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Il Covid in fasce, di Domenico Defelice, pag

Il Racconto

IL COVID IN FASCE

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di Domenico Defelice

VADO avanti con il raffreddore da quasi una settimana, cercando di curarlo con l’ingoiare bevande calde, Tachipirina e altri intrugli. Così mi si consiglia. Alla fine, stimolato dalle donne, decido di ricorrere al medico. Non ricordo il motivo perché, da sempre, io lo chiami Peynet. È andato in pensione! Al suo posto, dietro la scrivania, con a fianco computer e stampante, trovo una donna sulla quarantina, statura media, né brutta né bella, acconciatura impersonale, vestito impersonale, sorriso a metà tra l’ebete e la tristezza.

“Che hai?” Peynet l’avrà istruita a puntino, si comporta come lui!

“Tosse, catarro, febbre”.

“Scopri le spalle, sollevati la maglia”. Che hai, scopri le spalle… questo tu, dato così, m’infastidisce; non ci frequentiamo; è la prima volta che la vedo; non sono stato con lei a pranzo, né, tantomeno, a letto.

S’alza – ah, questa s’alza, l’altro non vi accennava neppure! -e mi tasta con le dita fredde più del suo stetoscopio. “Prendi per cinque giorni una pastiglia di cortisone; è leggero, da bambini, tre volte al giorno, e una bustina di Fluxolal”.

Anche la segretaria non è più quella dai glutei esaltanti e minigonna: ha petto stirato, vita snella e un sederone enorme, straripante in un grigio pantalone. Sta rispondendo al telefono dietro il gabbiotto; prende appunti; digita sulla tastiera; consegna ricette vomitate dalla stampante a una interminabile fila di vecchi.

La cura prescritta dalla sostituta di Peynet è inefficace. Ritorno e, al suo posto, trovo un dottorino di neppure trent’anni; lei s’è presa una settimana di riposo. Anche lui s’alza e mi ausculta. “Sì, sì, è una brutta bronchite. Continua la cura della Dottoressa e, in più, prendi un antibiotico a pastiglie, una volta al giorno, per una settimana e inalazioni con questo inalatore circolare, dall’uso molto semplice.”

“Lei me lo presta, dottore?”

“No, no. Fa parte del preparato. Tieni questa specie di rotella - con la destra o la sinistra fa lo steso -; spingi in giù col pollice il primo involucro fino a sentirlo scatto; sempre con l’indice, abbassa la piccola levetta fino a sentir lo scatto; espira il più possibile”. Continua, prendi, tieni, spingi, abbassa, espira... Che ti accompagni Carnevale, visto ch’è il suo tempo! “Metti sull’orificio la bocca e ispira; trattieni per almeno dieci secondi e poi sciacquati la bocca”. Dannazione, e questa tua confidenza non richiesta né data! Potrei esserti padre, ma sei figlio della mala educazione e meriteresti di ricevere ben altro nel tuo orifizio, se continui a darmi del tu e a trattarmi da deficiente.

Dopo tre giorni, febbre in continuo aumento e diluvio di tosse e catarro. Consigliato ancora dalle donne, vengo accompagnato al pronto soccorso di quella da me battezzata in Resurrectio l’officina tra platani e pini. Elisa, la “virago bionda” di allora, evidentemente ha fatto carriera: non riceve più i clienti: la scorgo tra medici vestiti di bianco, gesticolare e parlare con autorità, il camice verde aperto su un grigio vestito che le fascia il corpo ancora sodo e straripante. Non sta mai ferma; il suo, è quasi un balletto sopra almeno un dodici di tacchi.

Giovedì, 20 febbraio 2020

Dopo un’attesa di più di due ore, ecco il mio turno. Frenetica raccolta dei dati; doppio prelievo di sangue; doppia lastra al torace. Sono conciato male: ho una brutta polmonite e debbo essere ricoverato. Non essendoci posti letto, vengo collocato su una barella, prima allineata nei corridoi e poi trasferita in uno stanzone battezzato Sala Gialla, Area urgenza. In realtà, è tutto grigio e bianco; gialli son solo due piccoli contenitori di apparecchi per misurare la temperatura. Due bianchi orologi alle pareti, entrambi fermi, uno alle nove meno un quarto, l’altro alle dodici in punto. Tante le barelle oltre la mia, l’una attaccata all’altra; sulle

ultime, in fondo, due anziane signore, silenziosa la prima, l’altra che urla, a tratti quasi regolari, parole e frasi sconnesse (si sussurra abbia avuto un ictus). Le sta accanto il nipote, studente in fisioterapia, che cerca di stimolarla facendole recitare i numeri e l’alfabeto; il giovane è assai calmo e bravo; lei fa per ripetere, ma si dimena, si ribella e urla. Coi numeri arriva fino a tre, il quattro non riesce proprio a pronunciarlo; con l’alfabeto arriva alle prime sette lettere, poi ancora si dimena, si ribella e urla. Nel momento in cui il nipote si allontana, la sento recitare una specie di strana filastrocca, mentre tenta di alzarsi: “Bagno bagnino Le figlie dove fare cacca e pipì? Pipì”

“Non puoi alzarti!”, la frena un’infermiera di passaggio. “Non puoi alzarti, stai ferma, ti portiamo il pappagallo.”

Alle quattordici, al nipote si sostituisce il fratello della donna, che di lei non si cura: va su e giù per la stanza, tra le barelle, conversando a voce alta al telefonino con un pittore chissà dove, il quale deve controllare l’estero dei cornicioni, verificare lo stato dell’impianto idrico, decidere la dosatura dei colori per la tinteggiatura e riparare la scala sconnessa…

Nel tratto di corridoio che, dal principale, porta alla Sala Gialla, due petulanti signore, sedute sulle barelle, chiacchierano di campagna e di lucertole che, sulla pietra, raccolgono l’ultimo sole che scotta. Mi viene il dubbio: ma stiamo in febbraio, o in estate, o nell’autunno da poco arrivato? A tratti, giunge il grido prolungato di una donna, simile al “A chiii io parleròoo se non a teee” di Fausto Leali, un urlo doloroso, straziante, un prolungato “arleoooooo” senza fine, interminabile.

In tutta la giornata, sono andato al bagno una sola volta, per la pipì. Non ho bevuto, né mangiato.

Poi, ecco la notte, da incubo. Luci a palla fino alle due del mattino; infermieri a gridare e a chiacchierare come imbonitori al mercato del pesce; estenuanti lamenti dal mare di barelle. Finalmente le luci vengono parzialmente spente, ma sono le tre e quasi subito hanno inizio le pulizie. Alle tre e cinquanta, la povera donna con l’ictus cade dalla barella rompendo il pannolone e il pavimento della sala sembra inondarsi di pipì e d’altro; la signora della barella accanto scende a prestarle aiuto, cerca di sollevarla, chiama ripetutamente gli infermieri, ma nessuno risponde. Scendo anch’io e vado a cercarli. Nel corridoio principale, il signore in camice azzurro che fa le pulizie mi ferma con cipiglio. Vado dagli infermieri. “Sono io l’infermiere”, mi risponde piccato, brandendo il manico della scopa. Gli accenno della donna; lascia ramazza e carrello e viene ad aiutarla, a pulirla e poi a nettare il pavimento. Avrò dormito, a brani, sì e no una mezz’ora.

Venerdì, 21 febbraio 2020

Nel primo pomeriggio, la donna con l’ictus viene trasportata al Sant’Eugenio di Roma.

Ci sono due uomini in gravi condizioni. La barella di uno dei due è accostata a un mobile metallico e lui, a intervalli quasi regolari, alza un grido di dolore: “Amiii! Amiii! Amiii!”, si azzittisce per qualche istante e poi sferra, ogni volta, tre grossi pungi sull’armadio che rimbomba. L’altro, che, in mattinata, avrebbe dovuto essere trasferito al Campus di Roma, per tutta la giornata è rimasto silenzioso e immobile come una pietra; dicono che ha sangue, molto sangue nelle feci.

È assolutamente vietato scendere dalla barella e muoversi. Mi vergogno, però, di chiedere il pappagallo e tento di recarmi al bagno, dopo un giorno e una notte.

“Dove vai? Sei o non sei in un Pronto soccorso?”

“Già, e dovrebbe essere così: un soccorso pronto, un soccorso a sosta temporale; invece, qui, è solo un brutto e lungo soggiorno e, allora, se non le dispiace, vado al bagno a fare pipì!”.

Alle 14,45 mi sequestrano la barella: serve a uno che ha bisogno d’ossigeno. Mi conse-

gnano a una bassa sedia, in corridoio. “Accomodati lì e stattene buono buono”. Dopo una mezz’ora, staccano la spina dell’ossigeno e barella e paziente vengono portati via; al suo posto, altra barella con sopra una donna.

La paziente trasportata al Sant’Eugenio per una Tomografia computerizzata, dopo circa un’ora è riportata indietro e ricollocata sulla barella quasi allo stesso posto.

Alle 16,15 il paziente che urla e dà pugni sull’armadio viene trasferito al Regina Apostolorum di Albano.

Protesto per le tante ore trascorse immobile sulla scomoda sedia e finalmente mi assegnano la barella. Verso le ventidue, nuovo tragico e goffo capitombolo della signora con l’ictus. In assenza di mezzi o strumenti attraverso i quali chiedere aiuto, mi precipito a chiamare gli infermieri; la stessa cosa mi toccherà fare subito dopo per un’altra signora che strilla dal dolore. Mi sono apparsi infastiditi: mi riportano nella Sala Gialla, al posto della donna che si lamentava, collocata nel corridoio centrale, accanto alla loro sala per essere meglio sorvegliata.

Sabato, 22 febbraio 2020

I miei occhi si sono allargati ed infossati (nel bagno c’è un piccolo specchio); ora mi sembrano laghi e le pupille isolette in ombra, muschiose. In questo antinferno, ho sentito finora per fortuna un solo pianto di bimba (e dico solo una volta e per fortuna), ma quanto lungo e straziante. All’improvviso s’è quietata; è arrivata l’ambulanza e l’ha portata via ad altro luogo di dolore di questo più attrezzato.

Un ragazzo è ferito alla testa. L’infermiera gli rade e capelli. Statti calmo, Matteo! Non s’ode neppure un gemito. Il taglio è lieve. Stai calmo, Matteo. Occorrono due suture, due soltanto. Appena appena sentirai due lievi punture di zanzara. Non un lamento. Sei ferito, Matteo.

La donna è alta e formosa e ha un’aria d’antan. Stamattina s’è messa seduta sulla barella come su una lettiga; ha indossato uno smanicato, attaccati maniche e collare non si sa se di volpe o coniglio; poi, s’è lentamente truccata.

Notte fonda, vigilia della domenica. Il paziente che perde sangue ora sembra star meglio; ha rovesciato sulla barella una busta di medicine e le conta e le ordina. È arrivato un ipovedente che sonnecchia beato, o fa finta.

Durante la giornata, movendomi indisturbato tra le barelle – infermieri quasi inesistenti -, ho incontrato tanti giovani e ho fatto il rivoluzionario. Non si può stare giorni e notti in un pronto soccorso, praticamente abbandonati. Muovetevi anche voi, fatevi sentire; senza fare del male, s’intende, e senza farvi male, ma muovetevi! Basta con l’inerzia, basta con la droga del telefonino! Mi han guardato perplessi. Ho capito che non era né tempo né luogo per certe concioni, ma è certo che i giovani alla protesta e alla lotta non son più allenati.

Domenica, 23 febbraio 2020

A sorpresa, alle 17,15 è apparso un viceparroco (mi dice, poi, l’infermiere che l’ha accompagnato: “Quando vedo un prete, mi tocco!”). Mi son domandato come mai sia venuto dritto dritto a trovare proprio me! Ché sia accessibile a tutti, e specie ai sacerdoti, l’elenco dei pazienti? Abbiamo recitato l’Ave Maria e ha promesso che alla Santa Messa, che si accingeva a celebrare nella piccola cappella

al primo piano, avrebbe pregato per noi di quaggiù – ha detto proprio così: di quaggiù! , dell’Inferno, insomma; per noi che, anche se volessimo, alla funzione di lassù (il… Paradiso?) non ci possiamo andare. M’è venuto a mente la parabola del Crapulone e Lazzaro, con i due ambienti separati e incomunicabili. Il soggiorno, quaggiù, su barelle e tra barelle continuamente spostate a calci dagli infermieri per far posto a nuovi arrivati; il non essere ricoverati per mancanza di posti letto, sta diventando assai pesante, direi insopportabile per tutti, infermieri e medici compresi.

In questi giorni, i figli si sono alternati a farmi visita; mia moglie è venuta molte volte. Stamattina, uno dei miei figli mi ha portato Il Tempo, con, in prima pagina, “Il coronavirus fa paura. Siamo i più contagiati d’Europa”, firmato da Angela Bruni. C’è panico tra i pazienti e, pure, palpabile, tra il personale. Si sentono assai meno cazzeggiate.

Cerco di bere il meno possibile per non andare al bagno e sentirmi dire, ogni volta, che mi faccio le passeggiate, invece di stare fermo, com’è d’obbligo, mummificato sulla barella.

È venuta a sedersi accanto a me una bella e giovanissima infermiera; forse mi avrà sentito esortare quei giovani inebetiti a guardare e a smanettare apparecchi elettronici; forse s’è resa conto anche lei del mio non eccellente stato d’animo. Abbiamo chiacchierato per quasi un quarto d’ora, ringraziandola quasi commosso.

Sì, i pazienti, qui, son tutti ansiosi di venire ricoverati e salire, così, dal questo quasi Inferno al Paradiso. Che dico! Ai piani alti!

Mi domando perché, una volta accertato lo stato di salute, s’insiste nel voler ricoverare tutti e a ogni costo, anche nel caso in cui basterebbe una cura da praticare a casa e quando, per giunta, la struttura non è in grado di fornire al paziente un ambiente dignitoso. Perché, chi ha sentito la necessità di ricorrere al pronto soccorso, dev’essere, poi, obbligato a firmare per andarsene, se la patologia è lieve e c’è pure carenza di posti? Perché non dimetterli direttamente?

Non ricordo più quanto sangue mi abbiano prelevato: almeno due e più volte al giorno; però, ho ricevuto pure, ogni giorno, una e più flebo. Questa notte sembrava annunciarsi meno movimentata e problematica, e pensavo si potesse dormire; invece, alle ventidue e quindici, quando mi stavo assopendo, ecco una bella e sorridente silfide venire a siringarmi! Cado quasi in deliquio. Mi gira la testa, vorticano le luci, la stanza sembra accartocciarsi. Sono sulla terra ancora, per fortuna, e tutto è composito, mutevole e contrapposto, sicché basta un prelievo di troppo, un quasi svenimento, per sentirsi fluttuare, magicamente dall’Inferno salire al Paradiso e ridiscenderne e Lazzaro incontrare il Crapulone. Mi scuoto inorridito, pensando che, se voglio dall’Inferno salire al Paradiso, occorre, qui, passare per la terra di mezzo, la sala mortuaria, dove ti vestono dei panni buoni e ti mettono fra due candele.

Lunedì, 24 febbraio 2020

La bella e giovane infermiera, che ieri si è seduta accanto a me a chiacchierare, mi saluta sorridente: Buon giorno, 746! Sono le ore 7,10. Pressione regolare; febbre 6,38. Flebo alle ore 8,15.

Ore tredici. Si è liberato un posto al San Raffaele di Roma, alla Pisana; vogliono una mia risposta immediata perché vi sia trasportato.

Desidero telefonare a mia moglie, perché lo riferisca ai figli, perché si decida insieme. No, no, tu non hai capito, la risposta ce la devi dare subito, altrimenti il posto verrà assegnato ad altro. Faccio finta di non sentire e telefono. Mia moglie arriva alle 13,15. I figli sono per il mio ricovero. Tentenno. Il San Raffaele è lontano e, lì, nessuno può venire a trovarmi. Gli infermieri insistono quasi con rabbia perché dia la risposta. Tentenno, ancora, facendoli irritare. È allora che un bravo dottorino coraggiosamente si avvicina e mi dice che, a suo parere, io possa proseguire comodamente a casa la cura che loro mi stanno prodigando al Pronto soccorso; è possibile, cioè, uscire dall’Inferno senza venire scaricati in altro. Accetto! son disponibile a firmare tutte le carte che vogliono; sì, sì, mi diano una penna e la

montagna di carte. Il dottorino mi prescrive due compresse al giorno di antibiotico, più uno sciroppo che, stando al bugiardino, non potrebbe essere preso dagli anziani; lui, evidentemente, mi avrà considerato un quattro volte ventenne più l’aggiunta: un pischello!

Finalmente, alle 14,00 mi avvio verso casa. L’Italia, dicono, ha la più bella sanità del mondo. Ah! Sì, sì, lo penso anch’io, un vero sfinimento, un vero masturbarsi collettivo con le più belle cazzate del mondo!

Le nuvole in cielo stanno per sgravarsi, questo pazzo febbraio ha intenzione di bagnarmi!

Scendi pioggia torrenziale e devastante, lava le nostre tante lordure; insegnaci ad amare il dolore, a rispettare il fratello, a liberarci dalle paure, ad abborrire la cupidigia, a non sprecare mai più ricchezza in armi letali e vacuità nutrendo corona virus che ci divorano anima e corpo, che ci costringono mascherati e ci dividono gli uni dagli altri. Anche la Cina è terra che soffre, come ogni terra, come la nostra; non quella voluta dalle politiche, dalle ideologie, dagli interessi, non quella sporca, quella annidata nel nostro cervello di chirottero, quella creata dai tanti mostri delle ingordigie, dalle follie.

Scendi pioggia torrenziale, lavaci tutti, facci mutare.

La mattina del ricovero in Pronto Soccorso, ero l’unico con polmonite; nel pomeriggio eravamo già quattro; nei giorni successivi, una legione. Del coronavirus si è incominciato a parlare apertamente la domenica; venerdì lo sussurrava qualcuno. Di certo, era ancora un Covid in fasce, debole e timido, non sufficientemente robusto. Il mutante è arrivato poi, veloce, terribile, aggressivo.

SONO I CAMION DELL’ESERCITO

Si spostano le barelle con i piedi, con le mani e coi piedi, e non c’è posto, né su, né quaggiù in quest’anticamera d’inferno.

Alfio, perché ti lamenti? Non ci son posti letto neppure a pagarli a peso d’oro. Si spostano le barelle con i piedi. Non c’è posto, non c’è posto, non c’è posto neppure al cimitero.

Senti che brusio ovattato di motori? L’aerazione è forse del Pronto Soccorso? Sono i camion dell’Esercito, Alfio. Non c’è posto neppure al cimitero. In passato apparato di morte, è forse oggi di pace? Vedo un generale con l’elmetto. Nel totale disfacimento, forse, ci salverà l’Esercito.

Si spostano le barelle con i piedi, verso dove, fin quando? Mio Dio, un generale con l’elmetto! Ma non bastava il mio Dio? Alfio, Alfio! E dove oggi più trovi la fede da poterci spostare le montagne?

Domenico Defelice

D. De-

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