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Ricordo di Graziano Giudetti, di Domenico Defelice, pag
by Domenico
Ricordo di
GRAZIANO GIUDETTI
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di Domenico Defelice
GRAZIANO Giudetti è morto a Roma il 7 marzo 2021. Era nato a Pulsano il primo luglio del 1947. A Roma si era trasferito fin dal 1976. Laureato in Economia e Commercio, ha svolto attività nella pubblica amministrazione, tra i servitori dello Stato, non tralasciando di coltivare, però, il suo grande amore per la poesia e la narrativa. A pubblicare ha iniziato solo nel 1988 e da allora, tra poesia, prosa, romanzi, le sue opere sono state veramente tante. Ne ricordiamo alcune: Gli anni tenui (1988), Bagliori di metropoli (1990), Soliloqui (1991), L’introspezione (1992), Il prato del silenzio (1995), Profondo Jonio (1996), La via crucis (1997), Occhi di clessidra (1997), Pensieri di sabbia (1998), Un amore immaginario (1999), Calapricello (1999), Gli apostrofi del salice (1999), Salus poetica ovvero il canto di Igea (2000), Paese antico (2000), Grembi di luna (2000), Rivoli di vita
(2000), L’angelo cosmico (2001), I colori del Paradiso (2001), La pineta bruciata (2002), Diario sogno (2003), I pinti accordi (2003), Verdi persiane s’aprono (2004), Italia mia (2005), Muretti di pietra (2006), I fondali dell’amore (2007), Velate trasparenze (2008).
Una vita non facile la sua, pure per motivi di salute, sicché la scrittura gli è servita anche da medicina. Ci siamo incontrati una sola volta nella sua casa romana, ma siamo stati in contatto per anni attraverso la sua collaborazione al nostro mensile e la pubblicazione nelle nostre edizioni di qualche sua opera breve, come Profondo Jonio, in un quaderno Il Croco dell’aprile 1996 e nella quale – scriveva Carmelo Pelle – Giudetti privilegiava “le cose semplici, gli affetti veri, le sensazioni profonde, le intense emozioni, che trascolora con la magia del sogno”. E sul sogno insiste Tito Cauchi nella monografia sul “poeta di Pulsano” Graziano Giudetti. Il senso della poesia (Editrice Totem, 2019), quando scrive che “Attingere alla memoria è la fonte più semplice, ma anche più delicata. Non è celebrazione mummificata, ma è vivificante che sfida il tempo trascorso. Sono emozioni vissute e decantate, e trasfigurate nei vari strati sedimentati: ma quando l’animo è provato, è difficile ridere o piangere. La sofferenza si sublima nell’accostamento al dolore degli altri e Graziano ci lascia liberi, nella visione della realtà e nella evasione del sogno, in un angolino del cuore e della mente”. Il sogno e il ricordo. In lui sono temi ricorrenti. Esplorazione accurata del suo passato, attraverso il pescaggio di immagini umane e pezzi d’ambiente, Graziano Giudetti, per esempio, compie in Jata a cci teni soldi! ...Maledetti soldi!, un poemetto di 666 versi, pubblicato nel numero di luglio-agosto 1991 dalla rivista “La Controra”.
Lunga è la rassegna dei volti che si animano alla moviola dei ricordi del poeta. Da nonna Carmela a nonna Elisa; dal vecchio cantastorie - accompagnato da un ragazzo scalzo -, a Italo che “brilla di lacca francese” e Carlo, che “si spalma di creme balsamiche”; dall’acquaiolo Vincenzo, al donnaiolo, ai poeti, al miracolato...
Non è una fredda elencazione. I personaggi vivono calati nella cerchia di conoscenze, o di relazioni sociali e l’ambiente in loro. “Nelle brocche di Vincenzo”, “l’acqua si diverte”; il vecchio cantastorie esegue una serie di mimiche degne di un attore consumato; le donne, in omaggio ai tempi, trasudano moralità, spogliano “il maschio/del suo sesso” e condannano “sgualdrine e libertini/abusi d’amore/e osate carezze”; Berto, che mena vanto delle sue conquiste donnesche, fa ”il cicerone/d’allegre bande musicali/come quella dei fischietti,/appena dieci flauti/e altrettanti clarinetti/a stonare orecchi/e periferie”... L’ironia tracima, un’ironia, a tratti, alla Renzo Arbore, e il ritmo, le rime (fischietticlarinetti), le allitterazioni (clarinetti-orecchi), gli onomatopeismi (“one” di cicerone, “ande” di bande) e molte altre figure metriche, danno al poemetto un’andatura colorita, popolareggiante, debordante nella fiaba: aspetto tipico che acquista sempre una storia vera quando viene sfiorata dal soffio del ricordo e dell’arte.
Continui paradossi stravolgono macerate immagini: “lo scampanio di greggi” - non le pecore, ma il loro “scampanio” “lecca i
muri di sale”; la bacheca “si sbrandella/sulle carte consumate” e non viceversa... C’è godimento e acquietamento di spirito nella rievocazione. Ma poi giunge, improvvisa, la nota personale e nel poeta spunta, allora, la nostalgia di quei tempi e il pentimento di aver abbandonato luoghi e persone di un’infanzia non facile, ma felice, di aver “creduto/all’argenteo ventaglio delle scelte/che apre la moneta ai desideri”. Oggi non l’avrebbe più fatto, perché ha imparato a credere in altri più duraturi valori e diffidare “degli agi caduchi dell’avere”.
Ne Il prato del silenzio1, molti temi, trattati in Bagliori di metropoli e ne Gli anni tenui, sembrano accentuati. Diciamo, specialmente, di Roma come esilio, del paesaggio come evasione. Graziano Giudetti è solito, infatti, ispirarsi all’urbe in cui vive, ma la natura lo calamita a tal punto che il suo animo è sempre in bilico, se non proprio catapultato verso mitiche contrade dell’infanzia. Nella città, insomma, vive solo col corpo, il suo spirito è riuscito a rimanere sganciato da essa, incontaminato dalle tante brutture e la sua poesia a distinguersi per un afflato umano che la fermenta alle radici.
Tra grattacieli e clangori, egli s’è creato un’isola: un prato-giardino fatto a misura di soleggiate campagne del Sud, dai colori conturbanti e dal silenzio apparente, perché solfeggiato da mille canti, sussurri, fruscii. L’ambiente ideale nel quale potersi misurare con se stesso e con la realtà, ascoltarsi e ascoltare le tante voci arcane oggi purtroppo coperte dalle radio e dalle TV; dove smemorarsi e godere la bellezza della straripante fioritura del glicine, il giglio che s’imbeve di sole, o ascoltare il merlo invaghirsi “dei suoni velati dell’ulivo”. Chiudendosi volontariamente nel suo fortilizio, Giudetti s’è ridimensionato ed ha allacciato l’antico rapporto con la natura che consentiva all’uomo di convivere col formicaio, il passero, la libellula fremente “nella vetrina dei fiori”. Da questo “piccolo mondo”, la città si sente lontana, i suoi rumori non sono che salmodìa responsoriale, il suo frastuono, un gracidare e “un grigio mormorio”. Intorno a sé il poeta avverte una sterminata famiglia d’insetti e d’animali, vede piante, colori, aspira profumi... Nel cuore della metropoli, insomma, ora Giudetti s’è creato tutta per sé una vera e propria foresta.
Occhi di Clessidra2 è composta di tre parti: “Cantico di San Valentino” (poemetto), “Poemetto a Bergamo” e “Poesie d’amore”. Ed è proprio l’amore il tema dominante. Più carnale nel “Cantico di San Valentino”, più ideale nel “Poemetto a Bergamo”, allorché Giudetti riesce quasi a fondere le bellezze della città a quelle delle “Damigelle d’inverno alla penombra...”, le infermiere dell’ospedale nel quale è stato a lungo ricoverato.
In quest’opera, Graziano Giudetti traspone in versi reminiscenze artistiche di capolavori classici e moderni che gli suggeriscono una donna dai “riccioli castani”, “alta e distante”, fissata mentre raccoglie “primule e viole”. Ci sono richiami a Botticelli, ma anche al vasto mondo dell’impressionismo. Una donna ideale, sognata, che in sé rinserra ricordi dolci e aspirazioni, il turgore della carne e la trasparenza dell’anima. E ideali sono pure gli ambienti, come quell’ “eterno giardino di trifoglio”, una specie di “aiola celeste”, dal verde smaltato, levigato, presente
anch’esso in tanti capolavori pittorici, o quella “notte,/magica cascata di fiammelle”. L’opera, insomma, è come una “immaginaria tela”, che “effonde/repentini accordi/e pulsa ardente/la cornice di colori”.
Pensieri di sabbia3 è composta da 752 versi, suddivisi in 188 quartine distribuite quattro per ognuna delle 47 pagine. La pagina può considerarsi una stanza (o strofa) di un inconsueto poema. Apparentemente, infatti, ogni quartina vive di vita propria; sostanzialmente, invece, le uniscono mille legami - fili e fili da formare matasse - e neppure tanto sotterranei. Non potendoli seguire tutti e fino alla fine, ne prendiamo solo un capo, a modo di esempio della nostra lettura, anch’essa, per certi aspetti, stravagante: è il filo del sociale, colla, calce, cemento, fondante umorale di gran parte della poesia di Graziano Giudetti.
Estrapoliamo dalla prima pagina - o strofa, o stanza - la quartina dell’ “inesplorato nitido letto”, che “ha sempre grinze di pianto./Il suo lino ricetta screzi/e anche carezze mancate”. Qui il letto è visto principalmente come luogo dove maturano, si rafforzano o si distruggono sentimenti. Sebbene l’essere umano vi ci sosta a lungo, esso continua ad essere “inesplorato”, quasi vergine, segno, tra l’altro, della superficialità dei nostri comportamenti e d’una vita che ci costringe a correre di continuo come una motocicletta che, se si ferma, cade, viandanti frettolosi anche nel sonno, pure tra gli affetti. Ma il letto è anche “nitido”, vitreo, come lo sono certi paesaggi inesplorati (vergini) della nostra anima. Se si osserva in profondità, è la nitidezza del ghiaccio, sulla cui superficie si scoprono, qua e là, cedimenti, “grinze di pianto”, morene di litigi laceranti e di egoistici orgogli (“carezze mancate”). Fuor di metafora: contrasti tra la coppia e mancate possibilità o tentativi di riconciliazione.
Nella seconda stanza, seguendo il filo della socialità, a colpirci è quella mano d’amico che stringe l’altra mano e che viene imitata da quella del nemico. “siamo all’epica svolta?”, si chiede il poeta e si apre anche il cuore del lettore. Magia che dura un attimo. Verso miracoli del genere è meglio andar cauti ed è lo stesso autore a gelarci col suo scetticismo: “A quale maschera credere?”
Nella terza strofa non può passare inosservata l’artificialità del “cuore di latta opaca”, che non pulsa più al naturale e non alberga più sentimenti - né nobili, né bassi -; il cuore è diventato un pezzo qualunque del nostro corpo e può essere indifferentemente di metallo o altra materia - non certo di carne - e ormai “scandisce battiti forzati” e “la commozione è plastica/per finzioni d’amore.”…
Ci fermiamo. Tre pagine, tre stanze e, in ognuna, la scelta dello stesso filo. Un suggerimento di lettura tra i tanti possibili che fanno di Pensieri di sabbia un libro solidissimo, filosofico, sentenzioso, didascalico, umano, crudo e dolce; una raccolta di proverbi (“La superbia umana/è gracile edificazione/su fondamenta di paglia./L’incendio si cela nelle vene”), di pitture paesaggistiche, di sentenze ammonitrici (“Levate scorie d’egoismo/prima d’appellarvi a ingiustizie”), una ragnatela di sensazioni… Un poemetto improprio, e, pur nella sinteticità estrema del giudizio, coglie il tutto Giorgio Bàrberi Squarotti, quando afferma che “È stata davvero benefica la stella che ha guidato alla stampa i Pensieri di Sabbia: nel ritmo così perfettamente scandito delle quartine vi si svolge, nell’occasione dei luoghi o viaggi o memorie, una splendida e profonda meditazione delle più diverse manifestazioni e ragioni della vita, colta in scorci essenziali, in aspetti segreti, in poco appariscenti ma decisive situazioni. E della vita ci sono anche le feste, le luci, le gioie dei sensi”.
A chiusura del libro, un turbinio d’immagini ci confonde, ma dalle sue onde, serena, si alza la “torre di preghiera” da Giudetti costruita per sé, luogo per isolarsi, “un rudere ornato di capperi/nel podere di nessuno,/ove s’alberga e si ristora poesia”. Un quadro che lega Pensieri di sabbia a Il Prato del Silenzio (del 1995). Èin questo luogo che il poeta vive come un lirico greco, uno dei tanti che abitarono un tempo la sua terra di Puglia e la nostra Calabria: quel Leonida da Taranto, per
esempio, al quale piaceva la vita agreste e i prodotti semplici della natura. Giudetti, “Sopito sotto l’estivo gelso,/in transizione lenta di pianeta”, invoca: “non destatemi poiché scrivo/dentro il bozzolo che m’ingloba”. Dovremmo imitarlo oltre che ascoltarlo.
In Gli apostrofi del salice (Ed. E. S. S., 1999), abbiamo uno spazio circolare, prima limitato, poi, via via, più ampio, una “isola felice” da esplorare a poco a poco, e la lucerna – o la stella – che rischiara il cammino è l’immagine femminile – moglie, amante, amica, sorella, anima – alla quale è rivolto il monologo (ragnatela di melodici brandelli) e dalla quale non si materializza risposta di parole, perché il suo comportamento è la risposta più autentica, risolvendosi nella piena, completa aderenza alle aspirazioni più intime: “Basta un minuscolo granello di te perché brilli la mia anima”. Lei è talmente in sintonia con Lui da sovvertire le leggi della natura, riuscendo a programmare una fioritura continua affinché la sua vita possa essere sempre una “girandola di colori”. Certo, non è a quel livello, ma lo stile de Gli Apostrofi del salice è certamente quella della Offerta di Canti: Gitanjali.
In Rivoli di vita4, prendendo spunto dallo scavo di un pozzo, Graziano Giudetti passa in rassegna usi, costumi, riti, feste religiose, sani divertimenti, brevi ma intense gioie, tecniche di lavoro, drammi di poveri e onesti agricoltori. Vita semplice e dignitosa, com’era quella della stragrande maggioranza degli italiani e, in particolare, della gente del Sud, in un tempo non troppo lontano : appena una cinquantina d’anni fa.
Ogni lettore può scoprire, in Rivoli di vita, brani della propria infanzia, rispolverare ricordi, rinverdire - ripristinandone l’antica vivacità - volti e voci di personaggi che sembravano svaniti e che, invece, erano semplicemente sepolti in un geloso sito della sua memoria.
La chiusa è triste, lascia un po’ di amaro, un pizzico di struggente malinconia. Perché, quell’acqua a lungo sognata, Tommaso se la meritava, meritava di gioire di essa.
Bagliori di Metropoli (ed. C.I.C.A.L. “Citta di Brindisi”, 1990) è un mosaico di sensazioni, lievi come l’inusitato “brivido/che sorprende la pelle/al divenire della sera”, o come la strana brezza che “indaga” “sulla scogliera” e “non conosce l’alga/e il sopravvento”.
Qualcosa di tenue, insomma, a volte di impalpabile, perché, in Giudetti, sopravvive un animo incontaminato e puro e una specie di cartina di tornasole per le “cose minute” che “lo fanno trasalire”.
Una tale sensibilità è normale che vada a scontrarsi con la durezza della vita cittadina, fatta di fretta e di smog, di rumori e violenze palesi e occulte. Giudetti questo contrasto lo esprime, in particolare, in “Gallerie”, ma con l’occhio e il cuore rivolti alla natura, quasi per trovare amore, alleanze intime e dalla natura ne prende in prestito la terminologia: così l’autostrada è una serpe e il collo del poeta, anziché di collane e ninnoli vari, lo troviamo adornato “di giovani alberi/e sottoboschi”; così la visione onirica si fa meno vaga e più umana, ingentilita da intensi profumi di brina e di muschio.
Quando si rifà alla natura, Giudetti è sempre credibile, anche se ama giocare, a volte, con l’ironia o cavalcare il paradosso del fiore adornato dalla treccia della bambina (e non viceversa), rivoluzionando quadri sui quali pesano stagnazioni e ovvietà vecchie di secoli.
Il vero Giudetti è proprio radicato alla natura, è in quell’immagine solare, alta per movenze e freschezza, della bambina che “ corre libera/sull’argine,/come fringuello gaio”, o in quell’altra della “torretta saracena”, che “ride sopra il picco/afferrata/al vortice dei venti”. Lo dimostra anche il “Poemetto alla luna”, che si dipana leggero proprio quando descrive giochi d’aria e d’acqua.
Alle movenze e alle solarità riscontrati in Bagliori di metropoli, Graziano Giudetti non è arrivato per caso. Fanno parte di un cammino poetico già collaudato in Gli anni tenui (ed. Scorpione, 1988), la sua prima raccolta organica, nella quale la sua terra pugliese è
cantata con intensità e profondo lirismo nella sua esuberanza paesaggistica e nel ricordo delle bibliche afflizioni della sua gente, dal poeta rese nella potente immagine delle “case bianche/appiattite sotto il sole/infuocato d’estate”.
Giudetti sente la necessità di storicizzare tradizioni e ambienti, le strade ancora non coperte dall’asfalto, il vecchio mulino, l’artigiano che aveva “sulle dita/la colla secca di un sorriso”, i drammi (che quasi sempre colpiscono i più deboli), gli affetti (per il padre, per esempio, che con umanità gli “illuminò la strada/dell’incerto domani”)… Luci e qualche flash-bach che esplorano l’infanzia, dunque, e, tuttavia, Giudetti non cade mai nel patetico, come spesso capita a chi canta simili motivi. A sorvegliarlo è l’ironia, sempre presente in forma discreta, ma è la stessa che, invece, palesemente abbonda nel suo racconto “La cena delle guardie campestri”, da noi letto in Berremo ad acque chiare, un’antologia a cura di Alfiero Medea.
L’argomento di maggior rilievo in Gli anni tenui è forse quello dell’emigrazione, che l’autore tratta con estrema delicatezza, pur mettendone in evidenza quasi tutti i risvolti. Fino a qualche decennio fa essa è stata vitale, necessaria per il misero Sud, tanto da rientrare perfino nei giochi dei ragazzi, i quali, nascondendosi “sotto cumuli di paglia”, ascoltavano il sollecito rumore delle ”ruote dei calessi” e si fingevano emigranti sui treni, immersi in cupe gallerie; l’immedesimarsi era così completo, che, alla fine del gioco, sentivano il bisogno di contarsi per “paura/d’essersi perduti come loro”.
Il tema ritorna più volte nella raccolta e ad esso Giudetti sposa motivi di favole care alla nostra infanzia, come quello adombrato nell’emigrante che, andando via per il mondo, “lascia cadere/dalle tasche una scia/di terra rossa/per non perdersi più di tanto” e conservare così nel cuore la speranza del ritorno.
Una tale mistura serve al poeta per rendere più dolce e penetrante il dramma, sul quale tenta spargere balsamo.
Le creature di Giudetti sono figure che non si dimenticano, pur avendo, spesso, un volto specifico. Come quella isolana colma di spleen, la quale, all’avvicinarsi della sera cioè nell’ora che dantescamente “volge il desio/Ai naviganti e intenerisce il core” -, sulla spiaggia, “La fronte baciata dai tramonti”, col pensiero costruisce ponti e ponti e “richiama la stella degli amici”.
Domenico Defelice
NOTE 1 – Con Prefazione di Alberto Altamura, Lisi Editore, 1995. 2 - Graziano Giudetti - Occhi di Clessidra Cantico di San Valentino - Poemetto a Bergamo - Poesie d’amore – Nota di lettura di Rino Cerminara; in copertina, a colori, “Primavera toscana” di Giaginto Orfanello - Sydaco editrice 1997 - Pagg. 72, s.i.p. 3 - Graziano Giudetti - Pensieri di sabbia Nota introduttiva dello stesso autore - In copertina “Pulcinella e Pierrot”, di Mario Salvo. Ed. E.S.S. Editorial Service System, 1998 - Pagg. 80, L. 10.000. 4 - Graziano Giudetti - Rivoli di vita - Primo premio ex aequo “Cento pagine per cento copie” - Minima Editrice - O.N.L.U.S., 2000 Pagg. 104, s.i.p.
Esaminando la cartella di Giudetti - preparando questo nostro ricordo -, vi abbiamo trovato l’intervista – che riportiamo qui di seguito – da Lui rivoltaci subito dopo aver letto, su Pomezia-Notizie, i capitoletti di “Alpomo”, prima, cioè, che il poemetto uscisse nelle eleganti nostre Edizioni, nell’aprile del 2000. Intervista mai pubblicata, perché inserita nella cartella in attesa del volume, poi lì rimasta, imperdonabilmente dimenticata.