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In tavola... Il richiamo della montagna
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Il sentiero che si inerpica, i polpacci che si induriscono, il fiato che si accorcia e poi finalmente la cima, il traguardo sudato e atteso che ripaga di ogni fatica, regalando lo stesso panorama dall’alto dell’aquila e dello stambecco. E dopo aver posato lo zaino, quando un soffio di aria fresca scende lungo la schiena a cacciare via la fatica, è lo stomaco a risvegliarsi: arriva la fame. Perché si sa, l’aria di montagna stuzzica l’appetito. Protagonisti della robusta cucina montanara sono i formaggi, soprattutto
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quelli di malga dove mucche e capre pascolano tra erba fresca e profumi alpini. Sugli alpeggi Sangiatto e Forno dell’Alpe Devero, in Val D’Ossola, si produce il Bettelmatt, un formaggio grasso a base di latte intero il cui caratteristico sapore deriva dall’erba mazzolina, che cresce in alta montagna. Qui le forti escursioni termiche e le condizioni ambientali particolari hanno insegnato ai pastori la necessità di trasformare subito il latte intero in formaggio, per conservarlo meglio.
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La tenacia della segale
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Insieme al latte dei pascoli, nelle valli alpine una presenza antica è quella della segale, coltivata da secoli e tuttora impiegata nella produzione di pane e specialità alimentari. Un’usanza che oggi diventa anche un richiamo turistico: nel Verbano Cusio Ossola, per esempio, il forno comunitario del villaggio di Progno, costruito a metà dell’Ottocento e usato dalla comunità contadina fino ai primi decenni del secolo scorso, è diventato un simbolo identitario dell’intero territorio. Ogni anno, verso la
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metà di ottobre, viene rimesso in funzione per la “Festa della segale”, ridando vita a un’antica tradizione e cuocendo per l’occasione cinquecento pani e svariate pizze. Non molto lontano, in Val Vigezzo, è diffuso il pane nero tipico delle comunità ossolane, a base di segale mescolata con altre farine macinate da cereali resistenti al freddo. Lo stesso impasto del pane, se unito a frutta secca, noci, mele, fichi, uvetta e zucchero dà vita al Credenzin, il dolce tipico dei contadini cotto nei forni a legna comunitari.
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La resistenza della Spongata
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Di dolce in dolce cambiamo monti e spostiamoci nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano per assaggiare qualcosa di unico. A Corniglio, piccolo borgo in provincia di Parma, accoccolato su quel lembo di terra che segna il confine con la vicina Toscana e lascia intravedere le Cinque Terre liguri, si produce la Spongata, un dolce poco conosciuto altrove e dalla storia particolare. Risalente, secondo alcune fonti, addirittura agli antichi Romani
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e accertata da documenti storici di epoca medievale, la Spongata è il dolce tipico di Natale che ogni famiglia fa ancora in casa, seguendo ricette spesso tramandate di generazione in generazione. La particolarità? È un insieme di frutta secca, uvetta, miele, burro, mostarda di frutta, spezie, scorza d’arancia, racchiusa da un disco di pasta sottile e friabile spesso decorato. E proprio l’azione di avvolgere la pasta sul ripieno è denominata “Far su” .
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Il Canestrato di Moliterno
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Torniamo alle origini del nostro viaggio, alla transumanza, ai pastori, al latte di montagna e spostiamoci ancora più giù, fino ad arrivare in Basilicata. O meglio, in Lucania, patria del Canestrato di Moliterno, che nella variante stagionato in Fondaco si merita l’appellativo Igp. Formaggio a base di latte di capra e pecora allevate in pascoli bradi, ancora oggi prodotto dove passavano i sentieri della transumanza, ha un sapore leggermente piccante e si può gustare fresco a tavola, magari accompagnato
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dal pane di Matera, quando la stagionatura è inferiore ai sei mesi, oppure grattugiato sui primi piatti nel caso di maggiore stagionatura. A vegliare sulla sua produzione oggi c’è il Consorzio del Canestrato di Moliterno, il cui disciplinare impone che il latte utilizzato provenga esclusivamente dai sessanta comuni della Basilicata e la stagionatura esclusivamente nei fondaci di Moliterno, ovvero particolari grotte sotto i palazzi storici del borgo che garantiscono le giuste condizioni micro climatiche.
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