POMEZIA-NOTIZIE
Agosto 2021
LE OPERE DI SILVIO PELLICO di Leonardo Selvaggi I ’attività letteraria di Silvio Pellico comincia nel 1812 e comprende anche gli anni della prigionia. Il suo desiderio è quello di affermarsi come poeta tragico. Nelle “Mie prigioni” confessa di illudersi di occupare un seggio non molto diverso di quello di Alfieri. Non abbiamo l’asprezza dei caratteri, si dà, invece, risalto al tono affettivo, sentimentale, romantico. Certo questi aspetti tolgono il vigore tragico di cui l’Alfieri è insuperabile maestro. Delle dodici tragedie scritte, solo otto pubblicate. La più celebre “Francesca da Rimini”, rappresentata per la prima volta al teatro Re di Milano, la sera del 18 agosto 1815 con esito felicissimo dalla compagnia del Domeniconi e della Marchionni, gli attori più famosi di quel tempo. Mai dimenticata, ma il sentimentalismo che tanto commuoveva allora, ai tempi nostri non piace più. Il trionfo è dovuto alla soavità manierata del romanticismo latente dentro la struttura di una tragedia
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classica, apprezzata da Byron e da Stendhal, molto allora hanno paragonato Pellico a Racine e ad Euripide. Altre sette: l’”Eufemio da Messina”, l’”Ester d’Engaddi”, l’”Iginia d’Asti”, il “Leoniero da Dertona”, la “Gismonda da Mentrisie”, l’”Erodiade”, il “Tommaso Moro”, il “Corradino”. Dopo l’insuccesso di quest’ultima, il Pellico disgustato si volge tutto alla poesia lirica. La maggior parte delle sue liriche sono infatti degli anni 1834 – 37. Le “Cantiche” o novelle poetiche narrano la vita del Medio-Evo, in versi sciolti, ricordano alla lontana il Byron. C’è della monotonia, della poesia debole, non trascurabile l’intento di lezione morale. Da rilevare la gentilezza di alcune figure di donne, la sincerità dei contenuti, il vigore delle pagine autobiografiche. II Le “Poesie varie”, c’è della delicatezza dei sentimenti, la poesia, come già detto, non ha voli sicuri ed elevati. In prosa parecchie “lettere”, interessanti come studio dell’animo dell’autore, che anela a distaccarsi dal mondo, rivolto a mistiche contemplazioni. I “Doveri degli uomini” in uno stile semplice, pervasi da alto sentimento cristiano. Le “Mie prigioni”, l’opera autobiografica – capolavoro di verità, di grande spiritualità, espressione di amor patrio. Di certo artificioso il giudizio dato dall’Imperatore pedante, bigotto Francesco che leggendo il libro lo interpreta come un atto di vendetta. Può dire questo solo un malevolo torturatore inumano dei reclusi dello Spielberg, avvezzo a mascherare l’odio di una malvagità innata con l’ipocrisia di una fede falsa. Il Pellico ha di mira di raccontare con serenità, senza odio alcuno, i propri tormenti. La struttura è lirico-elegiaca. È un poeta che canta le sue passate sofferenze. Profondo il senso religioso, àncora di salvezza cui si aggrappa con tutta l’anima. La religione gli insegna di sopportare con paziente calma i dolori, con spirito mistico. Nessun pensiero di vendetta né senso di battaglia politica. Silvio Pellico ha voluto scrivere solo un’opera spontanea d’arte, uscita dal suo cuore. Un libro umano, con schiettezza di forma, sempre letto con passione. Il dolore