Laboratorio Prato | Giulio Giovannoni, Olivia Gori (a cura di)

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MASSIMO BRESSAN San Paolo, una Little Italy in costante transizione

La progressiva apertura dei luoghi al movimento delle merci e del lavoro che ha caratterizzato la storia di molte piccole e medie città italiane del centro-nord a partire dal secondo dopoguerra ha avuto molte conseguenze a scala locale: la rapida espansione edilizia, quasi sempre in assenza degli strumenti urbanistici; l’immigrazione di popolazione in età lavorativa, prima dai territori più vicini ai nuovi poli industriali e poi da regioni ed aree rurali di continenti lontani; lo sviluppo di distretti industriali fortemente orientati all’esportazione dei propri prodotti, con specializzazioni che hanno caratterizzano la loro presenza e competitività sui mercati internazionali per molti decenni. Questi processi hanno avuto un impatto significativo anche a Prato, caratterizzando la morfologia culturale, urbanistica ed edilizia della città e dei suoi quartieri, in primo luogo in quella fascia urbana a ridosso del centro storico, e che l’urbanista Bernardo Secchi aveva chiamato “città fabbrica” (Secchi, 1996), il luogo esemplare della mixité, un concetto che rappresenta la commistione delle funzioni di un’unità urbana: la presenza di residenza e di attività manifatturiere, i rapporti di copertura del suolo assai elevati, la scarsità di spazio pubblico utilizzabile dai residenti nel tempo libero, lo sfruttamento estremo dell’infrastruttura idraulica e viabilistica. Queste condizioni si sono realizzate in un periodo di forte crescita dell’economia locale. Basti pensare che nel 1945 erano stati costruiti solo il 29% degli edifici esistenti oggi, mentre nel 1970, venticinque anni dopo, si era giunti alla realizzazione dell’80% dello stock edilizio pratese. Un fenomeno che riguarda soprattutto i quartieri ad ovest del centro storico, dove tra gli anni ’50 e ’70, si concentra l’ondata migratoria interna (Bressan e Tosi Cambini, 2011). La crescita della struttura fisica della città si accompagna all’incremento della popolazione residente. Tra il 1951 e il 1971 i residenti del Comune di Prato quasi raddoppiano, passando da 77.631 a 143.232 (+84%); nel ventennio successivo si registra un rallentamento della crescita che tuttavia continua senza interruzioni fino ad oggi. Oltre la metà dell’attuale popolazione pratese (circa 58%) è immigrata in città a partire dal dopoguerra. La parte più consistente degli immigrati proviene dai territori rurali dell’Italia centrale, le altre due componenti riguardano gli immigrati dalle regioni me-

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ridionali italiane, ed infine gli stranieri, con l’ampia comunità cinese che da sola costituisce oltre la metà del totale della popolazione straniera residente nel Comune [1]. In quegli anni in Italia la risposta al problema dell’alloggio venne trovata nella soluzione “familistico-privata” (Signorelli, 1996), attraverso forme di auto-costruzione, oppure tramite accordi tra piccole imprese edili e gruppi di privati, famiglie, che acquistavano le case senza fare ricorso alle banche, ma pagando a rate direttamente i costruttori – che talvolta erano essi stessi immigrati in città solo qualche anno prima. Questa soluzione si dimostrò praticabile per la maggioranza degli immigrati italiani e si sviluppò senza un indirizzo normativo pubblico, ma, al contrario, venne guidata dall’iniziativa privata. Una modalità non dissimile da quella osservata qualche anno a Milano. In un noto libro inchiesta sull’immigrazione negli anni del miracolo italiano: “Milano, Corea” si descrivono le strategie adottate dai nuovi arrivati per risolvere il problema della casa: “[…] la casa comincia dalla cantina, è la cantina che permette la costruzione della casa, perché viene subito affittata a una famiglia che non ha tutti i soldi per potersela costruire da sola […] la famiglia del padrone di casa a pian terreno […] L’anno dopo, se le cose vanne bene, l’immigrato ha fatto un primo piano nel quale andrà subito ad abitare. Gli inquilini della cantina saliranno a pian terreno e la cantina verrà ceduta in subaffitto a una nuova famiglia appena arrivata.” (Alasia e Montaldi, 2010: 58-59). Anche il ritmo di costruzione della città fabbrica è stato intenso e sincopato. La crescita impetuosa di quegli anni trasforma Prato in un grande insediamento manifatturiero frammentato in migliaia di piccole unità produttive domestiche e in molte imprese di medie dimensioni. Una delle storiche fabbriche della città è il lanificio Calamai, il cui perimetro definisce il percorso irregolare di Via San Paolo, da dove si possono osservare le mura di pietra della fabbrica e la tipica struttura dei capannoni - alcuni dei quali progettati da Pier Luigi Nervi per l’espansione dell’area produttiva realizzata all’inizio degli anni ‘30. Il quartiere di San Paolo, insieme al Macrolotto zero, costituisce l’esempio più pertinente del concetto di città fabbrica introdotto da Secchi durante il suo lavoro di pianificazione nella città di Prato. I residenti storici di


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