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In molti ancora indifesi se manca “l’educazione digitale
tà dei fatti, si può manipolare, alimentare paure, l’odio per il diverso, annullare il senso delle regole della convivenza civile, stimolare l’idea distorta secondo cui ciascuno può - in virtù di false certezze e dell’idea del tutto parziale della realtà asservita ai propri bisogni - scatenare la propria violenza contro chiunque nella propria visione si frapponga tra noi e l’immaginario autocostruito.
Di fatto crea persone incapaci di leggere la realtà. Credere che il Covid 19 non esiste presuppone un’incapacità di leggere la realtà, alimentata da una forte paura. Si nega per paura, e su questo marcia il flusso delle false notizie.
Come si combatte la disinformazione?
Con il buon senso, con uno sforzo di verifica delle fonti e usando il cervello. Ma anche con l’educazione all’uso corretto delle tecnologie e dei social, sin da bambini. Per noi professionisti della comunicazione, in particolare, con una battaglia quotidiana contro le bufale, per proteggere coloro che sono più vulnerabili.
Nella comunicazione sanitaria, ancor di più. Nell’emergenza Covid 19, ci siamo trovati di fronte a una pandemia che ci ha messo di fronte a qualcosa che non era minimamente paragonabile alla crisi della Sars piuttosto che all’epidemia di Ebola, solo per citare le ultime in ordine di tempo. In questo anno è in parte stato messo in crisi il concetto stesso di salute, a cui i cittadini erano abituati. Il significativo miglioramento della qualità della vita, l’aumento dell’aspettativa di vita e di salute facevano ritenere che essa dipenda dall’accesso ai servizi sanitari e alle prestazioni medico-sanitarie, che la scienza medica sia una scienza esatta e che attraverso la diagnosi sia in grado di garantire sempre salute e longevità. Questo paradigma ha ceduto il campo all’incertezza che deriva dal dover affrontare un virus sconosciuto, in evoluzione, con ancora tante incertezze.
Ed è proprio questo che apre le porte alla paura. Se poi medici e scienziati si contrappongono con le proprie tesi scientifiche nell’arena mediatica, rischiano di rendere ancora più fragile la relazione con il paziente-cittadino. Alimentando così le fake news che da sempre hanno tra i loro bersagli prediletti, (insieme a politica ed economia), proprio la scienza.
In molti ancora indifesi se manca una vera “educazione digitale”
Intervista di / Beppe Castellano /
Iln Italia, come accade in altri Paesi anche europei, servirebbe una vera e propria “Educazione digitale”, non solo per i cosiddetti “nativi digitali” dell’ultima generazione, ma anche per le altre categorie di utenti del web. Vediamo di capire meglio, assieme al professor Andrea Volterrani, dell’Università Tor Vergata di Roma.
Professor Volterrani, ci spiega fra nativi digitali o meno le differenze sostanziali?
Il punto è trasversale, bisogna partire da due questioni: la prima è quella che molti chiamano “repertori mediali”. Un insieme di possibilità fra cui è possibile scegliere. In pratica il repertorio di ciascuno di noi è differente. È legato sì alle generazioni, ma anche al cosiddetto “capitale digitale” collegato ai “capitali” precedenti: capitale sociale, culturale... anche economico. Ma soprattutto ai capitali culturale e sociale. È distinto dalla possibilità di accesso al digitale. È capire quanto puoi trasformare in opportunità ciò che riesci a recuperare dal digitale. Questo aspetto vale anche per i giovani. Vero che hanno un repertorio mediale differente dal mio, ma...
Intende naturalmente come strumenti tecnici...
Andrea Volterrani, fiorentino, è ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi, direttore del Master in Comunicazione Sociale e direttore del Master in Social Farming dell’Università Tor Vergata di Roma. Ha al suo attivo numerose ricerche e pubblicazioni in particolare riguardanti il volontariato e il Terzo settore. È da sempre vicino all’Avis per le quali ha tenuto diversi corsi di formazione e aggiornamento sulla comunicazione. È animatore del Gruppo Buone Prassi Comunicazione di Avis nazionale. Ha appena pubblicato il suo ultimo libro: “Sviluppo sociale. Come il terzo settore può rendere protagoniste, partecipative e coese le comunità territoriali”.
Sì, ma strumenti “tecnici” fra virgolette. Ambedue noi non saremmo un corretto campione generazionale, io ci studio, tu ci lavori, sul campo della comunicazione... Quindi non facciamo testo: il nostro repertorio mediale è già vasto, rispetto alla nostra generazione. Ma se guardiamo in generale fra persone della nostra età e persone più giovani c’è una grande differenza di canali che vengono usati.
Quindi il punto focale è nell’uso che se ne fa, di questi canali di accesso alla comunicazione digitale?
Esatto. Come li usano? Perché in fin dei conti, molti fra i giovani ne fanno usi che sono più stupidi di quelli che facevamo noi con la televisione.
Insomma servirebbe una vera e propria educazione digitale. Su come si usano...
Proprio così. In Italia non lo abbiamo questo tipo di approccio. La “media education” è una disciplina che, per esempio in Germania, è perlomeno da metà degli anni ‘90 che è materia di studio nelle scuole. Nel 1996/97 (ero anch’io ben più giovane di adesso) frequentai un seminario con un docente tedesco. Ci mise in evidenza partendo da “il Grande Fratello” olandese - il primo format poi arrivato da noi nel 2000 - che quelle cose proposte dalla Tv olandese erano del tutto senza senso. Spiegandoci bene che, soprattutto, in una prospettiva di “media education” era opportuno far capire i meccanismi perversi che stavano dietro a quel tipo di intrattenimento.
Come già nel ‘97, insomma, qualche collega giornalista illuminato metteva in guardia gli studenti dal pericolo di “rincorrere” la TV.
C’è da dire, a questo proposito, che non è cambiato granché. Tutti i media sono alla ricerca della “attenzione superficiale”. Una volta era per avere più audience, oggi su internet per avere più clic o condivisioni. Della serie: “l’importante è che tu ci sia, che mi clicchi. Se poi non approfondisci, non me ne può fregar di meno”...
Anche una volta, io ho iniziato come cronista di nera, c’era la gara a tirare il cosidetto “buco” alla testata concorrente. Ma dovevamo sempre fare molta attenzione, altrimenti se sbagliavi qualcosa la mattina dopo uscivano loro approfondendo e... scardinandoti.
Cosa che oggi non è più così, perché c’è una tal rincorsa velocissima a voler cogliere subito l’attenzione per poi passare subito ad altro.
Ma torniamo alle “generazioni mediatiche”
Ci sono tre categorie: la mass media generation, cioé che ha fatto l’esperienza della radio, del cinema, della stampa. Sono cresciuti con la TV e solo da più anzani hanno fatto l’esperienza del digitale. Poi c’è un’altra generazione, quella dei “digital media”, per i quali la digitalizzazione è un ambiente naturale. In mezzo, però, c’è la generazione digitale “secondaria”. Quella cioé cresciuta come la prima, ma che ha conosciuto il digitale grazie alla vita professionale. Ma anche in questi casi i “repertori mediali”, sono intrecciabili fra le categorie. Se non “educhi” il pubblico, tutto, se lo formi solo a essere veloce, a fermarsi solo alla superficialità delle cose e non c’è una vera educazione all’uso critico dei media, non se ne esce. E ciò non è nato dal digitale, c’era anche prima. Non dirmi che “Striscia la notizia” o la Barbara D’Urso sono esempio di giornalismo. Di giornalistico non c’è un bel nulla. Ma non è il mezzo digitale, il colpevole, è solo uno strumento con cui si amplifica la cattiva informazione o le chiacchiere a vuoto. Ora è una ricerca continua, sul web, di visibilità anche solo cazzeggiando. Ora è più facile fare gli influencer, anche se non hai il minimo di talento che ti serviva una volta
per arrivare in TV. E tutto gira attorno ai soldi, più clic, più soldi.
Quindi, per esempio, quando qualcuno nelle associazioni parla di promuovere la propria attività tramite gli influencer...
È un pericolo serio. L’influencer ti fagocita lui. Non è questo andare sul digitale a promuoversi.
Come promuoversi, nella giungla digitale, quindi? Come fornire informazioni corrette?
Andare sul digitale, per una associazione di volontariato, è innanzitutto imparare a lavorare con i dati. A saperli cercare e utilizzare. È fondamentale essere “data journalist” per chi fa comunicazione e informazione come voi. E serve un minimo di strategia, altrimenti si va allo sbaraglio e si ottiene l’effetto opposto. Anche per le associazioni serve una “educazione digitale”. Non basta saper usare un computer o saper usare internet, la vera forza e riempire di contenuti, affidabili.