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CHIEDETELO A
La rubrica “Chiedetelo a…” è uno spazio attraverso il quale i nostri lettori (ma anche la redazione stessa) possono avere risposte ad argomenti di diversa natura. Le domande devono essere inviate all’indirizzo email redazione@ecod.it I quesiti proposti saranno evasi da persone competenti negli specifici settori.
È ancora attuale la tecnica di affumicatura per la conservazione degli alimenti?
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La risposta secca è più no che sì! Perciò vediamo di capire meglio il perché di questa risposta a metà. L’affumicatura come tecnica di conservazione degli alimenti è stata applicata fin dai tempi antichi principalmente nella lavorazione della carne e del pesce. Oggi non è più utilizzata a questo scopo ma come tecnica di aromatizzazione, estesa anche ai formaggi e alle verdure. Tipica delle regioni del Nord Europa che, non avendo modo di disporre del sale come conservante primario né di un clima particolarmente favorevole alla stagionatura, la applicavano per conservare gli alimenti al fine di farli durare più a lungo. Tuttavia rispetto al metodo di conservazione sotto sale, l’affumicatura altera decisamente il sapore del cibo e ne modifica, in parte, le qualità organolettiche. Prima dell’avvento della refrigerazione e dei più moderni metodi di conservazione degli alimenti, l’affumicatura fu per molti secoli fondamentale per il sostentamento di intere popolazioni. La scoperta, come è sempre accaduto nella storia dell’uomo, sarebbe stata del tutto casuale poiché i nostri antenati l’avrebbero appresa affumicando involontariamente i cibi appesi alle pareti delle caverne, con il fuoco utilizzato per scaldarsi e cuocere la cacciagione. In Italia sarebbe stata introdotta come tecnica di lavorazione e alternativa alla salagione, dalle popolazioni barbariche stanziatesi stabilmente nel nostro Paese dal VI secolo d.C. in poi, sembra ad opera dei Longobardi che la praticavano abitualmente insieme all’allevamento del maiale. L’affumicatura consiste nell’esporre alimenti come pesce o carne ai fumi della legna (assieme – se si vuole – ad erbe aromatiche come l’alloro, il rosmarino, il timo, le bacche di ginepro, ecc.), generati durante un processo di combustione lento ed incompleto, ovvero senza la fiamma. L’affumicatura non prevede l’esposizione diretta del pesce o della carne alla fiamma, che altrimenti cuocerebbe le carni, ma soltanto ai fumi, i quali contengono particolari sostanze che agiscono come antimicrobici. Queste sostanze sono note oggi come fenoli, carbonili, acidi organici e sostanze antiossidanti che agiscono sui grassi. Spesso l’affumicatura veniva associata all’essiccamento per disidratazione (che comporta una consistente perdita dei liquidi e degli essudati), tuttavia al giorno d’oggi – ai fini della conservazione – si preferiscono altre tecnologie più sicure, in quanto l’azione antimicrobica del fumo è blanda rispetto ad altri sistemi che impiegano sia sistemi fisici, come la pastorizzazione e il confezionamento sottovuoto, sia sistemi biochimici come l’uso di conservanti naturali e additivi e le pratiche di fermentazione. Fondamentale poi al fine di creare un ulteriore ostacolo alla crescita microbica, il mantenimento degli alimenti alle basse temperature di refrigerazione. Le tecniche di affumicatura classiche appena accennate sono in linea di massima tre e variano in base alla temperatura del fumo impiegato e alla durata del processo:
1. Affumicatura a freddo: l’alimento viene trattato con fumo tra i 20 e i 25°C e il processo può durare da pochi giorni ad alcune settimane. Questa tecnica viene utilizzata per l’affumicatura del salmone e di altri pesci semi grassi e grassi come le aringhe e il pesce spada. 2. Affumicatura a caldo parziale: il processo viene condotto tra i 25 e i 45-50°C (talvolta anche qualche grado in più). Viene utilizzata per affumicare salumi come il prosciutto crudo (tipico in Italia quello di Sauris), lo speck, la pancetta, il pastrami o il cosciotto tipo praga ed insaccati come il salame ungherese e i würstel, prima della stagionatura o cottura. 3. Affumicatura a caldo: impiega fumo con temperature tra i 60 e i 90°C, utilizzata per lo più per prodotti di pronto consumo.
La legna impiegata per l’affumicatura non deve essere resinosa (da escludere i legni contenenti resine). Vanno evitati anche legni impregnati di solventi e collanti, verniciati o colorati. I legni più utilizzati sono il faggio e le
querce e chi vuole conferire dei particolari aromi utilizza l’abete bianco. Si trovano in forma di trucioli, segatura o blocchi per essere trattati in apparecchiature generatori di fumo o tal quali direttamente nella camera (nel caso della segatura). L’industria alimentare tratta oggi (da molti anni ormai) l’affumicatura come tecnica moderna di aromatizzazione degli alimenti (per carne, pesce, formaggi e verdure): alcuni prodotti di salumeria tra quelli nominati e altri ancora sono caratterizzati proprio dal trattamento di affumicatura e riconosciuti come tali per questa peculiarità. In alternativa all’impiego diretto del legno, può venire utilizzato il fumo liquido, che è un condensato del fumo primario da cui si ottengono le componenti aromatiche del fumo prodotto naturalmente: deve rispettare determinati criteri stabiliti da precisi regolamenti europei, al fine di eliminare i componenti del fumo più dannosi per la salute umana. Il fumo liquido può essere applicato all’alimento per nebulizzazione, docciatura, immersione, aggiunto negli impasti o disperso nelle salamoie per iniezione, in modo da conferire l’aroma e il sapore caratteristico tipico del prodotto affumicato. Può essere utilizzato anche come base per la produzione di altri aromi. Proprio come alternativa, soprattutto per i prodotti meno pregiati, possono anche essere impiegati degli aromi di affumicatura da inglobare negli impasti degli insaccati o dispersi nelle salamoie per iniezione. La legge tutela il consumatore riguardo il tipo di trattamento adottato, se cioè viene utilizzata una tecnica di affumicatura con il metodo classico o un aromatizzante come il fumo liquido. In etichetta troveremo infatti la dicitura “prodotto affumicato” o semplicemente “affumicato”, se il prodotto è stato trattato con la tecnica di affumicatura tradizionale; invece i prodotti trattati con fumo liquido o con un aroma derivato da questo, dovranno riportare nella lista degli ingredienti la specifica voce “aromatizzanti di affumicatura” o “aroma di affumicatura ricavato da…” indicando la specie legnosa d’origine (per esempio, faggio, quercia, ecc.), in ordine di quantità rispetto agli altri componenti della ricetta. È poi noto che dalla combustione incompleta dei legni (nel caso il processo non sia gestito nel modo corretto si possono originare fiamme, che all’interno del loro nucleo raggiungono temperature molto elevate) possono derivare potenzialmente rischi per il consumatore per il formarsi di sostanze chimiche, note come IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) che comprendono numerose molecole, tra cui il benzo(a) pirene e il benzo(a)antracene, alle quali vengono attribuite azioni cancerogene e tossiche. Ecco perché la legislazione europea (Regolamento (UE) n. 835/2011) stabilisce i tenori massimi di IPA che possono essere presenti nei prodotti affumicati. In ogni caso c’è da stare tranquilli nella gestione dell’affumicatura degli alimenti, perché la formazione degli IPA avviene quando la materia organica è esposta a temperature elevate con la presenza di fiamma (da 350°C in su), pratica evitata nelle affumicature controllate di cui abbiamo parlato e in quelle in cui si usano generatori di fumo esterni. Inoltre il consumo dei prodotti affumicati è abbastanza marginale, nell’ottica di un consumo moderato.