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Domenico Defelice Il disincantato della realtà, di Salvatore D’Ambrosio, pag
by Domenico
DOMENICO DEFELICE IL DISINCANTO DELLA REALTÀ
di Salvatore D’Ambrosio
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HA raccolto in volume diversi racconti scritti nel corso degli anni, a cui ne ha aggiunti altri per l’occasione di questa edizione che ci accingiamo a recensire.
L’autore è Domenico Defelice: scrittore, saggista, soprattutto poeta, non ché direttore di una storica e prestigiosa rivista di cultura letteraria e non solo.
La rivista, per i pochi che non la conoscessero ancora, è Pomezia –Notizie. Rivista di successo per la semplice ragione, che è una pubblicazione “fatta” attraverso pezzi giornalistici e argomenti letterari che, per decenni, hanno scritto gli stessi abbonati del mensile.
L’afflato tra loro è stato sempre tale, da decretare per questo il grande successo del giornale periodico.
Il volume edito dalla Genesi di Torino, ha un nome curioso: Non circola l’aria.
Guardando la movimentata scena di Bruegel posta in copertina, non viene affatto in mente una mancanza d’aria. Tutto quel movimento è indice di vivacità e non di staticità, che porta ristagno, aria pesante. Ma poi la lettura del titolo dell’opera: La battaglia tra il Carnevale e la Quaresima, ci apre l’orizzonte e la metafora si palesa.
Bisogna festeggiare, respirare l’aria del divertimento, non necessariamente peccaminoso, prima che la Quaresima ci porti stasi, mortificazione del corpo e dell’anima.
Quaresima, per il cattolico, vuol dire privazioni, rinunce, anche isolamento e distanziamento sociale. Vivere fino al riscatto della resurrezione. Ma le rinunce eccessive danno un senso di soffocamento. Si vive con l’impressione che non circola l’aria.
Così accade per esempio, nel racconto La signora Lilly, per i due sventurati genitori che hanno messo al mondo una figlia bruttissima. Per la qual cosa rinunciano non solo ad avere altri figli, ma anche agli affari e finanche a respirare. Nella loro casa l’aria, non entra neppure da un forellino.
Ma poi, ci dice il Defelice nel proseguimento del racconto, arriva un nulla, una inezia, come l’affido a Lilly di un umile lavoro, che le cose cambiano, riprendono o prendono una nuova strada e le cose rimettendosi nel verso giusto, riportano aria nuova, nuovi respiri.
E così avviene in tutti i racconti del volume. C’è sempre, deve esserci, ci dice Defelice, un qualcosa, un qualcuno che rimetta in gioco la nostra esistenza, liberandola da lacci e legami che a volte la strozzano, fino all’asfissia.
Ma non sempre è così, non sempre si è disposti a vivere in perenne asfissia. Meglio la morte. Cosa che accade a Babel, del racconto Naufragio, che sceglie la sua aria nuova nell’annegarsi insieme alla nave in naufragio. È questo, fortunatamente, solo un momento, uno dei tanti aspetti risolutori dell’uomo. Egli, invece, ama vivere, respirare. L’aria non può mancargli, fosse anche quella del ricordo. Come in prima persona accade al Defelice, che la ritrova nel racconto In viaggio con Google. E qui viene fuori anche l’aspetto autobiografico del libro.
Il viaggio virtuale si carica di lirismo, di parziale nostalgico ritorno al suo paese d’origine.
Rivede i luoghi cambiati, li accetta, non se ne dispiace; anche perché questo confronto gli fa meglio apprezzare ciò che il tempo aveva archiviato nella sua mente.
Sebbene seduto alla scrivania, respira aria a pieni polmoni. È l’aria della sua terra.
C’è solo un momento che gli procura un’apnea. Il pensiero di tutti i suoi cari custoditi nel cimitero.
Preferisce non vederli in quella nuova condizione.
Anche mio padre non andava mai al camposanto. Le persone care, diceva, bisogna amarle in vita, quando sono anche spirito e non solo carne o ossa come al cimitero.
C’è nei racconti del Defelice il tratteggio di un’umanità varia, che si porta con sé tutti i pregi e i difetti umani. Sa e ce lo dice, che la realtà inganna. Che anche se a volte o spesso facciamo cose fantastiche basta non ritrovarsi in qualcosa, che è rimasta indelebile in noi, per rimanere delusi.
Questo può accadere soprattutto quando, non riusciamo a ritrovare il profumo, l’odore antico della nostra infanzia. Retorico sentimentalismo? No. Perché l’infanzia è la custode della nostra cultura. Anzi, meglio dire, è il principio, l’inizio della stratificazione di fatti e cose da proiettare poi nel futuro, che prenderà cosi lezione dal passato.
Valori ai diversi occhi, dunque, che ritornano secondo una funzione di tormento, soffocamento, gioia, dolore, libertà, contrasto, come nel dipinto di Bruegel. Ogni essere umano ne trarrà il suo profitto, secondo la propria cultura.
Ognuno, ci racconta, nuota nella sua acqua, come i pesci rossi nella bolla di vetro. Ma guai a fare un salto eccessivamente alto; esso potrebbe essere tale da spingerci fuori dalla boccia di vetro.
E paradossalmente sarebbe non la mancanza d’aria, ma essa stessa che ci ucciderebbe.
La vita è una cosa seria, non è un sogno arruffato, strampalato. E se ciò dovesse accadere, per fortuna, quando ci si sveglia ci consola il fatto che è stato solo un sogno.
La realtà non trova giustificazioni consolatorie. Il reale va visto con occhi disincantati, solo così si può avere il coraggio di continuare.
Così la Trimarchi nella sua tesi sulla poetica del Defelice:”… Domenico Defelice non spazia nei territori sconfinati di un astrattismo immaginifico ma muove dalla realtà, trae alimento dal contingente, affonda le radici in questo nostro mondo”.
Lo scrittore Defelice è ben piantato in questo mondo e sa, incontrovertibilmente, che quelle che fanno spalancare di meraviglia gli occhi, ai maschietti sognatori, sono le donne.
Altra presenza costante nei suoi racconti. Non vogliamo citarne questo o l’altro.
Ma solo evidenziare la malia, la magia, l’incanto, l’ineluttabile sua propensione verso la donna. Un Essere uguale a noi, ma soprattutto fatto a nostro completamento. Non è il “genere” che interessa: si può essere maschi o femmina nel modo a cui più piace a ognuno.
Ma la vera donna rimane unica, almeno per gli uomini di altra epoca come noi, perché riesce a suscitare grandi emozioni e gioie, anche mostrandosi soltanto nel suo apparire.
Sono tante le donne evocate dal Defelice a cominciare dalla madre, dalla nonna, dalle sorelle, dalle zie; colonne del sistema familiare di un tempo: soprattutto del suo tempo.
E poi le varie fidanzate, gli amori pigliati e finiti, la moglie, e la figlia Gabriella.
In questa girandola felliniana da Città delle Donne, ci racconta delle capacità di queste di mozzare il fiato. Basta l’improvvisa apparizione di un volto, di un seno, di un movimento
conturbante di gambe che, in un modo o in un altro, tolgono ai polmoni la normale circolazione d’aria utile per vivere, per respirare.
Si, la donna fa cadere in apnea e solo il disincanto della realtà, può restituirci il respiro alla vita.
La completezza dei racconti e di converso del libro, sta anche nella descrizione della natura che si incontra nel corso della narrazione, con le serene gioie che la sua vitalità e rigogliosità riesce a dare. L’uomo vive immerso nella natura, è parte stessa di essa; non può esimersi di amarla e rispettarla, come si fa con tutte le cose che si amano.
Avete mai provato a camminare, ci dice, in un luogo dove la natura è stata sopraffatta dai motori, dal cemento, dalla spazzatura: non circola più l’aria.
Racconti, dunque, anche di denuncia, di messa in evidenza di fatti e fenomeni che non rendono vivibili le città, i comuni, i paesi.
Analizzando questo libro del Defelice, come scrive anche nella sua tesi di laurea Aurora De Luca, ci viene incontro una delle caratteristiche precipue del suo stile letterario: l’ironia.
Scrive Aurora: “… ha il grande dono dell’ironia e il senso importantissimo del ridicolo, che gli fa apprezzare ciò che è genuino e percepisce come fasullo tutto il resto”.
La sua ironia, che si riscontra in diversi dei racconti di questo volume, serve a mettere alla berlina, in questo circo continuo nel quale tutti operiamo da mattina a sera, vizi, atteggiamenti da Io e SuperIo. Posizioni altolocate tendenti solo a sovrastare, o emarginare, o eliminare, anche cruentamente, colui che non è in linea. Fosse anche per un semplice difetto fisico.
Nelle sue soluzioni letterarie, riusciamo a capire che l’uomo non è una macchina, perché in lui vivono perennemente due cose: la fede e la speranza.
Per ciò a conclusione ritengo molto significativo citare questo suo verso: … sarà l’amore a guardia delle porte. E aggiungo che, in tal caso, di aria ne circolerà tantissima.
Salvatore D’Ambrosio LA PREDA. IL CACCIATORE
Sul margine del bosco, si era fermata con il cesto delle delizie nella luce dorata del mattino. Precedettero per primi i cani il cacciatore, annusando i suoi piedi le sue mani, e allungando il muso fino alle cosce. Giunto il padrone li cacciò via, e con il fucile pronto portò via con il suo cesto di delizie la fanciulla. Nella pietà rinunciando però di fare di quella bellezza, nella breve falla del cuore, nessuna crudeltà.
Salvatore D’Ambrosio
Caserta
IL BALLO SULL’UVA
Era settembre e tu ballavi sull’uva. Pigiavi e cantando alzavi veste e sottana. Perciò negli occhi sbarrati dei vecchi scoppiava del sangue l’inferno. Dalla pipa tiravano anima e fumo. Ubriache, fragorose risate fugavano sciami di moscerini impazziti. A festa finita tacevano mani e sospiri. Ti lavavi le gambe con acqua di pozzo in un catino di legno. Alla nuca raccoglievi i capelli li fermavi con forcine di osso. Sulle guance dipinte di rosso ti ansimava ancora la gioia.