, perché sono “reperti storici viventi” della storia di un territorio. L’Italia è uno dei Paesi più ricchi di biodiversità in Europa e nel mondo. La presenza di ambienti molto variegati e di antiche tradizioni agricole ha favorito, nel corso dei secoli, la selezione di numerosissime varietà e razze: basti solo pensare che il centro UNIMONT-Ge.S.Di.Mont. ha censito ben 1600 varietà orticole distribuite lungo la penisola, e le aree marginali collinari e montane sono gli hotspot di questa ricchezza storica, agricola e gastronomica (6).
Oggi, la rivalutazione dell’agrobiodiversità tradizionale è testimoniata dalla creazione di piccole fliere di prodoti unici, contemporaneamente tradizionali e innovativi. Per rivitalizzare una varietà in via di estinzione, tutavia, l’approccio multi-atore è fondamentale per la riuscita. È basilare la
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Dalla Siberia alla Valtellina: la fuga del Grano Saraceno
Il “Grano Siberiano Valtellinese” è una varietà autoctona autoimpollinante di Grano Saraceno Siberiano (Fagopyrum tataricum Gaertn.) (23). Ampiamente coltivata fno agli anni Cinquanta in Valtellina e Vallecamonica, si trova ora a rischio di estinzione in quanto è coltivata da un numero estremamente limitato di agricoltori hobbisti. Il luogo di origine più probabile del grano saraceno siberiano è la provincia cinese dello Yunnan dove è tradizionalmente coltivato anche ad alta quota (sugli altopiani di Loess e Yungui nella parte occidentale del paese) su terreni sotili poveri di nutrienti. In Asia (sopratuto in Cina e nei paesi limitrof) e in altre parti del mondo dove è più comune, viene coltivato per la produzione di alimenti nutraceutici e funzionali e come pianta medicinale grazie alle sue note proprietà salutari. L’introduzione del grano siberiano in Valtellina è ben documentata nei manoscriti di Ignazio Bardea (1736-1815), noto studioso e storico sacerdote di Bormio, appassionato anche di questioni agronomiche e scientifche in generale. Un manoscrito ben conservato nell’archivio parrocchiale di Bormio: “Notazioni intorno al grano di Siberia” testimonia l’introduzione di questa varietà in Valtellina. Dal documento storico, Bardea iniziò la coltivazione nel 1785. I primi risultati furono eccellenti e Bardea cominciò a distribuire il grano siberiano che si dimostrò più resistente del grano saraceno e quindi più adato per efetuare una seconda raccolta nei campi più alti della Valtellina, dove la coltivazione del F. esculentum, il Grano Saraceno comune, era impossibile. Studi sulle strategie ecologiche della pianta (plant functional strategy) ne hanno dimostrato la grande tolleranza agli stress dell’ambiente montano rispeto ad altre varietà e/o specie di saraceno: tale genotipo si è rivelato il più adato alle condizioni ambientali della Valtellina, dove ha sviluppato piante più alte con un elevato numero di fori rispeto alle varietà cinesi. Tale adatamento funzionale può essersi sviluppato in risposta ai fatori ambientali che caraterizzano le zone montane della Valtellina e atraverso la selezione eseguita dagli agricoltori locali. La caraterizzazione ftochimica, inoltre, ha rivelato come questo genotipo, rispeto ad altre landraces di F. esculentum, Grano Saraceno comune, ha una maggiore concentrazione del glicoside favonoico rutina nei semi e nei germogli, il che lo rende interessante per la produzione di alimenti nutraceutici, nonché per la cosmetica (F. tataricum è incluso nel database Europeo degli Ingredienti Cosmetici: htps://ec.europa.eu/growth/ sectors/cosmetics/ cosing) e per la preparazione di tisane. Al fne di salvaguardarlo e valorizzarlo, per il Grano Siberiano valtellinese sono state avviate le procedure per iscriverlo nell’anagrafe nazionale della diversità di interesse agricolo e alimentare.
Nelle foto campi di grano siberiano valtellinese dell’azienda Raetia Biodiversità Alpine (Teglio-Sondrio) di Patrizio Mazzuchelli, qui con Luca Giupponi
costituzione di associazioni di agricoltori, ristoratori e commercianti interessati alla promozione delle landraces (e dei prodoti da esse derivati), anche grazie a speciali etichette che ne identifcano e certifcano la qualità e la provenienza, come ad esempio fa l’associazione Slow Food con i Presidi e l’Arca del Gusto, ed è necessario che le istituzioni locali e i centri di ricerca che si occupano della conservazione dell’agrobiodiversità e dello sviluppo sostenibile delle regioni di montagna sostengano tali associazioni.
In tempi di cambiamenti climatici e cambiamenti sociali ed economici dirompenti, il patrimonio genetico delle varietà e delle razze tradizionali potrebbe fornire soluzioni per la resilienza dei sistemi socio-ecologici montani e in generale capacità di adatamento e innovazione, nonché soluzioni più sostenibili per agricoltura. In questi termini, le razze tradizionali locali potrebbero essere le uniche a svolgere un ruolo agricolo valido nelle aree marginali, dove un modello di agricoltura intensiva con l’introduzione di un’elevata quantità di input in termini di costi nutrizionali, sanitari e di gestione, non è applicabile, e al contrario le risorse genetiche tradizionali sono meno esigenti in termini di fatori ambientali e nutrizionali e possono adatarsi a sopportare le condizioni “tipiche” (freddo, caldo, siccità, terreni) delle aree marginali o dell’agricoltura a più basso impato.
Le recenti politiche agricole si muovono verso l’incentivazione di un’agricoltura rispetosa dell’ambiente. Il Green Deal europeo prevede un’agricoltura più sostenibile, che preservi la biodiversità, il suolo e le altre risorse naturali. L’aumento della produzione biologica è una parte dell’obietivo della strategia Farm to Fork, che prevede il raggiungimento del 25% dell’agricoltura dell’UE in regime biologico entro il 2030. Questo è stato recepito a livello nazionale con il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che prevede la transizione ecologica dell’economia italiana, e quindi delle attività agricole. In questa cornice, è giusto che l’accademia e il mondo della ricerca siano di supporto a tale cambiamento. È importante quindi rivolgere l’attenzione della comunità scientifica e professionale e incrementare la collaborazione dei vari professionisti verso la conservazione di queste antiche varietà orticole, in quanto molte varietà locali antiche ad oggi sono poco conosciute o totalmente sconosciute (per quanto riguarda le varie genetiche, agronomiche, aspeti ftochimici, ecologici, storici, ecc.) e a costante rischio di estinzione, con la conseguente perdita del loro patrimonio genetico.
UNIMONT, formazione innovativa per la montagna e la sua natura
UNIMONT, polo d’eccellenza dell’Università degli Studi di Milano con sede a Edolo nelle Alpi, ofre una formazione innovativa sui territori montani, con un Corso di laurea in Valorizzazione e Tutela dell’Ambiente e del Territorio Montano e numerosi corsi di perfezionamento e iniziative seminariali multidisciplinari. Soto la guida del Centro di Ricerca Coordinato GeSDiMont, promuove atività di ricerca e organizza tavoli di lavoro interativi e virtuali con gli stakeholder della montagna, a livello locale, nazionale e internazionale. Tra i progeti di ricerca atualmente in corso, CereAlp si prefgge lo scopo di difondere buone pratiche e conoscenze inerenti la coltivazione/trasformazione di landraces di cereali e piante ofcinali al fne di innescare nuove fliere e promuovere l’imprenditoria giovanile in montagna. Nell’ambito delle azioni di divulgazione previste dal progeto, sono in corso di svolgimento diversi webinar dedicati a numerosi aspeti delle coltivazione e della raccolta di piante ofcinali. È possibile seguirne la programmazione, e rivedere la registrazione degli incontri già svolti, accedendo alle pagine dedicate al progeto sul portale dell’Università della Montagna. È possibile sapere di più sull’Università della Montagna atraverso questi canali: sito web: www.unimontagna.it; FB: universitadellamontagna; TW: @unimontagna; IG: unimont.edolo; YT: corsoedolo
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Bibliografa
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Un'antica varietà di mele presso l’azienda Raetia Biodiversità Alpine (Teglio-Sondrio)