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Le opere di Silvio Pellico, di Leonardo Selvaggi, pag
by Domenico
LE OPERE DI SILVIO PELLICO
di Leonardo Selvaggi
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L
I ’attività letteraria di Silvio Pellico comincia nel 1812 e comprende anche gli anni della prigionia. Il suo desiderio è quello di affermarsi come poeta tragico. Nelle “Mie prigioni” confessa di illudersi di occupare un seggio non molto diverso di quello di Alfieri. Non abbiamo l’asprezza dei caratteri, si dà, invece, risalto al tono affettivo, sentimentale, romantico. Certo questi aspetti tolgono il vigore tragico di cui l’Alfieri è insuperabile maestro. Delle dodici tragedie scritte, solo otto pubblicate. La più celebre “Francesca da Rimini”, rappresentata per la prima volta al teatro Re di Milano, la sera del 18 agosto 1815 con esito felicissimo dalla compagnia del Domeniconi e della Marchionni, gli attori più famosi di quel tempo. Mai dimenticata, ma il sentimentalismo che tanto commuoveva allora, ai tempi nostri non piace più. Il trionfo è dovuto alla soavità manierata del romanticismo latente dentro la struttura di una tragedia classica, apprezzata da Byron e da Stendhal, molto allora hanno paragonato Pellico a Racine e ad Euripide. Altre sette: l’”Eufemio da Messina”, l’”Ester d’Engaddi”, l’”Iginia d’Asti”, il “Leoniero da Dertona”, la “Gismonda da Mentrisie”, l’”Erodiade”, il “Tommaso Moro”, il “Corradino”. Dopo l’insuccesso di quest’ultima, il Pellico disgustato si volge tutto alla poesia lirica. La maggior parte delle sue liriche sono infatti degli anni 1834 –37. Le “Cantiche” o novelle poetiche narrano la vita del Medio-Evo, in versi sciolti, ricordano alla lontana il Byron.C’è della monotonia, della poesia debole, non trascurabile l’intento di lezione morale. Da rilevare la gentilezza di alcune figure di donne, la sincerità dei contenuti, il vigore delle pagine autobiografiche.
II
Le “Poesie varie”, c’è della delicatezza dei sentimenti, la poesia, come già detto, non ha voli sicuri ed elevati. In prosa parecchie “lettere”, interessanti come studio dell’animo dell’autore, che anela a distaccarsi dal mondo, rivolto a mistiche contemplazioni. I “Doveri degli uomini” in uno stile semplice, pervasi da alto sentimento cristiano. Le “Mie prigioni”, l’opera autobiografica – capolavoro di verità, di grande spiritualità, espressione di amor patrio. Di certo artificioso il giudizio dato dall’Imperatore pedante, bigotto Francesco che leggendo il libro lo interpreta come un atto di vendetta. Può dire questo solo un malevolo torturatore inumano dei reclusi dello Spielberg, avvezzo a mascherare l’odio di una malvagità innata con l’ipocrisia di una fede falsa. Il Pellico ha di mira di raccontare con serenità, senza odio alcuno, i propri tormenti. La struttura è lirico-elegiaca. È un poeta che canta le sue passate sofferenze. Profondo il senso religioso, àncora di salvezza cui si aggrappa con tutta l’anima. La religione gli insegna di sopportare con paziente calma i dolori, con spirito mistico. Nessun pensiero di vendetta né senso di battaglia politica. Silvio Pellico ha voluto scrivere solo un’opera spontanea d’arte, uscita dal suo cuore. Un libro umano, con schiettezza di forma, sempre letto con passione. Il dolore
e il suo patema educa gli uomini alla sensibilità, alla fede e alla speranza. Secondo i principi evangelici Silvio Pellico è contro la violenza e la guerra civile. Un migliore avvenire della Patria bisogna aspettarselo dalla Provvidenza e da uno spontaneo ravvedimento dei Governi, sollecitarlo con l’esercizio assiduo della carità e della virtù, con la propaganda del bene.
III
Le “Mie prigioni” composte fra il ’30 e il ’32. Lo spirito di bontà evangelica e la sincerità, la chiarezza, il candore stilistico che lo caratterizzano, ne fanno un’opera d’arte, oltre che un breviario di fede patria e religiosa. Il Pellico tace dei suoi persecutori. In tutto il libro c’è un leggero pathos romantico, irrorato di luce serafica. L’inquietudine è indegna dell’uomo, una mente agitata non ragiona. L’espressione ha sempre un tono di rassegnazione, di dolcezza, di vigore spirituale, propria delle anime belle e delicate. Le “Mie prigioni” un libro di memorie, famoso e conosciuto in tutto il mondo. Il Pellico intende raccontare attraverso quali vie nella dura prigionia trova la fede religiosa e, con la fede, la forza di perdonare i suoi nemici. Si limita a descrivere fatti e uomini in mezzo ai quali si svolge la sua vicenda interiore, la conquista faticosa del sentimento religioso, liberato dai risentimenti, disperazioni, impeti di rivolta. Il giudizio dei lettori è stato unanime, di condanna verso coloro che hanno perseguitato il Pellico e tutti i patrioti. La religiosità dei contenuti non soffoca i moti profondi del cuore, si equilibrano, si illumina di candida luce. Un grande insegnamento per gli altri, esaltando il bene, gli umili. Nel tono della struttura e della prosa delle “Mie prigioni” c’è della lezione del Manzoni, vale a dire un’espressività adente alle cose, semplice, discorsiva, ma non sciatta, popolare, viva. Nel ’32 Silvio Pellico pubblica le “Mie prigioni”, l’immagine di dieci anni di patimenti, della sua persona di patriota e di credente. Negli anni successivi la salute peggiora, alterando la sua serenità e portandolo all’inerzia, che a molti fa cancellare i suoi meriti di grande italiano.
IV
Il carcere determina il ritorno alla fede, dopo averla persa in gioventù. La mansuetudine si alterna con la disperazione, ma finisce per prevalere. C’è interiorità personale, non si può parlare di influenza manzoniana. La tranquillità, il raccoglimento nascono dall’animo del Pellico, dai suoi moti intimi di se stesso dei suoi carcerieri e dei suoi compagni di pena. Non c’è nulla di drammatico, ma mitezza, sentimentalità del primo romanticismo, la malinconia di Berchet, la dolcezza del Grossi. Un’unità di tono che rivela il vero scrittore. Una forza espressiva che raccoglie in un’immagine coerente luoghi e personaggi. Una psicologia che smorza l’esteriore per far sentire la voce dell’anima. Il Pellico, come il Nievo, ha saputo, prima del Fogazzaro e del Verga ritrarre persone vive con una vita intima e mettere sui lineamenti dei personaggi il soffio dell’anima. Non c’è nulla di vistoso come nel Grossi, nel D’Azeglio, nel Guerrazzi. Con mano leggera, con gesti misurati si rendono eloquenti e profondi i sentimenti.