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Miliardi malcostume e miseria, di Leonardo Selvaggi, pag

MILIARDI FACILI FRA TANTO MALCOSTUME E MISERIA ATTORNO

di Leonardo Selvaggi

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M

I ILIARDI che piovono dall’alto, la divina Provvidenza favorevole ai divi del calcio. Tutto quello che si fa, seguendo norme di correttezza e i sentimenti fondamentali che possono ravvisare la vita di tutti, rimane sempre tartassato: patimenti continui, sfortune, solitudini in una società scomposta, egoista, arrivista che si muove secondo istinti belluini. I divi del calcio che sfolgoreggiano sulle arene, variopinti, sobbalzando come attratti da forze magnetiche, scontrandosi e inalberandosi, spinti dalle urla dei tifosi, idoleggiati da fragorosirichiami di ovazione, eccitati da folle estasiate dalle tribune e vaneggianti. Clamori che erompono dando ad ogni individuo furori di esaltazione che paiono vento di tempesta, che si frangono, si ammassano, travolgono, perso ogni controllo razionale. Voci osannanti come ondate di belve inferocite nell’aria immota, dallo stadio delle Alpi di Torino arrivano sotto le case. L’altezza del divismo smantella il giusto rapporto fra i campioni e il pubblico, provoca reazioni sconsiderate, perdita di senso della misura, l’istintivismo si fa dominante e assalta. Il divismo mette antagonismi insensati tra i tifosi, che spesso si trovano in scontri, scompigli, in invasioni di campo, accatastamenti micidiali. Il divismo ha per piedistallo masse di miliardi, squilibri economici e tanta povertà che langue. Gli stadi come infiammati si fanno informi, spersonalizzati, infatuati da grandezze inconsistenti.

II

Occorre livellare questi gloriosi campioni nazionali, sradicare i tanti scandali insorti, portati subito nell’ombra. Una remunerazione per giocata, anche se notevole, ma non affondare questi fortunati nell’empireo dei miliardi. Denaro a valanga che va sperperato in vizi, lussuria, in estrosità e stravaganze, deridendo e pestando i miseri storditi e nullificati da irrazionalità ostinate in tempi cosiddetti evoluti che potrebbero avere modi e mezzi per ragionevoli ridimensionamenti. Ancora giungle retributive diffuse, sempre maledette e mai eliminate, come se il denaro dovesse riconoscere figli di varia provenienza, intelligenze superiori. Si tratta di antichi recinti privilegiati, solo con arbitrio e prepotenza incancreniti. Giusto considerare le mansioni diversificate, i tanti livelli di responsabilità e di preparazione, non remunerazioni che sanno gli sperticati sbalzi senza giustifiche portando a formazioni classiste, a divari inconcepibili. Denaro sottobanco, dispensato a piene mani e pensioni che non permettono la sopravvivenza. Denaro esorbitante che passa per tutte le forme di perversione, pieno di cocaina, sventolato in nottate di bagordi, in malcostume che deformano la psiche, portandola ad alienazioni, ai più sofisticati edonismi distruttivi dei principi più elementari della morale. La remunerazione data come manna caduta dal cielo non fa lavorare con dignità e impegno, dà solo prosopopea e vacue glorificazioni. La ricompensa va rapportata con una certa proporzionalità ai meriti, alle capacità, alla diversità del lavoro. In questo modo non si crea odio, conflitti. Una giusta commisurazione non porta l’uomo ad essere ingordo, insensibile, superbo, distaccato entro l’intero contesto sociale. Davanti ai miliardi i tifosi si sentono vanificati, folli sobillatori.

III Scissioni e sperequazioni, assenza collaborativa, vanità a non finire, lusso, incomprensioni.

L’uomo superiore per il denaro facile, vuoto, tutto apparenza, avulso da concretezze di giudizio, uomo camuffato, ipocrita, automa, che ha perso le linee delle leggi naturali. Turbolenze e recinzioni, piaceri materiali, ricerca di evasioni, mancanza di sintesi con se stessi. Si viene ad avere una società aggressiva, insoddisfatta, sconnessa, sbalzata da un ambiente di vita collettiva amalgamata, costruita con tessiture resistenti che garantiscono progressi secondo principi sani di equilibrio e di stabilità di rapporti. Il denaro dato a dismisura non ha valore, porta ad evadere dal senso del dovere, da morigeratezze, da pensieri che approdino a utili realizzazioni. Tutto per il vago: personalismi, contrapposizioni, frivolezze, assenza di dialogo, disorganicità, sviamenti da mete preordinate. Nessuna compattezza, nessuna energia individuale e collettiva che possa sincronizzare gruppi e settori. Divisioni che trovano pochi incontri. Aule parlamentari semideserte, il troppo denaro porta alle divagazioni, agli accordi taciti che sanno di illecite diserzioni, nessuna coerenza e volontà univoca nell’agire. Elucubrazioni senza contenuti, nessuna facondia che attinge a forze interiori sofferte, a rannodamenti e a decisioni, senza iattanza e confusioni, senza alterigia e senza assalti, l’uno contro l’altro, perso ogni contegno, decaduta l’onorabilità da grandi responsabili. Attribuzioni arbitrarie di prebende, aumenti di remunerazione oltre i livelli razionali, un vero prepotere, un disumano rifiuto di convivenza civile. Il denaro fine a se stesso è avidità, inguine grasso, intelligenza ammorbata. Lascia dietro stati di disconoscimento di virtù, di forme pure di saper vivere. Ritorniamo alla giungla, pericolo di cadere repressi, di affondare sempre più nell’indigenza. Differenziazione abissale di benessere che conduce a rabbia, a disamore inpiena contradizione con i tempi progrediti che portano a discutere sempre più sul senso della giustizia, sul livellamento dei popoli.

IV Funzionari incartapecoriti, apparato giudiziario con amministratori disseccati come duri ciocchi di cerro nel soffice ermellino. Vanità ed egoismi, amministrazioni sclerotiche che creano disfunzioni sempre allargate, solitudine e lontananze. Cattiva gestione del bene pubblico, mancanza di interventi, generale corruzione, disgregazione, ognuno va per conto proprio. L’essere umano come diviso in svariate appartenenze, spaccato in forme contrapposte. L’uomo protetto, dominatore, l’uomo prostrato senza forza negli arti, spezzato dalle avversità di ogni tipo. L’infelicità dell’uomo attecchisce tra la disgregazione societaria, le sperequazioni economiche e gli stati di salute precaria. Le disavventure vanno da sé, senza soccorsi, senza una speranza che esista una reciprocità di intese. Miliardi dispensati con tanta generosità, mentre tanti navigano dentro le sciagure, nei miasmi, desolati come in un deserto, tra burocrazia, formalismi e frammentarietà di vedute, danneggiamenti come infestazioni e pantani.

V

Contraddizioni sempre più addensate in uno Stato che pare in questi ultimi anni senza frontiere. Emigrazioni in massa da ogni parte in modo clandestino che devastano come cavallette assetate e infocate i campi aperti senza recinzioni. Le leggi sono le grida manzoniane, senza forza decadono, dettate da gruppi privi di ascendenza, senza veri legami con la maggioranza, artificiose e sempre tirate dalla parte dei privilegiati. Demagogia, atteggiamenti altezzosi di parlamentari aridi, che vengono da campagne elettorali condotte con ipocrita propaganda. Promesse vacue per raggiungere le poltrone danarose, che comportano sicurezza personale, vantaggi per particolari, chiusi recinti di clientelismo. I giocatori del calcio abbiano i loro mestieri e vengano chiamati nei giorni delle competizioni. Saranno più veri campioni, naturali senza ricorrere a medicine che falsificano le potenzialità di attacco e di resistenza. Si ha una catena di malcostume con i soldi avuti a palate. Anche gli stadi non saranno pericolosi, non si avrà il timore di rimanere incatenati con rischio per la propria vita in momenti di eccesso di folla. Il divismo fa

incretinire, accumula quei tanti fannulloni che dimorano davanti ai caffè intere mezze giornate a filosofare sulle partite. Si starebbe negli stadi sereni anche se con un certo accanimento di partigianeria, ma con il buon senso, non da invasati. Togliamo lo spreco di ore interminabili televisive dedicate al calcio con certi sapientoni ben pasciuti che sanno vedere tutte le sfumature, in discussioni insulse da perditempo sugli incontri della giornata. Al loro posto mettiamo programmi che servono. Si tratta di puri calci, spinti da forza fisica, non mossi da particolari doti, che si snodano con meccanicità mentre si corre e ci si addossa.

VI

Sarà un fiume di soldi che corre nel settore del calcio, dove vanno a finire tutti gli introiti non si sa. Senza divismo, instradando il denaro per vie migliori. I tifosi melensi cominceranno a mettere giudizio, a pensare ad altro. Il divismo e tutte quelle forme di strapotere che creano arricchimento con i conseguenti intorbidamenti della struttura sociale costituiscono una chiara dimostrazione di pessima amministrazione. Vediamo il denaro come tesaurizzazione a vantaggio di pochi eletti, non mezzo per migliorare la vita della comunità intera in un insieme più ravvicinato e umano senza troppe discrepanze distruttive. Su questa terra eletti siamo tutti, con la felicità di essere venuti al mondo, con la passione di vivere, con la speranza di avere una società più vera e razionale. Il denaro che corre in modo folle, senza le studiate direzioni, fantomatico, non gestito con programmi oculati, ma buttato con canestri stracolmi in poche tasche, porta con sé sfrenatezze, si rompono gli argini con allagamenti e frantumazioni, emergono deserti dove non si ha un sorso d’acqua per lenire i morsi di ferite antiche. Il denaro che non ha la giusta contropartita è pieno di peccati, apre voragini, toglie possibilità di appianamento con una vita regolata dal senso di sufficiente. Cresce il materialismo che nei tempi nostri è dilagante, toglie consistenze e i valori positivi all’esistenza umana, l’edonismo che fa divenire smaniosi, esacerbati, astiosi, nevrotici, mai paghi di sé. Con esso viene a intessersi tutta una rete di fatti malsani, una sottile, ramificata innervazione di cattive usanze dirompenti. Il consumismo, frutto del superfluo, bisogna vivere alla giornata, oggi si dice, non si pensa più al risparmio, che significa previdenza e metodo di vita, saggezza, senza irrequietezza e senza correre come pecore matte, tutti insieme in masse indistinte lungo le autostrade, a festeggiare in ogni momento, a tutte le età. I divari di senno non esistono più, i maturi come i piccoli tutti presi dalla voglia di evasione.

VII Le mode s’impongono meccaniche, scriteriate. Un fiscalismo esoso automatizzato che pesa sopra le magre tasche, individui che mal si tengono uniti, pare che mordano la cavezza in un ambiente sociale diffusamente anarchico, leggi contorte, mancanza di cammini per tappe, disamoreper la propria terra. Giusto che i rapporti si allarghino, che gli stranieri arrivino in Italia per avere culture arricchite, ma sempre secondo un piano, non esodi di irregolari, senza mestieri, senza ingaggi contrattuali. Si intorbidano le acque, non si vive sicuri, esigenze e disaggi ammassati, i campi si coprono di sterpaglie. Gli sconfinamenti eccessivi fanno indeterminatezze. Giocano falso pietismo, religiosità formale, istintivismi scontri di mentalità, spirito di arrivismo, impazienze, avidità cosparse che corrodono le parti che si tengono compatte. Una diffusa confusione le emigrazioni a flusso continuo, tanti islamici e mezza Romania in Italia. Squilibri fra i luoghi di provenienza e il nostro territorio che si addensa, creandosi convivenze difficili, commistioni spesso nocive, nuove forme di violenza, più intrecciati legami tra gruppi di per sé già considerati isole di malavita. Uno stato di instabilità e cattiva amministrazione, gli stranieri vengono ad essere in molti casi di turbamento di fronte a quella certa omogeneità sociale un tempo più o meno consolidata. Regolarizzati e inseriti, non torme disorientate, frenetiche che vogliono raggiungere il benessere subito. Li vedi vicini assillanti se sei loro di aiuto. Il sorriso sul viso come stampato per servirsi con

prontezza delle circostanze favorevoli. Davanti agli interessi li vedi d’un tratto oscuri di sguardo, acqua intorbidata, con istinto assalitore. Non conoscono regole e ordine né la necessaria successione di tempo. In Italia, un paese invecchiato, gli emigranti dai paesi dell’Est trovano rifugio immediato, in promiscuità di arrivi, si adattano a tutte le situazioni. Una specie di sacco di stracci, si gonfia di continuo. Sono favoriti dal bigottismo e dal falso aereo ecumenismo. Trovano assistenza facile presso uffici di accoglienza, tenuti da abili intrallazzatori e da attive e moderne monache. Nelle città del Nord se giri nei luoghi più malfamati e attorno alle stazioni centrali si ha un senso di smarrimento, hai paura di trovarti fra errabondi, non sai se ritorni integro a casa. I connazionali immigrati al Nord avvertono ancora rigurgiti di razzismo, sempre con rancore visti uguali ai parenti stretti, incrostati di ruggine. Astio e acrimonia in modo larvato si indovinano nei loro confronti. Sono più favoriti gli stranieri, per loro abbondanti le distribuzioni di alimenti, borse piene molte volte sprecate, rendendosi non corrispondenti ai bisogni. Ai terroni degli anni ’50-70, onesti lavoratori, ancora legati agli stenti, allo spirito di sacrificio e di sopportazione di antiche origine tutte le strade erano chiuse, considerati dai Piemontesi tutti analfabeti, malfattori, incivili, sudici. Le loro ostinate volontà, resistenti in ogni tipo di disaggio, con orgoglio, semplici, veri protagonisti della Grande Torino di “Italia ‘61” con la loro pacifica collaborazione e senso del dovere. Calpestati dal razzismo più ingiustificato, in uno scontro di odio e gelosia. I terroni non hanno mai chiesto nulla né qualcuno veniva incontro, si era in una completa segregazione. Cartelloni a caratteri cubitali declamavano ad alta voce di non fittare case ai meridionali, di tenerli lontani come esseri appestati.

VIII

Rispetto del bene pubblico e modi di essere più aperti occorrono, ai fini di ricostruire una convivenza che dia benefici reciproci. Un dialogo che apporti scambi di idee, compartecipazione più interessata ai problemi nazionali. Spirito nazionalistico che raccolga i brandelli di anarchia, di disfattismo, di personalismi dissolvitori. Occorre liberare vecchie occlusioni cherendono la vita di tanti come fasciata, snellezza e compenetrazione, più concreti e senza indolenza, più senso di dignità, di carattere, di superiorità senza essere corrivi verso le amorfe costumanze che passano per progredite. C’è una infestante idolatria per certi aspetti subdoli, si perde autonomia, ci si attorciglia nei gangli dei meccanismi, l’automatismo rende fragili, svirilizzati. Quelle energie connaturate prigioniere, integre, che si sentono ancora presenti in noi dobbiamo riprendere, ripercorrerle, facendoci più rinvigoriti in strutture che mirano a principi morali saldi ed edificanti. Tutto in una ingarbugliata rete di inganni. Si lascia fare tutto sull’onda di corrotte, mitomani, smagliate forme amministrative. Più realistici e per le essenzialità. Occorre procedere. Vanno smosse dalle radici certe forme di operare insulse. Viva partecipazione, attaccamento dovremmo avere non nei discorsi che senti ripetitivi da persone annoiate intorno alle partite di calcio, in ogni luogo, in ogni ora, ma per questioni di altro respiro, quelle che mirano a dare vitalità ai nostri giorni, che aspirano a sradicare vecchie storture politiche, pregiudizi e orgogli che non fanno altro che fermarci, tenerci l’uno contro l’altro in egocentrismi attanagliati. Quel senso plateale di furioso trasporto che si nota dalle tribune degli stadi sarebbe opportuno averlo nei rapporti interindividuali per generare un ampliamento di vedute, una certa passionalità nell’essere vigili sulle problematiche pubbliche. Si direbbe opportuno un interesse maggiore nel vitalizzarci nel senso dello Stato, tutti insieme con vicinanza alle istituzioni per renderle movimentate, meno sclerotiche e antiquate, ma strumenti provvidenziali per una vita più consona e corrispondente ai fini essenziali che ci toccano.

IX

Memorabili sono i festeggiamenti delle vittorie calcistiche riferiti ai campionati mondiali di diversi anni fa. Un senso corale, nazionalistico, una felicità diffusa che esaltava. Dalla gran parte dei balconi di Torino sventola il tricolore, quasi tutti hanno una bandiera; la sua sacralità di un tempo, il simbolo della Patria, oggi si conserva in ogni angolo e si è pronti a inalberarla. È un pezzo di stoffa colorata, lo strofinaccio per le mani o un pezzo di stoffa per vari usi. Prima era raro trovarla perché macchiata di sangue, perché bruciava infiammata vicino alle barricate. Sentimento di esultanza, grido di gloria, ferite lancinanti al petto nell’assalto al nemico. È morto un bambino in questa festa nazionale dei tifosi del calcio, ha avuto il cuore spaccato da una mano forsennata che inneggiava coi pugni frenetici alla gloria dell’eroico Baggio. Il trionfo italiano ai mondiali contro il Niger ha fatto esplodere per le vie confusione e chiasso; disgusto per l’esagerazione di un campanilismo volgare e insignificante. A Torino una serata da ricordare per bassezza e decadenza di civiltà. Torino è un trionfo di macchine strombazzanti e di sbandieramenti; istintivo convulso movimento per le strade, spari da fine anno, allegria ingenua da carnevale. L’idolatria richiama inerzia, maleducazione, violenza: il senso dell’autocontrollo viene distrutto, ritorna il primitivismo; corruzione e sempre istintiva bestialità. Andiamo indietro, sempre da trogloditi con i miliardi dispensati come fossero carta-straccia, attaccati rimangono brandelli di sofferenza e di stenti di tanta gente. Contraddizione oggi più che mai con i principi di intercomunicazione, con gli auspicati passaggi a forme più giuste e commisurate. Siamo tanto lontani dalla ideologia di Pierre de Goubertin, creatore sommo dello spirito di agonismo e di educazione alla vita sportiva e allo spettacolo di una espressine pura di confronto e di vicinanza dei popoli. Un significato più alto di uguaglianza, quando si annienta la superiorità fisica fine a se stessa per far primeggiare la virtù della gara; cultura di bellezza e di prestanza, esercizio di forza e resistenza del corpo allenato. Non siamo alla lotta dei gladiatori, con sadismo e furore tutti contro il vinto. Il campione non è mai il vincitore, ma chi ha condotto la partita con spirito di gioco e amore fraterno. Torino, 20 giugno 2004

Leonardo Selvaggi

NUVOLE BIANCHE

Nuvole bianche montagne di cielo trapassate di luce. Cade rossa sul mare la sera.

Gianni Rescigno

Da: Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019

PAPÀ, SEMPRE PIÙ SPESSO MI SORPRENDO

a parlarti all’orecchio, a confidarti cose che, da unico figlio (e avuto troppo presto…) non avrei mai osato rivelarti (o non mi avresti ascoltato).

E mi sembra così di risentire quelle tue storie, che mi raccontavi negli ultimi anni, quelle tue memorie, quelle per cui tutto si ripete, ed è già stato detto, e scritto, tutto.

Luigi De Rosa

Da: Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013

3)

Par otra parte los demas contaban poco, se sentia grande como su historia. Quince años: era el primier beso. Ella sutil como un junco los cabellos al viento.

Lucio Zaniboni

Lecco

Recensioni

ISABELLA MICHELA AFFINITO

ESSERE POETA

Casa Editrice Menna, Avellino 2002, Pagg. 32, € 5,16

Essere Poeta è una silloge di Isabella Michela Affinito, poetessa e scrittrice, saggista e artista dell’arte figurata, con copertina dell’Autrice “Eroe di ieri, eroe di oggi” realizzata con tecnica acrilica e collage. L’opera comprende diciassette poesie generalmente lunghe dal verso scorrevole; è dedicata “A chi avrebbe voluto e non è stato un poeta”. Alcune liriche, classificate nei concorsi, sono segnalate a piè pagina. Quanto al titolo la Poetessa nella prefazione si interroga sul senso di “essere poeta”.

Ed è così che indaga per trovare delle risposte: “Marcel Proust / componeva pagine sciolte / di un futuro romanzo / (…) / il Carducci si espresse/ in versi per dimostrare / la sua poesia.”, poi seguono Leopardi e Dante, e commenta “Il tempo della poesia / è andato e va, / come un’ape in cerca / di un altro fiore”. Trovo molto interessante la riflessione che scaturisce dal componimento che si ispira al poeta francese, “alla ricerca del tempo / perduto”, ricordandolo in compagnia di altri grandi autori, considerando “quanto fosse / importante la reminiscenza, / il recupero del passato / e del tuo tempo ritrovato!” Credo che non sia mai troppo ribadire su questo tasto, del “recupero del passato”, noi siamo il risultato di quanto ci ha preceduto e la risultante del mondo circostante.

Nella multi variegata realtà si chiede cosa sia il senso della vita, il senso delle cose, il senso della poesia, chiedersi dove sia diretta la poesia. Nel nostro piccolo ego viviamo appieno il senso della poesia senza saperlo spiegare; così è nelle parole chiave improntate al recupero della memoria, del “tempo perduto”, una sorta di ricerca di sé e di proiezione possibile. Vivere ed essere pronti a morire per la poesia. Forse il senso cercato è l’anima, impalpabile, degna di valore, è la ricchezza interiore che ci contraddistingue e che pure è indefinibile.

La frusinate poetessa Isabella Michela Affinito usa in molti casi il refrain come motivo assillante. Quando nasce o è in nuce, il poeta si muove nell’incertezza e trova stimoli, ispirazione dagli eventi più disparati, vantando il diritto di esistere, anche se si tratti, della natura morta in un quadro. La Nostra dice di sentirsi sasso, fiume, oggetto materiale o pensiero astratto. Lei si trasfigura in “una musa / dell’antica Grecia”, è anche una interprete delle opere altrui e osservatrice della realtà che la circonda, perciò “dopo tanta bufera / io mi domando ancora, / chi sono?” Il poeta vive molte vite, è tante cose, assume molteplici facce. Ho l’impressione che la Nostra sia in continua attesa di cogliere e di non farsi sfuggire il momento magico dell’ispirazione, pronta ad afferrare “ogni sussurro / che altrimenti andrebbe / poi, perduto” (p. 17).

Si rivolge alla seconda persona direttamente, si tratti di un personaggio reale o di altro, così alla Poesia, o alla Musa “a volte invisibile / nascosta tra

/ le curve del passato,” (p. 18), ma in ogni caso Lei la sente dentro di sé. I pensieri volatili sono in continua variazione di densità, si raggrumano, solidificano, diventano scultorei, foglie, alberi, vento, ti prendono anima e corpo. Ella sa, o meglio “sceglie” di credere che i poeti “vivono / nel paradiso di Milton / e che respirano l’aria di perenne primavera.” (p. 23), penso si riferisca al poeta e filosofo John Milton.

Sorgono domande “monche”, d’altronde tutta la vita è incerta e, pare dire, a volte bisogna giungere all’ultima età per scoprire qualche risposta. La vena poetica si intreccia con quella pittorica perciò la Nostra si sente come quell’albero del “quadro del Canaletto / con i rami che si / danno la mano” (p. 25). Nel momento del pericolo di vita è stata visitata dalla Musa e così tutto ciò che la circonda, anche l’eventuale malattia, diventa motivo ispiratore, diventa poesia stessa. E lei è donna baciata dalla Musa; e Musa ella stessa in un gioco di specchi, si rimanda nei ruoli di oggetto e di soggetto. Così ancora una volta spazia con la fantasia, affonda negli antichi miti, ma sempre in cerca della Musa che la incarni.

Forse per Isabella Michela Affinito la voce più bella è quella del silenzio, se saputa ascoltare: “Sarà questo silenzio / complice di una vita bugiarda / che non ascolta mai / la vera voce del silenzio.” Una sorta di piacevole dialogo o solo di ascolto del silenzio. La poesia ti rapisce quando meno te l’aspetti, e la Poetessa diventa la tela che attende di essere dipinta o il foglio bianco che attende di essere scritto, o forse solo la penna o il pennello con le ali di un angelo, di una musa.

Tito Cauchi

ANTONIO CRECCHIA

PASQUALE MARTINIELLO Atto Secondo

Ediemme Cronache Italiane, 2021, pagg. 216, € 18,00

Confessiamo di non aver mai letto alcunché di Pasquale Martiniello (Mirabella Eclano, Avellino, 20 gennaio 1928 –ivi, 24 febbraio 2010) e, perciò, questo ottimo lavoro di Antonio Crecchia –seconda monografia sullo stesso poeta, dopo L’evoluzione poetica spirituale ed artistica di Pasquale Martiniello, Editrice Ferraro, Napoli, 2007 - è, per noi, vera e propria scoperta, fascinosa e gratificante anche, perché, dall’esame dei versi riportati e dall’acuta analisi del critico, ci rendiamo conto che il poeta campano ha cantato temi a noi cari, come il sociale e l’avversione verso una politica che ha depravato, forse irrimediabilmente, il nostro grande e bel Paese.

Antonio Crecchia è investigatore attento della cultura del nostro tempo, “uno Spirito aperto ad ogni forma di Arte e Bellezza – afferma Daniela Marra , capace di trasfondere negli altri la calda Passione e la vivace Intelligenza che animano la sua sconfinata Conoscenza e che lo hanno sorretto in tutta una vita interamente dedicata alla Cultura e alla Ricerca seria e impegnata” .

All’apparenza, il saggio è frammentario, composto da brani scritti in più tempi e per diverse occasioni –come i capitoli dal IX al XVIII riguardanti varie edizioni del Premio Nazionale “Aeclanum”, da Martiniello fondato e nel quale Crecchia è stato quasi sempre della Giuria -, ma la figura dello scrittore e poeta, a dieci anni dalla scomparsa, risalta nitida e completa.

Pasquale Martiniello è stato un educatore, non soltanto perché docente e preside. Della sua poesia vanno in particolare evidenziate “la finezza e l’originalità delle metafore”. I mali d’Italia, da lui così nitidamente sferzati, sono atavici, stratificati, incartapecoriti, difficilmente scalfibili – afferma Crecchia ; “Il problema della legalità, nel nostro Paese, è (…) antico” e “ha turbato i sonni di baroni, duchi, conti, marchesi, re e imperatori, capi di governo e di polizia, prefetti e questori, poliziotti e carabinieri, mercanti e cittadini comuni” .

Quelli di Martiniello – continua Crecchia – sono “versi al vetriolo”. Il grido di Martiniello, per le tante donne assassinate, in Italia e nel mondo, a volte per un nonnulla, “per un respiro di vento nei capelli e un lampo/d’aurora sul viso sprigionato dalla maschera”, ci ricorda l’immaturità e la prepotenza del maschio e la necessità di una campagna di educazione, giacché le leggi non bastano a porre fine alla mattanza. Ma il suo urlo-anatema, come quello di tanti altri, non viene mai ascoltato. Crecchia riporta una confidenza dello stesso Martiniello, il quale con crudezza afferma: “ho trascinato la poesia nella melma”, “volendo con ciò dire che la sua poesia non era pensata e scritta per dare al lettore l’immagine di una lirica bucolica sfociata dalla idealizzazione di un mondo agreste tutto adagiato sui letti di fiori e d’amore, bensì quale strumento d’indagine per una ferma presa di coscienza delle storture e inganni di una istituzione che chiamiamo “democrazia” e democrazia non è, se non di nome, perché nei fatti è una partitocrazia in cui uno sciame di individui bramosi di potere, privilegi, ricchezza, costruisce ignominiosamente gli interessi individuali e di casta, disinteressandosi dei sani valori e dei bisogni materiali che possono rendere prospera e felice la società di cui sono rappresentanti e custodi”; una poesia, insomma, di denuncia e di battaglia. Martiniello, comunque, non è stato sempre così combattivo; anzi, e

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