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Artù n°45 - Luglio - Agosto 2011
Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati
Franciacorta, imprenditori di razza per bollicine al top Vito Mollica, Four Seasons di Firenze: un menù per il Sauternes Chef: Rochat, Alléno, Lecocq, Garzillo, Vissani, Gallina Cucine professionali innovative per il mercato di domani Sapori Ticino, Dany Stauffacher valorizza l’Europa gourmet
Luglio Agosto 2011
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EDITORIALE n°45
edi tori al Ricominciare dagli CHEF
L’Italia non si muove. O meglio, in Italia si muovono solo alcuni. E sono più o meno sempre gli stessi. Quelli (e quelle) che dedicano da sempre la propria vita alla qualità. Chef, titolari di esercizio, albergatori, aziende: persone che quotidianamente, con il loro impegno, rischiando anche di sbagliare, tengono alta l’immagine dell’ospitalità italiana, del famigerato Made in Italy di cui sempre meno si parla. Questi eroi, gente da 14 ore al giorno di lavoro, contribuiscono al pil in modo determinante. Lo fanno con passione, serietà e coraggio, in molti casi con investimenti misurati (o stipendi ridicoli, distanti anni luce da quelli di un qualunque mediocre assessore) e, soprattutto, senza alcun sostegno da parte dello Stato né delle istituzioni. Perdipiù, questo plotone di coraggiosi spesso si trova impastoiato in una burocrazia che, con la scusa delle leggi, è in realtà riuscita a cancellare proprio la cultura delle regole, alternando diktat inconcepibili, mobbing fiscale e pseudorigorismo a vera e propria mancanza di rispetto per il lavoro altrui. Salvo poi creare subdolamente percorsi agevolati, all’insegna del laissez faire, per chi è disposto a “collaborare”. O per chi, nel disprezzo delle leggi, trova il modo per mascherare attività illegali grazie a protezioni e furbizie. Insomma, un sistema insostenibile, troppo distante da quella meritocrazia necessaria allo sviluppo economico che dovrebbe, semmai, premiare i virtuosi e fermare i corrotti. Ci dicono che il vento sta cambiando e lo speriamo vivamente. Ci piacerebbe che, superando vecchi schemi mentali, si cominciasse finalmente a guardare a quanti operano professionalmente nel settore come a testimoni del valore del Paese. Testimoni da monitorare, certamente, ma anche da incoraggiare, sostenere, difendere. Un valore, il loro,
che non ha bisogno del “sostegno” tardivo di format televisivi improvvisati, condotti da questo o quel cortigiano di turno (completamente impreparato sugli argomenti di cui dovrebbe discettare), che sono soltanto un modo volgare di affermare il potere dello share e di ribadire il presunto primato televisivo sull’editoria cartacea. Un fatto di quote, insomma, non certo di cultura. Da questa situazione si deve uscire in fretta, anche perché piangersi addosso serve a poco. Una nota positiva arriva da Venezia, dove il 3 luglio scorso si sono incontrati centinaia di chef stellati. La serata, organizzata da Haut de Gamme (insieme a Michelin), in occasione del varo della Costa Favolosa, nel porto di Venezia, è stata decisamente di buon auspicio. Ascoltarli, e vederli mentre si confrontavano criticamente sui problemi della difficile situazione di mercato, è stata un’occasione di osservazione privilegiata. Giovani e meno giovani, alle prese con decisioni non facili (adeguare la propria offerta alla clientela che cambia, inventare nuovi menù, studiare proposte più mirate, fissare ricarichi intelligenti sul vino, formare i giovani stagisti, ridurre l’incidenza del food cost ecc.) e con la consapevolezza di dover prendere decisioni fondamentali. E parevano mossi da uno spirito di gruppo che, in un paese di individualisti come il nostro, dominato dal ripugnante motto “mors tua vita mea”, proprio non guasta. Ecco, vorrei che i politici (innanzitutto i politici che sono al governo del paese) prendessero esempio da questi professionisti: che si parlassero, che si confrontassero serenamente, che studiassero una linea comune, che prendessero a loro volta delle decisioni coraggiose. Insomma, che affrontassero i problemi veri, come fa la gente seria, e non pensassero solo alla riproduzione della
loro (discussa) specie. So che si tratta di un’utopia: presi come sono a farsi leggi e leggine personali, non hanno certo tempo di tirarsi su le maniche per riorganizzare questo Paese in declino, anche a causa loro. Sappiano però che la pazienza ha un limite e che, se l’Italia riparte, potrebbe proprio ricominciare da questo esercito silenzioso ma con le idee chiare, capace di cucinare egregiamente, ma anche di interpretare, ovviamente con il supporto delle migliori aziende del settore, le necessità del mercato e le esigenze del nuovo consumatore. Sottolineando, una volta di più, la distanza della politica dai problemi veri della società. Alberto P. Schieppati
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In copertina, la mitica “pappa al pomodoro” di Vito Mollica, sempre presente nel menù del Palagio, il ristorante principale del Four Seasons di Firenze. Lo chef, innamorato delle materie prime di qualità, è sempre alla ricerca di piccoli produttori della campagna toscana, che condividano la sua passione per l’eccellenza. Recentemente ha creato un menù in abbinamento a grandi annate di Sauternes.
Opinioni Una poesia di Giorgio Celli, elogio del piacere Opinioni Chilometro zero, una bufala o una chicca? di Corrado Giannone Info people&brand News, protagonisti, eventi del fuoricasa Prodotti, flash, novità, le aziende e il mercato Numeri Cifre dal settore. News dall’Horeca Focus vino Franciacorta: imprenditori di razza condannati alla qualità di Roger Sesto Four Seasons: Sauternes a Firenze di Alberto P. Schieppati Focus food Sapori Ticino: un grande evento di Alberto P. Schieppati Protagonisti food Philippe Rochat: il cuore è italiano di Elio Ghisalberti Così Oscar Farinetti ha sedotto i genovesi di Luisa Contri Le Meurice: l’alta cucina del primo arrondissement di Sara Alberti Surgital e Vissani: il freddo nell'alta cucina di Elisa Facchetti Format Sua maestà il filetto in quattordici varianti di Luisa Contri Chinatown: la scoperta di Bon Wei di Fiorenza Auriemma Capo Santa Chiara riapre con Garzillo di Luisa Contri Accueil La fatina della colazione sta al Palace di Bari di Fiorenza Auriemma Design Mionetto e Fabrica: due marchi per il gusto di Monica Zani Gestione Wine Amore: carta dei vini addio? di Theo Smith Equipment In cucina obbligatorio guardare sempre avanti di Davide Deponti Libri Il panettone di Loison e gli spiriti bollenti Secondo Artù Capire la clientela. Le gestioni ragionevoli Artù n°45
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Una poesia di Giorgio Celli, elogio del PIACERE
PER UNA GASTRONOMIA VIRTUALE (Spaghetti alla bolognese)
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Sul n. 43 di Artù abbiamo pubblicato un intervento di Pietro Valdiserra dedicato agli Spaghetti alla Bolognese, un piatto le cui caratteristiche hanno suscitato un dibattito intenso e vivace, soprattutto sul web. Oggi, due mesi dopo, abbiamo la fortuna di ricevere, dallo stesso Valdiserra, un intervento poetico di Giorgio Celli, il grande etologo e scrittore recentemente mancato. Celli viveva a Bologna, e –ci dice Valdiserra- “quando costituimmo la Balla degli Spaghetti alla Bolognese, ci fece il grande onore di partecipare alla conferenza stampa di lancio, convocata presso la sede della Provincia. Fu brillante e spiritoso, come sempre, e ci fece un dono inatteso: una poesia dedicata proprio agli spaghetti alla bolognese!” Un testo davvero prezioso, questo di Celli, che riteniamo doveroso pubblicare su Artù, in segno di rispetto verso un personaggio che ha contribuito alla crescita dei livelli culturali nel nostro Paese. La poesia è un inno al piacere gastronomico e colpisce per l’intensità delle parole oltre che per l’utilizzo di termini gastronomici “personalizzati” in chiave poetica.
rosbeef degli inglesi wurstell dei berlinesi foca degli eschimesi paella alla spagnola son fatti per la gola la ricetta virtuale spaghetti alla bolognese offerta come reale nel menù di ogni paese è fatta per sognare gli spaghetti impossibili vanno direttamente dal palato alla mente fatti di tutto e niente ci sono e non ci sono ma se li cuoci al dente con un ragù divino coperti con la neve di un grana sopraffino il noumeno si cala nel fenomeno gli spaghetti impossibili sono nel vostro piatto con fumante fragranza chi non li mangia? È matto! Giorgio Celli
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Chilometro ZERO, una bufala o una chicca? “Insalatina dell’orto”, “vino locale” sono proposte spesso utilizzate dai ristoratori per impreziosire un prodotto agli occhi del consumatore che si sente rassicurato perché inconsciamente attribuisce loro un valore intrinseco pensando ad un loro legame con il territorio. In realtà, questi prodotti provengono dalle zone più disparate, se non addirittura dal supermercato più vicino (perlomeno nella maggior parte dei casi). Di recente sono stati coniati alcuni termini che portano ad enfatizzare l’uso di prodotti nella nostra alimentazione, sia domestica che fuori casa, provenienti dal territorio circostante.
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Tutti hanno sentito parlare di “chilometro zero” che sotto il profilo semantico dovrebbe significare: “cibo proveniente dal territorio circostante il luogo di consumo”. Il termine da un punto di vista scientifico non ha alcun significato, mentre sotto il profilo psicologico è in grado di suscitare nel consumatore delle emozioni positive che gli permettono, attraverso il cibo, di stabilire un legame intrinseco con il luogo in cui ci si trova. Del resto, questo è vero se si pensa che qualche molecola dei composti che lo compongono finiranno oltre che a produrre energia, anche una volta trasformati, ad aggiungersi ai normali componenti dell’organismo umano. Il cibo diventa un mezzo che ci permette di stabilire un rapporto con un determinato territorio. Oltre al “chilometro zero” altri termini sono stati coniati per indicare la provenienza locale degli alimenti, che sono prodotti locali a filiera corta, e che fanno parte del lessico non solo di chi si occupa di sostenibilità ambientale, ma anche dei consumatori più sensibili alla qualità del cibo e che hanno a cuore anche la difesa dell’ambiente. Da qualche anno ha fatto capolino anche il termine “food miles” che letteralmente si traduce in “miglia” o “chilometro cibo” ovvero i chilometri percorsi da un alimento per raggiungere la tavola dei consumatore. Attorno a questi argomenti c’è un vivace fermento di soggetti oltre alle istituzioni pubbliche, che hanno promosso, in alcuni casi, norme specifiche per incentivare anche nella ristorazione commerciale nonché nella GDO, l’uso di prodotti locali,
anche le associazione di categoria dei produttori agricoli si sono spesi in questa direzione, così come la Regione Piemonte e la Regione Sardegna hanno prodotto delle linee guida su questi argomenti. Anche i consumatori hanno dato luogo a forme di aggregazione per stabilire contatti diretti con i produttori si pensi a “GAS” che sta per “Gruppi d’Acquisto Solidali”. A dimostrazione dell’interesse che si è creato sul tema specifico, basta fare una ricerca in internet e si scopre che si sta facendo avanti un modo diverso di misurare la qualità di un alimento: non ci si basa più solo sugli standard tradizionali, quali il valore nutrizionali e la qualità igienica, ma si prendono in considerazione anche parametri ambientali. È stato verificato che tra i fattori che influenzano l’ambiente negativamente vi sono i trasporti che collegano le zone di produzione a quelle di consumo. In questo senso sono stati condotti molti studi che hanno permesso di stimare la quantità di biossido di carbonio generata nel trasferimento degli alimenti da un posto all’altro del globo. Nel prossimo futuro quindi la qualità di un pasto si valuterà anche in base alla minor quantità di CO2 prodotta per realizzarlo, ma non solo, presto nelle liste degli ingredienti dei vari prodotti sarà inserita la quantità di CO2 prodotta. A mio avviso, però, è necessario fare qualche precisazione sulla terminologia perché questi termini vengono usati troppo spesso come sinonimi, ma nella realtà hanno significati ben diversi. È importante definire scientificamente e in maniera univoca il concetto e la terminologia più adeguati, evitando errori di valutazione e comprensione. Cominciamo con il termine “filiera corta” che sta ad indicare una riduzione dei soggetti coinvolti nella commercializzazione di un prodotto, dalla produzione al consumo; per assurdo, se un produttore di olio marocchino vende il suo prodotto ad un supermercato di Milano, siamo in presenza di una filiera corta anche se percorre molti chilometri. La deduzione parrebbe essere “minor passaggi uguale minor distanza”: se cosi fosse vi sarebbe coincidenza tra prodotto locale e prodotto a filiera corta. In realtà, questo concetto è valido solo in parte perché, se è vero che un prodotto locale implica un numero
ridotto di soggetti nella filiera, non è altrettanto vero che i prodotti a filiera corta debbano essere necessariamente locali. Per quanto concerne i singoli consumatori, il fenomeno dell’acquisto direttamente dal produttore non necessariamente significa meno inquinamento perché, se per acquistare un pollo in fattoria sono costretto ad usare la macchina anche per percorrere pochi chilometri, la quantità di combustibile rispetto al peso della merce acquistata sconsigliano questa forma d’acquisto. Diverso è il caso dei produttori che portano la merce in luoghi prestabiliti come i mercatini contadini o i “fair market” della Coldiretti. Meglio ancora se in futuro anche le aziende della grande distribuzione destinasseroo all’interno dei negozi apposite aree destinate a questi prodotti, cosi da dare la possibilità a tutti di poterli acquistare senza doversi spostare da un capo all’altro della città. L’uso dei prodotti locali comporta vantaggi generali sul tessuto sociale interno con effetti positivi sull’ambiente, dal momento che si riducono le distanze tra i luoghi di produzione e di consumo contribuendo alla riduzione dell’emissione di CO2 e il traffico sulle strade, assicurando in parallelo un maggiore e più efficace controllo lungo tutta la filiera da parte degli organismi preposti ai controlli ufficiali. A questo punto sorge spontanea la domanda su chi debba garantire che un prodotto sia veramente locale. Se si tratta di prodotti con specifica certificazione il problema non si pone, in quanto i soggetti sono controllati o da parte dei Consorzi di Tutela, o da parte di organismi statali o comunque riconosciuti, mentre il problema rimane insoluto per tutti quei soggetti che non sono sottoposti agli stessi controlli e quindi qualcuno potrebbe approfittarne, da cui l’esigenza di un qualche ente terzo che dovrebbe vigilare. Si potrebbe pensare ad un Ente di Certificazione, ma personalmente ritengo che già esistono troppi marchi di certificazione e resta il fatto che la maggior parte dei consumatori ne disconosce il significato. Spetta al ristoratore conquistarsi la reputazione. di Corrado Giannone Presidente Conal Scrl, Milano
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News, PROTAGONISTI, eventi del fuoricasa Tiramisù take away Dopo il successo dei famosi take away – dalla pizza al cinese, dal kebab alle rosticcerie 'nostrane' – apre a Milano Il Paradiso del Tiramisù. Non una semplice pasticceria, ma un esercizio dedicato al dolce al cucchiaio più noto e più richiesto al mondo, in versione take away: si possono acquistare monoporzioni a 3,50 euro, confezioni particolari da 500 gr, teglie da 700/800 gr o personalizzate (1 kg tiramisù classico 28 € euro - altri gusti a 32 euro). L'idea imprenditoriale di Matteo Maggiolina ha fatto centro. Il piccolo laboratorio in via Vela 8 – che produce artigianalmente il tiramisù – propone varianti per tutti i gusti, alla nutella, alle noci, alla fragola, all’ananas, alla cannella, al melone, al cocco, al kiwi e, seguendo le stagioni, con ogni altro fresco frutto tipico del periodo. "E a breve – conferma Matteo Maggiolina – anche in versione adatta a chi soffre di intolleranze alimentari". Matteo Maggiolina
Torna Taste of Milano Taste of Milano torna a settembre per celebrare la ristorazione milanese d'eccellenza. L'edizione 2011, prevista dal 15 al 18 settembre, vedrà come scenario l'Ippodromo dal Galoppo di San Siro e vedrà la partecipazione di un maggior numero di Chef e Ristoranti rispetto la scorsa edizione. La pista dell'Ippodromo verrà aperta al pubblico per ospitare The Top Restaurant Festival e 20 fra i migliori Chef della città che,
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per quattro giorni, delizieranno i palati con corsi di cucina e showcooking: piatti della cucina italiana, tipica meneghina e regionale, ma anche abbinamenti esotici nella cucina giapponese e fusion. Non solo maestri e chef pluridecorati, ma anche giovani emergenti, stellati e non, confermeranno il loro valore e sveleranno qualche piccolo segreto. L’obiettivo principale di Taste of Milano è quello di creare un evento che celebri l’eccellenza e la varietà della ristorazione attraverso il coinvolgimento di un buon numero dei migliori chef e ristoranti della città di Milano. La prima edizione aveva chiuso i battenti registrando un’affluenza record: 15.000 visitatori hanno degustato la cucina d'eccellenza dei 12 Chef presenti all’evento e hanno preso parte a lezioni e corsi di cucina, degustando i vini nella Wine Academy nelle Enoteche e Champagnerie presenti. Anche quest’anno ogni ristorante proporrà tre piatti in versione da assaggio – Taste – a un prezzo compreso tra i 4 e i 6 euro e, per agevolare le consumazioni, piatti e drink potranno essere acquistati con la 'moneta' speciale di Taste of Milano, il Ducato. “Siamo orgogliosi di proporre una nuova edizione di Taste of Milano – afferma Silvia Dorigo, Amministratore Delegato di Brand Events Italy, filiale italiana di Brand Event Ltd, società Britannica con sede a Londra, che porta in Italia i format dei grandi eventi che hanno avuto estremo successo in tutto il mondo, a partire da Taste of Milano 2010 –. Quest'anno
sarà ancora più ricca e ancora più bella! Non solo perché avremo una squadra motivata e affiatata composta da venti professionisti che per quattro giorni lavoreranno per il nostro pubblico, ma anche perché abbiamo individuato una particolare ‘cornice’ che ci consentirà di allestire, in un contesto affascinante e inedito, tante strutture per accogliere al meglio i nostri visitatori”. Taste of Milano è un evento a numero chiuso in modo da consentire a tutti i partecipanti la migliore esperienza possibile. Per la gestione della biglietteria, Brand Events Italy Srl ha scelto come fornitore tecnologico TicketOne. I biglietti potranno essere acquistati sul sito www.tasteofmilano.it oppure tramite tutta la rete multicanale TicketOne: www.ticketone.it, Call Center TicketOne 892.101 e gli oltre 650 Punti Vendita aperti al pubblico in tutta Italia.
Bellussi ama l’arte Per due anni si è riferito alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica. Quest’anno invece l’accordo fra Bellussi e Fondazione La Biennale di Venezia prevede la presenza dei vini della casa di Valdobbiadene in tutti i cocktail e i pranzi ufficiali organizzati da Biennale e legati alle esposizioni, mostre e festival. In poche parole, fornitore ufficiale della Biennale di Venezia. "Siamo felici – ha detto Enrico Martellozzo, presidente di Bellussi – di aver potuto firmare questo accordo. L’esperienza degli anni precedenti e il lavoro svolto insieme ha
permesso delle sinergie di sicuro interesse. D’altra parte da oltre dieci anni la nostra azienda ha scelto di supportare le varie forme d’arte per comunicare il proprio brand". Bellussi ha infatti ottenuto un significativo apprezzamento dal Premio Guggenheim – Impresa & cultura. Già per l’apertura di questa 54a Esposizione Internazionale d’Arte le “bollicine” sono state apprezzate negli incontri sulla terrazza di Ca’ Giustinian in onore degli artisti, collezionisti, prestatori e rappresentanti dei Paesi partecipanti.
Berton: ancora con Eblex Per il terzo anno consecutivo lo chef bistellato direttore de Il Ristorante Trussardi Alla Scala e del Cafè Trussardi, Andrea Berton, sarà il testimonial delle famose carni inglesi e dell'English Beef e English Lamb rappresentate in Italia da Eblex. “In questi anni di collaborazione con Berton –afferma Jeff Martin responsabile Eblex in Italia – sono nati numerosi e interessanti progetti. Le motivazioni per cui tre anni fa abbiamo scelto questo grandissimo Chef come testimone dei nostri prodotti non sono mai venute meno, anzi si sono rafforzate sempre di più. Berton è la persona giusta per rappresentare la qualità delle nostre carni e dà sicuramente
Andrea Berton un valore aggiunto al nostro lavoro”. Per questo motivo la società inglese ha deciso di promuovere diverse iniziative, a partire da un viaggio in Inghilterra che porterà lo Chef in visita agli allevamenti d’oltremanica. “Ho avuto la possibilità di incontrare il mondo della carne inglese già tre anni fa all’inizio della collaborazione con Eblex –afferma Andrea Berton- e quest’anno tornerò di nuovo a visitare allevamenti e macelli. Per me è fondamentale conoscere gli alimenti che cucino, le loro caratteristiche, la loro provenienza e l’English Beef e l’English Lamb sono effettivamente prodotti di alta qualità”. Nel corso dell’anno saranno inoltre organizzati educational, dimostrazioni di cucina e pranzi a tema: numerose iniziative
in cui l’abilità dello Chef saprà valorizzare una materia prima che in Italia è ormai conosciuta e apprezzata sia nella ristorazione, sia dal consumatore. Un successo testimoniato anche dai numeri relativi all’export dell’English Beef diffusi da Eblex: a marzo 2011 l'Italia ha importato 1.930 tonnellate di manzo, contro le 1.860 dell’anno precedente, registrando un +3.75%. Anche la carne di agnello ha registrato un +10.78% e da gennaio a marzo 2011 l’Italia ha importato 831 tonnellate di lamb contro le 750 del 2010.
A Tavola sulla Spiaggia Ideato da Gianni Mercatali nel 1993, la manifestazione 'A Tavola sulla Spiag-
gia' giunge alla sua XIX edizione per celebrare la cucina dei prodotti locali e promuovere i migliori prodotti italiani enogastronomici. Il 25 agosto a Forte dei Marmi, al Bagno Roma di Levante, saranno eletti i vincitori del concorso, premiati il 26 agosto alla famosa Capannina. Uno show al quale parteciperanno come concorrenti signore e signori che, con i loro piatti, andranno a definire il menu dell’estate 2011. Anche quest’anno il tema è rappresentato dalla semplicità in cucina e dalla valorizzazione dei prodotti a “chi-
lometri zero”. In giuria, presieduta da Beppe Bigazzi, ristoratori stellati e produttori di vino: il tutto esaltato da vini italiani, dai Colli Orientali del Friuli con Eugenio Collavini, al Trentino con lo spumante Ferrari e il Maso Montalto. Dal Veneto con Bellussi e i vini di Aneri, alla Toscana con Cecchi e Castellare di Castellina. Dall'Umbria con Arnaldo Caprai alla Sicilia con le tenute Guicciardini Strozzi e i Feudi del Pisciotto. Nella foto: il Sindaco Umberto Buratti con Mara Maionchi e Beppe Bigazzi.
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Filippo Gozzoli a Villa del Quar
Filippo Gozzoli La Famiglia Montresor, proprietaria da generazioni di Villa del Quar, ha affidato a Filippo Gozzoli l’incarico di Executive Chef delle cucine di Villa del Quar e del Ristorante Arquade. Filippo Gozzoli, assume l'incarico dopo importanti esperienze formative in Italia e all’estero dal Ristorante Ceresole (1 stella Michelin), all’Osteria Alla Sosta, entrambi di Cremona, passando per il Club privato Harry’s Bar di Londra, a Le Gavroche e all’Oak Room di Londra (entrambi 3 stelle Michelin), dall’Hotel Eden (1stella Michelin), all’Hotel de Russie di Roma, all’Hotel Bauer a Venezia, per arrivare a Milano dove per cinque anni ha ricoperto il ruolo di Executive Chef del Park Hyatt Milan. “Amo la cucina leggera e moderna – racconta lo Chef – della tradizione italiana, ma non sono insensibile alle suggestioni esotiche, purchè non esasperate. Dopo una fase di sperimentazioni ardite, ho voluto tornare ai canoni della tradizione italiana, che è insieme la base e il futuro della cucina di eccellenza. È stimolante per me reinterpretare i piatti più tipici del nostro immenso patrimonio culinario, ma senza esasperazioni, rispettando i canoni di semplicità e leggerezza. Prediligo le cotture espresse perché sono la cartina al tornasole della bravura di un cuoco
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e soprattutto mantengono inalterate le qualità e le caratteristiche degli ingredienti”. A fianco di Filippo, come Chef de Cuisine, Gennaro Vitto che ha maturato esperienze importanti a Parigi con Alain Ducasse, Yannich Aleno, Solivares e in altri ristoranti pluristellati, ma anche in Spagna con Martin Berasategui e Ramon Freissa. “La cucina di Filippo Gozzoli e Gennaro Vitto – Leopoldo Montresor ed Evelina Acampora – ci ha colpito perché è espressione armoniosa ed elegante in sintonia con lo spirito e l’atmosfera del nostro Hotel. La frequentazione internazionale deve trovare anche nella proposta gastronomica una disponibilità a soddisfare le diverse esigenze degli ospiti durante il corso della giornata, con quello stile legato alla sobrietà e alla misura che contraddistingue l’Italia nel mondo. Ma è nostro desiderio che, grazie al talento e all’estro di Filippo e Gennaro il Ristorante Arquade, possa diventare una meta gourmet non solo per i veronesi, i veneti e i milanesi, ma anche per tutti gli estimatori della grande tradizione gastronomica italiana”.
Settore alberghiero: spiragli di crescita La 38° riunione generale voluta da EHMA – European Hotel Managers Association – e svoltasi a San Pietroburgo, ha visto la presenza di più di 150 ma-
Fiorenzo Detti ed Emanuele Riva nager di alberghi a 4 e 5 stelle per discutere con alcune prestigiose istituzioni internazionali sul futuro dell’industria alberghiera: l'École Hôtelière di Losanna, Cornell University School Hotel Administration, Orient Express Hotels, American Express e Hotrec hanno presentato le nuove tendenze nel campo delle tecnologie alberghiere, del marketing digitale, di nuovi profili di mercato. Il tema della conferenza, “From crisis to new growth” (dalla crisi verso una nuova crescita) ha portato a focalizzare alcuni temi chiave come l'analisi dei nuovi social media quali Facebook, Linkedin e Twitter, che rappresentano svariate possibilità della tecnologia applicata all’industria alberghiera. Sujata Bhatia, vice presidente American Express Business Insights Europe, ha comunicato all’assemblea alcune buone notizie: "Come dimostrano i dati, in Europa il mercato alberghiero sta recuperando terreno anche se non si sono ancora raggiunti i livelli pre-crisi e in alcuni paesi, come Inghilterra e Francia ad esempio, si sono raggiunti i livelli del 2008. Nel 2010, la spesa è aumentata complessivamente del 7% rispetto all’anno precedente. Le voci guida della crescita sono rappresentate soprattutto dai viaggi d'affari: il 50% dei clienti in viaggio d'affari si sposta più frequentemente rispetto ai turisti e il loro potere di spesa sta recuperando più velocemente. Dopo un calo numerico consistente, i turisti stanno finalmente ritornando in Europa: nel 2010 i principali mercati hanno registrato un aumento degli acquisti del 13% con il settore lusso che sta recuperando molto più rapidamente degli altri". La testimonianza di Kent Nyström, presidente di HOTREC (portavoce di Hotel, Ristoranti e Bar europei) conferma come nel 2010 il settore alberghiero europeo sia stato colpito duramente dalla crisi finanziaria del 2008, ma dopo due
anni di crescita negativa si sono visti i primi segnali di recupero con un aumento, rispetto al 2009, del 2,8% di notti trascorse in hotel o strutture ricettive simili. I dati pubblicati recentemente ci dicono che, nonostante l’Europa sia il continente che ha registrato la crescita più lenta nel settore degli arrivi turistici (con cifre medie del 3%), nel 2010 è ancora di gran lunga la destinazione principale per il 51% dei turisti internazionali (circa 473 milioni), seguita dalle regioni di Asia-Pacifico (22% pari a 204 milioni) e dalle Americhe (16% con 150 milioni).
Miglior Sommelier: Emanuele Riva vince in Lombardia L'associazione Italiana Sommelier ha premiato anche quest'anno il Miglior Sommelier Professionista della Lombardia 2011, nello splendido scenario della Tenuta Conte Vistarino di Rocca de' Giorgi nell'Oltrepò Pavese. Si aggiudica il primo posto Emanuele Riva, 26 anni, sommelier al ristorante La Cava dei Sapori di Como: un prezioso riconoscimento che permetterà al giovane sommelier di accedere al concorso nazionale che qualificherà i finalisti al campionato del mondo. Sul podio anche Gianluca Goatelli, sommelier al ristorante Capriccio di Manerba Del Garda (1 stella Michelin) e terzo posto per Mirko Benzo, sommelier al ristorante Trussardi Alla Scala di Milano (2 stelle Michelin). A premiarli Antonello Maietta, Presidente AIS Nazionale, Fiorenzo Detti, Presidente AIS Lombardia, Luisito Perazzo già Miglior Sommelier Lombardia e Campione Italiano nel 2005 , il Presidente di Giuria Ivano Antonini Miglior Sommelier Lombardia e Campione Italiano nel 2008 e il giornalista Alessandro Franceschini.
Vittorio, barista dei tempi andati… Vittorio è un barista vecchia maniera. Ne ha di storie da raccontare. Sostiene che il caffè dei bar-tabacchi abbia una marcia in più, in base a una teoria tutta sua che non ammette smentite né repliche: “Il fumatore – dice Vittorio – pretende di consumare un espresso più forte e caratterizzato”. Aggiunge che il cliente non è più quello di una volta, come le stagioni, e che “il mondo è cambiato in modo sostanziale”. Nella sua semplicità, Vittorio, barista di Piana di Sorrento, ma cresciuto professionalmente nella Milano dei 'tempi d’oro', non ha tutti i torti. Come quando
dice, preparandoti zelante un espresso 'in tempo reale', dietro al bancone del bar (tabacchi, ovviamente) di Porta Lodovica, “che dobbiamo ritornare ai tempi andati, a quando la professionalità era un valore assoluto (e la furbizia un disvalore ripugnante)”. Dobbiamo tornare alle 'arti e mestieri', dice Vittorio, non se ne può più dell’improvvisazione, delle pretese esagerate, del 'tutto e subito'. Con Vittorio si può parlare di ogni cosa, del gueridon e della cucina 'alla lampada', dell’escabece e delle vongole veraci, della cucina tradizionale e della pizza 'al metro' di Gigino o’ Zuzzuso a Vico Equense. Ma anche della grande cucina stellata, di Iaccarino, della qualità dei suoi piatti.
È un piacere ascoltarlo, e condividere con lui opinioni, sentimenti, memorie, impressioni. Per esempio, sulla 'notte degli chef', il programma tv condotto dal gossiparo Signorini, la pensiamo uguale. Bravi gli chef, che certamente hanno bisogno di visibilità: ma la conduzione è un disastro. In sintesi, che senso ha chiamare a parlare di alta cucina chi ne capisce poco o niente? Perché non affidano queste tematiche a chi è maggiormente qualificato? O quantomeno a chi conosce il settore? Lo spettacolo deve sempre prevalere sul ragionamento? Ha ragione da vendere, il barista Vittorio. Ci vorrebbe lui, in trasmissione: quantomeno avrebbe storie ben più interessanti da raccontare. Ma nel-
l’Italia dei tanti cortigiani, nani e ballerine, forse, lo strapotere dello spettacolo ha bisogno di qualcuno che sussurra (anzi, urla) il pensiero dominante, difende l’approssimazione, esalta il bunga bunga, conquista le massaie berlusconizzate. Mi dispiace (ma solo un pochino) per gli chef che ci cascano, a cominciare da Oldani (chef intelligente e capace, primo fra tutti a capire il mercato) e da Gennarino Esposito (geniale e ironico: un patrimonio della nostra ristorazione). Ma la visibilità mediatica (anzi, televisiva) è un grande regalo al bisogno di protagonismo, sul quale non si discute. Sisifo
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PRODOTTI, flash, novità, le aziende e il mercato Sapori a confronto: Ferrarelle SpA il Lugana nella ristorazione promuove l’eccellenza
L’evento “Stili italiani: il piacere dell’originalità” ha consacrato lo sposalizio tra sapori e saperi italiani con il prodotto di punta della nota azienda Zenato, il Lugana. A San Benedetto di Lugana, nelle tenute di proprietà, sono stati proposti i primi vini ottenuti da 3 prove di vinificazione sul Trebbiano di Lugana, avviate con la Fondazione Mach di San Michele all’Adige, che pongono Zenato come precursore della ricerca sulle opportunità di valorizzare questo vitigno autoctono, radicato nel territorio del Garda. Tre i Lugana degustati: il Lugana Santa Cristina 2010, il Lugana Sansonina 2009 dell’azienda di Carla Prospero Zenato e il Lugana Riserva Sergio Zenato 2008. “Le sperimentazioni, in ambienti a diverso livello di protezione dall’ossigeno, ci offrono l’opportunità di verificare come possiamo esaltare la qualità dei nostri vini, coniugando attento lavoro in vigna e tecniche di cantina all’avanguardia” ha commentato Alberto Zenato. Successo anche per gli abbinamenti di presidi SlowFood, piatti siciliani del ristorante “Faro Verde” di Ponticello e la carne di Damini Macelleria & Affini. “Dal 2005 Zenato, tra le cantine più attive nel sostenere i nostri prodotti di qualità, offre direttamente ai produttori l’occasione di dialogare con pubblico e operatori per divulgare i tesori gastronomici italiani” ha detto Mauro Pasquali, segretario regionale di Slow Food Veneto. L'obiettivo della serata era infatti evidenziare le innumerevoli possibilità espressive del Trebbiano di Lugana.
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Ferrarelle SpA e Alma Graduate School dell’Università degli Studi di Bologna hanno siglato un importante accordo per promuovere la formazione di figure manageriali di alto livello nel campo dell’enogastronomia italiana. Alma Graduate School ha organizzato il primo Master internazionale in Business Administration Food & Wine, che partirà a settembre, e Ferrarelle SpA ha contribuito al progetto finanziando, per l’anno accademico 2011/ 2012, dieci borse di studio di 27.000 € ciascuna, a totale copertura della retta di iscrizione di dieci dei venti posti disponibili. Il master, della durata di un anno, è rivolto a laureati provenienti da tutto il mondo, che abbiano un forte interesse nel settore della gastronomia e dell’industria enologica e che abbiano maturato un’esperienza lavorativa di almeno due anni. Il master è finalizzato alla formazione di professionalità d’eccellenza nel settore enogastronomico: a una forte formazione nel campo del General Management si affianca un’intensa preparazione sul settore Food & Wine, grazie a una combinazione di conoscenza accademica ed esperienza manageriale in ottica internazionale.
Biscaldi: i top di Freixenet Dal 1969 Biscaldi importa da tutto il mondo i più grandi marchi di bevande alcoliche e non. Tra l'universo prodotti vogliamo segnalare due perle: Elyssia, marchio top della casa Freixenet, e Oroya. L'azienda Freixenet ha le sue origini nella regione vitivinicola della Catalogna, in Spagna, ed è in questo territorio che nasce il cava Freixenet, un vino spumante a denominazione
d'origine, prodotto esclusivamente con il metodo classico di rifermentazione in bottiglia. Elyssia, il nuovo cava Freixenet, si distingue come uno dei migliori cava presenti sul mercato nelle varietà Elyssia Pinot Noir e Elyssia Gran Cuvée. L'azienda Freixenet propone anche un vino bianco innovativo dal sapore orientale: Oroya, ideato dell'enologa giapponese Yoko Sato, si abbina perfettamente alle pietanze del mondo culinario giapponese, esaltando i sapori del sushi. Prodotto da vitigni Airen, Macabeo e Moscato, Oroya è caratterizzato da aromi intensi e definiti di mela e pesca, con sottofondo floreale.
Ciak: Le Colture in scena a Roma Le bollicine DOCG firmate Le Colture hanno animato la 26a edizione del premio per il cinema Ciak d’Oro 2011 a Roma. Un connubio rinnovato, dove attori e personalità del mondo del ci-
nema hanno brindato con il Valdobbiadene Docg Brut ‘Fagher’ e con lo spumante brut Rosé nella location di Palazzo Valentini, sede della provincia di Roma. Il premio, ideato ed organizzato da Ciak, storico mensile italiano specializzato in cinema e diretto da Piera Detassis, per questa edizione, ha visto trionfare i temi della fede e dell’unità d’Italia: ‘Habemus Papam’ di Nanni Moretti e ‘Noi credevamo’ di Mario Martone si sono aggiudicati quattro premi. I lettori di Ciak inoltre, hanno decretato Kim Rossi Stuart miglior attore per il film ‘Vallanzasca-Gli angeli del male’ diretto da Michele Placido, ed Alba Rohrwacher miglior attrice, per ‘La solitudine dei numeri primi’. Tra gli altri premiati da ricordare anche Gigi Proietti (premio alla carriera), e Paola Cortellesi (personaggio dell’anno). “Le cose più belle nella vita nascono per amicizia e passione – commenta Alberto Ruggeri –. La presenza della nostra azienda a questo prestigioso evento è motivata da questi due sentimenti. Tutto ha inizio da una
bella amicizia e dalla passione che tutti noi ci mettiamo nel nostro lavoro, ogni giorno. Ho sempre avuto un debole per la recitazione, la produzione dei film, il saper mettere in scena delle azioni. La presenza dei nostri spumanti è un modo per rinsaldare ancora una volta il legame tra Valdobbiadene e la città di Roma, dove i nostri vini sono presenti nelle migliori enoteche e ristoranti". Nella foto: Paola Cortellesi ed Alba Rohrwacher con Alberto e Veronica Ruggeri.
lenzano (Fi). La società si occuperà di tutte le attività di logistica, con stoccaggio ed evasione di ordini del Gruppo toscano e seguirà per l’azienda anche la distribuzione capillare nell’area Centro-Nord d’Italia. Per il Gruppo Frescobaldi, nello specifico, Geodis Züst Ambrosetti ha costruito, presso la filiale di Calenzano, una particolare cella coibentata che garantisce il mantenimento dei vini a una temperatura controllata di 18-20°. Secondo i primi dati raccolti da Geodis Züst Ambrosetti, dopo le prime settimane di collaborazione con il Gruppo Frescobaldi, la movimentazione giornaliera è stata quantificata in circa 80/90 quintali di prodotto, pari a 80 ordini evasi in totale. Nella foto: AD Frescobaldi e Alessandro Buggiani, Capo Filiale Firenze Geodis Zust Ambrosetti.
Vini Frescobaldi: nuovo incarico a Geodis Zust Ambrosetti Nuovo contratto della durata di 3 anni per Geodis Züst Ambrosetti, la società del Gruppo Geodis operativa nel settore trasporto su strada che conta in Italia 60 punti operativi, circa 350 collaboratori diretti e che ha chiuso il 2010 con fatturato pari a 123 milioni di euro. Il Gruppo Frescobaldi ha infatti affidato a Geodis Züst Ambrosetti l’incarico per la gestione di logistica integrata nella filiale di Ca-
Frescobaldi e Alessandro Buggiani
Amarcord: la Riserva Speciale italo-americana Dall’incontro tra Tonino Guerra, che ha personalmente disegnato l’etichetta, e Garrett Oliver, americano di New York e brewmaster di Brooklyn Brewery – una delle realtà birrarie americane di maggiore successo – è nata Birra Amarcord Riserva Speciale. "Per me che da giovane ho studiato cinematografia e che quindi ho sempre amato i lavori di Tonino Guerra", ha spiegato Garrett Oliver, "è stato un onore poter firmare una birra insieme a lui. Nella Riserva Speciale ho cercato di riproporre l’anima colorata, vibrante e solare di Tonino. Per farlo volevo che la birra non avesse un colore 'standard', giallo, rosso o nero, e allo stesso tempo volevo una birra 'del territorio' dove vive Tonino. Così è nata la Riserva Speciale: aspetto velato e colore che ricorda quello di un albicocca, arricchito da riflessi rosati. Nella preparazione ho impiegato l’acqua proveniente dalla sorgente di proprietà di Birra Amarcord, malto d’orzo e luppolo, miele d’acacia e millefiori, la visciola che è una ciliegia tipica di questa zona e il prugnolo, un altro frutto di questo territorio". Grande soddisfazione per Rino Mini,
il patron di Birra Amarcord, che durante la presentazione lo scorso 13 giugno a Pennabilli, il piccolo borgo dell’entroterra riminese dove vive Tonino Guerra, ha dichiarato: "Abbiamo inseguito questo progetto a lungo, ma il risultato è eccezionale. La Riserva Speciale è, a detta di chi l’ha assaggiata, una birra formidabile. Noi contiamo di portarla presto anche all’estero dove Birra Amarcord sta facendo da tempo un ottimo lavoro. Negli Stati Uniti ad esempio sarà proprio la Brooklyn Brewery di Garrett Oliver il nostro importatore e il prossimo 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America, ci sarà una presentazione ufficiale a New York di tutte le birre Amarcord". In Italia la distribuzione è stata affidata in esclusiva a Interbrau, l’azienda veneta dalla trentennale esperienza nel settore guidata oggi da Sandro Vecchiato.
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Vigna Dogarina: nuove strategie
Romina Tonus titolare Vigna Dogarina Fondata nel 1976, Vigna Dogarina dispone oggi di 114 ettari di vigenti di proprietà a Campodipietra, nella campagna veneta tra Treviso e Venezia, vicino al fiume Piave, con una produzione di circa 2 milioni di bottiglie: il Prosecco Doc e Docg rappresentano il 47% della produzione, i vini rossi e bianchi della Doc Piave il 26%, e gli spumanti oltre il 60%. Una produzione rivolta prevalentemente al canale Ho.re.ca. con la linea che porta il suo nome, Villa Dogarina appunto, e una piccola percentuale distribuita con la linea Villa Granda rivolta al canale della distribuzione moderna. La sfida al mercato attuale viene oggi combattuta da Romina Tonus, insediata da poco alla Direzione Generale, figlia di Guido Tonus, attuale proprietario dell’azienda agricola. Romina ha già presentato le nuove strategie di marketing: il primo importante segno di cambiamento del nuovo passo di marcia è il restyling del marchio di Vigna Dogarina, realizzato dallo Studio Francescon & Collodi di Conegliano, uno studio di graphic design specializzato nel settore vino. Il nuovo marchio raffigura tre elementi chiave legati al territorio: per la vicinanza a Venezia, il leone di San Marco, il profilo delle Dolomiti e infine il grappolo stilizzato che simboleggia la centralità di questo territorio. Così commenta Romina: " I miei vini sono un omaggio alla bellezza, quella della mia terra, Campodipietra in provincia di Treviso, dove sono nata e cresciuta e ne sono la più alta espressione".
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Norda cambia ‘veste’ La linea Norda in vetro e pet (sorgenti Daggio, Acquachiara e Ducale) cambia volto, o meglio etichetta. Il progetto del restyling grafico ha puntato a valorizzare la provenienza di tutte le acque a marchio Norda: una montagna completamente innevata e un cielo dal colore blu intenso che richiama i colori e le tonalità del marchio aziendale. Le acque Norda sono infatti tutte oligominerali di alta montagna, pure e leggere, con un basso residuo fisso e autorizzate dal Ministero della Salute per essere consigliate e utilizzate nell’alimentazione dei neonati. Sull'etichetta, realizzata dall’agenzia di comunicazione LavelliADV, è stata inserita anche una bandiera tricolore per celebrare il 150° anniversario dell'unità d'Italia e sottolineare l’italianità del Gruppo Norda e la vocazione “nazionale” che lo caratterizza: Norda ha recentemente acquisito il marchio Gaudianello, pubblicizzando l'evento con una campagna di comunicazione basata sullo slogan ‘abbiamo unito l’Italia’. Sull'etichetta è inoltre raffigurato il logo del Parco Regionale Grigna Settentrionale, che Norda sostiene e valorizza attraverso azioni di sensibilità e rispetto eco ambientale.
Mastri Vernacoli Cavit: restyling e marketing Mastri Vernacoli, la linea di punta di Cavit, sarà protagonista di una massiccia campagna pubblicitaria: stampa nazionale e locale, Internet e periodici, sono i mezzi scelti dalla cantina per comunicare fino a ottobre la linea completa di vini trentini Mastri Vernacoli. 15 declinazioni prodotte da vitigni autoctoni del Trento e dai vitigni internazionali più famosi, tutti rigorosamente DOC. Pianificata da MediaVest e Barabini & Partners, con la creatività di Orange 012 – agenzia pubblicitaria – la campagna rientra nel progetto di valorizzazione del marchio Cavit che prevede investimenti di marketing e advertising sul mercato italiano. Pro-
tagonisti del messaggio pubblicitario sono quattro vini, due bianchi e due rossi: Teroldego Rotaliano, Gewürztraminer, Müller Thurgau e Marzemino.
Icydrink, il calice di ghiaccio Dalla Invent srl di Venezia nasce il bicchiere di ghiaccio. L'azienda ha infatti realizzato, e brevettato, uno speciale macchinario per produrre bicchieri in ghiaccio, creando così nuove oppurtunità di servizio e intrattenimento nel settore bar, ristorante, alberghiero e nei locali notturni. Icydrink ha già ottenuto numerosi successi e riconoscimenti: “Sono molto contento che il pubblico italiano abbia compreso questa innovazione – spiega il titolare
di Invent, Mario Montanari – perché in effetti è una piccola rivoluzione che sta conquistando non solo gli appassionati, ma anche gli addetti ai lavori che ne colgono dal primo assaggio tutte le potenzialità nel settore food & beverage. Consente infatti di servire qualsiasi tipo di cocktail, drink e frizzanti aperitivi, ma anche caffè espresso caldo, appetizer ed entrées, cocktail di scampi e dessert al cucchiaio, sorbetti, macedonie, amari”. La presentazione al pubblico è avvenuta al Nu Lounge Bar di Bologna, dove Daniele Dalla Pola, Campione del Mondo alla settima edizione di ‘42Below Cocktail World Cup’ disputatosi a Queenstown, in Nuova Zelanda, e primo testimonial di Icydrink, ha riproposto il cocktail con cui ha vinto il Campionato Mondiale, 'Dany'.
La Femme Perrier Arriva da casa Perrier la prima acqua minerale in lattina. I creativi della maison francese hanno voluto “battezzare” la lattina con il nome di 'La Femme', per celebrare tutte le femme fatale del cinema internazionale. 33 cl esclusivi, distribuiti solo nei locali cult della Costa Azzurra e della Florida, passando per la California, protagonista di speciali eventi mondani, come a New York e Parigi, nonchè alla kermesse Milano Moda Uomo.
Daniele Dalla Pola e i bicchieri Icydrink
Antico Pastificio Setaro
dal 1939 I Rum Mulata ditribuiti da Rinaldi I Rum cubani Mulata, oggetto di un recente restyling delle etichette, delle bottiglie e delle confezioni, saranno distribuiti dal noto marchio Rinaldi di Bologna. I Rum cubani Mulata vengono ottenuti dall’omonima tipologia di canna da zucchero, che consente di produrre le melasse di migliore qualità organolettica. Le tecnologie impiegate nel corso del processo produttivo – senza aggiunta di additivi chimici – sono ancora quelle artigianali del XIX secolo e l’invecchiamento viene effettuato in fusti di quercia americana. L’immagine della fanciulla che compare in ogni etichetta è legata alla leggenda di Ochum, la dea dell’amore dell’antica mitologia caraibica. La gamma distribuita dalla Rinaldi si declina nei Ron Mulata Añejo Blanco, Ron Mulata Añejo 5 Años, Ron Mulata Añejo 7 Años, Ron Mulata Añejo 15 Años Gran Reserva.
Il nuovo sito della Viticoltori Ponte “Vogliamo stare al passo con i tempi. Con l’avvento di tante novità nel mondo internet e con il nuovo sito vogliamo presentarci ai nostri estimatori in maniera professionale e, nello stesso tempo, vorremmo cogliere le nuove opportunità commerciali, comunicative e relazionali offerte dal Web”. Le parole di Massimo Benetello, Direttore Generale Viticoltori Ponte, rispecchiano a pieno titolo l'obiettivo della realizzazione del nuovo sito www.viticoltoriponte.it: garantire al vi-
Massimo Benetello Direttore Generale Viticoltori Ponte
sitatore la massima tracciabilità oltre all’accesso dati immediato, attraverso una grafica più leggera e attraente, che contribuisce a dare prestigio, visibilità e professionalità alla Cantina. Ampio spazio dunque alla descrizione e presentazione delle oltre cento referenze; foto, immagini e schede prodotto puntano a dare informazioni indispensabili per capire il profilo dei vini e gli abbinamenti, mentre le foto paesaggistiche che scorrono in homepage mostrano il territorio dei vigneti di Cantina Viticoltori Ponte. Il nuovo sito non è rivolto solo agli addetti ai lavori, ma rappresenta anche un ottimo spunto per chi desidera vedere dal vivo i luoghi di produzione dei vini della tradizione enologica trevigiana, sottolineando la filosofia dei 'Viticoltori Ponte': comunicare la cultura del vino in termini di 'cultura' del territorio.
Oro per il Marinali Rosso di Villa Sandi Il Marinali Rosso Villa Sandi è stato premiato con la Medaglia d’Oro alla Sélections Mondiales des Vins in Canada. Il riconoscimento rappresenta un'importante conferma per il rosso taglio bordolese di Villa Sandi prodotto dalle uve nella villa seicentesca di Crocetta del Montello, sede dell’azienda. La tenuta è dedicata alla coltivazione di Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Nero e Chardonnay destinati alla produzione dei vini Premium. Il Marinali Rosso, Marca Trevigiana I.G.T., è un blend di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, affinato in barriques di rovere francese di Allier per almeno 12 mesi, e ospitate nelle cantine sotterranee di Villa Sandi, che si estendono per oltre un chilometro.
Pastificio F.lli Setaro S.r.l. Via Mazzini, 47 - Torre Annunziata 80058 (Napoli) Tel. +39 081 861.14.64 - +39 081 862.69.13 Fax +39 081 861.91.59 - info@setaro.it - www.setaro.it
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Novità in CIFRE News dall’Horeca 7° gradi è la gradazione media dei cocktail a basso contenuto alcolico presentati a Jesolo lo scorso giugno durante una kermesse che ha coinvolto grandi barman, ma anche molte aziende del beverage che hanno a cuore le tematiche del bere responsabile. Il consumo moderato è ormai un imperativo per i produttori impegnati nella lotta contro la sottocultura del cosiddetto “sballo”: non a caso fra le aziende presenti a Jesolo per “Cocktail on the beach” erano presenti Roberto Castagner, impegnato da tempo nella produzione di distillati a bassa gradazione (come Aqua 21), Mionetto, l’azienda di Valdobbiadene produttrice di Prosecco, Pago Italia, l’azienda che produce succhi di frutta, e Partesa, il colosso distributivo del beverage. 51 sono i produttori vinicoli toscani presenti all’evento Divino Tuscany, svoltosi a Firenze lo scorso giugno. Si è trattato del primo esempio concreto di “temporary club”, che ha visto riunite aziende di alto profilo (Ricasoli, Antinori, Banfi, Frescobaldi, Mazzei, Petrolo, Il Borro, Principe Corsini in prima fila), impegnate in tasting esclusivi, degustazioni private, concerti. Ideato da James Suckling (deus ex machina di Wine Spectator per lunghi anni), Divino Tuscany è stato un grande momento di valorizzazione del vino toscano, ma anche di promozione delle eccellenze artistiche e culturali della regione. 226 sono le camere del Titanic Hotel, il primo albergo turco aperto in Germania. È il settimo della catena (gli altri sono tutti a Istanbul) ed è stato inaugurato in questi giorni a Berlino, dove sorgeva un Plattenbau (i casermoni socialisti della DDR), ristrutturato con un investimento di 7 milioni di euro, in posizione strategica fra Alexanderplatz e Potsdamer Platz. Lo ha aperto Aytac Aygun, il cui padre Mehmet ha portato in Germania la cultura del Kebab: prima ancora dell’arrivo di McDonald’s, negli anni settanta aprì locali diventati in breve veri casi di successo.
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Franciacorta Imprenditori di razza condannati alla qualità 18
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Lago di Iseo
Brescia
di Roger Sesto La Docg bresciana si è dotata di un disciplinare altamente dinamico: lo dimostrano i cinque aggiornamenti apportati da quando è stata approvata la “Garantita” nel 1995, destinati – utilizzando le parole del presidente del Consorzio Maurizio Zanella – “ad alzare sempre più l'asticella, come accade nel salto in alto”, a beneficio di regole produttive sempre più severe. Dall'introduzione della 'riserva vendemmiale' alla pressatura diretta dell'uva intera, oggi le regolamentazioni per produrre un Franciacorta sono tra le più severe al mondo. Una serie di case-history ci aiuteranno a comprendere come le diverse aziende interpretano questa severità normativa e quali sono i fattori critici alla base del loro successo.
Il territorio viticolo franciacortino è posto tra il fiume Oglio, a Ovest, che delimita anche il confine fra la provincia di Brescia e Bergamo; il Lago di Iseo e le ultime propaggini delle Alpi Retiche, a Nord; il Mella e le colline Moreniche, a Est; infine la fascia pianeggiante sub collinare alluvionale della Pianura Padana a Sud. Benché la Franciacorta abbia una tradizione vinicola antichissima già ne parlano Plinio, Columella e Gerolamo Conforti, che nel 1570 nel suo Libellus de vino mordaci colloca un vino “mordacissimo”, cioè spumeggiante, proprio in Franciacorta -, la sua storia vinicola contemporanea è molto recente: sostanzialmente sono gli ultimi trent’anni che hanno trasformato il vigneto Franciacorta in quel gioiello che è oggi. Testimoniano questa rapida rivoluzione colturale gli impianti viticoli che vi si possono scorgere. Ancora oggi, infatti, è possibile trovare dei residui allevamenti a pergola tipici degli anni Sessanta, ormai rari e in via di rapida estinzione. Gli anni ’70 e ’80 sono invece caratterizzati dalla spalliera alta, e vi sono ancora non pochi vigneti con queste caratteristiche. Il vero rinascimento però, quello di cui abbiamo accennato poco fa, è arrivato negli anni ’90 (tranne qualche cantina Artù n°45
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che in modo lungimirante e pioneristico aveva anticipato questo trend), con l’introduzione della spalliera bassa, potata a Guyot o a cordone speronato, che ha, fra l’altro, portato la densità media dei ceppi per ettaro dalle precedenti 3mila piante alle odierne 5mila, con viti a scarso sviluppo vegetativo, dalla produzione estremamente ridotta, fra l’1 e l’1,5 kg di uva per ceppo. La parola al consorzio: intervista al presidente Zanella Prima di andare ad analizzare alcune case history aziendali di cantine che per varie ragioni si sono distinte o si stanno ritagliando una spazio inedito in ambito francicortino, dalle scelte strategiche fra loro complementare, talvolta contrapposte, talaltra del tutto non confrontabili, accomunate però da un atteggiamento imprenditoriale fondato su solidi fattori critici di successo, diamo conto di un’interessante chiacchierata introduttiva, che abbiamo intrattenuto con Maurizio Zanella, presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta. Osserviamo che il disciplinare del Franciacorta Docg è sempre in movimento... Quando troverà un suo “centro di gravità permanente”? “ Da quando è stata istituita la Docg – ci racconta Zanella – il relativo disciplinare è stato più o meno pesantemente ritoccato 5 volte: ciò dovrebbe far capire come non ci vogliamo porre delle regole ingessate, magari dettate dalla volontà di grossi gruppi industriali o di grandi cooperative. Abbiamo la fortuna nel nostro territorio di avere solo aziende private e per lo più a carattere semi-artigianale, che non hanno interesse a produrre prodotti di dubbia qualità in nome di una ipotetica guerra di prezzi, che non converrebbe a nessuno. Anzi, ad ogni modifica del disciplinare, abbiamo sempre cercato di 'alzare l'asticella', come si fa nel salto in alto, imponendo norme sempre più rigide e selettive. Pensi che abbiamo persino un comitato tecnico consortile, che mette a punto in continuazione nuove idee, chiedendo ai consorziati di aderirvi ufficiosamente per poterne fare una sperimentazione. Se dopo 3-4 anni di prove i risultati
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sono giudicati positivi, si mette ai voti la nuova norma e si modifica il disciplinare affinché venga recepita. Ad esempio, ora che è appena stato ritoccato il disciplinare, il comitato tecnico è già al lavoro per nuove idee, riunendosi ogni 40 giorni”. E quali sono le principali ultime nuove modifiche apportate? “È stata introdotta la tipologia Riserva (anche Rosé e Satèn), che prevede una permanenza minima sui lieviti di 60 mesi. Inoltre 'il passaggio da uva a mosto deve avvenire esclusivamente tramite la pressatura diretta, senza diraspatura dell'uva intera, fatta eccezione per le uve di Pinot nero vinificate in rosato, utilizzate per la produzione di Franciacorta rose'. Ma l'innovazione più importante riguarda la possibilità di accantonare del vino a 'riserva', un’opzione dettata dal fatto che il nostro è un territorio altamente soggetto a grandine. Ciò vuol dire che in annate climaticamente favorevoli, il vino base ottenuto dalla quantità di uva eccedente il limite produttivo di uva rivendicabile (100 quintali/ha), fino a un massimo del 20% (ossia al massimo 120 quintali – 100 = 20 quintali), ha diritto alla denominazione 'Franciacorta' e il vino 'riserva vendemmiale' ottenuto è così regolamentato e utilizzato: - all'atto della presentazione della dichiarazione vitivinicola annuale si deve dare immediata comunicazione alla struttura di controllo autorizzata del quantitativo del vino riserva vendemmiale detenuto; - il vino 'riserva vendemmiale' è bloccato sfuso e non può essere elaborato per un minimo di mesi 12 dalla presa in carico sui registri di cantina; - il vino 'riserva vendemmiale' per l'elaborazione del Franciacorta Docg non ha diritto al millesimo; - la commercializzazione di tale quantitativo di vino 'riserva vendemmiale' può avvenire anche prima di essere sbloccato, ma previo declassamento a Doc o a Igt; Lo sbloccaggio può avvenire: - in annate climaticamente sfavorevoli, preso atto di una minore resa in campagna o in cantina, per una quantità di
vino 'riserva vendemmiale', tale da raggiungere la produzione massima consentita di 65 ettolitri/ha non ottenuta con la vendemmia. In tal caso, ogni produttore che ha raggiunto il limite massimo di resa in vino di 6.500 litri per ettaro, non ha diritto ad elaborare con la presa di spuma i 'vini riserva vendemmiale': - per soddisfare esigenze di mercato, potendo così elaborare una quantità di vino di riserva che sarà stabilita appositamente dal Consorzio di Tutela sentita la filiera e in accordo con la Regione. In entrambi i casi lo sbloccaggio totale o parziale avviene su proposta del Consorzio di Tutela, riconosciuto, anche a seguito delle richieste dei produttori, con provvedimento regionale e sotto lo stretto controllo della struttura di controllo autorizzata, previa comunicazione all'ufficio dell'Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari competente per territorio. È consentita la commercializzazione dei vini atti a 'Franciacorta riserva vendemmiale' all'interno della zona di vinificazione, mantenendo la denominazione, trascorso il periodo minimo di mesi 12. Pertanto i produttori che non hanno raggiunto il limite massimo di resa di 65 hl/ha o che necessitino, per soddisfare il mercato, di maggiori quantitativi di vino possono acquistare vino 'riserva vendemmiale' da altri produttori”. Zanella, a proposito delle versioni millesimate, non trova che in Franciacorta si abusi dell'indicazione del millesimo in etichetta? “Beh, tenga presente che siamo una territorio vitivinicolo giovane, con appena 50 anni alle spalle di attività
e manca ancora una solida cultura alle spalle, il che può condurre a delle ingenuità sia da parte delle aziende, sia dei produttori; però non mi risulta che vi sia un abuso dell'indicazione del millesimo: in realtà, circa il 70% di Franciacorta sono sans année. Semmai si può dire che vi è la tendenza a proporre dei millesimati in tutte le annate, anche in quelle che non se lo 'meriterebbero'. Ma va pur detto che anche nelle vendemmie generalmente non eclatanti, qualche produttore può aver lavorato particolarmente bene o può essere stato baciato dalla fortuna, perciò è sempre difficile giudicare se Tizio o Caio hanno fatto più o meno bene a millesimare quella specifica annata”. Da alcune nostri recenti indagini sembrerebbe che il Satén soffra di una leggera crisi, a beneficio per esempio di versioni più secche e austere: si ritrova in questa analisi? “Non posso dirlo con certezza, almeno non fino a ottobre, quando entrerà in funzione l'Osservatorio Economico, che ci darà costantemente delle statistiche e dei dati oggettivi; a sensazione, posso dire invece che il Satèn seguita ad andar bene, anche perché, con il nuovo disciplinare, si sono messi dei paletti più stretti e l'eterogeneità di cui soffriva questa tipologia scemerà e si andrà verso una maggior coerenza. Certamente, oggi, con dei consumatori più maturi e smaliziati che in passato, i Franciacorta Pas Dosé ed Extra Brut è possibile stiano guadagnando in termini di gradimento. Quanto al Rosé, seguita il suo positivo trend; semmai è necessario lavorare per renderlo un poco più uniforme”. Come mai nelle ultime modifiche al diArtù n°45
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sciplinare è stato posto un tetto all'impiego del Pinot Bianco, ora utilizzabile nell'uvaggio per un massimo del 50%? “In realtà in Franciacorta il Pinot Bianco è già assai scarso, non andando oltre l'11-12% della superficie vitata. Non avrebbe avuto senso lasciare la possibilità di fare un Franciacorta a base di Pinot Bianco in purezza, per esempio. Però sia chiaro, questa varietà non è la parente povera di Chardonnay e Pinot Bianco; nelle giuste quantità può dare grande finezza allo Chardonnay, talvolta sin troppo grasso. Ha accennato a un comitato tecnico consortile permanente, che lavora a sperimentare nuove soluzione, in vista di un loro possibile recepimento da parte del disciplinare; vi sono novità in vista? “Non posso chiaramente entrare nello specifico, essendo sperimentazioni ufficiose; diciamo che fra le varie cose a cui si sta lavorando, si stanno studiando nuovi vitigni e l'eventualità di mettere delle regole all'impiego del legno per la fermentazione e l'affinamento dei vini base”. A parte gli aspetti strettamente tecnici, avete in mente a livello consortile di investire di più in marketing e comunicazione? “Finora la gran parte degli investimenti li abbiamo destinati all'ufficio tecnico, con l'istituzione per esempio di una sorta di agronomo condotto consortile, incaricato di formare le maestranze delle cantine meno esperte, così da calmierare il divario di know-how fra le aziende più giovani e le veterane. Ora vorremmo mantenere costanti gli investimenti di natura tecnica, ma aumentare quelli destinati al marketing. Per il momento, organizziamo i vari Festival del Franciacorta in alcune fra le località più chic della Penisola, ma la nostra priorità è quella di farci conoscere al CentroSud. Per ora abbiamo un'ottima visibilità – Lombardia a parte - in Piemonte, Emilia e Triveneto, ma non basta. Il rientro di Berlucchi sotto l'ombrello della Franciacorta è senz'altro un fatto positivo per la diffusione della conoscenza della nostra denominazione, oltre che un'operazione che innalzerà le attuali 10 milioni di bottiglie prodotte a 15 milioni, tante
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quante ne produce la sola Guido Berlucchi. Inoltre, con i nuovi vigneti che entreranno in produzione e nella teorica ipotesi che tutto il territorio si convertisse alla bollicine, potremmo arrivare a una produzione complessiva di 19 milioni di bottiglie di Franciacorta Docg”. E per quanto riguarda l'export, come siete messi? “Inutile negarlo: si fa fatica. Stretti come siamo fra Champagne e Prosecco. Vi è però da rilevare un fatto positivo. Mentre sino a qualche anno fa i prezzi medi degli Champagne erano sostanzialmente più elevati di quelli dei Franciacorta, oggi le bollicine transalpine di media fascia hanno un prezzo corrispondente a quelle bresciane di alta gamma, perciò il confronto è assai più diretto: il fatto che, nonostante questo, si riescano a fare dei piccoli passi anche al di fuori del confine nazionale, sta a significare che chi acquista Franciacorta piuttosto che Champagne non lo fa più per risparmiare”. Barone Pizzini: pionieri del bio in Franciacorta Le radici della Barone Pizzini di Corte Franca, località Timoline, di proprietà di un gruppo di imprenditori bresciani, risalgono al 1870. La direzione della cantina è ormai da anni nelle mani accorte di Silvano Brescianini che, nel volgere di un breve lasso di tempo, è riuscito a farne un'azienda modello, esempio di architettura ecocompatibile; prima nel territorio a credere nel biologico e ad aderire ai protocolli imposti da questo tipo di regime agricolo. Non solo: oggi la Barone Pizzini è anche autosufficiente a livello energetico, depura le acque e ricicla i propri scarti. “Perché fare una viticoltura bio? Ma perché crediamo fermamente che rispettare la natura sia l'unico modo per ottenere da essa il miglior risultato possibile”, chiosa lapidario Brescianini. Che prosegue: “Riteniamo che solo utilizzando sostanze naturali per la difesa e il nutrimento delle piante, si possa ottenere un vino che sia espressione autentica del proprio territorio. Il biologico è quindi fattore di alta qualità, ma pure modus operandi che consente l'esaltazione – nel vino –
Storie di famiglie e di enologi, come Mattia Vezzola, che hanno costruito un’immagine che si è consolidata nel tempo. Gli ingredienti del successo: competenza, professionalità, tenacia. È un territorio unico.
del terroir. A questo, si aggiunge l'attenzione che la nostra azienda ha sempre rivolto alla salute delle persone, che lavorano in cantina e in campagna e che bevono i nostri vini”. Se non andiamo errati siete stati i primi a osare una “bollicina biologica”: “Più precisamente siamo stati i primi a produrre un Franciacorta Docg da viticoltura biologica. Alla fine degli anni Novanta abbiamo convertito i 47 ettari di vigna in Franciacorta a questo regime agricolo e oggi, insieme alle nostre tenute nelle Marche e in Toscana, possediamo in totale 90 ettari di vigne biologiche certificate. Nelle Marche siamo da alcuni anni certificati Demeter, che è l'unico ente che certifica l'agricoltura biodinamica”. Brescianini, che difficoltà ha comportato questa vostra scelta? “Tante e di diverso genere! Possiamo suddividerle in due categorie: tecniche e di marketing, ossia di percezione da parte del mercato. Le prime sono connesse alla scarsa letteratura dedicata al biologico, in particolare in tema di viticoltura per la produzione di uve base spumante, e perciò abbiamo dovuto sperimentare sul campo, imparando dai nostri errori. Non solo. L'agricoltura biologica richiede grande preparazione e capacità di osservazione da parte di chi lavora in vigna. La parola
d'ordine è quindi prevenire attraverso sistemi che favoriscono naturalmente la biodiversità in vigna e la vita nel suolo. Una vigna più forte saprà ben resistere ad eventuali patologie. Quanto alle difficoltà di percezione del mercato, il termine 'bio' è associato a prodotti salutistici più che a prodotti conviviali come il vino; perciò abbiamo riscontrato tante perplessità e tanta mancanza di fiducia. Ora però le cose stanno cambiando e il nostro trend di vendita è in crescita”. Bellavista: così nacque il Satèn Azienda che non ha bisogno di presentazioni. Bellavista, fautrice di bollicine memorabili, protagonista assoluta in Franciacorta, si è anche distinta per essere stata la cantina – grazie a un'illuminazione creativa del suo storico enologo Mattia Vezzola – che di fatto ha inventato il Satèn. Mattia, come ti è venuto in mente di creare questo tipo di bollicina, all'epoca inedita in Italia? “Nasce dal desiderio di creare un vino di particolare raffinatezza, dedicato alla femminilità. Mi spiego meglio: molti anni fa – erano gli anni Ottanta - a una cena mi sono reso che i vini più importanti e prestigiosi erano appannaggio degli uomini, quasi solo loro potessero comprenderne appieno lo spessore. Mi è così venuto naturale pensare a un Artù n°45
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Il Bellavista Gran Cuvée Satèn, che non riporta in etichetta il millesimo, lo si produce in quantità limitate ed è frutto di scrupolose selezioni degli Chardonnay dei vigneti di maggiore età, in alta collina ed esposti a Sud. Tutto ciò dona al Satèn di Bellavista sfumature e profumi complessi, morbidi di frutta matura e di fiori di pesco, che si declinano in un vino di particolare grazia e gentilezza. Una delicatezza che nasce anche da una particolarità: l'avere un'atmosfera in meno alle altre bollicine.
Identità, caratterizzazione, territorio: e investimenti continui. È sulla base di questi concetti che il “sistema Franciacorta” ha raggiunto successo e grande credibilità, in Italia e nel mondo.
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vino, un Franciacorta, di grande caratura, ma che al tempo stesso sapesse raccontare e interpretare - attraverso le sue nuances - la femminilità”. Tradotto in pratica, come ti sei mosso per raggiungere il tuo scopo? “Nel pensare un vino di Bellavista – sottolinea Mattia Vezzola - ho sempre in mente un’identità che lo caratterizza: ecco, il Satèn ha un profilo morbido, sinuoso, luminoso, una silhouette forgiata ed esaltata dalle note dello Chardonnay. Così nei primi anni Ottanta pensai a un Satèn e nel 1984 lo realizzai, anche se in quel periodo lo si poteva chiamare ancora Crémant. Quando anni dopo la Francia rivendicò l'esclusiva del nome Crémant, abbiamo voluto cercare un nome che fosse specificatamente legato alla Franciacorta, che nel contempo racchiudesse nel suono la sua caratteristica morbidezza. Dopo diversi studi chiedemmo a un altro prestigioso produttore di Franciacorta di condividere con Vittorio Moretti la scelta del nuovo nome e scegliemmo il nome 'Satèn', denominazione che venne registrata e che successivamente abbiamo voluto donare al Consorzio, affinché tutti i produttori potessero farne uso nel rispetto delle caratteristiche di questa nuova tipologia”.
Berlucchi Guido: ritorno alle origini Inutile presentarla: un'azienda che esattamente mezzo secolo fa si è “inventata” una tipologia abbinata a un territorio, non necessita di preamboli. Vale invece la pena di parlare subito della grande svolta che la Berlucchi ha intrapreso qualche anno fa: ossia il ritorno a produrre Franciacorta Docg. La prima etichetta che ha segnato questo passo fondamentale è stata la Cuvée Storica 2001, uscita a fine 2004, oggi confluita in una nuova linea di prodotti chiamata Cuvée 61. Poi, nel 2009, è uscita una nuova linea di Franciacorta, considerata al vertice della piramide qualitativa, la Palazzo Lana. Infine, quest'anno sono usciti i primi Cellarius “convertiti” alla Docg, la seconda linea subito alle spalle della Palazzo Lana. E non è finita: nei prossimi anni anche la storica Cuvée Imperiale, il diffusissimo spumante “base” di Berlucchi, diverrà Franciacorta Docg. Una rivoluzione, insomma! Cosa vi ha spinto a una svolta strategica così radicale? “Si tratta di un graduale ritorno dovuto a una serie di ragioni fondamentali – ci spiega Arturo Ziliani dopo la decisione che mio padre prese a suo tempo, nell'ormai lontano 1976, di abbandonare l'allora Doc. In primo luogo la Franciacorta è ormai matura, a livello di denominazione, per poter accogliere anche le grandi cantine; i vigneti sono ormai affidabili e maturi, oltre che essere considerevolmente aumentati in estensione negli ultimi venti anni. Noi stessi abbiamo acquisito quell'esperienza che riteniamo necessaria per produrre su così vasta scala dei prodotti Docg;
inoltre, in questi lunghi anni abbiamo seguitato a rafforzare la nostra presenza sul territorio, sia acquisendo vigneti, sia soprattutto garantendoci degli accordi con dei fornitori di fiducia di uve, da noi personalmente seguiti. Oggi, potendo contare su circa 600 nell'aerale della Docg, siamo virtualmente (e finalmente) in grado di convertire tutta la nostra produzione – 5 milioni di bottiglie – a Franciacorta. Gli ettari di proprietà sono 83, di cui 53 ad altissima densità: 10.000 ceppi/ha e 30 a densità medio-alta: 6.200 ceppi/ha. Gli altri, come detto, sono di viticoltori di fiducia, sparsi in tutta la Franciacorta e ripartiti in oltre 1.000 appezzamenti”. Al momento, come è ripartita la produzione sulle varie linee di prodotti? “Produciamo circa 3,7 milioni di bottiglie di
Cuveé Imperiale, oggi ancora Vsq, ma presto Docg; quindi 550.000 bottiglie di Franciacorta Cuvée 61 s.a., fra Brut, Satèn e Brut Rosé; 300.000 unità di Cellarius (millesimati), fra Brut, Brut Rosé e Pas Dosé (che sta 42 mesi sui lieviti); 20.000 bottiglie di Palazzo Lana (ovviamente millesimate), che rappresenta la nostra linea di grande prestigio, derivante dalle nostre vigne ad altissima densità, ripartita fra Brut (5 anni sui lieviti), Satén e il Blancs de noir Brut Extrême”. Fra parentesi, abbiamo avuto modo di assaggiare tutte queste etichette, colpendoci in particolar modo il Cellarius Rosé e Pas Dosé e il Palazzo Lana Brut e Brut Extrême, quest'ultimo davvero di notevole profondità. Buono, ma ancora migliorabile a livello di personalità, il Palazzo Lana Satén.
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Bosio: piccole realtà crescono Cesare Bosio – che conduce con la sorella Laura questa giovane ed emergente cantina di Corte Franca, in località Timoline - è un agronomo che conosce perfettamente il territorio Franciacortino. La sua attività di produttore è un'avventura cominciata una decina di anni fa quasi in sordina, con l'acquisto di vigneti per la piccola azienda agricola di famiglia, che oggi può contare su oltre venti ettari vitati e su una cantina modernamente attrezzata. “Siamo un’azienda familiare che coltiva vite da quattro generazioni – ci racconta Bosio - con la convinzione assoluta che la qualità delle nostre bollicine dipende in primis dal valore dell’uva di partenza: di conseguenza impieghiamo una cura quasi maniacale nella gestione delle
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nostre viti”. Come influenza il territorio sul carattere dei vostri Franciacorta? “Per fortuna ci troviamo nella parte più a Nord del distretto viticolo, quindi freschezza e sapidità sono l’anima dei nostri vini, e questi tratti caratteriali li si riscontrano in tutte le nostre tipologie; in particolare nell'Extra Brut Boschedòr, un Franciacorta millesimato che, grazie alla forza del Pinot Nero e all’eleganza dello Chardonnay, riteniamo essere l'etichetta che meglio rappresenta il nostro stile”. Frutto di un blend paritario di Chardonnay e Pinot Nero, da un vino base fermentato e affinato per 7 mesi in vasche in acciaio termocondizionate a una temperatura particolarmente bassa: 15°C conto i “soliti” 18°C, dopo il tiraggio matura sui lieviti per almeno 30 mesi prima della sboccatura.
Cavalleri, e la sua linea (da) Collezione “Cuore e memoria storica della nostra azienda – tiene subito a sottolineare la fascinosa patronne Giulia Cavalleri - è un locale che noi chiamiamo 'infernotto', sempre sottochiave, climatizzato, nel quale sono archiviate un numero sufficiente di bottiglie di ogni vino da noi prodotto, divise per tipologia e per annata, che ci consentono di effettuare verticali di tutti i nostri vini. Tra tutti questi, l'etichetta che più riteniamo in linea con questa nostra filosofia di creare uno storico di bottiglie è il Franciacorta Brut Collezione Esclusiva Blanc de blancs, sublime nelle annate 1993, '94, '95, '97, '99 e 2001”. A Giulia s’illumina il volto quando parla delle vecchie annate delle sue bollicine, messe da parte con lungimiranza negli anni. “È dal 1983 che proponiamo al mercato piccoli quantitativi delle grandi annate millesimate dei nostri migliori Chardonnay, provenienti dai vigneti meglio esposti e più vecchi, chiamate Collezione dopo 48 mesi di affinamento sur lies. Poi abbiamo cominciato a selezionare piccole partite di bottiglie scelte tra le vendemmie potenzialmente più longeve dei Collezione, prolungando la loro permanenza sui lieviti sino a 6 anni, alle soglie della plenitude”. Scusa? “È dimostrato che l’azione migliorativa degli affinamenti sur lattes non è costante nel tempo. Un primo fon-
damentale salto di qualità lo si ha fra i 6-8 anni di contatto con i lieviti: la 1ª plenitude. Da questo momento in poi tutto si rimette in gioco, alcuni equilibri si rompono per ricomporsi al meglio nella 2ª plenitude, tra i 12-20 anni. Qui la natura del cambiamento è diversa, più evoluta, meno immediata. Esiste infine anche una 3ª plenitude, dopo i 20 anni di affinamento!”. Il mercato ha recepito il senso di questo progetto? “Sì. Ha accolto con grande interesse queste bottiglie, attese con impazienza dagli appassionati e vendute en primeur”. Se abbiamo capito, la Collezione Esclusiva è perciò una “riserva delle riserva”, figlia di una severa selezione di bollicine già in affinamento e, a loro volta, già frutto di una prima cernita: “Proprio così! E non è tutto. A partire del millesimo 1999, che è forse - a oggi - il migliore in assoluto: potente, complesso, profondo al contempo, si è implementata la tecnica del coup de poignet, che ha lo scopo, ogni 6 mesi, di riportare in sospensione il deposito rimettendolo il contatto con il vino. Aggiungo infine che nel corso degli anni abbiamo reso la liqueur sempre più secca: gli 8 g/l di zuccheri iniziali sono stati ridotti a 4. Anche la solforosa è diminuita. Dal 1995 l’affinamento dopo la sboccatura è passato da 3 a 6 mesi. Infine, dal 1999 l’uso del legno è più calibrato”. Artù n°45
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Colline della Stella: terroir in bottiglia Da una chiacchierata con uno dei protagonisti di questa piccola realtà di Gussago, Giovanni Arcari, raccogliamo importanti elementi distintivi di questa interessante cantina. Alla fine degli anni Novanta, un poco più che ventenne, Andrea Arici, coadiuvato dalla famiglia, decide di recuperare alcuni vecchi vigneti terrazzati, abbandonati da anni. Siamo a Gussago, nella parte più orientale della Franciacorta, quasi alle porte di Brescia. Le terrazze, ridotte a poco più che un ammasso di rovi, con gli antichi muri di sostenimento a secco ormai crollati per l’incessante avanzamento del tempo, vengono rimesse a nuovo. Ma la tentazione di provare a imbottigliare del vino ottenuto dalle uve di quelle vigne recuperate è irresistibile, e così Andrea ci prova; dapprima con un vino fermo, poi - con la vendemmia del 2002 - tentando la strada del Franciacorta Docg. Per questa nuova avventura, si avvale della collaborazione dell’enologo e amico Nico Danesi il quale, pur giova-
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nissimo, vanta già congrue esperienze. “La degustazione di quella prima 'base spumante' – ci racconta Arcari - fu entusiasmante: sapidità e mineralità parevano fondersi, una beva ricca di nerbo, elegante e grassa al tempo stesso, si traduceva in una lunghissima persistenza. Tutti e tre entusiasti, decidemmo di 'tirare' le prime bottiglie: 900 unità. Decidemmo allora di creare qualcosa di ancor più importante, comunicandolo. I nostri Franciacorta sono il frutto di un costante confronto appassionato tra noi tre”. E qual è il ruolo di un terroir particolare come il vostro, che si distingue dalla maggior parte degli altri pedoclimi franciacortini? “I vini sono l’espressione di quel nostro pezzo di terra, composto in prevalenza da calcare attivo in grado di essere straordinariamente drenante, capace di donare profonda mineralità e sapidità ai vini. Il nostro progetto di valorizzazione e di salvaguardia delle piccole e preziose realtà vitivinicole – ci spiega Arcari - oggi è sempre più concreto e vede in Andrea l’unico vignaiolo che produce Franciacorta esclusivamente non dosati, capaci perciò, ancor di più, di palesare le caratteristiche di quel terreno lavorato quotidianamente da lui con caparbia convinzione ed entusiasmo, nel pieno rispetto della natura che ancora vive rigogliosa attorno a quelle vigne”. Le vigne di Collina della Stella non sono sulle conformazioni moreniche del lago d'Iseo, ma sulle Prealpi bresciane. I terreni sono estremamente calcarei, poveri di potassio ed eterogenei. Sin dalla prima vendemmia si è compreso di non aver bisogno di zuccheri per dare equilibrio e bevibilità alle bollicine di Andrea Arici, decidendo così di esprimere appieno la propria identità solo con vini non dosati, e ciò a prescindere dalle esigenze del mercato, che 5-10 anni fa non premiava certo questa tipologia di vini. Anche nei vini non millesimati si utilizza una sola annata, senza ricorrere a vini di riserva, e non si fa uso di legno per gli affinamenti delle basi. Infine, si riportano sempre giorno, mese e anno della data di sboccatura.
Villa: cantina storica nata da un sogno imprenditoriale Un’azienda che i lettori di Artù ben conoscono, nata dalle geniali intuizioni di Alessandro Bianchi: una storia che inizia nel 1960, quando l’antico borgo Villa, frazione di Monticelli Brusati, viene trasformato con amore e caparbietà nell’incantevole azienda agricola oggi conosciuta soprattutto per le sue eccellenti bollicine. La cura attenta per ogni dettaglio, il profondo rispetto per la terra ed il ciclo naturale delle stagioni, insieme alla scelta delle migliori tecnologie, hanno consentito a Villa di raggiungere un successo senza precedenti, configurando la cantina come una delle più caratterizzate di tutta la Franciacorta. La figlia di Alessandro, Roberta, con il marito Paolo Pizziol, rappresenta oggi la continuità del pensiero del fondatore, ancora oggi sempre in prima linea nel difendere e sottolineare l’eccellenza delle proprie etichette, tutte connotate da una qualità frutto di una ricerca maniacale della perfezione, bene evidenziata dalla ricca, ma equilibrata collezione: Villa Satén, morbido e di grande finezza; Villa Rosé, bollicine eleganti e dal colore tenue e delicato; la Cuvette, ottenuta dalle uve provenienti dalla conca centrale della collina e Villa Diamant, il pas dosè di grande fragranza e complessità. Una recente degustazione verticale di quest’ultima etichetta ha messo in luce i livelli raggiunti dal pas dosé: sono state
infatti proposte tutte le sette annate di Diamant millesimato (2005, 2004, 2003, 2002, 2001, 2000, 1999) affiancate, in anteprima assoluta, dal 2006. Quest’ultimo (meno di diecimila bottiglie prodotte) ha iniziato la sboccatura proprio nel giugno scorso. “Un’ottima annata, conferma Paolo Pizziol, che mette in luce la grande complessità aromatica di Diamant e ne evidenzia il nerbo e la struttura”. Prodotto da uve chardonnay (85%) e pinot nero (15%), vinificato ed elevato in legno per 1/3 della base, viene affinato sui lieviti per 42 mesi. Faccoli: così ci si ritaglia una nicchia esclusiva La Lorenzo Faccoli & Figli è una piccola cantina di Coccaglio che ha saputo sin dal principio, con grande acume, ritagliarsi una propria nicchia di mercato, proponendo dei Franciacorta quasi esclusivamente Pas Dosé, austeri, di non facile approccio, lungamente affinati e maturi, talvolta anche evoluti. Insomma delle bollicine particolari e stilisticamente esclusive. Come mai una scelta così ardita? “Riteniamo che Brut e Satèn siano bollicine ormai omologate, e che per distinguersi occorre puntare sulle tipologie Extra Brut e Pas Dosè – questo il lapidario Artù n°45
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commento di Claudio Faccoli. Oltretutto è un tipo di scelta che possiamo permetterci: producendo solo 50.000 bottiglie, troviamo sempre una nicchia di mercato interessata al nostro stile così caratterizzato, anche perché sono pochi i produttori che fanno bollicine come le nostre. Inoltre, per noi è stata una strada naturale quella che abbiamo intrapreso, essendo noi stessi i primi a bere Pas Dosé a tavola! Dunque solo Extra Brut e Dosaggio Zero... “In pratica sì, anche se produciamo un po' di Brut e del Rosé, che comunque non superano mai i 6-7 g/l di zuccheri residui. Non vinifichiamo invece il Satèn, davvero troppo lontano dalla nostra filosofia. Certo poi dipende molto anche dall'acidità: nello Champagne si può arrivare anche a 8 g/l e avere un equilibrio meraviglioso, ma non mi spingerei oltre quella soglia. I nostri Extra Brut sono tutti sotto i 3 grammi”. In base ad alcune nostre indagini, parrebbe che le versioni più morbide e soprattutto il Satèn sia un po' in crisi a beneficio proprio di Pas Dosé ed Extra Brut, ti risulta? “In verità penso che la crisi economica degli ultimi anni abbia allontanato i consumatori occasionali di bollicine e fatto diminuire perciò i consumi delle versioni più ruffiane,
mentre chi è abituato a bere vini molto secchi continua a farlo. Ecco che allora, più che essere aumentato il mercato dei Pas Dosé è, in proporzione, diminuito quello del Satèn. Ma comunque il mercato delle bollicine 'morbidone' rimarrà sempre, poiché queste costituiscono una tipologia entry-level”. Parlaci della vostra passione per i lunghi affinamenti sui lieviti. “Amiamo molto le bollicine mature, tanto che a partire dalla vendemmia 1987 abbiamo cominciato ad accantonare una partita di bottiglie da lasciare sui lieviti almeno 10 anni. La prima uscita di questa nostra particolare riserva ha avuto luogo nel 1997 e da quell'anno abbiamo ripetuto l'operazione diverse volte, portando dapprima il numero di bottiglie a 300400 e oggi a 1.200, che destiniamo agli addetti ai lavori, creando anche un po' di attesa, per evitare di inflazionare un prodotto così esclusivo. Tecnicamente si tratta di un Franciacorta Extra Brut, anche se con dosaggi minimi e talvolta addirittura nulli, frutto di 65% di Chardonnay, 30% Pinot Nero e 5% di Pinot Bianco. La presenza di più Chardonnay che Pinot è dovuta al fatto che vogliamo ottenere una bollicina matura, quasi di stile ossidativo (anche per questo la solforosa è ridotta al minimo). Fra l'altro, ci piacerebbe 'giocare' anche con le sboccature, e uscire talvolta con versioni sboccate non di recente, ma non riusciamo ancora a gestire una cosa simile, anche per non indifferenti problemi burocratici”. Gatti Enrico: bollicine artigianali che sfidano gli anni Enrico Gatti di Erbusco è tra le aziende franciacortine più sensibili al tema della longevità; le sue bollicine si fanno apprezzare soprattutto dopo anni di affinamento. Così il co-patron Enzo Balzarini: “La scelta di puntare sul Satèn come etichetta ‘da invecchiamento’ è stata dettata dalla nostra passione per i vini di ‘spessore’. Il primo Satèn commercializzato fu il 1997, che vedeva un 80% di mosto fermentato in legno. Nelle successive annate abbiamo riflettuto sull’evoluzione del vino, ritenendo di ab-
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bassare al 50% la frazione fermentata in legno, sì da ottenere un prodotto longevo, strutturato, ma più elegante. Al contempo abbiamo individuato le vigne più adatte, di 20-30 anni, su suoli profondi, sabbiosi, inclinati, che ci permettono di avere una materia prima qualitativamente costante. Siamo anche riusciti a selezionare un ceppo di lievito che non caratterizza il prodotto finito”. Quali sono le annate migliori disponibili in cantina? “La 1997: priva di eventi atmosferici calamitosi e di attacchi parassitari; la vendemmia fu regolare e asciutta. S’ottennero uve con buona acidità di base e valido grado zuccherino, per un Franciacorta davvero ottimo, fine, intenso di profumi. Quindi la 1998: a inizio sviluppo vi fu un ritardo vegetativo e un estate piovosa. La vendemmia si caratterizzò per basse rese, uve ricche di tartarico e dal buon tenore zuccherino, per una qualità delle bollicine complessivamente buona. La 1999: annata nella norma e soddisfacente, che sfociò in Franciacorta fini e complessi al naso, dal basso pH e dall’ottima gradazione alcolica. La 2000: prima dell’invaiatura vi fu un periodo con poca umidità e basse temperature; poi arrivò un caldo secco, ventilato. Ciò condusse a un ottimo titolo alcolometrico e a buoni valori di acidità; i vini base presentavano buona struttura, profumi ampi e intensi. E la 2001: tra le migliori in assoluto, fu caratterizzata da temperature medie piuttosto basse e precipitazioni consistenti, sino all’allegagione, conducendo a grappoli non troppo serrati. Quindi la stagione cambiò andamento, facendosi più calda e le piogge più scarse, consentendo alle uve una maturazione ottimale. Ne uscirono vini base puliti, ricchi di profumi varietali, molto fini. Ma oggi riteniamo che fra i vini conservati in cantina, la bollicina al suo più interessante stadio evolutivo sia il Brut millesimato 2002”.
in Franciacorta); il quasi sistematico, ma accortissimo impiego del legno per la fermentazione delle basi spumante; la straordinaria longevità delle sue bollicine (ma pure dei suoi vini fermi). Cosa significa in Franciacorta avere una vigna praticamente a corpo unico attorno alla cantina? “I nostri 40 ettari di vigneti, divisi in 16 parcelle, sono molto vicini alla zona di pressatura, le uve arrivano quindi immediatamente in cantina e vengono pressate appena raccolte. E questo è senz'altro un vantaggio – ci spiega Lucia Barzano, patronne de Il Mosnel. Inoltre ciò ci consente di produrre bollicine più riconoscibili e identitarie, diretta espressione del nostro terroir. E poi abbiamo la fortuna di essere contornati da un bellissimo paesaggio verde, composto da vigneti coltivati con grande attenzione, anche al fine di ridurre al minimo l'impatto ambientale. Certamente una simile conformazione della vigna ha pure delle criticità; prima di tutto vi sono più rischi legati al meteo, in particolare dovuti a eventuali grandinate; in secondo luogo le uve hanno una maturazione più omogenea e quindi in vendemmia dobbiamo essere particolarmente celeri”. Come mai, Lucia, credete così fermamente nella fermentazione in legno delle basi? “Siamo da decenni fermi sostenitori della fermentazione in legno, con affinamento di parte o tutto il vino base destinato a Franciacorta docg; ciò perché questo tipo di lavorazione conferisce al vino maggiore longevità, maggiore complessità e quindi equilibrio e completezza. Conseguentemente, chi sceglie le nostre Il Mosnel: vigna, legni e longevità bollicine è un consumatore consapevole, Fra le cantine più belle di Franciacorta, che ama anche pasteggiare con esse e va senz'altro segnalata Il Mosnel, a Ca- non ricerca la semplice freschezza, ma mignone di Passirano. Tre le sue peculia- una poliedrica composizione di sentori, rità: l'avere vigneti pressoché tutti accor- aromi e profumi, per noi tipica espressione pati attorno all'azienda (fatto rarissimo di un Franciacorta”. Artù n°45
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Un'ultima questione. Il segreto della longevità delle vostre bollicine...: “La capacità di virtuosa evoluzione dei nostri Franciacorta è in effetti sempre più apprezzata; sempre più ci vengono richieste vecchie annate, in virtù della loro maggior complessità e capacità di appagamento, soprattutto in abbinamento con il cibo. Causa della durevolezza dei nostri nettari è in primis la giacitura dei nostri vigneti, ma conta molto anche il know-how che abbiamo maturato sulle potenzialità di ogni nostra singola parcella di vigna, in base all’età dell’impianto, con conseguenti, rigorose scelte produttive, tese alla valorizzazione della materia prima. Se volessi identificare una nostra bollicina capace di sintetizzare questi aspetti di cui abbiamo parlato e dunque lo stile della Casa, mi verrebbe da citare il Brut Millesimato 2001, la cui versione attualmente in commercio si chiama Franciacorta Pas Dosé Riserva 2004 QdE”.
generazioni che i Biatta operano nel settore vinicolo, dapprima come distributori, poi come produttori. Tra i fattori distintivi de Le Marchesine, in primo luogo va ricordato che la scelta di produrre in Franciacorta non è scaturita da una decisione imprenditoriale, ma dal fortissimo legame con il territorio e l’attaccamento della famiglia alle proprie origini. Produrre un buon vino implica la scelta di ottime uve, un processo produttivo accuratissimo e attento alle innovazioni, ma sicuramente non può fermarsi solo agli aspetti tecnici. In seconda battuta, obiettivo de Le Marchesine è produrre un vino facile da bere, fresco, piacevole, che degustandolo, invogli subito a un secondo calice. Dai tre ettari iniziali, l’azienda si è estesa fino a raggiungere gli attuali 47 ettari di vigneto, e dalle 40,000 bottiglie prodotte nel 2000 si è arrivati nel 2011 a una produzione di 500.000 bottiglie, un tasso di crescita invidiabile. Ma d'altra Le Marchesine: passione e bevibilità parte il lungo legame della famiglia Le Marchesine di Passirano è oggi una Biatta col mondo del vino ha permesso realtà dinamica e innovativa della Fran- loro di conoscere a fondo il mercato e ciacorta, pur conservando il suo carat- interpretare il gusto del pubblico. Il briltere di azienda familiare. Nel 1985 lante risultato in termini qualitativi e Giovanni Biatta, discendente da una commerciali è sicuramente ascrivibile a famiglia di antiche origini bresciane, scelte produttive, ma in larga parte acquistò i primi tre ettari di vigna in anche alla passione di Loris Biatta, Franciacorta; ma è da almeno cinque attuale titolare dell’azienda, che segue la cantina con i figli Alice e Andrea, sotto l’esperta guida del padre, Giovanni. La ricerca costante dell’eccellenza è testimoniata anche dal rapporto ultradecennale con l’Istituto Enologico di Champagne, di cui è membro l’enologo de Le Marchesine, Jean Pierre Valade. Punta di diamante dell'azienda è il Brut Secolo Novo, un millesimato prodotto solo nelle migliori annate, come la 2002 e la 2005, frutto di un vino base ottenuto con il solo supporto dei lieviti indigeni. Monte Rossa: Cabochon, tra le prime icone di Franciacorta La cantina sorge sulla collina di Bornato e le modernissime cantine si trovano accanto alla bella dimora seicentesca della famiglia Rabotti. Fondata da Paolo Rabotti negli anni Settanta, quindi rientrante nelle maison franciacortine di
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prima generazione, oggi è diretta con talentuoso piglio dal figlio Emanuele. Settanta sono gli ettari vitati, tra quelli in proprietà e quelli in affitto (ma sotto diretto controllo dell'azienda), per una produzione di circa 500.000 bottiglie, ormai solo Franciacorta Docg. Il Brut Cabochon è tra le prime etichette-icona nate in Franciacorta. Come è nata l'idea di progettare una bollicina così importante? “Innanzitutto l'etichetta si è fatta conoscere nel tempo e 'sul campo', non è che è diventata un simbolo 'a tavolino' – così ci risponde con franchezza Emanuele Rabotti. Già nel 1983 pensammo a un millesimato importante; nel 1987 la prima annata ufficiale, commercializzata nel 1992. L'esigenza di fondo era quella di creare un prodotto altamente qualitativo, come punto di riferimento ideale di tutta la nostra produzione. E difatti le esperienze che abbiamo accumulato con il Cabochon, negli anni divenuto uno fra i 5 millesimati più importanti della Penisola, le abbiamo poi riversate su tutta la nostra gamma, che ha beneficiato di un grande salto qualitativo. Per noi è soprattutto importante non deludere con nessuna delle nostre etichette, anche perché in fondo ci consideriamo degli artigiani. Il fatto poi che il Cabochon sia un millesimato, ci consente di fare maggior sperimentazioni, se non lo riteniamo opportuno può anche non uscire: il nostro è davvero un millesimato. Frutto di un blend di Chardonnay (70%) e Pinot Nero (30%), il vino base fermenta in legni usati, ma poi lo si toglie subito dai fusti; la malolattica si cerca di evitarla, per avere un'acidità più vivace e nitida e capace di meglio esaltare i profumi. La permanenza sui lieviti varia da 40 a 48 mesi in funzione dell'annata, mentre il residuo zuccherino si attesta fra i 6 e gli 8 g/l: superare questo dosaggio – e ciò vale anche per tutte le altre nostre etichette – equivale per noi a coprire la personalità di una bollicina:
la morbidezza deve essere naturale, non dettata dallo zucchero. Le nostre liqueur si basano tutte su nostri vini di riserva. Una parola sui nostri sans année. Come il Cabochon è realmente un millesimato, anche i s.a. sono davvero tali, nel senso che per garantire una continuità di stile, impieghiamo circa ⅔ di vino dell'annata e ⅓ di annate precedenti”. Intanto noi abbiamo avuto modo di degustare in cantina tre annate a confronto di Cabochon: 2005, '04, '00. La prima, di grande complessità fruttata e speziata, ha un futuro radioso
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precisa fisionomia e riconoscibilità. Falcetti ha reimpostato lo stile di Quadra, alla volta di una maggior “leggerezza” dei prodotti, nati un po' troppo barocchi e vinosi, carenti di quel brio e di quella freschezza che distingue i migliori Franciacorta da quelli “normali”. Punto di partenza del processo di rinnovamento è stata una più attenta mappatura delle Quadra: fra nitore stilistico vigne (Falcetti prima che enologo e e intriganti “eresie” Fondata solo nel 2003, quindi giovanis- prima che uomo di marketing è un agrosima, dall'imprenditore Ugo Ghezzi, pur nomo): 42 ettari variamente allocati nel se il progetto – a livello di impianti distretto spumantistico più celebre della viticoli - era già stato avviato negli anni Penisola, al fine di capire come impiegare Novanta, ha vissuto i primissimi anni le uve delle diverse parcelle nelle diverse della sua ancora breve esistenza alla ri- cuvée alla base delle tipologie prodotte cerca di una propria dimensione stilistica, da Quadra. Per esempio, si sono identiobiettivo che lo sta raggiungendo ora, ficate le vigne più vecchie e promettenti dopo che nel 2008 è approdato alla per la produzione del Brut Millesimato, guida tecnico-commerciale della cantina del Rosé, in parte del Satén e del futuro l'ormai veterano – per la Franciacorta – Dosaggio Zero ancora in cantiere. Detto Mario Falcetti. Il quale ha dato una questo, è stato alleggerito l'impiego del svolta decisa e decisiva all'impostazione legno, impiegato per le fermentazioni delle bollicine della Casa di Cologne, solo se indispensabile; è stata privata che oggi cominciano ad avere una loro la liqueur d'ogni sorta d'invasività: solo
davanti a sé; assai intrigante anche la 2004, se possibile ancora più ricca di richiami ed eteree naunces e, se possibile, con un avvenire ancor più durevole della precedente. La 2001, perfetta ora, ma con ancora margini di crescita, è un monumento alla Franciacorta.
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vino e zuccheri. E a proposito di zuccheri, sempre per esaltare l'anima delle bollicine, sono stati ridotti nettamente: in pratica nessun Franciacorta Quadra ha più di 6 g/l di zuccheri, anche se per scelta commerciale si è preferito mantenere la menzione Brut e non Extra Brut. Infine, si utilizza solo la prima frazione del mosto per la produzione dei Franciacorta. Il maggior lavoro compiuto da Falcetti è stato ed è tuttora sul Satén, cavallo di battaglia del “nostro”, alla volta di una maggior pulizia, eleganza e armonia, che sono poi le caratteristiche che dovrebbero contraddistinguere i migliori vini di questa tipologia. Anche sul Rosé si sta lavorando molto: 80% Pinot Nero in rosa e saldo di Chardonnay, lo si sta rendendo un po' meno vinoso, meno carico di colore, più asciutto, con interventi in cantina assolutamente non invasivi e con una drastico riduzione della solforosa. Molto presto tutti questi cambiamenti di rotta saranno direttamente sperimentabili nel calice, dal momento che da quest'anno cominceranno a uscire le nuove produzioni interamente progettate da Mario Falcetti.
a mano, effettuiamo una concimazione triennale con concime naturale (letame); i trattamenti vengono distribuiti il minor numero di volte possibile e con prodotti idonei alla salvaguardia e al rispetto dell’ambiente; confidando naturalmente nella clemenza del clima. Anche in cantina cerchiamo di non essere invasivi. La vinificazione avviene in contenitori di acciaio inox termocondizionati, in barriques, e da qualche anno anche in tini di rovere troncoconici da 30 ettolitri. La permanenza sui lieviti dipende ovviamente dalle tipologia, può essere di 30, 60 o 72 mesi, a cui seguono altri 6-12 mesi di maturazione in cantina dopo la sboccatura, prima di passare alla commercializzazione. Tempi biblici, insomma, che richiedono pazienza!” Francesca, sappiamo che i vostri Franciacorta sono noti per la loro potenza e struttura; come mai questa scelta difficile, anche da un punto di vista commerciale? “Questa impostazione è nata perché, dopo varie prove, abbiamo constatato che è questo lo stile che più esprime il carattere del nostro terroir; uno stile che oltretutto piace a noi, ai nostri
Uberti: tutta la potenza del Franciacorta Eredi di una dinastia di viticoltori in Erbusco sin dal lontano 1793, gli Uberti tornano alle loro origini di vignaioli nel 1980, con l'acquisizione di una cantina a Erbusco. La Franciacorta, all’epoca, non era ancora diventata la zona vinicola oggi celebrata per le sue bollicine e a quei tempi la cantina poteva contare su soli 9 ettari vitati. Nel corso degli anni la cantina è stata ampliata e ammodernata, in modo da avere dei locali ben distinti per ogni tipo di lavorazione: pigiatura, vinificazione, conservazione, invecchiamento, affinamento, spumantizzazione. E gli ettari vitati sono diventati 26, per una produzione di circa 180.000 bottiglie. Ma è soprattutto per come gestiscono il vigneto, che si distinguono gli Uberti. “Le nostre vigne – ci spiega Francesca Uberti - sono molto ben esposte, su terreni drenanti e sassosi; non usiamo né diserbanti né concimi chimici, lavoriamo l’interfila con attrezzi meccanici e Artù n°45
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clienti ed è in linea con le caratteristiche che dovrebbero avere i grandi vini. Stabilito che il vino da noi prodotto debba evidenziare e rispecchiare le caratteristiche delle nostre terre. Le nostre etichette di punta, che potremmo sintetizzare nel Sublimis, nel Comarì del Salem e nel Magnificentia, si distinguono tra loro perché ognuna la si ottiene da uve provenienti da appezzamenti diversi e ben distinti e da una permanenza sui lieviti variabile dai 36 mesi del Magnificentia ai 60-72 mesi del Sublimis. Ma tutte sono accomunate da concentrazione, potenza, sostanza e longevità”. Giuseppe Vezzoli: la sirena della passione Giuseppe Vezzoli alcuni anni fa decise di cambiar vita e, lasciata la sua attività, si dedicò alla piccola vigna del padre At-
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tilio, cinque ettari, dando vita negli anni a un'azienda che può contare ormai su circa 70 ettari, di cui 3 di proprietà e gli altri in affitto, ma con impianti progettati dallo stesso Vezzoli, per una produzione annua di circa 200.000 bottiglie divise fra le varie tipologie di Franciacorta. “Mio papà e mio nonno – ci racconta Giuseppe - hanno sempre prodotto vino per il consumo locale: probabilmente da loro ho ereditato la mia innata passione per la terra e per la vigna. Ma ho iniziato l’attività di produttore in Franciacorta solo nei primi anni Novanta. In particolare, dal 1994 al 2001 ho prodotto bollicine e alcuni rossi, ma solo come attività part-time, questo perché lavoravo in un’industria meccanica come responsabile di produzione e qualità. Quando, nel 2001, ho salutato per sempre il mio titolare, mi sono dedicato a tempo pieno all'attività di vigneron, portandomi appresso un bagaglio di esperienze maturato in 27 anni di attività industriale, conoscenze che mi sono servite in ambito agricolo in tema di scelta dei materiali, packaging, ma soprattutto in chiave organizzativa. Nell’attività mi seguono i miei figli: Dario per la parte agronomica e Jessica per la parte amministrativa e commerciale, mentre mia moglie si occupa della logistica e spedizioni. Al primo posto della nostra filosofia aziendale c’è il vigneto, con una cura maniacale del medesimo in quanto consapevoli che solo da quello si può ottenere qualità; in seconda battuta viene la cantina, dotata della tecnologia necessaria a mantenere integra la qualità dell'uva raccolta”. Qual è l'etichetta che vi rappresenta maggiormente? “Direi, il Franciacorta Docg Nefertiti Dizeta Extra Brut. Si tratta di uno Chardonnay in purezza, da uve raccolte a maturazione ottimale, vinificate totalmente in barriques e ivi fatte maturare per 8 mesi. A maggio effettuiamo il tiraggio, quindi lasciamo le bollicine sui lieviti per circa 40 mesi. Al momento della sboccatura non aggiungiamo sciroppo di dosaggio (Dizeta sta a significare Dosage Zero), così da preservare tutte le caratteristiche originarie del vino di partenza”.
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Four Seasons Sauternes a Firenze
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di Alberto P. Schieppati Il Four Seasons di Firenze, diretto da Patrizio Cipollini, è stato teatro di un evento enogastronomico senza uguali, dedicato alle migliori etichette del più celebre vino al mondo. Così, da un’idea del giornalista Enzo Vizzari, si è potuto degustare il meglio di questi grandi vini liquorosi, presentati e raccontati dai loro stessi produttori. La manifestazione è culminata in una memorabile cena, preparata dallo chef Vito Mollica, che ha consentito straordinari abbinamenti. “Ci volevano i Sauternes per portarla a Firenze!” mi dice un giovane cronista: certamente il grande vino intaccato dalla botrytis cinerea è un bel richiamo. E poi, capitare al Four Seasons di Firenze una domenica mattina di primavera, è esperienza di alta godibilità gastronomica, oltre che estetica: il “brunch” predisposto dalla brigata di cucina, guidata da Vito Mollica, è ricchissimo e pieno di sorprese, che vanno dai ricercati prodotti della salumeria locale, a formaggi, dolci, straordinari primi piatti, in un crescendo di proposte più creative da degustare, se si vuole, nella grande cucina professionale, a fianco dei giovani cuochi. Per i bambini, che possono correre e giocare nell’immenso giardino del Palazzo della Gherardesca (oltre 4 ettari e mezzo, il più grande spazio verde privato della città toscana), è una grande festa, avvalorata Artù n°45
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Nella pagina precedente un vassoio di formaggi scelti dallo chef Vito Mollica, tra cui il Blu di pecora di Corzano e Paterno. In queste pagine alcuni piatti serviti durante l’evento, come i cavatelli con carbonara di astice, la quaglia farcita alle albicocche secche con foie gras d’anatra scottato e crema di pastinaca e la crema di pollo di Bresse con Royale di fegatini e tartufo nero.
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dalla bontà delle portate e dalle sfiziosità che vengono servite in continuazione. È qui, nel cuore di Firenze, in questo luogo straordinario dove ti sembra essere dentro un altro mondo, che Patrizio Cipollini (general manager della struttura, già direttore del Four Seasons di Milano di cui curò l’apertura nel 1993) ha fortemente voluto sposare l’idea di Enzo Vizzari, una sorta di sogno reso possibile dall’impegno e dalla volontà: riunire in questo luogo prezioso i produttori di ventisei “crus classées” che hanno proposto dodici etichette (di differenti annate) dei più
ricercati Sauternes e Barsac, accontentando un pubblico di enoappassionati, desiderosi di coglierne, in un evento unico, gusto, caratteristiche e storia. Coordinato –per quanto riguarda i rapporti con la stampa e la tv- da Giannino Mercatali, che ha curato egregiamente nei dettagli gli aspetti legati alla comunicazione, l’evento ha richiamato un folto pubblico, che non si è lasciato scappare l’occasione di degustare i celebri Sauternes in un contesto da favola. Nel sontuoso cortile del XV secolo, lobby dell’albergo, i produttori hanno servito, spiegato e raccontato le carat-
teristiche dei loro prodotti: la degustazione ha visto protagonisti, fra gli altri, il mitico Chateau d’Yquem 1998, una vera potenza di concentrazione, pari alla sua fama e celebrità, Chateau Guiraud (prorompente il 2007, nella sua freschezza e pulizia aromatica), Chateau Filhot 2008, 2003 e 1998, quest’ultimo perfetto per struttura e consistenza, Chateau de Myrat, il sui Barsac 2007 ha dimostrato grande eleganza e notevole struttura. Ogni etichetta, per la verità, ha stupito per la caratterizzazione di ogni singolo prodotto: Chateau Climens, Chateau Doisy-Daene, Chateau Doisy-Vedrines, Chateau Nairac, Chateau La Tour Blanche, Clos Haut-Peyraguey (incredibile l’armonia del millesimo 2006, equilibrio senza alcuna stucchevolezza), Chateau Suduiraut, Chateau Rieussec (interessante il 2003) si sono succeduti in una degustazione durata un intero pomeriggio. Ma, come è nello stile di Patrizio Cipollini, che già a
Milano aveva dimostrato il suo amore per l’eccellenza, la grande giornata ha avuto sviluppi degni delle migliori aspettative: la degustazione, infatti, non sarebbe stata completa senza il suo degno coronamento gourmet. Ed è qui che entra in scena Vito Mollica, l’executive chef del Palagio (il ristorante principale del Four Seasons), un cuoco la cui impronta personale ha caratterizzato notevolmente la cucina della struttura e che, per l’evento Sauternes e Barsac, ha allestito un menù memora-
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bile. “È un grande onore per me poter abbinare ai miei piatti i vini più grandi del mondo”, ci ha detto Mollica. La cena per i duecento ospiti è stata appunto concepita, grazie alla passione e alla tecnica dello chef, con l’obiettivo (perfettamente raggiunto) di creare una –non facilearmonia fra i vini in degustazione e le portate, servite nella suggestiva sala dell’ex chiesa del Conventino, con il soffitto a volta a crociera e pareti affrescate. Dopo un aperitivo di benvenuto, abbinato a bollicine francesi (la Cuvée Brut di Bruno Paillard), Mollica ha esordito con uno scampo al vapore con ricotta tiepida, arancia candita e grassetti di Cinta Senese, seguiti da crema di pollo di bresse con royale di fegatini e tartufo nero, cavatelli con carbonara di astice, quaglia farcita alle albicocche secche con foie gras d’anatra e crema di pastinaca, blu di pecora di Corzano e Paterno (la fattoria di san Casciano Val di Pesa, della famiglia svizzera Gelpke, che produce ottimi formaggi), zuccotto al mascarpone con zabaione alle La memorabile cena preparata dallo chef Vito Mollica ha avuto come degno accompagnamento grandi etichette di Sauternes e Barsac. In questa pagina: scampo al vapore con ricotta tiepida, arancia candita e grassetti di Cinta senese.
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nocciole. Un menù ricco e impegnativo, in linea con la filosofia culinaria di Mollica: “Il valore di ogni piatto è nella qualità degli ingredienti”, sottolinea Vito. “Se sono preparati con cura, lo si sente dai sapori… Più gli ingredienti sono preparati con semplicità e più rilasciano sapore autentico”. E, se lo stile di Vito Mollica viene dal cuore, possiamo confermare che questa cena ha colto nel segno, aggiungendo alla qualità delle preparazioni l’opportunità di abbinamenti complessi, ma sostanzialmente azzeccati. A giudicare dalla soddisfazione dei commensali, che si sono trovati in tavola una parata di Sauternes di diverse annate, il marriage cibo-vino è perfettamente riuscito.
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Sapori Ticino un grande evento
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di Alberto P. Schieppati Giunto alla sua quinta edizione, San Pellegrino Sapori Ticino (www.sanpellegrinosaporiticino.ch), l’evento creato da Dany Stauffacher, si conferma come una vetrina-gourmet di incontri e degustazioni, con protagonisti i più celebri ed affermati chef svizzeri, riuniti in una “kermesse del gusto” internazionale che ogni anno si arricchisce di nuove suggestioni. Importante la presenza di aziende del settore, partner attive dell’evento. E bravo Dany Stauffacher, deus ex machina di questo fantasmagorico evento gourmet: con il suo coraggio e il suo spirito imprenditoriale ha organizzatoper il quinto anno consecutivo- una serie di cene/incontri memorabili, che hanno saputo coinvolgere il gotha della
ristorazione d’autore del Canton Ticino, creando momenti di eccellenza gourmet di notevole impatto. La forza di San Pellegrino Sapori Ticino è storicamente proprio quella di sapersi aprire al respiro internazionale, proponendosi in modo geniale come “il” luogo di incontro, confronto e dibattito fra i migliori professionisti della ristorazione europea e internazionale. Un modo raffinato per valorizzare le professionalità e le competenze di grandi chef, impegnati al massimo sul fronte del rispetto delle materie prime, della creatività e del gusto. E un’occasione straordinaria per gustare piatti d’autore unici e spesso indimenticabili. In questo senso, il Canton Ticino, un prezioso lembo di territorio attaccato all’Italia (di cui certamente sente gli influssi culinari e gastronomici), ma fortemente connotato per essere la culla della buona gastronomia elvetica, si conferma come punto di riferimento privilegiato per i gourmet di mezzo mondo. Non a caso, tra aprile e maggio scorsi, alcuni fra i più prestigiosi ristoranti di Lugano e Ascona sono stati teatro di eccezionali esperienze gourmet, che hanno offerto l’opportunità di capire lo “stato dell’arte” dell’alta ristorazione europea, e non solo. Gli chef ticinesi “padroni di casa”, giovani professionisti che da tempo sono orgogliosamente sotto i riflettori della critica, hanno ospitato -creando un vero e proprio mosaico di incontri, cene, momenti conviviali- una selezione di membri delle “Grandes Table de Suisse”: André Jaeger, Tommy Byrne, Gilles Dupont, Franz Wiget, Denis Martin, Rico Zandonella, Markus Neff, PierreAndré Ayer. Celebri ed affermati chef che hanno proposto le loro specialità, creando delle vere e proprie opere di arte culinaria. Dopo l’edizione 2010, che ha visto l’assidua collaborazione fra chef ticinesi e “lady chef” stellate del resto d’Europa (che hanno proposto menù gourmet a più mani, all’insegna di gusto e leggerezza), Sapori Ticino 2011 ha voluto sottolineare i livelli qualitativi raggiunti dalla ristorazione elvetica, declinata in tutte le sue ricche Artù n°45
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e segmentate varianti territoriali. La cucina elvetica, sulla quale spesso non si riflette a sufficienza, è in realtà una costante e sapiente esaltazione dei prodotti del territorio e della loro stagionalità: Sapori Ticino, in questo senso, è una palestra privilegiata per chi voglia esercitare il proprio gusto e allenarlo alla comprensione di piatti raffinati e molto diversi fra loro. Ma l’evento creato da Dany Stauffacher è anche l’occasione, per centinaia di appassionati, di poter provare i piatti degli chef preferiti, proposti all’interno di menù che difficilmente potranno essere gustati in altra occasione. Sette i grandi chef ticinesi che, come si diceva, hanno ospitato i colleghi provenienti da tutta la Svizzera: nomi di assoluta garanzia, le cui linee di cucina rappresentano -per i gourmet più esperti- il massimo della gioia culinaria. I loro nomi: Rolf Krapf del ristorante Eden Roc di Ascona, 16 punti della guida francese Gault & Millau, una sorta di bibbia per gli intenditori; Dario Ranza del Ristorante Principe Leopoldo di Lugano, 16 punti Gault & Millau; Gian Luca Bos del ristorante Conca Bella di Vacillo, una stella Michelin; Ivo Adam, del ristorante Seven di Ascona, una
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stella Michelin; Luigi Lafranco del Parkhotel Delta di Ascona, 15 punti Gault & Millau, Alessio Rossi dell’Hotel Splendid Royal di Lugano. Altrettanto prestigiosi i nomi degli chef ospiti, già citati sopra, provenienti dalla Svizzera interna per cucinare i loro grandi piatti e proporli nel gioioso e caldo Canton Ticino. I cuochi ospiti dell’edizione 2011 fanno parte delle Grandes Tables de Suisse, l’associazione che raggruppa il meglio della ristorazione elvetica: André Jaeger del Fischerzunft di Sciaffusa (19 punti Gault & Millau, una stella Michelin), Gilles Dupont e Tommy Byrne del Lyon d’Or di Cologny, vicino a Ginevra (16 Gault & Millau, una stella Michelin). Franz Wiget dell’Adelboden di Steinen, nella Svizzera tedesca (18 punti Gault & Millau e due stelle Michelin), Denis Martin, di Vevey (18 punti su Gault & Millau, due stelle Michelin), Markus Neff del Fletschorn di Saas Fee (18 punti Gault & Millau, una stella Michelin), Pierre-André Ayer de Le Pérolles di Friburgo (17 punti Gault & Millau, una stella Michelin). Last but not least citiamo Rico Zandonella, del ristorante Rico’s Kunststuben (due stelle Michelin, 19 Gault & Millau) di Kuesnacht, vicino a Zurigo, un vertice
Sapori Ticino si riconferma l’evento gastronomico dell’anno. In queste pagine i protagonisti delle serate, gli chef ticinesi, e i loro ospiti provenienti da tutta la Svizzera.
che ha letteralmente stupito gli ospiti con il suo menù proposto al Santabbondio di Martin Dalsass (che si accinge a lasciare Sorengo per St. Moritz, nella bella location che fu di Johri’s Talvo). Interessante anche l’apporto dato alla manifestazione da quattro ristoratori, che hanno messo chef e brigate a disposizione per i pranzi di mezzogiorno: Alessandro Fumagalli del Villa Saroli, Stefan Novaczyk del Seven Easy di Ascona, Lorenzo Albrici della Locanda Orico di Bellinzona (una stella Michelin), Silvio Galizzi del Portone di Lugano. Impossibile descrivere nei dettagli la qualità delle esperienze gastronomiche che, sommate l’una all’altra, hanno reso Sapori Ticino in un evento che ha fatto registrare il “tutto esaurito”, grazie anche all’interesse suscitato nel nostro paese e alla conseguente presenza di molti gourmet italiani all’evento. Aggiungeremo soltanto che Sapori Ticino, in virtù delle emozioni che sa suscitare (e del numero di gourmet che, con la propria presenza, garantisce il successo della manife-
stazione) ha creato un parterre di aziende che sostengono l’iniziativa e che colgono l’occasione ghiotta per promuovere i propri prodotti. Basti pensare a nomi che vanno da San Pellegrino e Acqua Panna fino a Nespresso, Nestlé Professional, Mercedes, Garage Winteler, Diners, Kai, Alias, Hugo DubnoCrédit Suisse, Davidoff, Riso Gallo, Rapelli, Ticinowine, Vinattieri Ticinesi e Castello Luigi. Distributore di Bellavista e delle bollicine di Terra Moretti. Per restare in Italia, segnaleremo le cantine Querciabella, Terlano, Passo Pisciaro, Argiolas, Pio Cesare, Capannelle, Hofstatter, Maculan, Russiz Superiore, San Paolo e Altesino. Nomi ai quali vanno aggiunti i partner istituzionali come Ticino Turismo, Mendrisiotto Turismo, Maggiore Turismo, Lugano Turismo e gli altri media partner che garantiscono copertura giornalistica all’evento. Per l’edizione 2012, il vulcanico Dany Stauffacher sta già pensando a un coinvolgimento nella manifestazione di grandi nomi della ristorazione gourmet europea: professionisti il cui valore e carisma avrebbero, nello splendido Ticino, ulteriore e doverosa visibilità.
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di Elio Ghisalberti Lo chef svizzero, figlio di madre bergamasca, è allievo del grande Girardet da cui nel 1996 ereditò arte e professione. L’altezza della sua cucina è garantita da una genialità senza pari, oltre che da una brigata di 25 persone. Le stelle Michelin sono tre ma, secondo alcuni, non bastano ad esaltare compiutamente una cucina realmente straordinaria, perfetta per precisione delle cotture e scelta degli ingredienti. Poche parole in italiano, qualcuna in più in bergamasco. Così si esprime nell’intercalare Philippe Rochat, il più famoso cuoco svizzero, per un’infinità di anni l’unico 3 stelle Michelin elvetico all’Hotel de Ville di Crissier nei pressi di Losanna. L’insegna, resa famosa da Fredy Girardet a partire dalla fine degli anni Sessanta, tanto da diventare uno dei templi della ristorazione europea (Girardet è stato eletto tra i migliori cuochi del secolo), è passata nella mani di Philippe Rochat nel 1996, allorquando il grande maestro, raggiunti i 60 anni d’età, ha deciso di cedere il passo al suo fidato delfino, ormai in
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grado di camminare (eccome) con le proprie gambe. Ebbene, dicevamo, perché Rochat conosce il nostro dialetto? Perchè la mamma, prematuramente scomparsa per una malattia incurabile a soli 35 anni quando il piccolo Philippe ne compiva 9, era originaria di Capizzone, all’imbocco della Valle Imagna. Angelina Locatelli, si chiamava, ed in Svizzera c’era andata, come tanti, alla ricerca di un lavoro - a “chercher un gagne-pain” secondo quanto lo stesso Philippe ha scritto in prefazione del suo libro di ricette più noto edito nel 2003 - trovando poi anche marito, il ferroviere Andrè Rochat. Cresciuto tra “chemin de fer” ed orologeria, la più diffusa industria della zona per la quale anche mamma lavorava, il giovane Philippe ha finito per scegliere un’altra strada, quella della scuola alberghiera. Finiti gli studi, nell’estate del 1968, la prima occupazione presso della famiglia di un compagno di classe. Quindi per aprire gli orizzonti i grandi ristoranti d’albergo, a Friburgo, a Zurigo, nel Beaujolais. Qui sente parlare per la prima volta di Bocuse e di Troigros. E si innamora di quello stile che avrebbe preso il nome di nouvelle cuisine. Rientrato a Zurigo, un solo pen-
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siero lo accompagna: riuscire a proporre una cucina che avesse quelle caratteristiche. Dove la si poteva apprendere? Due nomi circolavano con insistenza: Haeberlin ed un certo Fredy Girardet, di cui si dicevano meraviglie all’Hotel de la Ville di Crissier, piccolo villaggio sul lago Lemano poco distante dalla casa dove Philippe era nato e cresciuto. La prima visita, una folgorazione: “quella cucina era ancora più leggera di quella di Bocuse, di grande raffinatezza, tecnicamente mostruosa ad esaltare la qualità eccezionale delle materie prime, il tutto al servizio del gusto”. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, sulla soglia dei trent’anni, nel luglio del 1980, Philippe Rochat entra nella squadra di Girardet, inizialmente con il ruolo di pasticciere. Negli anni successivi gli vengono affidati ruoli sempre più importanti fino a diventare, e siamo alla fine degli anni Ottanta, l’alter ego operativo del maestro, responsabile assoluto di una brigata che allora come oggi si compone di circa 25 cuochi. Straordinario, vederla muoversi in cucina con una precisione cadenzata dalle comande che lo stesso Rochat legge ad alta voce stando al pass, dove controlla personalmente ogni piatto prima che venga portato in tavola. Tutto funziona, non casualmente, come un orologio svizzero. Lo abbiamo appurato mangiando alcuni giorni fa al tavolo riservato agli amici direttamente in cucina. I piatti? “Encroyable”, usando un termine che ritorna spesso nel suo intercalare. Incredibili, “mostruosi” per raffinatezza, eleganza, finezza, impressionanti per la precisione delle cotture e la perfezione delle salse. E la leggerezza, pure, anche nei piatti che prevedono la presenza del foie gras e del tartufo nero, due componenti che insieme alle capesante (meravigliose con la riduzione di rosè millesimato Dom Perignon), gli scampi (eccezionali con la salsa al curry e brodo vegetale) e l’agnello da latte che arriva dai Pirenei (delicatissimo e servito con purè ai tartufi da sballo). Monumentale il carrello dei formaggi che abbiamo avuto il piacere di arricchire con uno Strachitunt, che ha convinto Rochat a ritornare presto a far visita ai
luoghi dove ha trascorso l’infanzia e da cui derivano alcune ricette, come quella della polenta alla bergamasca e del minestrone della nonna, che ha riportato nel suo libro, che ha fatto il giro del mondo. Un difetto? Impossibile da trovare se non appellandosi all’emozione che solo può derivare da piatti che alleandosi con il territorio interpretano lo spirito del luogo. Non potendo derivare da ciò che i dintorni offrono in termini di storia gastronomica, all’Hotel de Ville di Crissier il protagonista assoluto, l’interprete di quello spirito, è Philippe Rochat, mezzo bergamasco e, come lui stesso afferma, “d’animo più italiano che svizzero”.
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Così Oscar Farinetti ha sedotto i GENOVESI
Nel cuore pulsante di Genova, Eataly apre l’undicesimo punto vendita: un luogo di eccellenze gastronomiche italiane, diventato un riferimento indiscusso per la clientela gourmet grazie alla gestione decisamente imprenditoriale di Farinetti, orientata ai sani concetti del marketing.
di Luisa Contri Piero Alciati, figlio dei mitici Guido e Licia (di Costigliole d’Asti) è il responsabile della ristorazione di Eataly, arrivato all’undicesima apertura. Per conquistare i genovesi, dice Alciati, “abbiamo puntato su un’offerta tipica centrata sul regionale”. D’altra parte, l’idea del guru di Eataly, Oscar Farinetti, punta proprio sulla valorizzazione dei prodotti tipici. Il 25 aprile scorso ha aperto i battenti a Genova, al terzo e ultimo piano del Palazzo Millo, nel cuore pulsante del Porto Antico, l’11° Eataly. Senz’altro il tempio degli “alti cibi” più panoramico finora realizzato da Oscar Farinetti, patron della catena. E fra il nuovo negozio e la città è stato subito feeling. O, almeno, questa è l’impressione di Piero Alciati, il responsabile ristorazione della catena, a due settimane dall’inaugurazione. “Per fortuna è andato tutto liscio”, dichiara ad Artù Alciati. “Sarà che ormai siamo all’undicesima apertura e ci siano fatti una bell’esperienza. Sarà perché siamo riusciti a selezionare dei giovani che fin da subito hanno fatto squadra, pur non avendo tutti completato la formazione. Sarà per la bravura e autorevolezza della direttrice, Michela Qua-
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ranta, una genovese doc con piglio da carabiniere. Ma non abbiamo avuto intoppi di sorta”. Per ingraziarsi i genovesi, in effetti, Eataly ha fatto molto: ha selezionato e sistemato in bella mostra sugli scaffali ben 2.400 ghiottonerie made in Liguria, ossia il 40% delle oltre 6 mila proposte in vendita. “New York a parte”, spiega Alciati, “è la prima volta che spingiamo tanto sul localismo. Il terreno era d’altronde fertile: la Liguria è ricchissima di specialità. E le dimensioni del locale, 2 mila mq, lo consentivano. D’ora in poi quando apriremo negozi lontano dal Piemonte, il localismo sarà accentuato di prassi, ogniqualvolta il tessuto locale e gli spazi lo permetteranno. Un’ampia scelta di prodotti laziali è già prevista per l’Eataly di Roma (l’apertura di un meganegozio da 16 mila mq è programmata per dicembre prossimo, ndr) e potrebbe realizzarsi a Bari, quando ci arriveremo”. Lo scouting di nuovi fornitori risponde, d’altronde, alla doppia esigenza di Eataly di calare ciascun negozio nel suo territorio e di garantirsi la disponibilità di merci durante tutto l’arco dell’anno, stagionalità dei prodotti permettendo. La catena, infatti, continua a crescere: il 23 maggio aprirà il quinto store a Tokyo, a luglio è prevista l’inaugurazione dell’Eataly incontri, dedicato alla pasta, di via Lagrange a Torino e per fine estate quella di un piccolo Eataly in centro a Tortona. Non facilmente espandibile è invece la capacità produttiva dei fornitori della catena, in buona parte artigiani orientati alla qualità non ai volumi. “Preferiamo ampliare il parco fornitori”, spiega Alciati, “e affiancare un secondo o un terzo artigiano a quello che già ci vende una determinata specialità piuttosto che forzarlo ad aumentare la sua produzione. Se poi ce n’è la possibilità, i nuovi fornitori individuati sul territorio diventano fornitori anche del negozio di Torino. È quello che è successo con quattro aziende selezionate per approvvigionare l’Eataly di Genova: gli stupendi yogurt del Caseificio Val d’Aveto di Rezzoaglio, nel genovese, i vini delle due
cantine delle Cinque Terre Forlini Cappellini e Bisson e le meravigliose alici sotto sale della Cooperativa Pescatori Camogli sono ora sugli scaffali anche dell’Eataly del Lingotto”. Tornando a focalizzarci sul nuovo store di Genova, la sua caratteristica architettonica distintiva è la vetrata fronte mare che dà luce a un locale sviluppato tutto in lunghezza (il progettista ha dovuto lavorare di cesello). Quanto all’offerta, sono presenti tutti i reparti classici della catena, con la panetteria con forno a legna particolarmente sviluppata e in posizione centrale, per rendere omaggio alla tradizione ligure della focaccia (la figassa), semplice o di Recco e della farinata, realizzate nel più assoluto rispetto delle ricette locali, l’enoteca con tantissime etichette liguri e un’ampia selezione di oli extravergini d’oliva. Degli 84 dipendenti della squadra di Eataly Genova, oltre la metà sono comunque in forza alle attività di somministrazione, la cui offerta è molto ricca. Quattro, per 150 sedute complessive, sono infatti i ristoranti tematici informali. All’estrema sinistra dello store, quello dedicato ai salumi e formaggi e alle verdure, che serve taglieri di salumi e formaggi freschi o stagionati affettati al momento, insalate di stagione, zuppe di cereali e legumi, il piatto vegetale del giorno e l’insalata russa, un cavallo di battaglia di Eataly. Grossomodo a metà negozio sono allestiti, fianco a fianco, i due ristorantini specializzati nella pizza e nella pasta. Il primo propone la pizza napoletana cotta nel forno a legna, oltre alle immancabili farinata e focaccia al formaggio. L’impasto della pizza è rigorosamente di farina
biologica macinata a pietra, condito con pomodori pelati italiani e mozzarella fior di latte. L’altro ristorantino è un tripudio di pasta di Gragnano trafilata al bronzo, condita con un sugo di terra o uno di mare, che cambiano ogni giorno, e paste fresche ripiene e non, con le trofie al pesto in primo piano. Nella
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parte più a destra dello store è allestito il ristorantino della carne e del pesce, che propone carni rigorosamente di razza piemontese (non manca mai la cima genovese) e pesce fresco locale, oltre alle ostriche francesi, quand’è il momento. Fiore all’occhiello dell’Eataly di Genova è però il ristorante gastronomico. Occupa l’ultimo tratto a destra dello store, si chiama “Il Marin – Ristoro del Porto antico”, è specializzato in piatti di pesce, ha 45 sedute, in parte interne in parte all’aperto sulla terrazza, è l’unico ad accettare le prenotazioni ed è affidato alle esperte mani del giovane e bravo
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chef Enrico Panero, cuoco che Eataly considera il suo globetrotter. “Dopo la scuola alberghiera”, racconta Alciati, “Panero ha lavorato per un po’ come ragazzo di cucina nel ristorante della mia famiglia, Guido, a Pollenzo. Poi lo abbiamo fatto viaggiare, mandandolo da colleghi all’estero. Al suo ritorno è entrato in forza in Eataly, che per due anni l’ha inviato a gestire l’offerta di ristorazione, formale e non, dei due locali di Tokyo (gli altri tre, compreso quello aperto a maggio scorso, non fanno somministrazione, ndr). È quindi tornato per un breve periodo da noi a Pollenzo, per poi andare a curare la ri-
storazione dell’Eataly di New York (25 milioni di dollari di fatturato nel primi quattro mesi d’apertura del 2010, ndr) e ora e approdato a Genova”. Pur impostato come un ristorante gastronomico, il servizio del Marin non è eccessivamente formale. Volutamente, Eataly ha preferito sacrificare i fronzoli per dare risalto alla materia prima: il pescato locale consegnato quotidianamente dalla Cooperativa pescatori Camogli. Non per niente è esposto in bella vista in una grande vasca al centro della sala. Due i menu proposti: uno da due portate più il dolce a 28 euro e uno da tre portate più il dessert da 48 euro. In alternativa si può ordinare alla carta. Completano l’offerta ristorativa la caffetteria pasticceria, allestita accanto al reparto prodotti per la tavola e la cucina, la zona aperitivo ligure, di fronte all’area della didattica sulle eccellenze liguri e, al piano terreno del Palazzo Millo, la gelateria alpina Lait. Quanto alle attività didattiche, terzo immancabile elemento caratterizzante degli Eataly, a Genova è previsto che partiranno a settembre. Una cosa per volta! Concludendo, un accenno al vil denaro. Questo locale, che sarà aperto sette giorni su sette, salvo le feste comandate (1° maggio, Natale, Capodanno, Pasqua), dovrebbe realizzare, secondo un budget molto prudenziale, 10 milioni di euro l’anno, a fronte di un investimento di
circa 15 milioni. Si aggiungeranno agli oltre 40 milioni realizzati nel 2010 dall’Eataly del Lingotto di Torino (il cui budget all’apertura era stato stimato in 20 milioni di euro, mentre fin dal primo anno ne ha fatti 36), ai 15 degli altri store italiani e ai 10 milioni di quelli giapponesi (di New York abbiamo già detto). Prossime aperture: il megastore di Roma a dicembre e poi Milano nel 2012 e Londra nel 2013…
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di Sara Alberti Parigi non finisce mai di stupire. Così, fra tanti che si riempiono la bocca con il famigerato “chilometro zero”, c’è chi lo pratica sul serio, come Yannick Alléno, che fa cucina con i prodotti del centro della grande metropoli. A Le Meurice, luogo-mito della capitale francese, vertice dell’accoglienza cittadina, lo chef tristellato conquista i clienti con una serie di piatti che esprimono due linee: leggerezza e salutismo da un lato, aderenza totale alla tradizione, dall’altro. 228 Rue de Rivoli a Parigi è un indirizzo che anche per chi non è abituato a frequentare gli alberghi più lussuosi della capitale francese è ben riconoscibile, per non dire leggendario. Qui, di fronte ai giardini delle Tuileries, e a pochi passi dal museo del Louvre, si trova, dal 1835, l’hotel Meurice, il primo grande palazzo parigino interamente dedicato al comfort, al lusso e all’ospitalità. L’idea di realizzare un albergo in pieno centro venne al direttore di un ufficio postale regionale, Louis Artù n°45
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Augustin Meurice, che già da tempo accoglieva i viaggiatori britannici delle classi più agiate nella sua locanda di Calais e poi provvedeva al loro trasferimento nella capitale con un servizio di carrozze. Questi, però, giungevano a Parigi affaticati e stanchi, dopo un lungo ed estenuante viaggio di trentasei ore lungo la campagna francese: così l’intraprendente Meurice decise di aprire, nel 1818, una locanda che, solo nel 1835, si spostò dal numero civico 223 al 228 dove si trova tuttora, sempre nel cuore del primo arrondissement. L’albergo, sin dalla sua apertura, diventa un punto di riferimento dell’ospitalità parigina, al punto da accogliere già a poche stagioni dalla sua inaugurazione teste coronate e personalità del tempo come la Regina Vittoria o il celebre compositore Chaikovsky. La fama e la popolarità del Meurice, che nel frattempo ha visto la scomparsa del fondatore, crescono esponenzialmente e il periodo che segue al primo grande ampliamento e rinnovamento dell’albergo, nei primi anni del secolo scorso,
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coincide con il momento di maggior fulgore. La crema della società parigina si da appuntamento al settimo piano dell’albergo per cenare al ristorante del Roof Garden e l’hotel organizza puntualmente applaudite performance teatrali o eventi che coinvolgono l’alta società, come i raffinati ricevimenti di Coco Chanel. Gli anni Venti portano in Rue de Rivoli l’aristocrazia europea che conta e perfino Picasso e la moglie Olga Koklova decidono di organizzare la loro cena matrimoniale nelle lussuose stanze dell’albergo. D’altro canto non si può trascurare che la fama del Meurice, sin dall’inizio, è sempre stata legata indissolubilmente a frequentazioni culturali e artistiche di altissimo livello, come ben ricordano le firme sui libri degli ospiti, dove spiccano, tra gli altri, Giorgio De Chirico, Rudyard Kipling, Orson Welles, e Salvador Dalì. Quest’ultimo, poi, era solito trascorrere almeno un mese all’anno in albergo, rivoluzionando con il suo estro l’arredamento della suite occupata e lasciando ai posteri una serie di gustosi aneddoti: come quando decise di farsi portare un cavallo nella propria stanza, oppure quando chiese allo staff dell’albergo di catturare per lui delle mosche nei giardini delle Tuileries. Per ogni insetto, poi, Picasso pagò cinque franchi (l’equivalente di un euro). Tornando alla
Le Meurice, polo di ospitalità per grandi personaggi, è anche un eccellente ristorante tristellato. La grande cucina di Yannick Alléno colpisce per l’equilibrio e l’armonia dei piatti.
storia dell’hotel, dopo la parentesi della Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione nazista, il Meurice rinasce grazie a una nuova ristrutturazione e rinverdisce i suoi fasti con una serie di eventi culturali tra cui spicca un famoso premio letterario sponsorizzato da Florence Jay Gould. Diventa perfino uno dei più ambiti set cinematografici e gli ambienti dell’albergo si possono ritrovare osservando con attenzione le scene di pellicole di grande successo, quali Histoire d’O, Mata Hari e Julia. Gli anni recenti hanno visto invece una riconsiderazione della classicità del palazzo in chiave più moderna, per rimanere al passo con i tempi e in linea con le esigenze di una clientela molto diversa da quella del secolo scorso. Nel 2007 il designer Philippe Starck, insieme alla figlia Ara, viene incaricato dalla direttrice Franka Holtmann di rinnovare il Meurice con un tocco di modernità, senza però snaturarne lo spirito, ed è un po’ con la stessa logica che, a distanza di pochi mesi, viene coinvolto nell’operazione anche il decoratore Charles Jouffre, per ripensare gli arredamenti e il decor delle camere dell’albergo. Il risultato ridefinisce il Meurice mantenendo intatto quel senso estetico e quella art de vivre tipicamente francese, ma al tempo stesso rivela un nuovo gusto e un glamour contemporaneo che si rifà certamente alla lunga storia dell’albergo. Ne sono un esempio soprattutto la lobby, il bar 228 e il ristorante Dalì, i primi ambienti che si incontrano superando l’ingresso. Qui rivive lo spirito surrealista di Salvador Dalì, nella scelta dei mobili, dei quadri, delle luci, perfino dei cuscini e del pianoforte. L’arte sposa magnificamente il comfort in ogni dettaglio e l’attenzione per l’ospite prosegue nella scelta, ad esempio, di dotare tutte le stanze di iPod o di mettere a disposizione
dell’uomo d’affari, l’uso di PC portatile o servizi di segreteria e interpretariato. Al Meurice, come deve essere per ogni grand hotel parigino che si rispetti, anche il benessere e la ristorazione, diventano di assoluta eccellenza. Ecco perché l’Espace Bien-Etre, situato in uno spazio di circa 300 metri quadrati del piano ammezzato, con una piccola e deliziosa piscina e una zona relax, si affida al prestigioso marchio Valmont, molto apprezzato dalla clientela femminile, con una serie di trattamenti anti-age dermatologici e cosmetici, e la Spa diventa così un luogo
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ambito e riservato per gli abituali frequentatori dell’albergo. Per la clientela gourmet qui invece c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Le sorti della cucina sono affidate da otto anni al tristellato Yannick Alléno, un campione della creatività e del gusto, dal tocco equilibrato e armonico nell’interpretazione della grande tradizione transalpina. I piatti si possono degustare nel grandioso ed elegante ristorante Le Meurice, oppure nel più informale Dalì, dove Alléno si è divertito a creare un doppio menù diviso tra piatti definiti “Without” e “100%”, cioè più light ed essenziali oppure a tutto gusto. Da non perdere sono la bouillabaisse con salsa rouille e croutons, la terrina di anatroccolo della Dombes con chutney di mango e il divertente hamburger (di carne francese) con patatine fritte. Certamente non si può lasciare la tavola senza aver chiesto consiglio per un bicchiere di vino alla giovanissima (ha appena trent’anni) e talentuosa Estelle Touzet, miglior sommelier dell’anno per la guida Pudlowski, oppure essersi rifatti gli occhi e il palato con uno dei deliziosi dessert creati dal pastry chef di origini normanne Camille Lesecq, che qualcuno forse ricorderà protagonista a Milano nel
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corso della più recente edizione del meeting Identità Golose. Chi lascia il Meurice dopo una sosta sicuramente a dir poco indimenticabile, può portare con sé un ricordo approfittando dell’ultima fatica, questa volta non in cucina, del cuoco Yannick Alléno. È il suo nuovo libro intitolato Terroir Parisien, edito da Laymon. Da buon parigino, Alléno ha una grande passione per i prodotti e la cucina della sua città, così ha pensato bene di realizzare un volume dedicato ai prodotti che si possono trovare in città o nell’Ile de France, a pochi chilometri dal centro. Di pregevole fattura e con splendide immagini, il volume è in realtà un box diviso in due libri (ricette e prodotti) e un giornale (come se fosse un vero e proprio quotidiano) curato dall’esperto in gastronomia Jean-Claude Ribaut. Al suo interno molte curiosità e anche i riferimenti per interessanti acquisti gourmet. Per tutti coloro che vogliono provare, e acquistare, lo zafferano di Sophie e Thierry Pardé, produttori di Gâtinais a Chantecoq, le fragole e le zucchine di Philippe Nantois a Morainvilliers o, a Parigi, i salumi affumicati di Vérot, in rue Lecourbe e i panini della boulangerie Poitâne in rue du Cherche-Midi.
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Surgital e Vissani: il FREDDO nell’alta cucina Il grande chef Gianfranco Vissani con Romana Tamburini Bacchini, la “sfoglina” di Lavezzola che ha saputo trasformare nell’arco di pochi anni la propria attività artigianale in grande impresa al servizio della qualità nella ristorazione. La produzione di “pasta fresca surgelata” da parte di Surgital ha contribuito a rafforzare la cultura dell’offerta nella ristorazione d’autore italiana.
pag. 12). L'alternativa per la nostra sicurezza e per il nostro palato è affidarsi Da quattro generazioni la famiglia alla qualità – sotto ogni aspetto – gaBacchini si impegna nella ricerca di rantita dalla tecnica del freddo. Si può prodotti di qualità, un ‘universo del accettare allora un prodotto surgelato freddo’ che ha saputo conquistare anche nell'alta ristorazione? La qualità l'alta ristorazione e ora anche uno delle materie prime utilizzate e l'espechef d'eccezione: Gianfranco Vissani. rienza di oltre 25 anni permettono di dare una risposta assolutamente posiPuò un prodotto surgelato scaldare tiva. Nata nel 1980 come piccolo labotanto gli animi? Dipende dal prodotto ratorio artigianale, oggi Surgital è la surgelato. E dipende a cosa si allude prima azienda italiana di produzione quando si parla di 'scaldare gli animi'. di pasta fresca surgelata, sughi per la Troppo spesso, durante la pausa pranzo, ristorazione di qualità e piatti pronti si vedono nelle vetrine dei bar piatti, surgelati per il canale bar e snack. Lo piattini e piattoni realizzati con prosciutti stabilimento, a Lavezzola (Ra), è distrie verdure rubati dal frigo di Barbie, buito su una superficie totale di 60.000 per non parlare dell'aspet- mq, di cui 26.000 mq di superificie to igienico (vedi ar- produttiva e 25.000 metri cubi di celle ticolo di Sisifo frigorifere a -18° C, dove sono occupati sul nume- più di 170 dipendenti. Il metodo della ro 44, surgelazione non impilica infatti l'alterazione degli alimenti ma, al contrario, garantisce un prodotto senza conservanti. Una qualità confermata anche dalla testimonianza di Anna Baccarani, Responsabile Marketing: "I numeri di Surgital nel 2010 sono stati positivi, di Elisa Facchetti
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sia in Italia, sia all’estero. Grazie ai continui investimenti che l’azienda compie non solo in termini di tecnologia e di R&D, ma anche nel rafforzamento delle rete vendita e in un servizio logistico sempre più efficiente, Surgital è riuscita a imporsi come leader di mercato nel canale Ho.Re.Ca.". In particolare, la linea di pasta fresca surgelata 'Divine Creazioni', nata cinque anni fa e dedicata a chef e ristoratori, è diventata di recente il fulcro di ogni attenzione mediatica di settore. Un anno, fa l'accordo con il primo chef 'catodico' Gianfranco Vissani per creare con lo staff Surgital un'innovazione in fatto di pasta fresca ripiena surgelata, e la sfida con il mondo dei media di 'metterci la faccia' e presentare un nuovo prodotto per l'alta cucina. "Il nostro staff di chef e la brigata di Gianfranco Vissani hanno lavorato fianco a fianco per oltre un anno per riuscire a vincere questa sfida – dichiara Anna Baccarani. Superando le innumerevoli difficoltà, hanno messo insieme tutta la loro esperienza e creatività sotto la guida attenta e geniale del maestro Vissani e sotto la supervisione di Romana Tamburini, direttore
di produzione di Surgital. Un lavoro di squadra che ha premiato tutti. Siamo rimasti colpiti non solo dall’evidente professionalità di Vissani e del suo staff, ma anche dalla sua profonda conoscenza delle materie prime e dall’incredibile capacità di coniugare i sapori, sempre riconoscibili, in maniera originale e armoniosa. È il partner ideale, secondo la nostra filosofia di lavoro: perseguiamo l’innovazione, restando però sempre saldamente legati alla tradizione dei sapori italiani". Il segreto è il ripieno, ovvero l'abilità nell'aver trasformato tre classici sughi della tradizione italiana, l'amatriciana, la carbonara e cacio e pepe, in 'fluidi' ripieni che 'scaldano gli animi': sono i Carbonari, gli Amatriciani e i Caciopepe, le nuove paste fresche ripiene Divine Creazioni, pensati in un formato più piccolo, concepito per essere gustato intero: "Gli ingredienti per la realizzazione dei ripieni sono stati indicati direttamente dal maestro Vissani e sono i medesimi che impiega per la sua cucina ad altissimo livello: dal Pecorino di Corsignano per I Carbonari, ai filetti di polpa di datterini
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per Gli Amatriciani, al Pecorino Vera Pecora per I Caciopepe. Per tutti e tre i prodotti è stato utilizzato il sale di Cervia". L'unione 'chef-surgelato' ha dato i suoi frutti, un binomio da giocare solo quando la posta in gioco è altissima, una manche risolutiva che chiude la partita eleggendo un solo vincitore e lasciando un velo di ammirazione sul pubblico: "È stato infatti estremamente positivo il giudizio della stampa specializzata intervenuta molto numerosa e qualificata alla presentazione a TuttoFood, che non si è limitata alla sola degustazione, ma ha manifestato un sincero entusiasmo per le tre nuove ‘Divine Creazioni’. E sempre in occasione della presentazione, importante è stata la convinzione espressa da ogni giornalista circa la necessità di far superare al pubblico pregiudizi ormai obsoleti e di chiarire che la surgelazione è l’unica tecnica in grado di preservare e conservare la qualità dei prodotti freschi nella maniera più sana e sicura".
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Surgital continua dunque la tradizione di eccelenti prodotti surgelati e la penetrazione nel canale dell'alta ristorazione, il tutto accompagnato da un pizzico di sale, questa volta rappresentato dal noto chef Gianfranco Vissani. Un primo bilancio, a un anno dal lancio dei nuovi ripieni, conferma un trend positivo, ma cosa riserva il futuro? Ci saranno altri chef 'catodici' a sugellare l'incontro con il freddo? Così risponde Anna Baccarani: "Abbiamo lavorato molto sulla linea Divine Creazioni in questi anni, a partire dalla realizzazione del ricettario Grandi Interpreti che ha visto uniti in un unico volume 27 chef stellati, che hanno interpretato uno o più prodotti della linea Divine Creazioni. Come già detto, negli ultimi due anni inoltre abbiamo stretto sempre più la collaborazione con il maestro Vissani non solo in termini di innovazioni di prodotto, ma anche di eventi. Per Divine Creazioni altre idee sono in cantiere, ma è ancora troppo presto per parlarne".
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Sua maestà il filetto in quattordici v 66
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di Luisa Contri Nel cuore di Porta Venezia, a Milano, una coppia di amici apre un ristorante a tema, in cui protagonista è il filetto di manzo, proposto in menù in diverse varianti. Aperto solo la sera, la “filetteria” va ad aggiungersi alla ormai ricca lista di ristoranti specializzati nell’offerta di carne rossa. Oltre al filetto, Filò ha in carta salumi italiani di qualità, gnocco fritto e altre piccole frivolezze come le puntarelle alla romana. Stessa mano in cucina, quella del ventiseienne chef brasiliano Luiz Simonato (supportata dall’aiuto Cristina, pure lei brasiliana). Nuova accoglienza alla Filetteria Filò di Milano. Dallo scorso marzo il piccolo ristorante di via Lecco 15, nel cuore del quartiere a vocazione multiculturale, cosmopolita e gayfriendly di Porta Venezia, ha una nuova gestione. Una coppia d’amici: Paolo, medico oculista, e Donato De Bonis, consulente per la sicurezza delle aziende dell’entertainment, l’hanno rilevato dai precedenti proprietari, un’altra coppia, costituita però da una lei medico epatologo e da un lui professionista della ristorazione. L’idea dei due nuovi gestori era investire del tempo, non del denaro in quest’attività. E farne un locale ove loro per Artù n°45
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Carne, carne e ancora carne. Dopo anni di latitanza dal mercato della ristorazione (se non proposta in modo generico), la carne torna ad essere protagonista nelle insegne e nei menù di decine di ristoranti a tema. Il caso della milanese Filetteria è solo l’ultimo esempio di una tendenza che pare proprio inarrestabile. primi avessero modo di trascorrere serate piacevoli con gli amici, dall’ora dell’aperitivo a quella del bicchiere della staffa, passando per quella di cena. Il tutto in un’atmosfera rilassata, intima e informale. “Se avessimo voluto farne un business”, spiega ad Artù De Bonis, “lo avremmo affidato in gestione a qualcuno del mestiere che ce lo tenesse aperto anche a mezzogiorno. Abbiamo invece deciso di curarlo in prima persona. Ciascuno di noi, di giorno, porta avanti la sua professione. La sera ci ritroviamo
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qui, indossiamo il grembiule e ci mettiamo dietro il banco o facciamo la spola con la cucina per servire gli amici e i normali avventori, che da sconosciuti, spesso, si trasformano in amici. Da settembre pensiamo di aprire la domenica per il brunch. E probabilmente per la stagione invernale sposteremo la chiusura settimanale dalla domenica al martedì. In ogni caso abbiamo l’impressione che questo sia un locale di frequentazione più invernale che estiva”. Fulcro dell’offerta sono, d’altronde, la carne rossa, in primis il filetto proposto in 14 varianti: alla griglia, alla senape antica, in crosta, allo champagne e zafferano, oppure in dadolata o in millefoglie con fonduta di taleggio e zucchine, per chi lo preferisce ben cotto. Ma utilizzato anche in diverse preparazioni: per esempio in insalata, nella tartare, nella tagliata o nelle tagliatelle al ragù di filetto, appunto. E vini sia rossi, sia bianchi (la scelta è ampia), che tengono la scena, prevalendo nettamente sui cocktail, anche all’ora dell’aperitivo. Proprio l’impostazione del locale come ritrovo di amici, fa sì che la Filetteria Filò faccia un solo servizio per la maggior parte dei tavoli (la prenotazione è quindi raccomandata). “Buona parte della nostra clientela viene qui per passarci l’intera serata”, sottolinea De Bonis. “Il nostro
servizio non è quindi pressante”. Per contenere i costi, sia quelli di gestione del locale, sia quelli del cliente finale (il prezzo medio di una cena è di 45 euro), la Filetteria Filò ha scelto innanzitutto di proporre carne bavarese, premium irlandese o angus australiano. “Sono carni ottime e con un buon rapporto qualità prezzo”, spiega De Bonis, “che ci consentono di proporre il classico filetto da 250 grammi a 22 euro o poco più. La scelta della carne è fatta personalmente dal nostro chef, che di volta in volta compra il taglio di filetto che ritiene migliore, esclusivamente ancora cordonato, perché vuole prepararlo lui. Noto che evita la pur buona carne argentina perché il filetto è in genere troppo piccolo”. Altro modo della Filetteria Filò per contenere i costi è fare in casa sia il pane,
leggermente sciapo perché non copra il gusto del filetto, sia i golosi dessert: dal crème caramel alla tate tatin, dal tortino al cioccolato con aspic d’arance alla cheese cake al miele d’acacia e Philadelphia light. Al di là del filetto, classici del locale sono, come antipasto, lo gnocco fritto con prosciutto di Parma, coppa, lardo di Colonnata, salame Milano o salsiccia pietragallese stagionata (prodotta dalla madre di De Bonis e disponibile solo a gennaio-febbraio) oppure la tempura di verdure o le puntarelle alla romana. Il risotto alla milanese o al limone e rosmarino come primo piatto. E il galletto schiacciato al mattone o la dadolata di petto di pollo, come secondo più leggero per chi è a dieta.
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Chinatown La scoperta di Bon Wei 70
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di Fiorenza Auriemma La ristorazione cosiddetta cinese a Milano non sembra essere argomento da fare notizia, se non per le frequenti visite dei Nas che (così almeno si legge dalle cronache) riscontrano spesso e volentieri problemi di svariato genere. Ma, è bene non dimenticarselo mai, ci sono sempre le eccezioni: e in questo articolo cerchiamo di spiegare perché le generalizzazioni non hanno senso. Bon Wei (Buon Gusto tradotto in italiano) dimostra che si può fare qualità anche operando nel segmento di ristorazione etnica più famoso e conosciuto del mondo, quello cinese appunto. I ristoranti cinesi non sono certo una novità nel panorama milanese. Ma Bon Wei, aperto da pochi mesi in via Castelvetro 16, a pochi passi da Corso Sempione, invece lo è. Perché propone un’ottima cucina classica, in linea con i tempi, prevalentemente cantonese, senza nessuna nota fusion o
estremizzazioni e molto curata: a partire dalle materie prime fino al servizio e ai dettagli della presentazione, passando ovviamente per la preparazione dei cibi e la scelta delle ricette. È davvero un’esperienza particolare entrare in questo raffinato locale, arredato senza eccessi né elementi kitsch: i pannelli e i mobili in lacca rossa, il legno di acacia birmana dei pavimenti, le serigrafie sugli specchi, le statue e molti altri piccoli dettagli, tutto è studiato per offrire agli ospiti confort, praticità e un’atmosfera elegantemente orientale. Con qualche tocco molto originale, come ad esempio i pomelli dei mobili che riproducono le palline da golf creando un piacevole contrasto cromatico con il rosso scuro della lacca, o la “podwer-room”, ovvero l’antibagno che affaccia direttamente sulla strada, protetto solo da una grande vetrina e permette di lavarsi le mani osservando chi passa per strada; o ancora il delizioso giardino in stile zen che fa da sfondo alla più interna delle tre sale del locale. Insomma, Artù n°45
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Bon Wei, buon gusto in italiano, è un ristorante cinese sui generis: la cucina è molto curata e i piatti, in alcuni casi, vengono ultimati al tavolo.
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di casa insieme alla moglie Wang Pei (Chiara, per gli amici italiani). “Ecco perché con il nostro chef, che è anche socio del locale, ho pensato di aprire un ristorante di questo genere. E chi prendere posto a uno dei tavoli di viene da noi, mi conferma che ho Bon Wei è già di per sé un’esperienza fatto la scelta giusta, perché uno dei diversa, preludio a un pranzo o a una commenti più frequenti è infatti - un cena da gustare con lentezza, in modo ristorante cinese così non lo avevamo da assaporare e apprezzare i sapori, mai visto! -”. il contesto, il servizio. Oltre che da “vedere”, Bon Wei è soEd è anche piacevole constatare come prattutto da assaggiare, come anticipa in un periodo nel quale la proposta l’insegna, frutto dell’unione di due pagastronomica orientale in Italia sembra role – una francese e una cinese puntare verso tutt’altra direzione, alcuni “bon” come buono, “wei” come gusto. imprenditori credano invece ancora Il menu è ampio e comprende un cennella cucina cinese di alto livello. La tinaio di portate tra antipasti, zuppe, quale – e chi è stato in Cina lo sa - piatti di carne e di pesce e infine desha alle spalle una cultura e una sert; il tutto rappresenta una sorta di filosofia antiche, interessanti e affa- viaggio culinario dal Nord a Sud-Est scinanti, oltre che molto gustose. “Altre del Paese della Grande Muraglia, grandi città in Europa hanno ristoranti anche se, come già accennato in apercinesi dove si mangia bene, mentre a tura, con una predilezione per le speMilano non è proprio e sempre così”, cialità cantonesi. Fra sapidità agrodolci, racconta Ike Wang, giovane padrone speziate, appena piccanti o fortemente
pepate, ognuno può scegliere ciò che più lo attrae e incuriosisce. Però è caldamente consigliato non perdere l’occasione per gustare un’ottima anatra alla pechinese, che oltre a essere disponibile tutti i giorni - e anche per una sola persona - è laccata direttamente in casa. Ovviamente, senza limitarsi a questo piatto-capolavoro (servito con grande cura e ultimato direttamente al tavolo, in modo che anche i meno esperti lo possano gustare nel modo giusto), bensì abbinandolo ad esempio a una deliziosa “Insalata di alghe”, a una serie di diversi involtini (compresi quelli a forma di sacchettino, da mangiare con le mani, e chiamati “Fior di involtini”), svariati tipi di ravioli al vapore o fritti (di carne, pesce e verdura, anche con pasta agli spinaci); e poi ancora “Riso saltato con salsa di soia”, o “Spaghetti con carne e aglio”, oppure “Spaghetti di riso alla cantonese”, insieme ai “Gamberi piccanti alla Kon Pao” (con verdure e salsa piccante), al “Manzo allo zenzero”, alle “Rane sale e pepe”, o al “Rombo saltato con verdure”. “Il rombo con le verdure è un tipico piatto molto apprezzato nella cucina cantonese, e lo si prepara sfilettando il pesce senza buttare però pelle e lisca; le quali, passate nella farina e fritte, diventano un piatto croccante e commestibile sul quale servire i filetti del pesce”, racconta lo chef Guoqing Zhang, con alle spalle diverse esperienze a Hong Kong, prima di arrivare in Italia e aprire a Padova un locale insieme alla moglie e alla figlia. E che con i titolari del Bon Wei ha messo a punto le ricette del menu in modo da far conoscere l’autentica gastronomia cinese tradizionale, anche se in forma alleggerita. “La cucina cinese richiede una fiamma molto più potente di quella di europea, in modo che l’olio di arachidi possa raggiungere velocemente 50-60 gradi”, aggiunge come nota tecnica lo chef, che può contare su una brigata di cinque persone e di un’ampia dotazione di wok e cestelli per la cottura a vapore. E come finire il pranzo o la cena? Ovviamente, con
un dessert “della casa”, tra cui il “Budino di zucca con panna”, le “Polpette di riso e cocco” o le “Polpette dolci fritte con sesamo nero e scorza d’arancia”, tipiche cinesi, fino al “Gelato caramellato con mandorle”. Il tutto annaffiato da ottimi tè, selezionati in collaborazione con L’Arte del Ricevere di Milano, ma anche birra e/o vino, scelti da una ricca carta di etichette italiane e non solo.
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Da trattoria, grazie a una radicale ristrutturazione, il locale a picco sul mare nell’incantevole cuore del cosiddetto “borgo in città” di Genova, si è trasformato in un raffinato ristorante. Circa 100 i coperti, metà nella sala interna, la cui ambientazione è giocata sui toni del vinaccia per le pareti, le sedie e i divani, del bianco per i soffitti, le luci soffuse, il gioco di specchi per riflettere il mare. E l’altra metà sulla terrazza che guarda sull’acqua. Non manca una piccola e appartata saletta, da un solo tavolo, con un panorama invidiabile; ciascuna delle tre finestre incornicia una veduta da sogno: il promontorio di Portofino, il mare aperto e il borgo. A capo di una brigata di cucina di altre tre persone più il lavapiatti e, in sala, di quattro persone che diventano sette da giovedì a domenica, Garzillo trasmette entusiasmo e voglia di mettersi in gioco. “Di tutti i ristornati in cui ho lavorato”, racconta ad Artù, “il Capo Santa Chiara è fra i più belli. Sono contentissimo poi d’essere stato coinvolto dai Secondo fin dall’inizio nella sua riprogettazione. Ho potuto scegliere le attrezzature di cudi Luisa Contri cina, decidere come disporle e optare È al giovane chef Alessandro Garzillo, per fare la cucina a vista. Ho scelto permilanese con esperienze diversificate, sonalmente i piatti: bianchi, lucidi, dalle che due esperti ristoratori come forme fra il classico e il moderno. Mi Paolo e Marco Secondo hanno affi- sembrano perfetti per far risaltare la predato il Capo Santa Chiara, storico ri- sentazione delle mie creazioni. E anche storante dei genovesi a Boccadasse, i bicchieri, colorati per l’acqua, e fatti a che ha riaperto i battenti a metà mano. Il riscontro di pubblico è stato poi immediato. La partenza è stata molto aprile scorso. Artù n°45
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più forte di quanto ce l’aspettassimo. Pensavamo di fare 35-40 coperti e invece già a tre-quattro giorni dall’apertura avevamo raggiunto i 90”. L’aspettativa dei genovesi per la riapertura del ristorante era sicuramente alta. Garzillo e i Secondo hanno però fatto centro in almeno tre cose: la cucina, i prezzi e il modo di proporsi alla clientela. I piatti di Garzillo si caratterizzano per i sapori delicati, ma sempre riconoscibili e mai ridondanti. L’ex allievo di Gualtiero Marchesi ha optato per realizzare per il Capo Santa Chiara sia alcuni suoi classici rivisitati in chiave locale, sia ricette che si rifanno alla tradizione gastronomica ligure/piemontese (talvolta è impossibile dire se un piatto è originario di una o dell’altra regione), reinterpretandola sapientemente, ma anche semplicemente riproducendola con modestia e serenità. “Con la cucina creativa, oggi, non si va lontano”, osserva con un certo rammarico Garzillo. “Se va bene si sta a galla, altrimenti si dura qualche mese e poi si è costretti a chiudere. Se si vuol riempire il ristorante, bisogna tornare a fare una cucina tradizionale, quella che il cliente è tornato a ricercare. Noi chef possiamo sbizzarrirci utilizzando in cucina tutte le tecniche più rivoluzionarie, possiamo inventarci presentazioni originali, ma senza modifi-
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care e mischiare eccessivamente i gusti, che devono rimanere distinguibili, e senza utilizzare salsine colorare soltanto per questioni estetiche. La cucina è una cosa seria, non un gioco”. Fra gli antipasti proposti al Capo Santa Chiara, dunque, una rivisitazione di Garzillo è senz’altro il cappon magro in gelatina. Quale sia la vera ricetta di questo classico della cucina ligure è d’altronde difficile dirlo. “Negli ultimi due mesi l’ho assaggiato in almeno 30 versioni diverse”, sottolinea il giovane chef. “E per pura casualità, dopo aver deciso che nella mia versione ci avrei messo l’uovo sodo di quaglia, ho scoperto che quest’ingrediente appartiene alla tradizione ligure”. Tradizionali i corzetti al pesto o il pescato con patate saltate al rosmarino, olive e pinoli. In puro stile Garzillo, invece, i pesci in carpione. Un carpione soft, fatto con acqua e aceto in ugual misura, erbe aromatiche senza eccedere, utilizzando pesci strettamente di mare: alici, sgombri, merluzzo, branzino (quelli di lago, a suo giudizio, non rendono questo genere di preparazione), guarniti con uvetta e pinoli, in onore della Liguria. Per l’autunno, Garzillo sta già pensando a nuovi piatti da realizzare con le materie prime dell’entroterra genovese: dalle lasagne con farina di castagne o dai tabarin con farina di ceci, all’agnello, al
coniglio, ai funghi. Tutti fatti in casa i dessert, gelati e sorbetti inclusi. Sul fine pasto Garzillo intende però ancora lavorare. “L’attuale proposta”, ammette lo chef, “non ha particolari legami con il territorio. Colmerò questa lacuna”. Le uniche cose che Garzillo ha rinunciato a fare direttamente sono il pane e la focaccia: “con 100 coperti al giorno non ce la facevamo a stare al passo”. Tornando ai punti di forza del Capo Santa Chiara, azzeccato è anche il posizionamento prezzi, che Garzillo definisce più che onesto. In una Liguria in cui – secondo l’esperienza diretta dell’ex chef patron della Locanda del lago a Ternate (Va), oltre che past executive chef del Gold di Milano – sono pochi i ristoranti ove si mangia veramente bene; sono troppo frequenti le cadute di stile su una portata o su un dettaglio del servizio; e sono spesso troppo alti i prezzi di chi propone una cucina all’altezza delle aspettative: i Secondo hanno deciso di partire con molta prudenza. Il conto medio del Capo Santa Chiara, in questi primi mesi dalla riapertura, s’aggira sui 40 euro più i vini, per i quali comunque la spesa è contenuta (oscilla fra i 6 e i 9 euro a persona). “Probabilmente”, anticipa Garzillo, “ritoccheremo i prezzi leggermente al rialzo con il menù autunnale. Al momento, però, siamo indubbiamente sotto mercato”. Assenti per scelta, almeno in questa fase di riavvio del ristorante, i menu degustazione. “Abbiamo tenuto conto”, spiega Garzillo, “del fatto che i genovesi non amano le imposizioni e neppure i consigli. Preferiscono scegliere in autonomia cosa ordinare. Oltretutto, in queste prime settimane, ho potuto verificare che sono rarissime le comande intere. Praticamente tutti i clienti si orientano sugli antipasti più un primo o un secondo”. Ampia e in evoluzione la carta dei vini, curata personalmente da Paolo Secondo, che è un intenditore. Molto spazio è ovviamente riservato alle etichette liguri. Al Capo Santa Chiara s’è dato spazio sia a vini dal buon rapporto qualità prezzo, sia a grandi vini imprescindibili. Con l’arrivo dei primi freschi la cantina, adesso sbilanciata sui bianchi, virerà più decisamente al rosso.
Boccadasse è un antico borgo di pescatori, nell’immediato levante di Genova. Qui ha riaperto Capo Santa Chiara, che può contare oggi su una proposta di ristorazione di alto profilo, firmata dallo chef Alessandro Garzillo.
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La fatina della colazione sta al PALACE di Bari di Fiorenza Auriemma Di proprietà di Francois Drolulers, la struttura pugliese spicca nel panorama alberghiero nazionale per la professionalità dell’accoglienza, caratterizzata da una notevole attenzione per i particolari. Apprezzato per una prima colazione di alto profilo, il Palace ha anche un ottimo ristorante, la cui cucina è affidata allo chef Vito Paradiso. Bari è una città antica, orgogliosa, vivace e gradevole, che può riservare molte sorprese. Ad esempio, chi partendo dal Castello Normanno-Svevo, si inoltra tra i vicoli del vecchio centro storico, può osservare le signore che li vi abitano, mentre preparano le orecchiette. Per poi cambiare paesaggio ed entrare nella Cattedrale e nella Basilica di San Nicola, e passeggiare al tramonto sulle murate che guardano il porto prima di concludere la giornata al Teatro Petruzzelli. Una giornata però non è sufficiente per scoprire la vera essenza del capoluogo pugliese, che oltretutto può essere anche base ideale per visitare i dintorni, tra cui Matera con i suoi Sassi, e l’imponente Castel del Monte. Dove pernottare, allora? Tra le varie possibilità e indirizzi, il Palace Hotel ha diversi pregi. Innanzitutto, è centrale e a pochi passi dai luoghi più interessanti della città, compreso Corso Vittorio Emanuele, il grande boulevard che conduce alla zona pedonale; e poi, come la città stessa, è ricco di storia nonostante sia molto più “giovane”. Costruito alla fine degli anni cinquanta, è la maggiore struttura alberghiera nel centro di Bari, con 196 camere di cui 18 suite, e ospita spesso congressi e convention. L’atmosfera che si respira anche solo entrando nella hall è però tutt’altro che quella di un anonimo, grande albergo cittadino: l’area salotto del Bar, ad esempio, è ampia e accogliente e invita a prendere posto su uno dei divani per leggere un quotidiano o conversare gustando un aperitivo; tenendo d’occhio quello che avviene nella attigua, ampia sala del ri-
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storante San Nicola, fulcro di pranzi e cene, e soprattutto della prima colazione. La quale già da sola vale un soggiorno, grazie all’impegno e alla passione di Patrizia Matera: da oltre vent’anni al servizio del Palace Hotel, è stata giustamente soprannominata la “fatina della colazione” – è capace di ricordare gusti, esigenze e preferenze di ogni singolo cliente, anche a distanza di mesi e grazie alla quale nel 1996 l’albergo ha vinto il premio Hotel dell’Anno. “La colazione dovrebbe differenziarsi da albergo ad albergo, perché il cliente
ricorda l’hotel anche per quello che ha mangiato a colazione”, è l’opinione di Patrizia, che da anni si alza la mattina prestissimo per raggiungere il Palace Hotel e coordinare il rito della prima colazione, accertandosi che tutto sia a posto. “Qui abbiamo la possibilità di usare molti prodotti locali anche per la prima colazione, dalle focacce al pomodoro alla ricotta freschissima, dalla mozzarella alla burrata, fino alle verdure grigliate condite con olio extravergine d’oliva pugliese”. E osservando i clienti ai tavoli della colazione, non si può che darle ragione: certo, nei loro piatti ci sono anche cornetti, fette di torta, frutta, marmellata ecc; ma devono cedere un po’ di posto anche alle specialità pugliesi, comprese quelle salata. “Il nostro è sì un cliente internazionale, ma è più propenso ad assaggiare i prodotti locali rispetto a quelli che trova in qualunque altro hotel”, conferma Patrizia. Questa danza gastronomica che ha come sottofondo i sapori della Puglia continua durante il resto della giornata, con un’offerta che a pranzo prevede possibilità di scelta sia alla carta, sia a buffet; e grazie allo Chef Vito Paradiso, 35 anni, dei quali gli ultimi dieci nelle cucine del Palace, dopo una prima esperienza all’estero al The Halkin di Londra dove ha avuto modo di lavorare e di conoscere anche Gualtiero Marchesi. L’amore per la sua terra d’origine lo ha convinto a tornare in Puglia, e qui ora ha la possibilità di utilizzare i migliori
L’offerta del Palace punta su un’accoglienza personalizzata, in cui prevale l’attenzione verso le esigenze dell’ospite. Particolarmente curata la ristorazione, che può contare su un ricco repertorio di piatti tipici e della tradizione pugliese, interpretati intelligentemente dal giovane chef Vito Paradiso.
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dall’ottimizzazione del sistema di condizionamento, l’installazione d’infissi che consentono un notevole risparmio energetico, la creazione di due nuove suite completamente rinnovate e il rifacimento di dieci camere. E che prossimamente interesserà la hall e l’ultimo piano dell’hotel – il settimo – dal quale si può vedere la città intera e il porto, nonché cenare. “È un albergo molto interessante per le sue dimensioni e per il fatto di essere in centro città”, spiega François Droulers, che a 40 anni può vantare una lunga esperienza nel settore, e dal 2009 si sta dedicando allo sviluppo di un proprio gruppo alberghiero. “Sono stato qui come cliente negli anni ’70, mentre ero in viaggio verso il Montenegro, e mi aveva piacevolmente colpito. E poi, credo molto in questa prodotti locali – pesce e frutti di mare città, di recente rinata e da sempre atcompresi – per esaltarne il gusto senza tenta alla cultura. E credo molto anche snaturarne i sapori con eccessive ela- in questo hotel”. Ecco il perché dell’imponente investimento di ristrutturazione, borazioni culinarie. Insomma, è un’aria piacevole e di nel rispetto però della sua atmosfera “casa” quella che si respira al Palace che nel corso dei decenni ha piacevolHotel di Bari. Dove, dopo l’arrivo di mente colpito personaggi del mondo François Droulers - nuovo proprietario dello spettacolo, della politica e della dal 2010 - è iniziato un importante cultura, tra i quali Roberto Begnini, processo di rinnovamento, partendo Enzo Biagi, Domenico Modugno, Sandro Pertini, Liz Taylor, Rita Levi Montalcini, Riccardo Muti. A questo proposito, un’altra caratteristica del Palace Hotel sono le camere “dedicate”: a cominciare da quella pensata per gli appassionati della musica, con un sofisticato impianto stereo, una vasta scelta di opere classiche, libri a tema e informazioni circa le stagioni teatrali dei festival più importanti (il tutto direttamente consultabile in camera); fino alla stanza per gli amanti degli animali domestici, con il pavimento in parquet invece che la moquette, una cuccia, pinza e sacchetti per le passeggiate, set di prodotti per la pulizia del pelo. E persino una scelta gastronomica su misura.
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Mionetto e Fabrica Due marchi per il GUSTO protagonista di un’installazione nella quale le bottiglie Mionetto sono state utilizzate Il design delle bollicine Mionetto, dopo dalla designer portoghese Catarina Carreiras Venezia e Parigi ha conquistato anche per allestire lo spazio 'Next Cabane', in Milano. Una partnership tutta trevigiana, omaggio al mondo del vino. 'Next Cabane' che ha avuto il merito di farsi vedere è un progetto sperimentale, con la forma negli ambienti che contano. E di con- di una capanna pieghevole in legno sentire degustazioni di prodotti eccel- piccoli spazi temporanei dove definire i lenti, come il mitico Sergio. propri confini, cercare riparo o semplicemente vivere in modo diverso, alla riscoperta Ritorniamo, a distanza di qualche mese, della qualità e dell’essenzialità delle cose. su un evento che ha caratterizzato la Rifugi personali e intimi, in armonia con Milano fieristica: durante un “fuori salone” lo spazio, che riflettono su temi come il ladecisamente glamour, segnaliamo un voro, la cultura pop-up, la solitudine, il evento realizzato in collaborazione con gioco. Ambienti alternativi dove vivere l’area Design di Fabrica (www.fabrica.it), il meglio e più consapevolmente e dove il Centro di Ricerca sulla Comunicazione design si mette a servizio della ricerca di del Gruppo Benetton, un’occasione che, materie, forme e strutture -, ospitato presso per la prima volta, ha visto le bottiglie Mio- lo showroom Benetton in Corso di Porta netto (www.mionetto.com) trasformarsi in Vittoria, 16 a Milano: dove Fabrica ha premateria prima per creazioni di design. La sentato anche la mostra 'Here & (t)here', Cantina di Valdobbiadene è stata infatti un’edizione limitata e numerata di oggetti, di Monica Zani
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disegnati per Secondome, nati dall'insolita unione di due materiali nobili , caratterizzati da un alto valore estetico: il vetro soffiato e il legno di rovere. Una nuova forma di partnership tra Mionetto e Fabrica, che ha visto i due marchi integrarsi per rappresentare un nuovo volto del 'design del gusto'. Mionetto ha proposto anche in degustazione alcuni dei suoi prodotti durante il cocktail di inaugurazione: l'immancabile Sergio, spumante della linea top della Cantina, frutto delle uve di diversi vitigni quali Prosecco (vitigno oggi rinominato con lo storico appellativo di Glera), Verdiso, Bianchetta, Chardonnay e Perera, tutti autoctoni del territorio di Valdobbiadene. Sergio è un blend creato secondo un’antica tradizione del luogo e una sapienza che appartiene esclusivamente a Mionetto, e proposto anche nella versione Sergio Rosè, cuvée di Lagrein trentino e Raboso. 'Presente' anche IL SPR!Z, ispirato al tradizionale aperitivo veneto, accattivante alternativa alla formula miscelata al momento nei locali, già pronto da versare nel bicchiere e di bassa gradazione alcolica. IL SPR!Z sta riscuotendo un grande successo in Italia e ancor più in Germania, dove ha ottenuto il titolo di Bestseller 2010 nella categoria Vino/Spumante/Champagne da parte della rivista 'Rundschau'.
Qui sopra: Next Cabane Cavern by Catarina Carreiras photo by Gustavo Millon / Fabrica. Nella pagina a lato: collezione in vetro e legno esposta alla mostra 'Here & (t)here' Terroir by Sam Baron / Fabrica for Secondome photo by Gustavo Millon/Fabrica.
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Wine Amore Carta dei VINI addio? nuove tecnologie e ci siamo messi subito al lavoro per individuare la soluzione migliore da proporre al mercato”. Qual è la grande differenza con una normale carta dei vini? S.C: “Il criterio fondamentale con cui abbiamo realizzato l’applicazione è stato quello di trovare il giusto compromesso tra le esigenze professionali e commerciali dei ristoranti e quelle del cliente del ristorante. È un prodotto tecnologico di grande effetto per i clienti dei ristoranti che, oltretutto, non mette in difficoltà l’utilizzatore perché è semplicissimo da usare, intuitivo e divertente. WineAmore guida i clienti dei ristoranti di Theo Smith a scegliere il vino in maniera nuova ed Ancora una volta possiamo dichiararci interattiva; non ci sono solo pagine da precursori delle tendenze e delle nuove sfogliare, ma una serie di modalità per idee. Dopo la pubblicazione dell’articolo ricercare facilmente il vino che si vuole sul numero 43 di Artù sulle liste dei bere e per ottenere maggiori informazioni vini su iPad, a Vinitaly abbiamo scovato che permettano una scelta consapevole. una nuova realtà italiana che ha ap- Quindi cambia l’esperienza della scelta pena lanciato la propria applicazione del vino al tavolo. È il cliente che – WineAmore (www.wineamore.com) – decide se vuole guardare i vini rossi o proprio per la creazione delle liste solo quelli del Piemonte, piuttosto che vini dei ristoranti su iPad. Che ci cercare la bottiglia preferita senza sfoabbiano letto nel pensiero, prima gliare tutte le pagine della lista. Così il che uscisse l’articolo? O, più pro- ristorante non impone il proprio modo babile, hanno fatto qualche ricerca di intendere la lista dei vini, e si avvicina di mercato e sono solo stati più sempre di più ai clienti che possono decidere autonomamente come fare veloci di altri? la propria scelta. “In realtà – ci dice Sergio Cocco, In più, il cliente non trova più solo il uno dei soci fondatori di Wine nome del vino, il produttore e l’annata; Amore – lo scorso autunno ci può leggere informazioni aggiuntive siamo trovati con amici in un ri- come, per esempio, il vitigno, il metodo storante, di quelli con una di vinificazione, gli abbinamenti, il numero carta dei vini importante, e di bottiglie prodotte ecc.” per ben tre volte abbiamo scelto un vino e per altret- E in che modo avete fatto vostre le tante volte il cameriere è esigenze dei ristoratori? tornato scusandosi per il S.C: “I ristoranti, prima di tutto, sono in fatto che fosse finito. Ed grado di presentarsi ai loro clienti in modo diverso, adeguato ai tempi e deciecco l’idea!” samente up to date; nel frattempo posMa l’idea da sola non sono proporre la loro lista dei vini è sempre sufficiente! sempre aggiornata con una evidente riS.C: “Vero! Ma i miei duzione dei costi di gestione. soci ed io abbiamo Un altro dato importante è che, con molti anni di esperien- l’applicazione WineAmore, basta solo za nel mondo delle sfiorare l’iPad e cambia la lingua (ad
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oggi sono presenti l’italiano, l’inglese e il francese; altre lingue seguiranno con il rilascio delle future versioni), permettendo a clienti stranieri di scegliere facilmente, senza creare problemi di imbarazzanti traduzioni dei camerieri.”
della carta dei vini e del tipo di personalizzazione richiesta. Mediamente si sta ben al di sotto di 1.000 euro omnicomprensivi di iPad, personalizzazione e applicazione funzionante. Non è necessaria la rete wi-fi nel locale e, aggiungo, si ha una decisa semplificaMa non si corre il rischio che la vita zione nella gestione ordinaria della del ristoratore sia più complicata, men- lista dei vini, grazie all’aggiornamento tre voi vorreste semplificarla? istantaneo della disponibilità e dei S.C: “L’applicazione è davvero semplice prezzi ivi esposti. da usare e il ristoratore, che non deve avere competenze tecniche, può gestire Quindi, in breve tempo, potrebbe tutto senza difficoltà. Comunque abbiamo ridimensionarsi la presenza della messo a disposizione dei ristoranti un carta dei vini? team di supporto che pensa proprio a S.C: “Non esageriamo, non credo tutto: imposta l’applicazione e le pagine che i tempi siano maturi per un con il logo e i colori del ristorante, cambiamento così radicale, però inserisce la lista completa dei vini, ag- i nostri piani commerciali sono giorna la carta con i nuovi arrivi e i vini davvero ambiziosi e poi… fino terminati. a pochi anni fa non pensavamo Va anche aggiunto che, come tutte le nemmeno a novità che adesso applicazioni, il rilascio di nuove funzionalità fanno parte del quotidiano… e di nuovi contenuti é continuo. Lo non potrà essere così anche faremo anche ascoltando a fondo le esi- per WineAmore?” genze dei ristoranti; anche questo è determinante per fornire un servizio d’eccellenza ai ristoranti clienti.” Ma quanto deve investire un ristoratore per avere l’applicazione WineAmore nel proprio locale? L’investimento è assai esiguo, e proprio l’accessibilità della nostra applicazione rappresenta un punto di forza. Ovviamente la spesa varia a seconda del numero di iPad che servono in sala, della vastità Artù n°45
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di Davide Deponti È scoccata l’ora delle cucine professionali innovative, quelle che, per mezzo di sottovuoto, uso del vapore e dell’induzione, permettono nello stesso tempo risparmio nella gestione dei costi, alta tecnologia nell’uso quotidiano e livello elevato nei risultati “sul piatto”, a favore di una clientela attenta e esigente. “Non si può mai pianificare il futuro pensando al passato”. In questa frase pronunciata dal famoso filosofo inglese Edmund Burke è contenuto il segreto del successo di ogni attività commerciale, anche di quelle più tradizionali. Soprattutto oggi, che la tecnologia fa quotidianamente passi da gigante in ogni settore della nostra vita, permettendoci di trovare soluzioni sempre più innovative per gestire problemi e attività. Ed è davanti agli occhi di tutti come, in questi tempi di costante crisi economica globale, tutti gli imprenditori, anche quelli che operano nel campo della ristorazione, siano sempre alla ricerca di risposte all’avanguardia che permettano di sostenere il loro business al meglio. Ecco perciò che l’arrivo sul mercato di tanti strumenti di nuova generazione per la gestione di un ristorante, come le cucine professionali più tecnologicamente innovative, può configurarsi proprio come una delle tanto auspicate soluzioni, in grado di dare un respiro anche economico a chi vuole fare impresa, pure in una situazione di difficoltà. Anche se, facendo un rapido excursus perfino nei dibattiti più recenti sul tema della tecnologia in cucina – che si trovano anche in rete sui siti delle principali associazioni di categoria, come ad esempio quello del “Gruppo Virtuale Cuochi Italiani” - sembra però piuttosto chiaro che oggi, nel settore della ristorazione italiana, manchino ancora la consapevolezza e la mentalità giusta per capire che, anche in periodi di crisi, investire nella tecnologia è sempre un buon affare. Artù n°45
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dello Zu a Ma di Spotorno ho scelto di realizzare una sorta di piccolo laboratorio virtuale per la creazione di nuove ricette e per questo di essere praticamente da solo a operare in cucina. È evidente quindi che sia stato importante per me scegliere ed utilizzare nel modo giusto proprio le tecnologie di cottura più innovative. Ho scelto una serie di strumentazioni ad hoc, comprendente sistemi elettronici per la cottura con sottovuoto e non solo, che mi permettano di esplorare queste Questione di metodo nuove frontiere senza però arrivare a un Il punto di partenza, insomma, dovrebbe esagerato appiattimento della ricetta e essere quello di convincere chef e ristoratori della sua preparazione. D’altronde, prenche l’innovazione è preziosa per tenere dere nella propria cucina delle macchine sotto controllo la gestione del locale, so- innovative vuol dire essere sempre pronto prattutto nelle sue aree cruciali come lo a imparare ad usarle a soprattutto a “pieè la cucina, e per renderlo più efficiente. garle” ai propri scopi di chef e di creatore. Che non rappresenta un costo, ma un in- Noi italiani, poi, riusciamo sempre a stemvestimento, una volta che si è imparato perare questo troppo uso della tecnologia a far bene i conti e a gestire con profes- grazie al nostro innato approccio da risosionalità le nuove strumentazioni. Anche lutori e creativi, meno tecnici rispetto ad perché è comunque sotto gli occhi di altri e più soggettivi”. tutti gli addetti ai lavori che oggi le cucine sono già molto diverse, tecnologia o non Investimento più che costo tecnologia molto presente, rispetto a Insomma, secondo Giacomo Gallina l’inquelle di solo qualche lustro fa. E se novazione in cucina non è per forza la quindi la tradizione della cucina all’italiana morte dell’artisticità di uno chef. “Innannon è nata con i moderni forni a convezione zitutto bisogna dire che spesso, soprato usando i sistemi di cottura a induzione, tutto in Italia, la tecnologia avanza anche non bisogna per questo chiudersi gli perché c’è una diminuzione del personale occhi di fronte all’arrivo di una modernità in cucina causata sia dall’alto costo che serve. “Che qui in Italia si sia arrivati degli operatori specializzati, sia proprio sulle innovazioni di cucina un poco in ri- dalla mancanza di essi per motivi genetardo rispetto ad altri è indubbio, ma razionali. Così, per molti chef, l’innovazione resta il fatto che abbiamo tutta la possibilità si trasforma anche in una sostituzione di recuperare”. Le parole di Giacomo Gal- del personale per motivi economici. lina, uno degli chef italiani più amati e Tutto ciò però, a mio avviso, non va mai conosciuti nel mondo, grazie ai venticinque a discapito della creatività di un cuoco anni di esperienza maturata nella ristora- che, comunque, si deve basare anche zione internazionale di alto livello, lasciano sullo studio della stessa tecnologia e ben sperare per il futuro del binomio ri- sulla propria capacità di progredire nelstorazione e tecnologia. Dopo avere l’arte culinaria in tutte le forme che lavorato in indirizzi storici all’estero, come essa prende sulla scia dell’innovazione”. il Villa del Palazzo in Sudafrica, ed Si ritorna insomma all’assioma secondo avere lanciato il ristorante milanese di il quale l’innovazione in cucina non rapDolce&Gabbana, Gold, già diventato un presenta un costo, ma un investimento. must, lo chef Gallina ha da poco fatto Anche se i conti bisogna saperli fare una scelta più intimista, legata a uno bene e essere ben consci, ad esempio, spazio più piccolo, ma proprio per questo del fatto che sia inutile spendere il cinstrettamente legata a un uso consapevole quanta per cento in meno per una friggie all’avanguardia dei nuovi strumenti per trice che ci mette un’ora a entrare in la cucina. “Per il mio nuovo progetto temperatura ogni volta che la si accende
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e che per questo fa perdere in fretta le vendite e quindi molti più soldi di quelli risparmiati al momento dell’acquisto. È fondamentale, insomma, che il ristoratore diventi sempre più un imprenditore e capisca che la tecnologia rappresenta un suo alleato prezioso. “La cottura sottovuoto che è oggi una delle risorse più innovative e utili per la gestione ottimale dei costi in cucina – spiega Giacomo Gallina – è ritenuta da alcuni come uno strumento che uniforma troppo il gusto delle ricette e che tende a togliere valore alla creatività del piatto. Secondo me, invece, è sempre la mano dello chef che deve imparare a gestire lo strumento, anche il più futuribile e a trarne il meglio anche in termini di qualità. Senza dimenticare che ad esempio, proprio nel caso del sottovuoto, si ha a disposizione un sistema più salutare e che è pure fondamentale per allungare la vita media dei prodotti e delle stesse ricette”.
vuoto e la bassa temperatura) apportano vantaggi in termini di risparmio energetico, consentendo appunto anche un taglio ai costi fissi del locale. Ma non di solo sottovuoto vive oggi il ristoratore aperto all’innovazione. Una grande e importante parola va detta anche sui forni di ultima generazione, come l’Air-O-Steam Touchline di Electrolux. Si tratta infatti dell’ultima generazione di forni con cottura a vapore che non solo permette un enorme vantaggio in termini di risparmio energetico (fino al 60% di spesa in meno) e di salubrità dell’ambiente di lavoro, ma consente anche una semplicità di utilizzo mai vista prima e basata su un interfaccia “touch screen” ad alta risoluzione. Facilissima da usare come da pulire, ha un sistema operativo basato sulla comparsa di icone e immagini che rende superfluo l’utilizzo di qualsiasi manuale di istruzioni. Sempre firmato Electrolux è poi Thermaline S90 Swiss Finish, un blocco di cucina in grado di mettere insieme e far funzionare Economicità e funzionalità all’unisono griglie e gas e fry top, piastre Sistemi con il Rational Selfcooking Center a infrarossi e piani a induzione, insomma o il Combistar FX di Angelo Po sono in il meglio che la tecnologia più all’avanquesto senso garanzie di semplicità di guardia può fornire come aiuto al lavoro controllo e di gestione, oltre che tecnologie dello chef. Senza dimenticare che Therutili per una gestione del risparmio non maline unisce in sé anche due sistemi solo in termini di personale, ma anche all’avanguardia per il risparmio energetico: di consumo di energia. In questa analisi sono Ecoflam, apparecchio di riconoscisui sistemi innovativi per la cucina non mento della pentola che consente di ridobbiamo infatti mai dimenticare che, sparmiare molto, poichè i bruciatori si chef o ristoratore, oggi il professionista attivano solo durante le operazioni di della ristorazione deve essere in grado cottura senza spreco di energia in cucina, di monitorare e gestire con precisione e Flower Flame, ovvero la forma unica “a ogni aspetto della propria attività. E deve fiore” del bruciatore che consente alla sapere quindi che in cucina le nuove fiamma di espandersi sia orizzontalmente, strumentazioni di preparazione, conser- sia verticalmente non appena la pentola vazione e cottura (come appunto il sotto- viene posizionata sul bruciatore. Artù n°45
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libri
Il panettone di Loison e gli SPIRITI bollenti
Titolo: Spiriti Bollenti Autore: Raethia Corsini Editore: Guido Tommasi Anno: 2011 Pagine: 252 Prezzo: 15,00 €
Titolo: Le voci di Petronilla Autore: Roberta Schira e Alessandra De Vizzi Editore: Salani Anno: 2011 Pagine: 271 Prezzo: 16,80 €
Titolo: Mangiar Ben 2011 Autore: Maurizio Potocnik Editore: Club Magnar Ben Anno: 2011 Pagine: 660 Prezzo: 25,00 €
Titolo: Mille e un…panettone! Autore: Barbara Carbone e Dario Loison Editore: Trenta Editore Anno: 2011 Pagine: 132 Prezzo: 20,00 €
Il cuore degli chef La penna sopraffina di Raethia (nome nordico, con evidenti ascendenze alpine, visto che le Alpi Retiche circondano l’Alto Adige e il Passo di Resia mette in contatto con il Tirolo) compie una vera e propria introspezione dentro al carattere di 21 chef “stellari”. Il risultato è un libro dal contenuto insolito, capace di sottolineare stile, propensioni e cucina di grandissimi cuochi analizzandone storie esistenziali, comportamenti e desideri: Bella la lunga intervista introduttiva al maestro Gualtiero Marchesi, ma altrettanto interessanti i capitoli dedicati a: Niko Romito, Norbert Niederkofler, Alfonso Iaccarino, Gennaro Esposito, Massimo Bottura, Heinz Beck, Agata Parisella, Carlo Cracco, Pietro Leemann, Nadia Santini, Moreno Cedroni, Mauro Uliassi, Davide Scabin, Luisa Valazza, Pino Cuttaia, Ciccio Sultano, Annie Feolde, Valeria Piccini, Massimiliano Alajmo, Giancarlo Perbellini.
Storia di una signora di classe Il racconto inedito di Amalia Moretti Foggia (chiamata Petronilla), femminista ante litteram, è la storia di una donna coraggiosa che ha intrecciato la propria esistenza con le grandi figure femminili del Novecento, da Anna Kuliscioff a Sibilla Aleramo, ma è anche la storia di una scrittrice di cucina che ha tratto ispirazione dalla conoscenza delle materie prime. La passione culinaria di Petronilla ha dato vita a ricettari caratterizzati da una meticolosa attenzione ai dettagli, agli ingredienti, ai tempi di cottura. Piatti semplici e gustosi che, per la prima volta, vengono descritti in questo volume, scritto da due esperte di cucina e di comunicazione che hanno fatto l’identikit di Petronilla, “una modernissima donna di altri tempi”.
Una guida molto utile Un “tomo” per gourmet, innamorati dell’offerta di ristorazione del Triveneto. Nella guida, edita da un associazione di buongustai (www.magnarben.it), sono raccolti oltre 400 fra ristoranti, trattorie, locande, dalle gestioni familiari più semplici fino alle location più esclusive. Oltre alle schede dei locali, la guida propone una selezione di 180 vini “dell’Alpe Adria”, ovvero di Veneto, Trentino, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, ma anche di Slovenia, Croazia e Corinzia. Un contributo all’allargamento degli scambi socio-culturali e dello sviluppo turistico intelligente. L’autore del volume, nella prefazione, sottolinea il supporto dato dal giornalista Giampiero Comolli per la sezione dedicata ai vini.
Il panettone: ricette inedite Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sul Panettone lo trovate in questo libretto, in cui si legge la storia del più celebre prodotto della nostra arte pasticcera. Per confezionare il volume ci volevano la sensibilità giornalistica di Barbara Carbone, una firma tra le più serie nel panorama enogastronomico nazionale, e l’estro imprenditoriale di Dario Loison, che da sempre produce panettoni di alta qualità. Il libro parla del panettone, in Italia e nel mondo, e offre stimoli singolari per utilizzare la dolce preparazione in decine di ricette (anche salate), “garantite” dall’apporto professionale di grandi chef. Un contributo fondamentale per chi vuole destagionalizzare il consumo del panettone, valorizzandolo nel modo dovuto.
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secondo Artù
Capire la CLIENTELA Le gestioni ragionevoli SPIEGAZIONE DOVEROSA Continua la pubblicazione delle schede sui ristoranti italiani che la redazione di Artù monitora grazie a un attento lavoro di verifica e di visite, nella gran parte dei casi anonime. L'obiettivo non è certo quello di allinearsi all'attività delle guide gastronomiche: ce ne sono già abbastanza e, nel bene e nel male, svolgono una funzione che ha sicuramente delle motivazioni rispettabili, sulle quali non intendiamo intervenire in questa sede. "Secondo Artù" vuole essere un momento di riscontro dell'evoluzione della scena ristorativa, in tutti i suoi segmenti, in grado di delineare sinteticamente le caratteristiche, positive o meno, che vengono riscontrate durante la visita. A questo fine abbiamo creato una simbologia - le corone e i cervelli - che intende lo "stato dell'arte" dei locali italiani di ristorazione. Le corone hanno la funzione di evidenziare il livello complessivo della cucina, mentre i cervelli segnalano la coerenza dell'offerta, la rispondenza a un price for value intelligente, la sensibilità e la conoscenza dei propri mercati di clientela. In una parola, quella che noi di Artù chiamiamo la RAGIONEVOLEZZA, ovvero la capacità di sintonizzarsi con le esigenze di una clienela che cambia nel tempo. Ovviamente, sono proprio i cervelli che manifestano il buon senso e la correttezza, attraverso la quale la clientela della ristorazione può essere fidelizzata su basi nuove e contribuire, quindi, a un rilancio dell'economia. Alla assegnazione dei simboli contribuiscono quindi, oltre all'eccellenza delle materie prime e alla qualità del servizio, anche elementi di attenzione per la clientela, come un ricarico corretto sui vini, la presenza di menù degustazione o menù del giorno particolarmente inetressanti sotto il profilo del rapporto qualità-prezzo, la volontà di ridurre al minimo i profitti e di allargare la base numerica della clientela. E, siccome non siamo buonisti ad oltranza, abbiamo anche introdotto, nella simbologia dei punteggi, anche corone e cervelli "neri": in questo caso, la valutazione negativa sta ad indicare che troppi errori vengono commessi e che, per sopravvivere, è necessario cambiare registro e migliorare la propria professionalità. Buona lettura
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NICCHIA DEI SAPORI 20123 Milano Via Daniele Crespi 14 Tel. 02 8357661
Immaginatevi una posteria milanese degli anni ’60, ma con –dietro al bancone- una simpatica signora che, per diletto e per mestiere, seleziona i migliori salumi e formaggi del nord Italia. Il risultato è sorprendente: il luogo è di quelli che fanno dimenticare di essere a Milano, i sapori delle materie prime contribuiscono ad evocare magiche lontananze (provate il prosciutto cotto di Dho, salumiere a Centallo, vicino a Cuneo). La signora, omonima dello stilista, si chiama Fiorella Missoni ed è una “sovversiva del gusto”, ovvero aderisce al movimento creato da Adriano Liloni, oste eccentrico in Gavardo (Bs), maestro nel recuperare grandi formaggi, salumi e vini dal proprio (e altrui) territorio. Alla Nicchia non dimenticate di assaggiare la torta Martaré, una delizia toscana al cioccolato, solo per pochi “intimi”.
TRATTORIA ALLA PASSEGGIATA 37067 Valeggio sul Mincio (Vr) (fraz. Salionze), Via del Garda 132 Tel. 045 7945009
Ambiente anni settanta per questa trattoria autentica tra Peschiera del Garda e Valeggio sul Mincio. Siamo nella patria del “nodo d’amore”, l’eccellente tortellino valeggiano che tanto successo riscuote fra i gourmet. Nel territorio sono molti gli interpreti (alcuni bravissimi) di questo piatto supergustoso, ma la cucina della Passeggiata li propone in modo superlativo, con la sfoglia sottilissima e il ripieno perfetto. Al punto che, in menù, sono descritti come “i tortellini della Passeggiata” e non “di Valeggio sul Mincio”. I titolari, cordiali e molto accoglienti, sono fra gli organizzatori della grande festa del nodo d’amore che ogni anno richiama migliaia di estimatori e buongustai. Provate anche il luccio con la polenta e il tenerissimo manzo con il “suo2 olio”. Prezzi onestissimi, sotto i venti euro.
TRATTORIA DI PIETRO 83030 Melito Irpino (Av) Corso Italia 8 Tel. 082 5472010
Mi ci portò Paolo Mastroberardino, rampollo della famiglia di vignaioli che produce, fra l’altro, quel grande Taurasi che si chiama Fatica Contadina. L’amore per la cucina di Enzo Di Pietro fu immediato e spontaneo. Come non ricordare i suoi antipasti dai sapori veri e forti, con il gusto autenticamente irpino? Le salsicce, le ricottine fresche, la focaccia bianca al rosmarino, mozzarelline fior di latte e altre prelibatezze. E poi: la minestra maritata con verdure di campo, scarola, verza, cardo selvatico, cicoria (pienezza di sapori difficilmente replicabili altrove). Da assaggiare anche l’agnello alla brace, il baccalà al forno con patate e gli altri secondi, rigorosamente (in questo caso si può dire senza raccontare fandonie) a chilometro zero.
LEGENDA Cervello incoronato = Memorabile, mitico, ineccepibile per qualità, coerenza, serietà complessiva dell’offerta Tre corone = Un vertice nella sua categoria Due corone = Ottimo per qualità dell’offerta Una corona = Cucina corretta e affidabile Corona nera = C’è ancora molto da fare Tre cervelli = Il massimo della ragionevolezza Due cervelli = Molto ragionevole Un cervello = Abbastanza ragionevole Cervello nero = Scarsamente ragionevole
secondo Artù
Editore: Edifis S.p.A. Viale Coni Zugna, 71 - 20144 Milano tel 02 3451230, fax 023451231 info@edifis.it - www.edifis.it _______________________________________________________________________________________________________
co lo ph o Direttore editoriale: Alberto P. Schieppati alberto.schieppati@edifis.it Direttore responsabile: Andrea Aiello Redazione: Elisa Facchetti, Monica Zani artu@edifis.it
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Hanno collaborato a questo numero: Sara Alberti, Fiorenza Auriemma, Davide Bernieri, Jerry Bortolan, Luisa Contri, Giovanni Cristiani, Davide Deponti, Beppe Francese, Elio Ghisalberti, Corrado Giannone, Isa Grassano, Marta Lai, Rocco Lettieri, Giuseppe Martelli, Gianni Mercatali, Claudio Francesco Merlo, Aldo Nenzi, Carlo Ravanello, Giulio Cesare Saviozzi, Roger Sesto, Theo Smith, Piero Valdiserra, Gianni Ventura, Claudio Zeni
TABERNA RECINA
OSTERIA DA CLEMI (AL CASTELLETTO)
00100 Roma (Rm) Via Elvia Recina, 22/26 Tel. 06 7000413 www.tabernarecina.it
31051 Follina (Tv), Via Castelletto, 3 Tel. 0438 842484 www.alcastelletto.com
Colori caldi e atmosfera romantica in questo locale capitolino (nella zona di San Giovanni) che propone “cucina tradizionale romana con qualche rivisitazione”. Noi propendiamo per il purismo e siamo alieni dalle “rivisitazioni”, ma questa Taverna ci pare comunque piuttosto incline all’esecuzioni di grandi classici della cucina locale. Ne citiamo alcuni, da non perdere: tonnarelli cacio e pepe, gnocchi al sugo di involtino, carbonara (ottima), amatriciana (idem), in un susseguirsi di piatti che, a un certo punto, si propongono in chiave più creativa o, comunque, dissimile dall’originale. Esempio: tortiglioni di Gragnano tonno fresco e zucca, tortino di alici e indivia, triglie marinate all’arancia, baccalà uvetta e pinoli. Ottima la proposta di formaggi laziali, fra cui spicca un pecorino, il cui latte viene cagliato insieme al fiore di cardo selvatico. Prezzi abbordabili.
A un paio di chilometri da Villa Abbazia (il Relais & Chateau che ha visto l’ingresso in cucina dello stellato Ivano Mestriner, lo specialista del quinto quarto), sulla strada principale, sorge questa trattoria divenuta negli anni un vero e proprio “culto” per gli amanti della buona tavola. In sala, Clementina Viezzer, detta Clemi, la cui accoglienza è proverbiale, così come l’attenzione personalizzata verso la clientela. Decantata dai critici gastronomici di qualità, come il compianto Gino Veronelli, “la” Clemi (come la chiamano gli amici) propone antipasti memorabili per la loro semplicità: mozzarelle di bufala di Marco Giaveri, le zucchine dell’orto del Castelletto, la frittatina di spaghetti, i fiori di zucca fritti. E ancora, melanzane, “la” battuta di manzo, le cotolettine di vitello. Provate, fra i bianchi, le ottime bollicine di Primo Franco, con il suo Grave di Stecche 2009.
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Art director: Claudio Rossi Oldrati
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Foto: Carnelutti, Guillaume De Laubier, Favretto, Roberto Frankenberg, Marcel Gilliéron, Giò Martorana, Giovanni Panarotto
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Cucina regionale abruzzese, rappresentata da due menù molto “ragionevoli”, uno di terra e uno di mare. Ma anche bimbi e vegetariani hanno il proprio menù, in linea con una segmentazione dell’offerta molto attenta ai bisogni della clientela. Provate la tagliata di vitellone e l’agnello, proposto in tre cotture (un piatto unico). La cantina è ricchissima e ospita vini abruzzesi, del resto d’Italia e del resto del mondo, con etichette ricaricate al minimo possibile. Un esempio di gusto e di onestà encomiabili. Un pasto costa meno di 30 euro, compreso un calice di ottimi vini.