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In caso di mancato recapito inviare al CMP di Milano Roserio per la restituzione al mittente previo pagamento resi
Artù n°42 - Gennaio - Febbraio 2011
Gusto ⦁ Tendenze ⦁ Mercati
Vino al ristorante, sempre più al calice: il cliente pretende un’offerta su misura
Protagonisti: Gaja, Bolognesi, Toscani, Montagna, Chabran, Vincenzi, Rischmeyer Gennaio Febbraio 2011
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SALONE INTERNAZIONALE DELL’OSPITALITÀ PROFESSIONALE
2011 21-25 ottobre
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. Dove l’ospitalità incontra il business. Ristorazione Professionale • Pane/Pizza/Pasta • Gelateria/Pasticceria • Caffè • Bar/Macchine caffè • Hotel&Spa Emotion
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EDITORIALE n°42
edi tori al La nuova ETICA È necessaria una nuova etica, un modo inedito di affrontare (e risolvere) i problemi, abbandonando una volta per tutte luoghi comuni e presunzioni. Il mondo è cambiato, anzi: si è ribaltato. E, se fino a qualche anno fa sembrava normale accettare di spendere cifre molto elevate in nome di un’esperienza enogastronomica indimenticabile, che lasciasse un segno indelebile, oggi il consumatore (in tutte le sue segmentazioni di cultura, di reddito, di propensione alla spesa o al risparmio) cerca e pretende sicurezza, equilibrio, buon senso: la strada è ormai segnata e va percorsa con intelligenza, lungimiranza, onestà da parte degli attori principali del mercato. Alla logica spregiudicata del profitto ad ogni costo (che ha fatto tabula rasa dei bisogni di milioni di consumatori, tagliati fuori dal gioco dei consumi, azzerando le opportunità di crescita del settore, destinato a inseguire faticosamente target di clientela in declino) deve sostituirsi quel valore antico, ormai dimenticato in nome del “tutto e subito”, della attenzione esasperata verso il consumatore, del rispetto delle necessità e dei gusti di chi rappresenta a pieno titolo “la domanda”. E proprio adesso che il consumatore è disorientato, diventa imperativo ripensare concretamente l’offerta. Senza banalizzare ma anche senza sentirsi delle divinità incomprese, dei geni ripudiati in nome della mediocrità dilagante, chef superstar co-
stretti alla resa dal minimalismo dilagante. Per questo nasce il nuovo Artù, per dare risposte plausibili alle inquietudini diffuse che affliggono il settore dei consumi fuoricasa. Per comunicare casi di successo e format vincenti, in Italia e nel mondo. Per fornire soluzioni gestionali aggiornate ai tempi. Per dare un contributo di chiarezza a materie fiscali e legislative farraginose e complicate. Per aprire discussioni che facciano crescere il settore e che diano indicazioni sulla via da seguire. Per capire le necessità dei clienti di oggi e domani. Per parlare di prodotti e di aziende in virtù della loro serietà. Per dare spazio a chi fa della professionalità la propria bandiera. Per tutelare le produzioni di qualità senza essere schiavi di concetti modaioli tipo “chilometro zero”. Per rispettare chi sa fare grandi numeri con dignità e correttezza. Sappiamo bene quanto sia complesso dare risposte esaurienti, al bisogno di conoscere e capire cosa sta succedendo nel mondo dei consumi. Ma dobbiamo avere il cuore oltre l’ostacolo: finiti i tempi delle vacche grasse, i problemi da affrontare sono tanti e riguardano aspetti disparati (e, spesso, disperati): mancanza di liquidità delle piccole imprese di ristorazione, calo dei consumi alcolici in virtù di legislazioni che fanno di ogni erba un fascio, diversificazione di comportamenti e motivazioni di consumo (i cosiddetti new trend). Sono numerosi, grazie al cielo, gli
esempi di chi si sta riposizionando (in virtù di attente analisi di mercato, e non sulla base di furbizie passeggere)… Un nome per tutti: Achille Maccanti, deus ex machina di un famoso ristorante milanese di pesce, si è inventato in pieno centro un locale bomboniera in cui la semplicità e lo stile (dell’ambiente, della cucina, dell’accoglienza) sono in linea con le aspettative di una clientela moderna, stanca di pretenziosità e protagonismi. Il risultato, grazie anche all’impegno di Francesca ed Alessandra, moglie e figlia, è straordinario: piatti della grande tradizione, semplicità delle preparazioni, poche voci in menù: E prezzi molto, molto ragionevoli. Il risultato? Un successo senza precedenti, al quale concorrono grande passione e imbattibile location. E sensibilità acuminata verso chi vuole sempre di più spendendo sempre di meno. Alberto P. Schieppati
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Il piatto in copertina è di Norbert Niederkofler, l’executive chef del St.Hubertus di San Cassiano, in Alta Badia. Lo chef alto-atesino è nato cinquant’anni fa a Luttach, in Valle Aurina (Bz). Ha due stelle Michelin ed è il geniale ispiratore della Chef’s Cup, l’evento di cui Artù pubblica un ampio report. Il piatto: gamberi di fiume su Royale di porcini e essenza di dashi al tartufo nero (foto Uwe Spoehrl).
Opinioni Non accontentarsi mai del “buono quanto basta” di Angelo Gaja Dal lusso esclusivo al lusso accessibile? di Gianfranco Bolognesi Info News dal mondo della ristorazione Numeri Luoghi, fatti, consumi: le notizie in cifre Focus vino Il vino: il cliente ha deciso così di Emanuele Banfi Focus food Tartufo: pagarlo meno per godere di più di Fiorenza Auriemma Filiera cortissima: e il Felino fa le fusa di Davide Bernieri Protagonisti food Alta Badia, il mood è giusto di Alberto P. Schieppati Michel Chabran, passione di chef di Gianni Ventura Protagonisti vino Oliviero Toscani e il vino: puro valore aggiunto di Fiorenza Auriemma Riprendersi il tempo: l’imperativo del gourmet di Alberto P. Schieppati Format Il segreto di Nadia: il pesce arriva a mezzanotte di Elio Ghisalberti Maison Rosset di Nus: perché è un luogo magico di Biagio Testa e Bianca Trao Accueil One Aldwych di Londra: il lusso ecologico di Claudio Zeni Locali Pere e Margherite: caso di successo di Claudio Zeni Spa Palace di Lucerna: il retrò moderno di Gianni Ventura Gestione Con le cantinette il business cresce di Davide Deponti Equipment Tecnologia a portata di... mano di Davide Deponti Libri Iaccarino, Caputo e Mei: se lo chef è scrittore Artù n°42
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Non accontentarsi MAI del “buono quanto basta”
Crisi e mercato globale azzoppano l’agricoltura italiana, proprio nel momento in cui la qualità delle produzioni vinicole e alimentari ha raggiunti livelli di indubbia eccellenza. Per uscire da questa fase di stallo e per rilanciare la nostra migliore immagine, c’è bisogno di una maggiore valorizzazione del made in Italy. La crisi viene da lontano, ha colpito duro e non è colpa dei produttori se li ha colti impreparati, non essendo riusciti a prevederla per tempo neppure i premi Nobel dell’economia. Il consumatore, di fronte alla riduzione del potere d’acquisto, ha abbassato anche la soglia del desiderio, anziché acquistare le eccellenze si è accontentato del buono quanto basta, che costa molto meno. Così dei prodotti tipici italiani a soffrire di più sono stati quelli di fascia di prezzo medio -alta. Ha invece beneficiato della crisi il falso agro-alimentare, con parvenza italiana ma prodotto altrove, guadagnando mercato sia all’estero che in Italia. Cosa fare? Sui rimedi i suggerimenti si sprecano.
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- FARE PIÙ QUALITÀ: ma per vino, olio, parmigiano… la qualità media non è mai stata così elevata. - PIÙ RAPPORTO QUALITÀ PREZZO: ma si sono ormai fatti diventare buoni anche i vini offerti al pubblico a due euro a bottiglia. - CHILOMETRO ZERO: per ora è un palliativo virtuoso. Serve a spronare i contadini a diventare più intraprendenti, a confrontarsi con il mercato ed aiuta i consumatori a capire di più della stagionalità dei prodotti agricoli. - ACCORCIARE LA FILIERA: occorre prima che i produttori si uniscano per aggregare l’offerta. - PIÙ MARKETING: sono ancora troppi quelli che si vantano di non fare marketing. Diffidano della parola, le attribuiscono un significato equivoco, di trucco finalizzato alla vendita. - NO OGM: il divieto va invece rimosso. Piuttosto vanno educati gli agricoltori ad essere più responsabili ed i consumatori a riconoscere e premiarne i prodotti attraverso norme di etichettatura adeguate. - COSTRUIRE DOMANDA: in Italia ci pensano già i produttori, il sostegno pubblico va destinato ai mercati esteri. - L’EXPORT DIVENTI UNA OSSESSIONE: verissimo, occorre però favorire la crescita imprenditoriale. - PROTEGGERE I MARCHI ITALIANI sui mercati esteri, combattere le falsificazioni: si può, si deve fare di più. Se la crisi non allenta la morsa qualsivoglia rimedio perderà di efficacia. Resta la cronica assenza sui mercati esteri della presenza di catene di supermercati (italiani e non) capaci di valorizzare le eccellenze dell’agro-alimentare di casa nostra. Assume grande significato l’apertura di EATALY a New York avvenuta nei giorni scorsi: nella grande mela i migliori prodotti del mangiare&bere italiano saliranno su di un palcoscenico capace di esaltarne valore ed immagine e costruirne domanda.
Un progetto per il futuro Nella situazione di mercato attuale i più fragili sono i produttori artigiani che costituiscono la stragrande maggioranza delle micro e piccole imprese italiane. Occorrono progetti atti a proteggere e valorizzare il lavoro degli artigiani. Da un anno la discussione s’è accesa attorno al marchio Made in Italy che vuol dire una cosa mentre il contenuto ne svela spesso un’altra. È una contraddizione impossibile da eliminare avendo, le aziende che hanno delocalizzato, meritoriamente contribuito all’affermazione del Made in Italy sui mercati internazionali. Per gli artigiani potrebbe servire di più mettere in cantiere un nuovo progetto: ottenere che il prodotto TOTALMENTE realizzato in Italia abbia la facoltà (non l’obbligo) di essere contraddistinto da un logo, da un simbolo fatto realizzare dal più bravo dei designer italiani, da affiancare oppure no al Made in Italy. Che comporti l’assunzione da parte del produttore dell’impegno (autocertificazione) di svolgere le fasi di lavorazione INTERAMENTE in Italia, con totalità di materia prima di provenienza italiana soltanto per l’agro-alimentare. Il progetto andrà sostenuto da una campagna di informazione atta ad istruire il consumatore sul significato del simbolo. Nel progetto vanno coinvolti non soltanto gli artigiani, ma anche le associazioni sindacali e quelle degli esercizi commerciali: l’interesse di proteggere il lavoro eseguito in Italia coinvolge tutti. di Angelo Gaja
Scriveteci al nostro indirizzo mail
per esprimere il vostro parere: pubblicheremo l’intervento sul prossimo numero di Artù
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Dal lusso esclusivo al LUSSO accessibile?
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Il modo di pensare, di vedere, di emozionarsi, cambia lo stile di vita, il modo di vivere, cambiando anche le abitudini che spingono le persone a frequentare il ristorante. Oggi, purtroppo, vi sono meno soldi e c’è più attenzione a come si spendono perché la crisi ha tolto tutto il superfluo e anche il consumo nei ristoranti del “lusso” ha subito una sostanziale trasformazione. È un lusso che cambia linguaggio, che si è aperto ad una clientela più vasta, occasionale, che ricerca nell’alta ristorazione dei ricordi indimenticabili anche se rappresentano solo una variante del lusso esclusivo riservato ad una elitè di consumatori. È un lusso accessibile perché offre la possibilità di scegliere anche un solo piatto e un calice di vino oppure un piccolo menu a un prezzo ragionevole. È un lusso che costa meno perché offre alternative alla sontuosa cena annaffiata da grandissimi vini che deve essere unica, memorabile. Accanto alla inaccessibilità del lusso esclusivo si accompagna una fortissima attrazione simbolica che trascina con sé il lusso accessibile e popolare. Alta ristorazione significa infatti, immagine che si porta dietro altre immagini, simbolo che qualifica altri
simboli, economia che rende possibili altre economie. Ma l’alta ristorazione ha dei costi enormi che difficilmente possono essere coperti solo da una clientela elitaria. In realtà molto spesso, è il lusso accessibile e lo sfruttamento del brand che porta il vero fatturato alla “griffe” del ristorante mentre il lusso esclusivo rimane comunque essenziale e necessario perché risponde non solo a bisogni di snobismo e imitazione che possono, viceversa, essere soddisfatti anche dal lusso popolare, ma anche perché soddisfa una piccola parte di gourmet colti e raffinati e risponde allo stile di vita di una clientela che desidera unicità ed esclusività. Stiamo assistendo in ambito alta ristorazione, così come in molti settori del commercio, ad un aumento della forbice esistente tra il lusso accessibile
e il lusso esclusivo, anche se condividono gli stessi sogni con consumi diversi, perché quel ristorante o quel vino o quel distillato è ricercato, tanto più è desiderato, quasi irraggiungibile e, pertanto, assume valore. Ciò che possiamo avere, spesso con fatica, è un vero lusso. E in questo contesto gli elementi dell’unicità e dell’insostituibilità giocano un ruolo decisivo. Il vero lusso è quindi soddisfare ciò che ognuno sogna e ritiene prezioso ed unico; festeggiare una ricorrenza, un anniversario, una cena con la persona che si ama o in compagnia di amici consapevoli, un momento di felicità enogastronomica, un importante pranzo d’affari, l’atmosfera che si respira e ti coinvolge, l’emozione dei piccoli particolari. Tutto questo per l’unicità del momento. di Gianfranco Bolognesi
“Il terroir che fa la differenza� www.villafranciacorta.it
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News dal mondo della RISTORAZIONE TOSCANA Montalcino
Sci, scarponi, racchette e via! L’appuntamento sulle piste da sci richiama proprio tutti, grandi e piccini. Impossibile trattenere gli scatenati baby sciatori e per i genitori sembra davvero difficile organizzare una settimana bianca che vada incontro alle esigenze dei più piccoli. Niente paura, gli hotel del circuito Bimboinviaggio propongono
viva le botti Se poi a dichiararlo è la famosa enologa francese Valerie Lavigne, francese come lo sono le barriques, la faccenda si fa ancora più interessante. Docente all’università di enologia di Bordeaux ed enologa delle cantine toscane di Donatella Cinelli Colombini, Valerie Lavigne è da considerarsi il portabandiera francese in terra italiana del ritorno al passato e dell’utilizzo delle botti. La sua filosofia parte dal presupposto che il legno non deve sovrastare il vino, ma deve essere considerato un supporto da cui poter beneficiare dei vantaggi naturalmente associati quali l’ossigenazione, la chiarificazione, l’apporto aromatico e gustativo, preservando la personalità del vino caratterizzata da sentori fruttati, freschezza ed equilibrio. E per esaltare la specificità del Sangiovese e l’armonia del Brunello, l’enologa d’oltralpe illustra con rigore scientifico come le botti “permettono meglio delle barriques (specialmente se vecchie) di preservare gli aromi del vitigno Sangiovese della Toscana, evitando che la secchezza dei tannini disturbi l’equilibrio del vino. Solo così sarà possibile ottenere un vino strepitoso”, come i vini della vendemmia 2010 delle Cantine di Donatella Cinelli Colombini. Basta barriques dunque, il Brunello torna nelle botti. www.cinellicolombini.it
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RUM Brugal 1888 ricetta segreta La storia del Rum Brugal ha inizio nella metà del XIX secolo, quando don Andrès Brugal Montaner emigra da Sitges, in Spagna, a Santiago di Cuba, trasferendosi poi nella Repubblica Domenicana a Puerto Plata. Dal 1888, anno della sua fondazio-
ne, la Brugal & Co. intrapprende la strada del successo, partecipa allo sviluppo industriale domenicano e si consolida come uno dei marchi più importanti di settore. Il rum prodotto più di 120 anni fa ritorna oggi in edizione limitata, grazie alla passione
LA CUVEE DI ZANELLA Ca’ del Bosco si tinge di rosa La singolare storia di Ca’ del Bosco, azienda vinicola leader nella produzione di Franciacorta, inizia a metà degli anni Sessanta, quando Annamaria Clementi Zanella acquista a Erbusco, in provincia di Brescia, una piccola casa in collina chiamata “Ca’ del bosc”, immersa in un fitto bosco di castagni. Nel ’67 prende vita l’idea di impiantare un vigneto e Maurizio Zanella, figlio di Annamaria e attuale presidente di Ca’ del Bosco, diventa protagonista di uno straordinario percorso fatto di successi e permeato da bollicine di qualità. Come la Cuvée Annamaria Cle menti Rosé, massima espressione del Pinot Nero in un
Franciacorta Rosé: nasce dall’arte di saper assemblare 4 diversi vini-base provenienti da tre vigne, e soprattutto, dall'arte di saper attendere la vendemmia migliore, quella del 2003. Per celebrare un Franciacorta di tale portata, originato da vigne di 23 anni e affinato per ben sette anni sui lieviti in cantine interrate a una temperatura costante di 12°C, si sono riunite all'hotel Principe di Savoia di Milano tre chef stella-
te, uniche rappresentanti femminili dell'alta cucina italiana premiate dalla guida Michelin. Stiamo parlando di Luisa Valazza, chef del ristorante Al Sorriso, Nadia Santini chef Dal Pescatore e Annie Feolde dell'Enoteca Pinchiorri. Un connubio tutto "rosa" per onorare non solo un grande Franciacorta, ma soprattutto la fondatrice di Ca' del Bosco, Annamaria Clementi. www.cadelbosco.com
HOTEL&CO. Bimboinviaggio, gli hotel per famiglie soluzioni ad hoc per tutta la famiglia: Trentino, Alto Adige e Svizzera dispongono di ottime strutture specializzate che offrono pacchetti interessanti a prezzi accessibili. Menu personalizzati, merende e animazione, coccole non solo per i più piccoli ma anche per mamma e papà che possono godere momenti di relax nei centri benessere, praticare sport sulla neve e gustare i prodotti tipici del territorio. Tra gli hotel del circuito Bimboinviaggio segnaliamo in Trentino il Brunet Hotel Family & Wellness Resort Fiera di Primiero che propone pacchetti dal 9 al 27 marzo, e il Family
Hotel Adriana Ledro Locca di Concei con pacchetti dal 16 al 30 aprile. Nel Cantone dei Grigioni, in Svizzera, il Kinder Hotel Muchetta, a Davos, offre una valida assistenza ai bambini e ai neonati, grazie alla presenza di assistenti qualificate, ideale per neogenitori che non vogliono rinunciare allo sci invernale. In Alto Adige, a Bressanone, segnaliamo anche il Sonnwies di Luson. Info e prezzi www.bimboinviaggio.com
RISTORANTE Cucina e design il nuovo Food Art
dei Master Blender della quarta e quinta generazione della famiglia Brugal che dopo anni di studio e passione hanno portato alla luce la ricetta segreta del storico "ron". Brugal 1888, rum super premium, è il frutto di una lavorazione artigianale che inizia da una doppia distillazione dei migliori rum e continua con un doppio processo di invecchiamento: prima in barili di rovere bianco americano e successivamente in barili di rovere europeo utilizzati in precedenza per l'invecchiamento di sherry. I barili, selezionati da George Espie, mastro del legno
“The show must go on”, cantavano i Queen, lo spettacolo deve continuare. E in questo caso parliamo dello show cooking di Matteo Torretta, classe 1980, che pochi mesi fa ha deciso di percorrere i Navigli di Milano, di fermarsi al numero 34 di via Vigevano e qui, nel cuore del design milanese, dare libero sfogo alla sua arte culinaria. Il ristorante Food Art rappresenta la scelta perfetta: oltre al cibo inteso come convivialità, piacere e ricerca, si affianca il gusto per l’espressione artistica capace di abbracciare diversi campi, dal design alla fotografia, dalla scultura alla musica. L’incontro con Andrea Cova, patron di Food
Art, ha permesso la realizzazione del binomio cucina-design: lo studio di architettura DnAassociates ha saputo
tradurre la vocazione di Andrea Cova giocando con i massicci tavoli in ulivo e le sedie che raccontano la storia del design, per proseguire ai due lampadari disegnati appositamente per il Food Art, agli accessori e complementi d’arredo scelti e proposti in collaborazione con artisti e designer. La cucina a vista rappresenta il palcoscenico del ristorante e Matteo Torretta il suo protagonista, approdato al Food Art dopo un percorso da grande chef: dalla scuola di Gualtiero Marchesi, alle esperienze lavorative con Giancarlo Perbellini, Carlo Cracco, Antonio Cannavacciuolo, Enrico Crippa e nel 2008 chef executive al Ristorante Savini di Milano. Chapeaux! www.foodartrestaurant.com
del single malt whisky The Ma callan, vengono poi posti in orizzontale, permettendo al liquidio un contatto permanente con il legno. Una cantina ad hoc dedicata allo stoccaggio del Brugel 1888 contiene lotti di 68 unità da cui si posono ottenere un massimo di 14.000 bottiglie, in edizione limitata. www.velier.it
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FRANCIACORTA Tenute Montina il nuovo Rosatum Le Tenute Montina, in terra del Franciacorta, hanno brindato il nuovo anno con una produzione di nicchia: il Rosè Extra Brut, un Franciacorta proveniente dalle cantine della famiglia Bozza di Monticelli Brusati. Ottenuto soprattutto da uve di Pinot Nero, raccolte da sette vigneti dislocati in terreni differenti, il nuovo Rosatum è il risultato di spemiture effettuate con uno dei rarissimi torchi verticali Marmonier, tipico della Champagne, e costruito nella Fran ciacor ta dagli artigiani della zona. Il torchio ha un'ampiezza di tre metri e un'altezza contenuta in modo da limitare il deflusso del mosto, permette una spermitura soffice delle uve evitando la frantuma-
zione delle bucce e quindi l'eccessivo rilascio di sostanze coloranti del mosto. Il giusto tempo di macerazione sulle bucce danno alle basi di questo vino nerbo e vinosità, ma anche piacevolezza e
finezza, conferiti dallo Chardonnay che lo completa. Ottimo come aperitivo, si sposa molto bene anche con salumi, carni grigliate e formaggi erborinati. www.lamontina.it
Il bar pasticceria Gattullo venne aperto il primo maggio del 1961. La festa dei lavoratori, in pieno boom economico, fu celebrata così, con l’inaugurazione di un locale che, in breve tempo, si configurò come uno dei riferimenti dell’offerta milanese di alta qualità. La famiglia di Pep pino Gattullo arrivava da Ruvo, in provincia di Bari: terra di
materie prime semplici e fresche, olio extravergine di oliva, orecchiette, taralli e lampascioni. Ma la passione di famiglia, per chi arrivava a Milano sulla scia del miracolo economico, era innanzitutto una: rimboccarsi le maniche e lavorare sodo, cercando di mettere il proprio ingegno al servizio delle esigenze di una clientela cittadina molto raffi-
SPA E RELAX Nuova guida Luxury Spas La nuova guida annuale dedicata al benessere presenta le migliori spa nel mondo, dalle grandi capitali ai ranch, senza dimenticare le isole tropicali: Mauritios, Sud Africa, India, Bermuda, Singapore, un'ampia scelta per un soggiorno all'insegna del lusso e del relax, mete da sogno per una vacanza in coppia tra massaggi agli oli essenziali, bagni con petali profumati e raffinati servizi per la cura della persona. Pubblica la preziosa guida l'autorevole casa editrice londinese Condé Nast Johansens, punto di riferimento nell'universo dell'ospitalità, che attualmente pubblica ben
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sei guide annuali, raccomandando i migliori hotel e servizi offerti dalle spa. La garanzia della qualità delle strutture proposte è testata da numerosi controlli effettuati periodicamente da 37 ispettori, una qualità provata anche dai fatti: 171
mila copie diffuse in tutto il mondo, 9,85 milioni di lettori, 1000 strutture segnalate in 55 paesi. La guida Luxury Spas è disponibile anche in formato digitale all'indirizzo: www.condenastjohansens.com/lu xuryspas
PASTICCERIA Gattullo, mezzo secolo di qualità e successi nata, interpretandone gusti, curiosità, desideri. Alla guida del locale di Porta Lodovica c’è, oggi come ieri, Domenico Gattullo, settantenne di razza, che ha dedicato la sua vita all’affermazione di questo esercizio classico, senza fronzoli ma elegante, universalmente conosciuto per la qualità delle proprie brioche (decantate dal New York Times), dei panini “special” (come non citare il Gattullino, antesignano di tante proposte di locali aperti successivamente), degli aperitivi, delle tartine inimitabili. Luogo di ritrovo del mondo dello spettacolo (qui negli anni settanta erano di casa
Enzo Jannacci, Umberto Bin dim, Bruno Lauzi, Giorgio Gaber, Renato Pozzetto e tanti altri, come il grande cronista sportivo Beppe Viola), oggi frequentato da studenti e docenti della vicina università Bocconi, Gattullo continua imperterrito sulla strada della qualità e dell’accoglienza, garantita dalla moglie Lella, dal figlio Giuseppe con la moglie Vanessa, e da uno staff di collaboratori decisamente instancabili. L’offerta pasticcera di Gattullo si è ulteriormente affermata nel tempo, con la produzione di panettoni, veneziane e colombe connotate da un notevole equilibrio nel dosaggio
degli ingredienti, tutti naturali. Un’attività intensa che, nei periodi legati alle festività, assorbe gran parte dell’operatività dello staff del locale e che, grazie alla gradevolezza dei prodotti, ha fatto dire recentemente a Ferruccio De Bortoli, direttore del mitico Corrierone, che “i panettoni di Gattullo sono un simbolo dell’eccellenza milanese”... www.gattullo.it
DISTILLATI Williams Reserv, l’eccellenza firmata Roner Si è aggiudicata il primo posto all’International Wine and Spirit Competition (IWSC) di Londra ed è stata decretata la miglior acquavite di frutta della sua categoria a livello mondiale. Stiamo parlando dell’acquavite Williams Reserv della distilleria altoatesina Roner, azienda che da oltre sessant’anni produce eccellenza nel settore distillati. Per mantenere il profumo e il sapore della tipica pera Williams Christ durante il processo di distillazione sono necessari, come spiega Günther Roner, distillatore dell’azienda, procedimenti e cure nei dettagli forniti dall’esperienza e dalla passione trasmessa da generazione a generazione: distillazione doppia in alambicchi a bagnomaria e un anno di invecchiamento in recipienti inox. L’aroma esclusivo del gusto della pera Williams matura, proveniente dai versanti più soleggiati delle valli altoatesine, il colore limpido, l’aroma intenso e fruttato nonché una sensazione retroolfattiva molto intensa, hanno convinto la giuria internazionale, sia durante il blind test sia tramite l’analisi dettagliata dei vari componenti. Da servire tra 4 e i 6 gradi. www.roner.com
S. Valentino da fiaba Dall’11 al 13 febbraio il Friuli Venezia Giulia invita tutti gli innamorati a scoprire i suoi territori e le sue valli più magiche, paesaggi incantati, immersi nel silenzio e nel candore della neve, alberghi accoglienti, eccellenti ristoranti e prelibatezze gastronomiche da gustare. Con il pacchetto “due cuori e una slitta” , offerta promossa nella valle di Sauris, sarà possibile immergersi nella natura con una passeggiata notturna in slitta trainata da cavalli, rilassarsi con un aperitivo romantico e apprezzare la gastronomia del territorio con una cena speciale per San Va–lentino. Info, prenotazioni e prezzi. www.carnia.it
IDEE VIAGGIO
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IL PERSONAGGIO Piero Tenca allo Splendide Royal “Umile creatore di emozioni”: Così ama definirsi Piero Tenca, maitrepatron del famoso Ristorante Motto del Gallo a Taverne nel Canton Ticino, premiato con una stella Michelin, e oggi Direttore della Ristorazione allo Splendide Royal di Lugano, hotel cinque stelle di lusso, impreziosito dal Ristorante La Veranda. Nato a Como 60 anni fa da una famiglia di ristoratori e albergatori, Piero Tenca ha lavorato nei migliori alberghi e ristoranti di Italia, Svizzera, Ger mania, Francia e Gran Bretagna, dedicando da sempre la sua vita alla raffinata ar te del ricevere. All’apertura ufficiale del prestigioso Motto del Gallo di Taverne nel 1981 ne è Maître d’Hôtel e nel 1988 ne diventa comproprietario-gerente insieme allo chef José De La Iglesia. Nel 2009 gli è stato conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana per la sua lunga attività di promozione della cultura enogastronomica italiana in Svizzera. Nel nuovo ruolo allo Splendide Royal si prefigge sempre lo stesso obiettivo, ovvero la ricerca del meglio per suscitare emozioni nella clientela: “in questo è indispensabile la complicità con lo chef di cucina – afferma Tenca –. Stiamo lavorando con il Direttore Giuseppe Rossi e l’Executive Chef Alessio Rossi per entrare nelle guide più prestigiose per far meglio conoscere il Ri storante La Veranda. La carta del
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Ristorante presenta piatti della tradizione rivisitati, la cantina è ricca e offre circa trecento etichette selezionate di diversi paesi. Come novità offriamo un carrello di vini al bicchiere con grandi etichette, champagne, spumanti e naturalmente grandi e piccoli produttori del territorio molto innovativi”. Piero Tenca è inoltre Presidente Nazionale dell’Assp, Association Suisse des Sommeliers Professionnels, fondata da lui stesso nel 1985 con altri 26 soci proprio nello Splendide Royal, e ricopre la carica di Vice Segretario Generale Aggiunto dell’ASI, Associazione Mondiale Sommeliers. www.splendide.ch
Risotto Mio: l’express di Riso Gallo Dall’esperienza di Riso Gallo e Fiordiprimi di Surgital, note aziende italiane nel comparto del food service, è nata un’importante collaborazione volta a promuovere l’offerta di prodotto e di servizio dedicato all’area bar. Con Risotto Mio, la nuova gamma di risotti pronti, bastano quattro minuti nel microonde per assaporare durante la pausa pranzo un primo 100% italiano: dal risotto alla marinara al risotto alla parmigiana preparato con Parmigiano Reggiano DOP, dal risotto con punte d’asparagi ai Tre Cereali
o con Gambery & Curry. “Fiordiprimi e Riso Gallo – dichiara Massimiliano Bacchini, Direttore Commerciale di Surgital – hanno avviato questa collaborazione al fine di creare un prodotto di grande qualità a supporto del Barista, il quale avrà l’opportunità di offrire un ottimo risotto ai suoi clienti. La materia prima ottima si è fusa con il know how trentennale di Surgital nel settore dei primi pronti surge-
lati. Da questa collaborazione non poteva che nascere un prodotto ad alto contenuto di servizio, garantito dal marchio di due aziende leader”. Risotto Mio è preparato con la varietà di riso Sant’Andrea ed è disponibile in comode confezioni da 300 g pronte all’uso. www.risogallo.it
SICUREZZA ALIMENTARE Diossina? No grazie Eurovo, azienda italiana produttrice di uova confezionate, ovoprodotti e ovoderivati, garantisce ai propri consumatori completa estraneità al problema diossina. La filiera produttiva, completamente rintracciabile, si basa su rigorose attività di controllo e certificazioni, a partire dall'analisi dei mangimi differenziati in base alle esigenze nutritive dell'animale e prodotti dalla stessa azienda. I prodotti Eurovo, sicuri e privi di diossina, sono contrassegnati dai seguenti marchi: Maia, Cocodì, Le Naturelle, Ovonature e Cocoissimo. www.uovo.it
GIOVANI CHEF Mattia Spadone si aggiudica il Tartufo di Gubbio La tradizionale competizione fra cuochi ha visto al primo posto uno chef abruzzese, a conferma della passione che il tartufo suscita in tutta l’offerta di ristorazione italiana. A Gubbio ha vinto Mattia Spadone: arriva dall’Abruzzo il ventiduenne cuoco che si è aggiudicato l’edizione 2010 del concorso gastronomico “Tartufo di Gubbio”, la competizione intorno ai fornelli organizzata dal Comune di Gubbio, dalla Comunità montana Alta Umbria e dalla E20 Comunicazione. Obiettivo primario dell’evento è far conoscere sempre di più e meglio la qualità e la prelibatezza del tartufo bianco dell’Alto Chiascio, il comprensorio umbro di Gubbio è il capoluogo virtuale. In gara, tra logiche competitive e un forte spirito di collaborazione, oltre a Mattia Spadone, in rappresentanza del ristorante di famiglia “La Bandiera” di Civitella Casanova (Pe), c’erano anche gli chef Fabio Coluccino di “Amici miei” di Montecarlo, Baciòt del “Grand Hotel Parker’s” di Napoli, Natale Giunta dell’omonimo ristorante di Termini Imerese (Palermo), direttamente dalla “Prova del cuoco” di Rai Uno. Padroni di casa, invece, Claudio Ramacci del “Mencarelli Group”, Adilgerio Tosti del “Park Hotel Ai Cappuccini”, Paolo Pascolini de “La Cia”, Massimo Carleo del “Castello di Petroia” e Vito Favuzzi del “Fabiani”. Questo lo sfizioso menù tartufato presentato in forma anoni-
ma ad una giuria di esperti gourmet presieduta dal caposervizio e conduttore del Tg1 Rai Uno Attilio Romita e composta dal nostro direttore Alberto Schieppati, Salvatore Marchese, Rosalba Carbutti, Ilio Masprone, Anna Moroni, Augusto Tocci e Angelo Valentini, che ha portato all’incoronazione di Spadone: come antipasto ha proposto ‘Uovo croccante, spuma di formaggio, patate e tartufo bianco di Gubbio’, mentre il primo piatto erano ‘Raviolini di pecorino con salsa di porri e tartufo bianco di Gubbio’ e per secondo ‘Faraona farcita con i suoi fegatini, purea di fagiolini Tondino e tartufo bianco di Gubbio’. “Sono un presidente che non ha titoli come altri colleghi della giuria, enogastronomi e grandi firme del settore, ma non avendo conoscenze, non avevo neanche condizionamenti e sono stato un presidente assolutamente imparziale – ha iro-
nizzato Attilio Romita nel corso della serata di premiazione -. Tutta la giuria è stata serissima, meticolosa, abbiamo ricontato le schede tre volte per arrivare al verdetto finale e decretare il vincitore: il quale ha vinto davvero sul filo di lana, tale era la qualità delle preparazioni”. Il premio “Tartufo di Gubbio” è stato consegnato a Mattia Spadone dal sindaco di Gubbio, Maria Cristina Ercoli, a capo di una giunta particolarmente attiva nel sostenere le tipicità territoriali, che nella serata di gala. Al Park Hotel Ai Cappuccini, ha fatto “gli onori di casa” e descritto ampiamente i progetti che stanno alla base di un’attività amministrativa particolarmente intensa. Nelle foto: premiazione di Mattia Spadone presso il ristorante del Park Hotel Ai Cappuccini e il tocco finale con il tartufo bianco di Gubbio a lamelle. Foto Gianluca Benedetti per Press News
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SISIFO DISTILLATI Masochismo Presentato a Milano Ron milanese
Millonario XO, il top dei distillati
Nell’era del benessere totale, dei lifting estremi (quelli che trasformano le labbra in orifizi avicoli e le palpebre in borse della spesa) e della cosmetica “botulina” (che fa venire in mente il botulismo, l’orribile malanno che colpisce chi si alimenta di sottaceti mal conser vati, almeno sotto il profilo ermetico), della chirurgia plastica e dell’abbronzatura permanente, vale la pena di ricordare che Milano (tanto per citare quella che, dati alla mano, sembra essere la capitale del “bello è meglio”) detiene il triste primato nazionale delle malattie respiratorie (bronchiti asmatiche in primis) a causa dell’inquinamento da traffico, per il quale la Regione Lombardia è stata più volte “avvertita” dalla UE. Ma che importanza ha? Si potrà ben sacrificare, nella città del benessere, qualche decina di migliaia di malati cronici, immolati alla causa nobilissima del business (ma quale business poi?). E, sempre in tema di edonismo e nuove tendenze, mi va di citare quei locali che, metà banco di mescita, metà angusto food corner per impiegati, segretarie e coatti (detto in senso buono, per carità), vedono transitare sui banconi e mescolarsi fra i tavoli – in confusa e promiscua alternanza – dolce e salato, appetizer e croissant, penne al pomodoro e bottiglie già stappate da tempo immemore, olive galleggianti da ore nella loro salamoia e alla mercé di batteri collettivi, fette inarcate di pan carré invase da cremine ossidate. I tavoli spesso sono traballanti e non bastano due carnet di biglietti del tram per rimetterli in asse, il servizio è cameratesco (nel migliore dei casi), i prezzi – apparentemente bassi – in realtà nascondono ricarichi da capogiro. Altro che lamentarsi del mark up di certi locali stellati… Ev viva dunque la nuova modernità! Evviva la libertà di fare e subire quel che si vuole, in linea con il neoliberismo dilagante! Ma tant’è: nella città del benessere, dove l’importante è accettare tutto, anche l’offerta scadente fa parte del gioco. Senza, però, che nessuno si diverta. Sisifo
Presentato a fine anno, in centro a Milano, nel lussuoso showroom MDF il Ron Millonario XO, distribuito dalla Rossi & Rossi di Treviso. È un distillato peruviano d’eccellenza, frutto di un assemblaggio di diversi millesimi invecchiati fino a 20 anni. Ricavato da profumate e selezionatissime melasse, è un rum d’alta gamma con tutte le caratteristiche per poter invecchiare ancora a lungo. Affinato in botti di rovere, è di color ambra, pieno e caldo, che vira al mogano e di profumo intenso e penetrante, con sottili note di miele. Ottimo da degustare in meditazione abbinato, a chi lo gradisce, con cioccolato fondente di qualità, in grado di esaltarne le sue doti. In vendita presso enoteche e gastronomie di prestigio e ristoranti stellati. Prezzo consigliato: 90 euro. www.ronmillonario.com
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TOSCANA Carpineto, tradizione e tecnologia Il progetto di produrre Chianti Classico a livello internazionale, rivistandone la filiera produttiva, rappresentava un obiettivo alquanto ambizioso. Ma la sfida partiva da due basi solide: il territorio toscano, stuzzicante potenziale per la produzione di grandi vini rossi, e la caparbietà di un piemontese e di un pugliese. Ne è
nata una delle più importanti realtà vitivinicole della Toscana: oggi l'azienda Carpineto, fondata nel 1967 da Giovanni Carlo Sacchet, bellunese, e Antonio Mario Zaccheo, pugliese, punta sulla tecnologia e produce dalle cantine delle quattro Aziende Agricole dislocate tra la zona del Chianti, di Montepulciano e la Maremma, vini doc, docg e olio extra vergine d'oliva. In particolare i vini rossi come il Chianti Classico, il Super Tuscans, il Rosso e il Nobile di Montepulcinao, e i vini bianchi come il Dogaiolo Bianco, sono esportati in 70 paesi, con una produzione di 2 milioni di bottiglie. Entro il 2011 sarà attuato anche un nuovo progetto legato allinternazionalità dell'esportazione: tutti i prodotti dell'azienda saranno dotati di codice QR (quick response), il noto codice a barre bidimensinali che "letto" da smartphone o i-pad pemetterà al consumatore finale di conoscere i dettagli di ogni prodotto. Nella foto, da sinistra: Antonio Zaccheo junior, Margherita Sacchet e Zaccheo senior. www.carpineto.com
STORIE DI ECCELLENZA
Dalla materia prima alla mise en place La nostra esperienza gastronomica inizia a Parma, in Emilia Romagna, dove nascono e continuano a vivere alcuni dei prodotti più conosciuti della tradizione culinaria italiana. L’iter catartico in terre verdiane nasce dalla singolare – e intelligente – iniziativa voluta da Walter Bongiorni, AD Villeroy & Boch Italia, per estendere anche alla “carta stampata” la sua personale filosofia di vita: l’amore per le cose fatte bene, la vera passione, l’impegno e la determinazione contagiata al proprio staff per capire il mercato di oggi e tenere testa alla crisi. Un “viaggio” raccontato in modo del tutto informale, tra un buon bicchiere di Fortana del Taro e una fetta di Strolghino, portando come esempio anche altre realtà che hanno fatto della determinazione il proprio stendardo. Prima tappa: visita all'Academia Barilla – con una “c”, voluto riferimento al concetto latino di accademia – per toccare con mano la concretezza di una grande azienda, Barilla, raccontata dalle parole di Gianluigi Zenti, Executive Director. Varcare la porta di Academia Barilla significa entrare in un’architettura polifunzionale – auditorium da 90 posti, laboratorio polisensoriale, aula per il training pratico, 16 cucine professionali – dotata della più importante biblioteca gastronomica italiana: 8000 volumi, 3 milioni di ricette che raccontano la storia della tavola italiana, una raccolta di oltre 5000 menu storici e testi antichissimi. L’Academia nasce nel 2004 con la missione di difendere i prodotti alimentari italiani da contraffazioni e diffondere la cultura della gastronomia italiana anche all’estero, con pubblicazioni ed eventi. Ma non solo: si organizzano team building, corsi e momenti di formazione professionale per chef. E il percorso continua alla ricerca dell’eccellenza, da scovare tra le nebbie della “bassa parmense”: destinazione Antica Corte Pallavicina. Siamo a Polesine Parmense, a circa 40 km da Parma e a 5 km da Busseto, patria natale di Giuseppe Verdi, e pochi metri ci separano dall’argine maestro del Po. Il vecchio maniero – il
Palazzo delle Due Torri, come viene ricordato dalla storia – è stato recuperato con un’importante opera di ristrutturazione: soffitti a cassettoni, affreschi, camini a parete, pavimenti originali ma, soprattutto le cantine risalenti al 1320, utilizzate come allora per la stagionatura del culatello e del parmigiano reggiano. Le cantine offrono uno spettacolo senza pari, proteggendo e sviluppando un microclima naturalmente perfetto per la stagionatura di 5000 culatelli. Ad accoglierci la sobrietà e la concretezza dello chef Massimo Spigaroli che, con il fratello Luciano, ha realizzato un progetto di vita: recuperare le terre del padre per farle rivivere secondo la tradizione contadina del luogo, seguendo i ritmi delle stagioni e producendo eccellenza. Eccellenza riconosciuta anche dalla Guida gastronomica Michelin che ha voluto coronare con l’ambita stella il talento di Massimo Spigaroli e i suoi menu. La premiazione, avvenuta il 24 novembre 2010 all’Hotel Principe di Savoia di Milano, è stata così motivata: “l’Antica Corte Pallavicina è apoteosi della Bassa Padana, nonché regno dei culatelli a cui è dedicato un tempio-cantina. Si mangia in un castello di origini medievali, trasformato in vetrina-gourmet. Il viaggio nel tempo continua nelle camere con arredi d’epoca e atmosfere d’antan. I menu di Spigaroli partono da prodotti freschissimi, per la maggior parte coltivati, allevati e stagionati all’interno della
errepimage.it stessa azienda agricola, e vengono proposti in chiave originale e sempre innovativa”. E i festeggiamenti non potevano che avvenire nelle cucine di Villa Pallavicina: dalla porta socchiusa si eleva un brindisi, un applauso, una “stella” accolta con quella giusta dose di riservatezza, dove la gioia per l’ambito riconoscimento si legge negli occhi lucidi e non nelle parole urlate. E qui si chiude il cerchio sull'eccellenza, con la mise in place dei sorprendenti menu di Massimo Spigaroli, risaltati dal design delle stoviglie firmate Villeroy & Boch. Nella foto: Massimo Spigaroli all'opera nel suo ristorante Antica Corte Pallavicina. www.acpallavicina.com www.villeroy-boch.com
La collaborazione delle due aziende piemontesi rinnova la tradizione del fondente al rum con una delizia per gli amanti del cioccolato: una pralina extra fondente Caffarel ripiena di crema al rum Bacardi, un abbraccio gustativo giocato sulla persistenza. La cerimonia dello "sposalizio", celebrata presso la Terrazza Martini di Milano, ha dato vita a un percorso degustativo animato da Sergio Signorini, creativo di dolcezze e mastro pasticcere Caffarel, e Marco Martino, Brand Ambassador Bacardi. La storica azienda di origine cubana produttrice di rum, è stata acquisita nel 1993 dalla italiana Martini & Rossi ed è oggi una tra le più importanti aziende mondiali, per produzione e distribuzione di bevande alcoliche. E non poteva mancare un cocktail preparato per l'evento: la degustazione è stata infatti accompagnata da un Fresh Daiquiri, rum Bacardi e salsa al cioccolato Caffarel profumato alla menta. La Collezione Caffarel-Bacardi viene proposta sfusa e in differenti confezioni, in vendita nelle migliori pasticcerie e bar di tutta Italia. www.caffarel.it www.bacardi.com
RUM CIOCCOLATO Caffarel E e Bacardi, l'incontro perfetto
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TOSCANA Coevo 2007, grandi emozioni "Abbiamo creato un vino che esprime il nostro concetto di eleganza, stile e qualità. Lo abbiamo chiamato Coevo perchè porti con sè il valore del tempo". Le parole di Cesare e Andrea Cecchi, i "capitani" della storica azienda vinicola Cecchi nata nel 1893, esprimono un valore aggiunto che è quello legato al concetto di contemporaneità e qualità: l'uvaggio di Coevo può infatti variare a seconda della vendemmia, ma l'elemento base che lega la famiglia Cecchi al territorio resta sempre il Sangiovese. La seconda annata del Coevo, quella del 2007, rappresenta infatti grande motivo di orgoglio, grazie a una maturazione straordinaria delle uve del Sangiovese di Castellina in Chianti che hanno regalato profumi di viola e terra del Chianti. Accolto con particolare interesse in Italia e all'estero già nell'"edizione 2006", Coevo 2007 ha replicato la vendemmia in un tour italiano esclusivo: dall'Enoteca Pinchiorri, a Firenze, per giungere poi alle Le Calandre a Padova, passando Da Vittorio a Brusaporto (Bg) e La Pergola dell'hotel Rome Cavalieri a Roma. Un momento da dedicare non solo alla degustazione di un'ottima annata, ma soprattutto al dialogo con chef, ristoratori e giornalisti di settore. www.cecchi.net
Quella nella foto non è una “caprese” qualsiasi: è la creazione del maestro Gualtiero Marchesi che, alla faccia di quanti lo giudicano chef inaccessibile ed esasperato, esprime in realtà con questo piatto il massimo della semplicità della sua filosofia di cucina. Il piatto, in menù al Marchesino, in piazza della Scala, è tra i preferiti dalla clientela, sempre più alla ricerca di piatti riconoscibili e dai gusti netti e armonici. Gualtiero, che della cucina conosce “le radici, i valori, i segreti, i limiti, le simbologie” (come ha scritto Carlo G.Valli nella postfazione del libro “Marchesi si nasce” (Rizzoli 2010), ha da tempo imboccato la strada della sapienza culinaria. Uomo di grande cultura, maestro di centinaia di discepoli divenuti poi grandi chef, il cuoco per antonomasia ha dato con la sua Caprese un ulteriore esempio di saggezza e di aderenza totale al bisogno di semplicità e freschezza della clientela del Marchesino e dello storico “Gualtierio Marchesi” all’Albereta.
TRADIZIONE La caprese del maestro
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pronti a celebrare il rosso?
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Luoghi, fatti, consumi Le notizie in CIFRE
233 sono gli anni di vita del mitico Caffè Quadri, lo storico locale di piazza San Marco a Venezia. E’ di poche settimane fa la notizia dell’accordo di partnership fra la società della famiglia Alajmo – che a Sarmeola di Rubano è titolare del ristorante Le Calandre (chef Massimiliamo Alajmo, il più giovane cuoco del mondo ad avere ottenuto le tre stelle Michelin)e il gruppo Ligabue, attivo nel catering dagli anni Cinquanta: l’intesa prevede che la gestione del Caffè Quadri venga totalmente affidata agli Alajmo. Il cambio di guida al timone del locale è il risultato di un’operazione finanziaria che sembra prevedere l’ingresso della Ligabue Spa nel capitale della Alajmo spa con una quota minoritaria.
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720 milioni di euro sarebbe la cifra della spesa effettuata in Italia per il consumo di vini sparkling di produzione nazionale durante le festività di fine 2010. Il dato è stato fornito dall’Ovse (www.ovse.org), l’Osservatorio guidato da Giampiero Comolli, che da alcuni anni monitora il mercato delle bollicine italiane (metodo classico, charmat, prosecco), secondo il quale si può ipotizzare che nella sola notte di capodanno siano state stappate circa 60 milioni di bottiglie (su un totale di 380 milioni di bottiglie prodotte) di spumante made in Italy.
520 sono i vini passiti e da meditazione (tra vendemmie tardive, pourriture noble, muffati, icewine ecc.) che parteciperanno al Concorso internazionale che si svolgerà a Bologna, al Savoia Hotel Regency, il 5 e 6 marzo prossimi. La mega competizione è organizzata dai Maestri Sommelier della muffa nobile, in collaborazione con Aspi, l’associazione della sommellerie professionale italiana, guidata da Giuseppe Vaccarini. È il più alto numero di vini di questa categoria che abbia mai partecipato ad un concorso internazionale.
pomodoro spumeggiante
il primo ricettario cirio alta cucina Ci sono tante cose che un pomodoro può fare, soprattutto se è Cirio. Dall’inizio alla fine, l’eccellenza vi sorprenderà: per la presentazione, la preparazione, la novità. Dedicato agli Chef che puntano sempre al meglio anche nelle idee: Pomodoro Spumeggiante, 10 ricette al top. Chiedilo al numero verde o clicca su cirioaltacucina.it. Il nostro Chef promoter ti visiterà.
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TRADIZIONE DI ECCELLENZA
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Il VINO il cliente ha deciso così
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di Emanuele Banfi Da questa indagine sulla tipologia di offerta del vino al ristorante, effettuata su un panel di 120 ristoratori in tutta Italia, emergono alcuni punti fermi, sintetizzati nelle interviste pubblicate. Le bottiglie intere (0,750) sono richieste da tavoli di almeno 4 persone: difficile che una coppia le ordini. Ma va diffondendosi il costume di portarsi a casa la bottiglia iniziata. Sempre più apprezzato, quando c’è, il servizio al calice, in competizione con le mezze bottiglie. La cultura dei grandi formati in Italia è ancora agli albori. I bianchi strutturati sono chiesti meno, a favore di bianchi freschi, bollicine e rossi di medio corpo. L'andamento negativo dei consumi, equamente imputabile a crisi economica e a etilometro, pare essersi arrestato e stabilizzato. Sul prossimo numero affronteremo il tema dell’offertavino segmentata per tipo di locale.
Terminata ormai da tempo la “sbornia” dei felici anni Novanta e della sua coda protrattasi sino al 2001-2002, quando il vino si vendeva da sé (più costava ed era blasonato e più era richiesto; l'economia relativamente stabile e florida; nessuno spauracchio di “palloncini” né di alcol-test; ancora nessuna delle odierne, sospette e demagogiche campagne proibizionistiche che oggi, di fatto, tendono a equiparare giovani che sballano in discoteca con alcol “di pronta beva” e di pessima qualità, a chi beve con consapevolezza un calice di Franciacorta o un ballon di Barolo), oggi la musica è radicalmente diversa. E non ci riferiamo a quella delle discoteche: rumore era e chiasso rimane, bensì a quella delle trattorie di qualità, dei ristoranti di livello medio e alto, delle enoteche con mescita, delle osterie tradizionali. Che stanno davvero facendo fatica a proporre e vendere dignitosi quantitativi di vino di qualità. Da qui la necessità, ormai non più prorogabile, di mettere a punto strategie di vendita più raffinate, basate su di un'accorta segmentazione della propria clientela, tese a sintonizzarsi sulla linea d'onda psicologica dell'avventore che si ha di fronte, così da riuscire il più possibile ad accontentarlo, assecondarne i bisogni, naturalmente nel rispetto dei criteri di economicità che un esercizio commerciale è tenuto a perseguire per la sua stessa sopravvivenza. Si potrebbe sintetizzare in uno slogan, semplicistico ma ficcante: Rendere il cliente sovrano, con proposte costruite su misura. Elasticità, deve diventare la parola d'ordine. Fatta questa premessa, vediamo come alcuni ristoratori della penisola hanno saputo adeguarsi a questo nuovo modus operandi, nel tentativo di ovviare a un trend di vendite nel mondo dell'horeca piuttosto negativo. In declino l'era delle famose “liste fotocopia”, sorta di copia-incolla dei vini pluripremiati dalle guide e per default spesso acriticamente selezionati dai responsabili di cantina dei locali, come si atteggiano ora alcuni fra i più lungimi-
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ranti patron per risollevare le sorti del loro locale, soprattutto dal punto di vista della proposta enoica che non è certo un dettaglio sul totale del fatturato di un ristorante? Marina Terraneo Ristorante La Scaletta Marina Terraneo, sommelier e co-patron dell'albergo-ristorante La Scaletta di Cantù, ci racconta: “Data la natura del nostro locale, legata anche a una clientela costituita da rappresentati di passaggio che usufruiscono dell'ospitalità delle nostre camere, non è raro che ci capiti di dover servire tavoli formati da un singolo avventore. Nel qual caso, a livello di servizio del vino, cerchiamo di suggerire la mezza bottiglia. A pranzo in genere il consumo sarà limitato a un solo calice, e allora ricaricheremo solo quello sul conto; la sera, in genere la bottiglia da 0,375 verrà terminata dal commensale, dunque nessun problema”. Perciò non avete una vera e propria proposta al calice? “In linea di massima, no. Preferiamo puntare appunto sulle mez ze bottiglie, più gestibili e che spesso vengono terminate dal cliente. Il servizio al bicchiere porta al rischio
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che poi rimangano invendute bottiglie già aperte. Fra l'altro la nostra lista di mezze bottiglie – proposte fra gli 8 e i 15 Euro - è particolarmente ricca: 6 referenze di sparkling, soprattutto Prosecco e Champagne; 6 di bianchi e altrettante di rossi, che includono un Barolo di Bussia Soprana e un Brunello di Mastroianni”. Come vi regolate con le coppie? “Se si tratta di giovani, quindi dai 25 ai 35 anni, vuoi per il discorso alcol-test, vuoi per motivazioni economiche, in genere optano per una sola mezza bottiglia per tutta la cena. Nel caso di persone relativamente più mature, pare di osservare un minor timore verso il 'palloncino', oltre a una ovvia maggior agiatezza economica: in questo caso, spesso ci ordinano una bottiglia intera”. E se la comitiva di commensali si allarga? “Se parliamo di 4 avventori, di rado si va comunque oltre la bottiglia; con 6 persone, il movimento al tavolo si fa già più interessante: in genere ci richiedono uno spumante e un rosso. Quanto ai piccoli banchetti, il vino lo proponiamo noi, incluso nel prezzo (da i 40 ai 50 Euro, proponiamo menù completi e articolati su più piatti), a meno di richieste particolari. Per esperienza sappiamo che un gruppo
Su misura: il nuovo cliente del vino cambia spesso idea. Ma su una cosa ha le idee chiarissime: la proposta deve sempre essere in linea con le necessità di consumo e le aspettative.
di 18 persone consuma all'incirca 3 bottiglie di spumante, 3 di bianco, 2 di rosso e 2 di vino da dessert (che serviamo sempre al calice). Nei menu a tema o nelle degustazioni, in generale il vino lo consigliamo, ma lo serviamo a parte, non incluso nel prezzo finale. Non abbiamo invece una parte della carta riservata alle magnum, che acquistiamo solo su richiesta”. Ci racconti dei gusti dei tuoi avventori? “ Da ottobre a febbraio vendiamo per un buon 70% rossi, anche strutturati. Per esempio abbiamo in carta due etichette che i clienti giudicano di particolare interesse proposte a un prezzo più che equo: lo Sfursat Canua di Sertoli Salis, a 43 Euro, e il Gattinara di Antoniolo, a 29 Euro. Da Aprile in poi, si va sulle bollicine, sui bianchi freschi, sui rosati, soprattutto del Garda Bresciano. Va detto, che la scelta del vino, almeno da noi, è molto legata al nome del vitigno. Non è invece possibile identificare una precisa corrispondenza fra tipo di cliente e tipologia di vino scelto; una relazione, questa, del tutto trasversale”. Come vedi il futuro? “Riteniamo di aver fatto la scelta giusta, puntando sulle mezze bottiglie e credo che la strada corretta da perseguire sia questa”.
Sergio Mauri Ristorante La Rimessa Sergio Mauri, chef-patron de La Rimessa di Mariano Comense, la vede così: “Noi riteniamo sia opportuno avere una piccola lista di vini al calice. Cinque referenze bianche, altrettanto rosse e 14 di vini da dessert. Scelte naturalmente non fra tutti i vini in carta, ma fra una omogenea classe di etichette, tale da consentirci un equo ricarico vendendo un calice a 3,50 Euro, considerando che per noi una bottiglia equivale a 5 bicchieri. Detto questo, se un commensale cena da solo, con un piatto gli basterà in genere un calice di vino, con due piatti probabilmente passerà a una mezza bottiglia, con tre piatti è possibile opti per due calici: uno di vino bianco e uno di rosso”. E con le coppie come vi regolate? “Qualche coppia passa direttamente alla scelta di una bottiglia, è un fatto molto soggettivo. Più spesso, se d'accordo con la tipologia scelgono la mezza, oppure il calice, in un clima di massima libertà di scelta. Nel caso di comitive di 4-8 persone, tutto dipende se i commensali riescono a raggiungere un accordo su cosa bere. In caso
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positivo, si può andare su una bottiglia di vino bianco (o di spumante) e poi su un rosso; viceversa non rimane che la soluzione al calice. In qualche caso, se tutti decidono di bere per l'intera cena il medesimo vino, allora proponiamo un grande formato, magnum o doppia magnum, in base al numero degli avventori”. E nel caso di piccoli banchetti? “Cerchiamo di farci un'idea
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a monte del tipo di vini da servire, in modo da avere una scelta già programmata, soprattutto in base ai gusti dei clienti. Se poi all'ultimo momento qualcuno vuole assaggiare qualcosa di diverso, non abbiamo problemi ad accontentarlo con soluzioni alternative, al calice. Sempre all'insegna della flessibilità. Quanto alle serata a tema, serviamo i vini previsti a menu, inclusi nel prezzo, a calice, senza limitazione. Nei menù degustazione, in genere offriamo un calice di vino, fra quelli alla mescita”. Ma noi ci ricordavamo di te come del paladino delle mezze bottiglie...: “In parte lo sono ancora, pur se ho deciso di ridurle drasticamente, in sintonia con tutta la carta dei vini peraltro. Eravamo giunti ad averne 50 di rossi e 38 di bianchi. Oggi siamo rispettivamente a 20 e 12. Che vanno da 7-8 Euro sino ai 50 del Sassicaia e ai 48 del Gaja e Rey. D'altro canto è indubbio che per la conservazione del vino non si tratta certo del miglior contenitore possibile. Inoltre, a rendere meno appetibile la mezza, oggigiorno, c'è il fatto che noi offriamo il servizio di ritappatura della bottiglia non terminata, che il cliente può tranquillamente portarsi a casa”. Quali sono le tipologie che oggi vanno per la maggiore? “I bianchi freschi sono in grande spolvero, così come i rossi di media struttura, tipo Lagrein e Pinot Nero. Da noi non vanno molto, viceversa, i bianchi di struttura e i rossi molto longevi: tipologie poco capite dal nostro pubblico. C'è da dire che la clientela che ci sta dando più soddisfazione in questi ultimi tempi è quella compresa nella fascia 30-40 anni assai attenta alla qualità; anche le giovani donne sono spesso assai informate. In genere il criterio di scelta si appoggia sull'abbinamento con il cibo; sta al nostro sommelier capire in che fascia di prezzo andare a proporre, senza mai esagerare e proponendo eventualmente la carta per consentire al cliente un primo sguardo. In qualche caso il commensale chiede direttamente una specifica marca. Il futuro? Tenuto conto del terribile binomio
crisi economica più alcol-test, il segreto starà sempre più nella riduzione dei costi fissi e in una oculata gestione del vino al calice, il tutto all'insegna della massima flessibilità possibile”. Maurizio Maggi Osteria del Pomiroeu Altro contesto interessante è quello del Pomiroeu di Seregno. Ci racconta il sommelier Maurizio Maggi: “la nostra carta dei vini non fa distinzione tra 'vino al bicchiere' o 'vino a bottiglia', nel senso che il cliente può chiedere un servizio al calice per qualsiasi delle bottiglie proposte, è ovviamente cura del sommelier 'guidare' nella scelta il cliente in modo opportuno. Questa disponibilità sul servizio al calice elimina radicalmente il bisogno di avere in cantina le 'mezze bottiglie'. La scelta è anche sostenuta dalla preoccupazione che nella 'mezza misura' il vino si conserva meno bene
rispetto a tutti gli altri formati: se un vino è di pregio, rischia di rimanere in cantina tanto tempo e di non essere servito nelle migliori condizioni. Inoltre il cliente viene sempre messo al corrente che esiste, anzi è pratica incoraggiata, la possibilità di portare a casa la bottiglia di vino non completamente consumata, tappata e messa in un elegante 'doggy-bag': ciò permette al cliente di bere osservando un suo limite, dandogli l'opportunità di terminare una bottiglia desiderata a casa, senza più metter in pericolo la propria e altrui sicurezza in strada. Da noi assieme al menù di stagione si dà subito anche la lista dei vini, così da avere un primo orientamento. Poi fa parte della professionalità del sommelier indagare sulle preferenze del cliente, cercando di soddisfare desideri di accompagnamento con singoli calici, anche per ogni piatto scelto, adatti alla soluzione gastronomica, o rispondere alla volontà di bere proprio quella data tipologia di vino”. Sug-
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gerite anche grandi formati? “Da 4 persone in su proponiamo anche magnum, sempre attenti però al tipo di cliente in cui ci imbattiamo. A volte si esegue anche un servizio misto, bottiglie intere più calici di vini diversi”. Come gestite le serate a tema? “In questo casi i vini siamo noi a proporli, ma non poniamo limiti a quei clienti che sedierano vini diversi, serviti anche al calice. In futuro anche per i menu degustazione proporremo noi dei vini, citandoli espressamente sulla carta”. Come effettuate i ricarichi sul vino al calice? “Chiediamo un prezzo minimo per qualsiasi tipo di vino, da quel livello in su il prezzo di un bicchiere è quello di 1/5 del prezzo della bottiglia, con ricarichi differenti a seconda del livello di prezzo”. Da parte del cliente, qual è il criterio che va per la maggiore? “In genere il cliente medio si fa consigliare, in modo da creare la massima armonia cibo-vino”. Aggiungiamo che lo chef-patron Giancarlo Morelli, nella nuova cantina del ristorante, ha creato un ambiente adatto a ospitare piccoli eventi quali cene riservate fino a 4 persone o ape-
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ritivi per gruppi fino a 8-10 presenze, proponendo un servizio di “fingerfoods” e degustazioni di risotto fuori dagli schemi usuali. Inoltre è prevista l'organizzazione di un ciclo di 20 serate improntate sui vini regionali: durante questi incontri verranno proposti vini da vitigni autoctoni di tutte le regioni d'Italia, accompagnandoli con piatti studiati appositamente, proposti a schema libero, senza seguire una logica strettamente tradizionale. Si comincerà a Febbraio con il TrentinoAlto Adige. Stefano Cerveni Ristorante Due Colombe Siamo al Due Colombe di Borgonato di Cortefranca (Bs). Parliamo con Stefano Cerveni, chef-patron. “Nel caso del singolo avventore abbiamo due soluzioni di degustazione al bicchiere: 'percorso scoperta' e 'percorso curiosità', rispettivamente di 2 e 4 referenze. Il tipo di vino lo si decide col cliente, dopo aver capito i suoi gusti in relazione ai piatti scelti. In ogni caso c’è sempre la possibilità di servire
I CONSUMI AL RISTORANTE Il single
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I CONSUMI AL RISTORANTE La coppia
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anche un solo calice, con le medesime modalità. Se ci si trova di fronte a una coppia o a piccole comitive, di solito la scelta ricade direttamente su una bottiglia, perciò non ci sono problemi particolari; anche se proponiamo volentieri degustazioni di vino che permettono di assaggiare più tipologie, magari a costi e quantità inferiori rispetto a una bottiglia intera”. Nel caso di piccoli banchetti? “Si concorda tutto prima, a livello di scelta del vino, oppure si stappano grandi formati (abbiamo circa 30 referenze), adatti al numero dei commensali. Nelle serate a tema il vino viene sempre proposto da noi, così da poter fissare il prezzo del menù completo. Nei menù degustazione, viceversa il vino è a libera scelta”. Non hai menzionato le mezze bottiglie...: “sicuramente sono più economicamente gestibili, ma in ogni caso preferiamo stappare per degustazioni al bicchiere che rendono l’esperienza del pasto più com-
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pleta e varia. Tanto per capirci, mentre abbiamo solo una decina di referenze nel formato della mezza bottiglia, a livello di servizio al calice siamo disposti a stappare tutto”. Ma che ricarico fate sul vino al calice? “Lo stesso che sulla bottiglia, quindi un ricarico del 100% + Iva rispetto al costo da noi sostenuto”. A livello di tipologie, quali le più richieste? “Bianchi freschi, rossi di media struttura, bollicine molto secche (Extra Brut) e Rosé. Scelti sulla base dell'abbinamento al cibo”. Uno sguardo al futuro: “Ci sono molti fattori che lo rendono un po' difficoltoso, leggasi crisi economica ed etilometro; da questa situazione sono convinto che le proposte della carta debbano essere ben meditate e ricaricate nei prezzi con onestà e chiarezza, in funzione della qualità del servizio e dei costi di gestione del magazzino e del personale. Riuscire a consigliare il cliente su un servizio al bicchiere di più vini è la soluzione ideale, anche
Dalla nostra indagine su un panel di 120 ristoratori, emerge che il cliente vuole un servizio sempre più personalizzato. Cresce l’offerta al calice, mentre il tavolo intero ordina ancora la bottiglia.
I CONSUMI AL RISTORANTE Il tavolo completo (4-8 commensali)
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per dare più spunti di interesse al pranzo con la possibilità di compiere un’esperienza più completa a livello degustativo, senza impegnare troppo il commensale sia a livello di costi sia di quantità di alcool servita”. Leandro Luppi Ristorante Vecchia Malcesine Leandro Luppi, chef-patron di Vecchia Malcesine, nel cuore dell'omonima località Alto Gardesana, ci racconta: “Se il cliente ci si presenta in solitudine, di regola gli proponiamo un servizio al bicchiere, magari abbinato al piatto, scegliendo noi cosa andare a servirgli. Nel caso di una coppia, ormai poche hanno il “coraggio” di bere una bottiglia intera e chiedono altre soluzioni: servizio al calice (abbiamo circa sempre 20 referenze, proposte a rotazione), mezza bottiglia,
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una qualche combinazione intermedia. Le piccole comitive di 4-8 persone di regola ordinano invece bottiglie intere, da una a tre. Per i piccoli banchetti si concorda tutto prima a livello di scelta del vino; non di rado optando per un solo vino. Infine, per serate a tema e menù degustazione di regola proponiamo noi 2-3 vini, serviti al calice. Quanto al particolare discorso dei vini da dessert, fermo restando che sempre meno ne bevono, li proponiamo naturalmente al calice”. Che ricarico fate sul vino a bicchiere? “Semplice: il prezzo di quattro calici deve pareggiare quello del costo in carta dell'intera bottiglia”. Quali sono le tipologie che vanno per la maggiore al momento? “Bianchi freschi, rossi di media struttura, bollicine bianche molto secche (Extra Brut) e rosé, chiaretti gardesani. In ogni caso in genere i nostri clienti si affidano ai nostri con-
sigli. Come vedo il futuro del vino al ristorante? Credo che dopo i grossi cali di consumo di questi ultimi anni, la domanda si assesterà sugli attuali e ormai consolidati livelli”. Paola Bertinotti Ristorante Pinocchio Al Pinocchio di Borgomanero, un'istituzione per la ristorazione dell'Alto Piemonte, Paola Bertinotti, sommelier e co-patronne del locale, si comporta così: “se il cliente è solo al tavolo, tendiamo naturalmente a suggerirgli un servizio al calice, in abbinamento al piatto, cercando di consigliarlo per il meglio, con la proposta anche di 23 vini se il pasto è composito. Nel caso di coppie, ormai sempre meno optano per la bottiglia, ripiegando sul calice o sulle mezze bottiglie. Più interessante il servizio in presenza di piccole comitive, dalle 4 alle 8 persone. In questo caso si vendono 2-3 bottiglie o anche una magnum. Quanto ai banchettini, si concorda tutto prima a livello di scelta del vino; in genere propongo un vino importante da abbinare alla carne ed eventualmente un passito per gli erborinati che aggiungo al prezzo del menù a numero di bottiglie”. Come gestite i menù degustazione? “Sono molti anni che li proponiamo anche con abbinamento vini. Oltre all’aperitivo, che è sempre offerto a tutti, in genere prevediamo un vino bianco, una vendemmia tardiva con la scaloppa di fegato grasso, un rosso (quasi sempre un piemontese importante a base di Nebbiolo), un Moscato d’Asti, senza limitazioni quantitative”. Sembra di capire che puntate molto sul servizio al calice...: “Si tratta di una modalità fondamentale per 'alleggerire' la cantina del ristorante. Se fatto a dovere ha anche un bel margine di guadagno. Le mezze bottiglie danno più sicurezza a chi ha magari un servizio meno formale e che con facilità rabbocca il bicchiere del cliente senza poi metterlo nel conto”. Quante referenze avete alla mescita? “Una ventina a rotazio-
ne, ma non ho problemi a stappare anche altre bottiglie al momento, su richiesta. Una avevamo anche la carta delle mezze bottiglie; credo che a breve la riproporrò. Di grandi formati ne abbiamo una cinquantina, quasi solo rossi fermi e bollicine”. Che ricarico fate “sul calice”? “Per grandi famiglie: i vini più semplici 5 Euro, quelli più importanti 10. Grandi etichette e passiti, 15 Euro”. Attualmente, che tipo di vini vanno di più? I bianchi di struttura sono spariti, i rosati quasi inesistenti; i più richiesti sono i rossi leggeri di alcol, giovani e profumati e i rossi importanti. La cosa buffa è che mi chiedono spesso rossi non barriquati, ma alla fine, senza
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I CONSUMI AL RISTORANTE Etichette al calice
saperlo, i più preferiscono proprio questi! Gli spumanti li vendo solo a bottiglia, così come i passiti solo a bicchiere”. Come gestite il cliente dal punto di vista della scelta dell'etichetta? “Porto la carta, la leggono. Arrivo e chiedo se hanno scelto. Se sì, procedo. Altrimenti – e succede assai spesso - chiedo le caratteristiche che vorrebbero per il loro vino, poi scegliamo la regione, quindi il vitigno, infine propongo vino e produttore”. Peppino Tinari Ristorante Villa Maiella
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Infine, un salto al Centro-Sud; a Guardiagrele (Ch), nel cuore del Teatino, all'hotel ristorante Villa Maiella di Peppino Tinari. “Nel caso che il cliente si presenta a noi da solo – ci spiega Peppino – gli proponiamo un servizio al calice, 'sul piatto'. Anche nel caso delle coppie, sempre più raramente riusciamo a vendere la bottiglia intera, e facciamo volentieri un servizio alla mescita. Solo con piccole comitive, da 4 persone in più, si riesce a ragionare davvero in termini di bottiglie, 2-3 in genere. Nei banchetti tutto è invece più semplice: ci concorda prima e problemi non ce ne sono. Nelle serate a tema siamo noi a proporre delle etichette a seconda dei piatti serviti. Nei menù degustazione è sempre previsto un abbinamento di vini”. Insomma, anche voi, par di capire, credete molto nella mescita. “Un adeguato sistema di mescita del vino, trovo sia il modo più idoneo e funzionale di vendita. Dal canto nostro abbiamo una scelta di 18 vini serviti a bicchieri: 7 bianchi, 2 cerasuoli, 11 rossi; ma non siamo disposti a stappare tutto a richiesta. Abbiamo anche un buon numero di grandi formati, circa 120 referenze”. Come formulate il prezzo di vendita di un calice? “Banalmente, dividendo per 5 il valore in carta della medesima bottiglia”. Quali sono i criteri di scelta del vino, e quali le tipologie preferite? “L'abbinamento cibo-vino resta il criterio principe. Parlando di tipologie – interviene il
sommelier Nicola Boschetti - attualmente i nostri consumatori preferiscono vino più facili, di media struttura, non barriqati ma più espressivi del carattere varietale dei vitigni autoctoni; in altre parole, spazio alla piacevolezza, senza più la sudditanza verso i vini più blasonati. Nella nostra carta trovano spazio circa 30 bianchi freschi, altrettanti strutturati, una quarantina di rossi di medio corpo, a cui si aggiungono un centinaio di rossi da invecchiamento. Oltre a una selezione italiana e francese di 10-12 bollicine secche, più una trentina di bollicine più morbide, 15 spumanti Rosé concludono il quadro. Oltre a una piccola nicchia di 10 rosati nazionali (tipologia che fatica a decollare). Abbiamo infine anche 7-8 etichette legate alla cosiddetta vitivinicoltura 'naturale'”.
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TART pagarlo meno per godere di pi첫
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di Fiorenza Auriemma
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Le quotazioni stagionali, decisamente più basse che in passato, hanno restituito attualità a questo status symbol, dalle origini tanto decantate quanto aleatorie. Ma, grazie al prezzo più ragionevole, i consumi tornano a salire. Con la complicità di chef attenti a qualità e zona di provenienza.
disposti a macinare chilometri e chilometri per venire a mangiarlo da noi, e quindi anche a investire un po’ di soldi pur di averlo in tavola”. Perché arricchito con una grattata di tartufo, anche il più banale dei piatti può vedere raddoppiato il prezzo. “Noi proponiamo il tartufo sia nel ristorante, dove serviamo un menu di sette portate, e il cliente può chiedere la grattata di tartufo anche su tutte”, continua Crippa, “sia
Più che un dono della natura, il tartufo bianco ha tutte le caratteristiche per essere considerato un vero oggetto del desiderio, uno status symbol vegetale da sognare, possedere, mostrare, e spesso anche condividere. Però, sarebbe scorretto parlare di un fenomeno di moda: sia perché il Tuber Magnatum Pico è una presenza concreta solo per un lasso di tempo molto ridotto, da ottobre a febbraio-marzo circa, durante il quale attraversa e illumina il panorama gastronomico come una meteora; sia perché se è vero che vanta una folta schiera di fan, lascia comunque indifferenti altrettante persone non disposte a investire una discreta manciata di euro per il fugace piacere di una “grattata”. Inoltre, il tartufo bianco può procurare qualche problema anche ai ristoratori. “Non è facile da inserire nel menu, come succede invece per altri prodotti di tutti i giorni”, conferma Enrico Crippa, chef del Piazza Duomo di Alba, città ‘regina’ del tartufo bianco. Il quale però, nei mesi scorsi, ha stupito un po’ tutti ideando il ‘Nobile d’Alba’, un panino speciale a base di farina di nocciole del Piemonte imbottito con pancetta di Zibello, salsa di acciughe, fassona, songino, e appunto una grattata di tartufo bianco. “Oltre a essere disponibile solo in un breve periodo dell’anno, è difficile conservarlo correttamente ed è soggetto a un calo di peso fisiologico. Per contro, abbiamo molti clienti che lo amano al punto da essere
nella trattoria al piano terra, dove è possibile ordinare anche solo un piatto, più l’aggiunta di tartufo, sia nelle sale del Piazza Duomo, al piano superiore (il bistellato Michelin di cui è proprietaria la famiglia Ceretto, i celebri produttori di Barolo, nda). Il prezzo? Lo facciamo pagare in media 4 euro al grammo, grattandolo sempre davanti al cliente e pesandolo prima e dopo per calcolare con esattezza l’entità della grattata”. Facciamo allora due conti: se nella trattoria di Piazza Duomo di Alba un piatto di agnolotti costa normalmente 11 euro, aggiungendo 8-10 grammi di tartufo e un bicchiere di vino, il conto può arrivare a 40-50 euro. Che non sono pochi, ma nemmeno troppi per chi adora il prodotto in questione e vuole almeno una volta all’anno togliersi la voglia di gustare questo “tesoro” della terra.
Enrico Crippa, lo chef di Piazza Duomo ad Alba, ha creato un prezioso sandwich al tartufo bianco. Non per stupire, ma per comunicare le infinite possibilità di un consumo d’eccellenza.
Che è poi un gioiello soprattutto italiano, con qualche eccezione. “Lo si può cavare dal nord delle puglie in su, fino alla Croazia. Però il primo produttore assoluto è e resta l’Italia”. Maurizio Vaglia, titolare e anima di Mgm, azienda milanese specializzata in prodotti gastronomici selezionati, è un punto di riferimento per grossisti e ristoratori: non solo conosce molto bene i tartufi, che commercia da quasi 30 anni, ma ne è letteralmente innamorato. “Mi ha incantato fin da subito, lo confesso. Perché è un prodotto vivo, ed è una delle eccellenze gastronomiche del nostro Paese che può contribuire a farci conoscere nel mondo. Però è anche vero che richiede grande delicatezza nell’approccio, e parecchia sensibilità”. Il motivo? Innanzitutto, è un prodotto che continua a vivere anche quando vede la luce del sole, e una volta cavato, se non è trattato con le dovute attenzioni si spegne velocemente perdendo proprio quelle caratteristiche che lo rendono unico al mondo. “Ha vita breve, questo è risaputo”, spiega Vaglia. “Quanto breve, dipende dal singolo tartufo: se ad esempio è stato raccolto già avanti nello stadio di maturazione, va in fermentazione in un paio di giorni. Quando invece è maturo al punto giusto, dura di più. Però, solo se lo si con-
serva nel modo corretto, avvolgendolo in carta da cucina prima di metterlo in frigorifero da uno 1 a 3 gradi, dentro un vaso di vetro chiuso”. E non finisce qui: prendersi cura di un tartufo vuol dire controllarne lo stato almeno una volta al giorno, però senza lasciarlo troppo allo scoperto. “Perché se rimane anche solo per mezz’ora all’aria, rischia di soccombere e di perdere profumo e valore”, sottolinea l’esperto. “Ed è quello che può succedere agli esemplari che si trovano nelle varie sagre e fiere. Che comunque sono momenti importanti perché contribuiscono a far conoscere il territorio e il prodotto”. Però, anche in tema di ‘carta d’identità’ del Tuber Magnatum Pico è necessario fare attenzione a non prendere ogni informazione come oro colato, e a non dare troppo credito a chi punta tutto sulla provenienza. “Ognuno tende a elogiare il proprio territorio, ed è comprensibile. Ma quando il tartufo cavato a casa propria è insufficiente”, avvisa Vaglia, “lo si va a cercare altrove, c’è poco da fare. E poi lo si smercia come se fosse proprio”. Solo chi lo conosce veramente bene può cercare di accertare la provenienza, manipolando e osservando il tartufo con attenzione. “E poi, diciamo la verità: non è tanto la zona, quanto la natura che dà la forma e le caratteristiche al tartufo. Il quale come si sa vive sostanzialmente in simbiosi con l’albero, dal faggio al nocciolo, dal leccio al salice fino alla quercia; come in Val d’Orcia, in provincia di Siena, dove ad esempio ci sono grandi querce e tartufi meravigliosi”. Insomma, un conto è il marketing e la capacità di far conoscere ed esaltare il proprio territorio, un altro è l’operato della natura che bada più al sodo e meno alla notorietà di una zona piuttosto che di un’altra. C’è poi un ulteriore fattore che caratterizza questa specialità nostrana: infatti, se il tartufo rappresenta un momento di pura estasi per i suoi esti-
In queste pagine, le fasi di preparazione della proposta di Crippa, semplice e geniale. Enrico Crippa è l’executive chef del ristorante Piazza Duomo, ad Alba (CN).
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Maurizio Vaglia, commerciante milanese di tartufi, ha confermato che il raccolto di questa stagione ha dato ottimi frutti, tutti di qualità elevata.
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matori, non altrettanto si può dire per tutti gli chef che lo offrono in carta. “Per il cliente è una goduria, per noi un momento di relax, e comunque nemmeno di tanta soddisfazione. Perché il tartufo va a nozze sostanzialmente con la grande tradizione, cioè uovo al tegamino, tagliolini, risotto, carne cruda battuta al coltello. In sostanza, niente di troppo elaborato da preparare”. Damiano Nigro, lo chef neostellato di origini pugliesi che però già dal 2006 guida il ristorante Villa d’Amelia a Benevello (Cn), nel cuore delle Langhe piemontesi, non ha timore a confessare come da giovane non fosse per niente entusiasta del tartufo, soprattutto perché infastidito dal suo odore penetrante e deciso. “Poi però ho imparato ad apprezzarlo e a usarlo in cucina, ben prima di arrivare qui. E ora cerco di abbinarlo anche a piatti diversi da quelli più classici, con i quali da sempre ci va a nozze. Quest’anno ad esempio lo offro in abbinamento a una crema di formaggio blu di Cozie con tuorlo cotto morbido e scaglie di cioccolato bianco”. Una preparazione decisamente ricca ed energetica, oltre che a metà strada tra un primo e un secondo e quindi difficile da collocare nel menu. “Qui a Villa d’Amelia abbiamo il vantaggio di poterci procurare il tartufo direttamente dai raccoglitori, e quindi di averlo subito quando ne abbiamo bisogno”, continua Nigro. “Però, preferiamo comunque prendere pezzi da 40-50 grammi, in modo da terminarli in breve tempo. Una cosa è comunque certa: con il tartufo non si fanno affari, per quanto sia un forte richiamo per la clientela”. Se non arricchisce i ristoratori, difficile dire se vada meglio ai cavatori (in dialetto piemontese trifolau – coloro che lo individuano ed estraggono dalla terra, con l’aiuto fondamentale dei cani - e ai raccoglitori, ai quali spetta il compito di fare da intermediario tra cavatori e grossisti, o più raramente con gli utilizzatori finali. Ma tutto questo grande giro di tartufi e soldi dipende sempre e solo da un fattore determinate: Madre Natura, cui spetta il compito di
decidere il bello e il cattivo tempo del tartufo. Quest’anno ad esempio sono tutti concordi nel dire che è stata una buona stagione, pur se non eccezionale. Anche se bastano un paio di settimane di pioggia per bloccare i cavatori, visto che i cani non riescono a sentire l’odore che si sprigiona dal sottosuolo. “Ecco perché il prezzo lo stabilisce la domanda e l’offerta”, ribadisce Vaglia, il quale nel corso degli anni si è costruito una rete fidata di fornitori, nonché una notevole esperienza e un grande ‘naso’. “È molto difficile, se non impossibile, sapere con precisione quanto tartufo bianco circola in Italia, perché è un settore nel quale c’è parecchio sommerso. Personalmente faccio in modo di averne sempre in casa una giusta quantità, per evitare eccessive escursioni del prezzo verso l’alto o verso il basso; e poter accontentare tutti, da chi sta dietro l’angolo fino a coloro che me lo chiedono dall’altra parte del mondo”. Insomma, quello del tartufo è indubbiamente un regno affascinante e inebriante, però complesso, intricato e anche rischioso. “Ovviamente cerco di prendere la merce migliore, ma per tenere buoni rapporti con i raccoglitori non dico di no nemmeno alla seconda scelta da 10 a 20 grammi o agli ‘spaccatelli’, che poi mando a lavorare per ricavarne crema di tartufo. I ristoratori, invece, a mio parere dovrebbero imparare a conoscerlo meglio, il tartufo, non limitandosi a badare all’aspetto estetico che conta fino a un certo punto”, insiste Vaglia, il quale non a caso tiene corsi ad hoc per chef e responsabili di sala. “Quando hai in casa un tartufo, lo devi ‘spingere’ anche con l’aiuto del maître, in modo da farne fuori un pezzo da 60-70 grammi in un paio di giorno al massimo. Altrimenti, rischi di aver buttato via i soldi”.
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Filiera cortissima E il FELINO fa le fusa
di Davide Bernieri
Parma
In Italia tutti lo conoscono a causa della bizzarria del nome che si presta a facili fraintendimenti e a giochi di parole. Nonostante la sua notorietà abbia ormai valicato i confini nazionali e la sua armoniosa sapidità conquistato il palato degli appassionati, sul Salame di Felino si proietta ancora un’ombra inquietante: visto il nome, molti sospettano che nella preparazione di questo nobile insaccato, almeno nel passato, fossero impiegate carni di gatto. Tanto che, girovagando su inter-
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Vanto della tradizione salumiera emiliana, il salame prodotto sulle colline parmensi non ha ancora ottenuto la tanto agognata Igp. Eppure le carte in regola ci sono tutte, dalla qualità delle materie prime fino alla serietà dei processi produttivi. Ma i tempi sono vicinissimi.
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net, si trovano ancora utenti che, tra il serio e il faceto, si chiedono a tutt’oggi se alle origini di questo nome potessero esserci poveri mici finiti nel tritacarne. Naturalmente la risposta è scontata e negativa: il Salame Felino deriva la sua denominazione dalla località pedecollinare parmense nella quale si è sviluppata questa particolare lavorazione delle carni suine, la cui tradizione risalirebbe fin dall’età etrusca. Così, già in epoca lontana l’eco della qualità dei maiali e dei derivati provenienti dalla zona aveva valicato i confini locali e si era sparsa tra le corti italiane ed europee. La prima traccia del Salame Felino ha una matrice iconografica: l’umile lavorazione contadina è impressa sulla pietra del Battistero, uno dei monumenti più rappresentativi della cittadina emiliana. Benedetto Anelami, nel XII secolo, realizzò una serie di bassorilievi, raffiguranti il ciclo delle stagioni per decorare l’interno dell’edificio, forse il suo massimo capolavoro: il celebre artista scultore ed architetto scolpì una formella dedicata proprio alla lavorazione del suino e alla produzione del salame, riproducendo con precisione l’usanza di fare asciugare gli insaccati appena realizzati vicino ad un fuoco, per migliorarne la conservazione nel tempo. Invece, la prima traccia scritta che può ricondurre alla tradizione del Salame Felino, è successiva di quasi due secoli: nel 1436 Niccolò Piccinino, condottiero al soldo del duca di Milano, ordinò che gli fossero procurati venti maiali della zona allo scopo di realizzare salsicce, delle quali aveva sentito parlare per la loro bontà. A quel tempo i suini impiegati erano della razza Nero di Parma che grufolavano liberamente nei boschi della zona, suino con caratteristiche molto differenti dal Suino Pesante oggi comunemente usato negli allevamenti intensivi. Per migliorare la conservazione dei salami, al di là dell’asciugatura vicino al fuoco, all’epoca era usata un’alta percentuale di sale, via via ridotta quando i produttori iniziarono a fare
asciugare i propri salami all’aria, sfruttando quell’alternanza di clima umido e secco che ha permesso per lungo tempo anche al Prosciutto di Parma di diventare uno dei prodotti d’eccellenza della tradizione salsamentaria nazionale. L’aria che dai contrafforti appenninici si incanala verso la Pianura Padana lungo la Val Baganza, spazza le nebbie tipiche della Bassa e dona alla zona un microclima unico. Così, come per Langhirano, la capitale del prosciutto che dista da Felino solo pochi chilometri, anche per il paese pedecollinare del salame un mix di fattori climatici e di savoir faire ha permesso lo sviluppo di una filiera, per certi versi complementare a quella del prosciutto, sotto la celebre massima, ancora attuale, che del suino “non si butta via niente”. Alcune notizie provenienti dal 1700 fanno capire come Felino fosse già considerata una capitale della lavorazione delle carni suine: i registri svelano che il paese contava 2.200 abitanti, 1.400 capi suini allevati e ben 5 produttori e venditori di salami. Una densità da record che si è mantenuta anche nel secolo successivo, quando il salame assunse stabilmente la denominazione “Felino” al posto della più generica ma blasonata “Parma” e l’eco della bontà delle specialità locali continuò a diffondersi in tutto il Nord Italia. Sta per scoccare il ventesimo secolo e a Milano lievitano le vendite di questo salame emiliano dolce ma sapido, di grana grossa e stagionato che trova il favore dei gourmet meneghini in antitesi rispetto al tradizionale insaccato lombardo. L’industrializzazione degli allevamenti e della produzione ha cambiato in qualche modo il volto del Salame di Felino, i cui numeri sono rapidamente lievitati nel dopoguerra. Intoccate le caratteristiche che rendono unico il salame: impasto di carne suina macinata, con un 70% di componente magra, aromatizzata con sale, pepe in grani, vino e aglio, insaccati in budello naturale. Oggi gli 11 produttori sono riuniti nell’Associazione fra produttori per la tutela del salame di Felino, che ha
redatto il disciplinare di produzione stabilendo le linee guida necessarie: produzione all’interno della Provincia di Parma, da carni fresche (no congelate) di suini pesanti (160 kg + o – 10%), insaccato in budello naturale legato a mano (no rete) e stagionato almeno 25 gg. Di fatto, l’estrema notorietà del prodotto ben al di là della sua zona di origine è divenuta un’eredità scomoda per il salame parmense, che ha incontrato grandi difficoltà nel vedere riconosciuta la sua tipicità, per esempio giungendo a una tutela comunitaria come hanno fatto tanti altre specialità durante gli anni ’90. Grandi industrie dei salumi collocate al di fuori dell’areale di produzione hanno proseguito una battaglia per poter continuare a utilizzare la denominazione Felino quasi fosse un appellativo generico, mentre i produttori tradizionali hanno forse compreso in ritardo l’importanza della salvaguardia della tipicità del loro grande salame. Con il 2011 dovrebbe terminare l’uso dell’appellativo transitorio “tipo Felino” e il salame parmense dovrebbe vedere spalancarsi le porte dell’Igp, quindi ottenere una maggiore tutela sul mercato, nazionale e internazionale, a tutto vantaggio della diffusione del “vero” Felino. In questo modo uno dei portabandiera più sinceri della cucina parmigiana, con le sue fette tagliate oblique accompagnate da pane o torta fritta e bagnate con i vini frizzanti locali, malvasia o lambrusco, potrà soddisfare un numero maggiore di proseliti che lo ritengono un must come antipasto o come spuntino a tutte le ore. www.salamefelino.com
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di Alberto P. Schieppati Ancora una volta le Dolomiti sono il palcoscenico della grande cucina gourmet. In Alta Badia, alla fine di gennaio, si è svolta la sesta edizione di Chef’s Cup, la manifestazione nata dall’intuizione geniale di Norbert Niederkofler, lo chef del ristorante St.Hubertus dell’Hotel Rosa Alpina. Grazie a Norbert e al Rosa Alpina, insieme all’Hotel La Perla di Corvara (con il ristorante La stua de Michil) e all’Hotel Ciasa Salares (con il ristorante La Siriola), l’Alta Badia si è trasformata per sette giorni in cenacolo permanente, i cui protagonisti sono stati oltre 150 chef italiani e stranieri con le loro rispettive brigate e i loro piatti stratosferici. Chiudete un occhio sulle temperature polari, intorno ai meno quindici in questa fine di gennaio particolarmente rigida, alla faccia del riscaldamento del pianeta. Ma apriteli su tutto il resto, a cominciare dalla bellezza naturale dell’Alta Badia, dall’ospitalità perfetta degli albergatori, dalla qualità proverbiale dell’offerta. Questo lembo magico di Alto Adige, grazie alla genialità di alcuni imprenditori “autoctoni” (famiglie Pizzinini e Costa, sopra tutti), si va ormai configurando come la meta d’eccellenza del turismo di qualità, invernale ma anche estivo. Il richiamo è avvalorato dalla presenza, in questo bacino privilegiato, di grandi chef di caratura internazionale, come Norbert Niederkofler, del St.Hubertus di San Cassiano, il ristorante gorurmet dell’Hotel Rosa Alpina, due stelle Michelin. Il Relais & Chateau della famiglia Pizzinini, ormai assurto a simbolo dell’ospitalità di eccellenza, è diventato il punto di riferimento della migliore clientela internazionale. Ma
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Nella foto a lato: Elio Sironi, Alfio Ghezzi, Filippo Gozzoli, Sergio Mei, Ettore Bocchia. Nella pagina a fianco: Filippo Gozzoli e Norbert Niederkofler.
Qui sopra, il buffet dei dolci proposto dai fratelli Cerea, di Vittorio, a Bergamo. Nella foto sotto: Norbert Niederkofler (St.Hubertus), Fabio Cucchelli (La Siriola), Arturo Spicocchi (StÅa de Michil).
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tutta l’Alta Badia è un’area rapidamente trasformatasi –in meno di dieci anni- in punto di incontro degli amanti del piacere e del bien vivre. Piste da sci invidiabili, rifugi che fanno a gara su chi riceve meglio, forme di ospitalità diffusa che vanno dal residence di lusso fino al piccolo maso lindo e decoroso, simbolo di un accueil al passo con i tempi. Un ventaglio di offerta (e di prezzi) che tiene perfettamente conto della segmentazione della clientela: sì, perché in Alta Badia si va dai 30 euro a notte per un appartamento fino ai duemila euro per una suite nel cinque stelle lusso E proprio per questa capacità di segmentazione dell’offerta il comprensorio ha successo, a differenza di quelle località che hanno da sempre puntato su un solo target di clientela e che non hanno saputo porsi l’obiettivo della modernità. Non poteva che svolgersi qui, in Alta Badia, in questo straordinario melting pot di culture diverse (ladina, tirolese, italiana), l’evento più importante dell’anno per chi si occupa di ristorazione
gourmet e lifestyle, di materie prime e creatività, di innovazione e nuove tendenze. L’ultima edizione della Sudtirol Chef’s Cup si è svolta fra queste montagne innevate lungo l’arco di una intensa settimana (dal 16 al 22 gennaio) che ha avuto come protagonisti oltre una trentina di chef con le loro brigate di cucina, invitati a preparare le loro creazioni culinarie nei tre ristoranti che fin dalla prima edizione sono i veri e propri padroni di casa della manifestazione: i Dolo-mitici, ovvero il St.Hubertus di San Cassiano, la Stua de Michil dell’Hotel La Perla, a Corvara, la Siriola dell’Hotel Ciasa Salares, sempre a San Cassiano. Gli executive chef delle tre strutture, Norbert Niederkofler (l’ispiratore geniale della Chef’s Cup), Arturo Spicocchi, Fabio Cucchelli si sono fatti in quattro per dare ai gourmet la migliore risposta alle loro aspettative. Sponsorizzata da Audi con la partecipazione attiva di San Pellegrino, Colmar, Nespresso, Rum Zacapa, Pasta Verrigni, Cecchi, olio umbro extravergine Gradassi, Ferrari Trento, Wind, Hewlett Packard, Birra Moretti, calici Zafferano, Longino & Cardenal, l’edizione di Chef’s Cup appena conclusa si è rivelata un successo senza precedenti, confermandosi come l’osservatorio privilegiato delle nuove tendenze in materia di cucina gourmet, di ricerca e d’autore. L’occasione è stata ghiotta, in tutti i sensi, anche perché ha permesso di comprendere, attraverso i piatti degli chef, in quale direzione sta andando la nuova cucina d’autore, sempre più vicina alle esigenze della clientela e attenta a salvaguardarne le esigenze gustative, edonistiche e –perché no- salutistiche. Nelle due serate a cui ho partecipato si sono susseguiti ai fornelli (ma sarebbe
meglio dire alle cucine superprofessionali di cui questi locali sono dotati) grandi chef: sotto l’egida dei tre Dolomitici, Norbert Niederkofler, Arturo Spicocchi e Fabio Cucchelli, abbiamo degustato un sorprendente maialino di cinta senese, di Gaetano Trovato (lo chef patron di Arnolfo, a Colle Vald’Elsa), dei succulenti e inediti ravioli di pasta fresca ripieni di pavone con ragout delle sue cosce e funghi pioppini, di Ettore Bocchia, il parmigiano chef attivo al Mistral del Villa Serbelloni, a Bellagio, la zuppetta di finocchio selvatico e arancia di Ragusa, con baccalà mantecato su cuore di carciofo e caviale, ad opera di Giancarlo Morelli, del Pomiroeu di Seregno. Piatti cucinati e serviti nel corso di un Gourmet Safari (con le nuovissime Audi A7 4.2 protagoniste dei transfer sulle strade ghiacciate) svoltosi fra Rosa Alpina, Ciasa Salares e La Stua de Michil. A questi piatti si sono accostate le creazioni dei Dolo-mitici: il risotto all’aceto d’acero con stracchino invecchiato bio e radicchio alla sasaka, di Arturo Spicocchi, il canederlo di granchio reale, con zuppetta di cannolicchi, tartare di scampi e polpa di riccio di mare, di Fabio Cucchelli, l’indimenticabile fegato grasso d’oca cotto sottovuoto con zucca al forno e meringa al pino mugo e terrina di fegato con kumguat canditi: un piatto complesso, questo presentato dallo chef del St. Hubertus, che ha riscosso notevoli consensi. I dolci del pasticcere milanese Ernst Knam hanno degnamente coronato il finale di serata L’indomani, fra una salita a rifugi in alta quota e strabilianti percorsi sulle piste con i pettorali della Chef’s Cup, le brigate e i loro chef hanno superato se stessi: durante la serata al Rosa Alpina, complice un’orchestra con musica dal vivo, si sono degustati grandi piatti accompagnati a superbe bollicine ed a grandi rossi (Coevo 2007 di Cecchi in primis, accanto ai vini di Zenato, del Consorzio vini Alto Adige e agli eccellenti Mastrojanni). Tra gli chef impegnati al Bubbles Party, segnaliamo: Sergio Mei, del Four Seasons di Milano, con il suo straordinario astice del Mediterraneo all’Isola di Sant’Antioco,
Filippo Gozzoli, del Park Hyatt, sempre a Milano, con un millefoglie di storione e speck, con pompelmo rosa e pane di fieno croccante (un piatto delicato e strutturato allo stesso tempo), Elio Sironi, del milanese Bulgari, con la fregola, carciofi, olive e pecorino. Alfio Ghezzi, Locanda Margon, Trento, con la succulenta ventresca di cervo, zucca, cioccolato affumicato e rafano, Andrea Tortora, chef patissier del St. Hubertus, con il panettone glassato al cioccolato Domori. E, a proposito di St. Hubertus, vale la pena di ricordare qui i piatti preparati da Norbert Niederkofler e dai suoi collaboratori: gli spaghetti Verrigni allo scoglio e il superbo maialino da latte al forno con terrina di patate e rape saltate: un grande classico dal gusto inimitabile, che ha confermato una volta di più l’importanza della cucina classica, la cui conoscenza e le cui basi sono fondamentali per avvicinarsi poi alla grande cucina d’autore.
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MICHEL CHABRAN passione di chef
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di Gianni Ventura Proprio dove Valhrona produce il suo grande cioccolato, l’allievo di Bocuse e di Blanc propone una cucina delle origini, che parte dal territorio per esprimere modernità grazie a materie prime “dell’orto e del mercato”. Pont de l’Isère è un piccolo paesino a metà strada tra Tain L’Hermitage e Valence, lungo la valle del Rodano che conduce attraverso la celebre Route Nazionale 7 (quella cantata da Charles Trenet, per intenderci) verso il mare Mediterraneo. Ed è un percorso obbligato per i transalpini che, soprattutto qualche decennio addietro, prima di riuscire a muoversi più velocemente grazie alle moderne autostrade, si spostavano lentamente e in massa dalla capitale e dalle fredde province del nord verso la Costa Azzurra e la Provenza per le vacanze estive. I centri urbani più piccoli e distribuiti lungo il percorso diventavano così un punto di sosta, un momento per rifocillarsi e riposarsi dal lungo viaggio intrapreso. Ora i dintorni di Pont d’Isère sono famosi più per la presenza sul territorio di
Tain L’Hermitage
Pont de l’Isère
Valence
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Valrhona, l’azienda di cioccolato, e per un manipolo di ottimi cuochi capitanati (seguendo i parametri della guida Michelin) dalla tristellata Anne Sophie Pic, a Valence. Il paese però merita una particolare attenzione, per la presenza storica di una delle tavole gourmet più sfiziose della regione e non solo. Se si passa da queste parti una sosta d’obbligo è per il ristorante Chabran, un luogo di culto per tante ragioni: la ricca tradizione di famiglia, lo stile e il piacere di stare a tavola e la presenza pressoché costante del padrone di casa, l’affabile e simpatico Michel Chabran. Un uomo che si impone con la sua mole e con la passione dirompente che travolge l’ospite non appena si supera la porta d’ingresso. Al punto che, almeno nel nostro caso, siamo stati coinvolti immediatamente in una divertente gita turistica a Valence, con lo chef improvvisatosi autista (al volante di un fuoristrada moderno ma pur sempre nella immacolata divisa da cuoco…) e pronto a mostrarci una delle sue ultime creature, la vivace e affollata
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Brasserie des Clercs da poco rilevata. Lungo il tragitto, il cuoco si è raccontato ampiamente, tra passato, presente e futuro, accennando all’apertura di un’altra brasserie nella nuova stazione dei treni di Valence, puntando l’attenzione sull’impegno profuso dalla figlia Carole, che ha inaugurato il ristorante Le Quai a Tain l’Hermitage sulle sponde del Rodano, ma anche magnificando le nuove camere (davvero splendide) del piccolo hotel familiare sopra il ristorante a Pont de l’Isère e divagando nelle sue vacanze americane con l’amico Alain Ducasse o della storica passione per le macchine d’epoca con le quali partecipa al Rally di Montecarlo inerpicandosi fino al Col de Turini. Un uomo di temperamento e di valori legati alla terra, alla sua regione, che non a caso magnifica in ogni momento, al punto da promettere, nel caso di un futuro incontro, l’uscita in campagna per un “truffle hunting”, ovvero una battuta di caccia al tartufo. “Qui siamo nella Drôme”, ricorda, “e il tartufo di Tricastin è tra i più pregiati di Francia”. È un racconto, quello di Michel, che abbraccia una vita intera, dai primi anni di apprendistato alla Maison Pic, nel 1960, quando alla guida del ristorante c’era André Pic, il padre di Anne Sophie, fino alla scoperta della propria cucina, in grado di combinare sapori e odori del territorio partendo da radici antiche, dai racconti e dalle storie dei cuochi, dei viticoltori e dei produttori della regione. Senza dimenticare le Mère, ovvero le “mam me” che, con la loro impronta casalinga hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dei grandi cuochi moderni, trasmet-
tendo loro il valore della memoria, il rigore nella selezione delle materie prime, l’abnegazione e il gusto per il bello. In fin dei conti è uno degli aspetti che legano in maniera indissolubile i vari Bocuse, Blanc e Bise, solo per citare tre grandi nomi della cucina d’oltralpe. Ed è una lezione che Michel ha saputo apprendere e mantenere nel tempo, reinventando in chiave moderna alcune classiche preparazioni. La sinfonia di gusti della sua cucina si percepisce nella meravigliosa sem plicità di alcuni piatti che sembrano arrivare direttamente dall’orto o dai banchi del mercato, nella progressiva ricerca di una cucina certamente leggera e profumata in un percorso armonico e capace di giocare le sue carte migliori soprattutto dagli anni Settanta, quando i piatti iniziano ad alleggerirsi nei contenuti e i singoli ingredienti vengono sempre più valorizzati. La scelta del prodotto perfetto, e possibilmente di provenienza locale, è il punto di partenza imprescindibile. Non è certo un caso che il volume di cucina “Mes saison gour-
mandises”, realizzato dal cuoco nel 2007, raccolga, a fianco delle ricette, una serie di illustrazioni e racconti di molti personaggi fondamentali nel percorso lavorativo di Michel; da Madame Nogier con i suoi marroni all’olio di Patrick Richard, dal vino di Alain Graillot alle albicocche di Laurent Combier fino ad arrivare ai formaggi di Sonia Chovin, da acquistare al mercato di Chabeuil il martedì mattino. E se poi volete abbandonarvi a gusti e sapori non propriamente locali, pazienza. Da Michel Chabran si toccano sempre vertici di eccellenza, che si tratti delle so gliole di Noirmoutier, delle ostriche di Isigny.sur-Mer o dell’astice del Maine. Un luogo, un cuoco e una storia che meritano un viaggio, per andare alla scoperta della Francia più genuina e rurale. Michel Chabran 29, avenue du 45éme Parallèle R.N.7 – 26600 Pont-de-l’Isère Tel. +33 (0)475846009 www.michelchabran.fr chabran@michelchabran.fr
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OLIVIERO TOSCANI e il VINO puro valore aggiunto
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di Fiorenza Auriemma Il famoso fotografo sposta nel mondo vinicola la sua passione per l’esperienza. E nasce una linea di grandi etichette, figlie di una sensibilità non comune. La fotografia non è tecnica, bensì un mezzo di espressione che appartiene alla comunicazione moderna. E che ha bisogno della macchina fotografica, certo, così come per disegnare serve la matita: “La tecnologia serve per esprimere la fotografia, la quale però vuol dire togliere, selezionare e poi scegliere quello che si vuole fotografare perché ha il significato giusto per ciò che si vuole dire. La stessa procedura vale anche per il vino”. Risponde così Oliviero Toscani a chi gli chieda quale filo conduttore leghi lui, apprezzato maestro delle immagini a livello mondiale, alla vite. Spingendolo a diventare anche viticoltore e a entrare sul mercato con il suo OT di Oliviero Toscani: un'unica tipologia di vino, ma pur sempre un chiaro segnale di “scesa in campo”, dove per campo si intende il mondo enogastronomico. “Non sono uno che improvvisa: si tratta di traghettare la
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mia esperienza in altri settori. Penso di portare valore aggiunto nel vino, perché so che cosa mi piace e che cosa no, è il mio mestiere che me l’ha insegnato, e bene; e questa mia capacità di analisi, di scelta e di selezionatura è estrema. Quindi, la sto applicando anche al vino. E non certo per hobby, perché niente di ciò che faccio lo considero tale: tutto è il mio lavoro, e la mia vita”, commenta questo maestro delle immagini, che però con la sua nuova mossa non intende peccare di superbia. “Non sono un enologo, lo so benissimo. E quindi ne scelgo uno che sia bravo e professionista: posso dire ciò che penso quando parlo con lui, ma non faccio il suo mestiere; anzi, cerco di sfruttare al massimo le sue competenze. È lui che deve portarmi quello che io non so”. Insomma, si tratta di un esempio di collaborazione nel senso più intelligente del termine quella tra Toscani e il suo enologo, Attilio Pagli, nella quale ognuno mette sul piatto le proprie competenze,
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dando retta e spazio anche a quelle degli altri. E forse non è un caso se la genesi di questo vino è frutto di un’altra sorta di collaborazione. Infatti, è stato Angelo Gaja, amico di lunga data di Toscani, a suggerire al fotografo l’idea di mettere a frutto una zona particolarmente adatta della tenuta maremmana nella quale l’artista vive da molti anni. Invitato una sera a cena da Oliviero e famiglia, Gaja ha chiesto all’amico di poter affittare un pendio della proprietà perché, a suo parere, ideale per la vite; ed è così che Toscani ha colto l’occasione e il suggerimento dell’amico più esperto per dare il via, e in proprio, a un nuovo progetto piantare viti su 12 ettari di terreno del quale ora è più che soddisfatto: “Ho la vigna più bella del mondo, ne sono convinto”, sottolinea orgoglioso. “È su un pendio spettacolare, esposta alla luce e verso il mare”. Era il 2003 quando il progetto è partito, e ora la prima annata in commercio di OT di Oliviero Toscani porta la data del 2006: 12 mila bottiglie circa di
un rosso toscano anomalo, un blend di 50% Syrah, 35% Cabernet Franc e 25% Petit Verdot, destinate a enoteche e ristoranti a 30 euro circa l’una. “Non è facile far capire il perché sia nato questo vino, e soprattutto che non si tratta del capriccio di un ‘vip’, bensì di un prodotto innanzitutto della terra”, spiega Paola Pavan, che in azienda segue la parte commerciale e la comunicazione. Anche perché OT, visto l’estro e la personalità fuori dagli schemi del produttore, è in vendita con tre etichette di colori diversi - magenta, giallo e blu - che sono poi quelli primari. “Lo stiamo facendo conoscere sia con degustazioni abbinate a set fotografici volanti dove Toscani fotografa le persone con la bottiglia di vino in mano, sia sfruttando i canali più moderni come la rete, il blog, facebook e twitter. Giapponesi e americani se ne sono già innamorati, ma sta andando bene anche in Russia e Svizzera, a Honk Kong e da lì verso la Cina. E siamo in trattative con Olanda, Danimarca e Austria”. Insieme al suo vino personalizzato che a pieno regime di produzione e nelle annate migliori non supererà comunque mai le 34mila bottiglie Toscani si è deciso a imbottigliare e vendere anche una parte dell’olio prodotto in realtà già da molti anni nella sua grande tenuta di Casale Marittimo (Pisa), ma fino a qualche mese fa destinato solo al consumo locale e/o a essere regalato agli amici. E così sono apparse ora 2000 bottiglie circa da 500 ml di extravergine
d’oliva a marchio OlioveroToscano, di Oliviero Toscani. Però, non è finita qui, perché in arrivo c’è anche una linea di salumi: frutto sì dei maiali di cinta senese che nella tenuta, tiene a sottolineare l’artista, vivono in libertà e si nutrono solo di ghiande, orzo, granturco e grano prodotto in loco, e in più della collaborazione con un esperto del settore come Paolo Parisi. www.otwine.com
Chef e personaggi del settore enogastronomico sono i testimonial dei vini di Toscani. Nelle immagini, i vigneti del grande fotografo e, qui sotto, la linea di olii extravergini.
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Riprendersi il TEMPO L’imperativo del gourmet di Alberto P. Schieppati Lorenzo Montagna, amministratore delegato di Yahoo! racconta il suo rapporto con vino e cibo. Studiare e ricercare l’eccellenza, dice, è un modo per vivere nuove emozioni e continuare a sperimentare. Imparando sempre qualcosa e conoscendo sempre luoghi e persone nuove. Prendendosi del tempo, per se stessi. Il vino? Fa parte dei momenti della vita. Non ho un colore, vitigno o cantina preferita. È impossibile. Ogni etichetta ha una sua ragione d’essere. Esprime un’essenza e dei valori unici ma che devono sintonizzarsi con il momento, in funzione di occasioni, emozioni, desideri, pensieri. L’arte di un gourmet è questa: sapere e saper scegliere. Come accade per la musica, ogni vino accompagna, anzi rappresenta il momento stesso. Lorenzo Montagna, poco più che quarantenne, amministratore delegato di Yahoo!, il portale dai ritmi di crescita a doppia cifra ed incessanti dal 95, ha le idee chiare in materia di vino. Ma anche in fatto di piaceri della vita. Manager con poco tempo libero per via di un lavoro tanto appassionante quanto stressante tra viaggi e fusi orari, qualche anno fa si è posto un obiettivo: riprendersi lo spazio dei piaceri autentici, ritrovare un “tempo”, liberato da quello che gli americani chiamano day-by-day, o “tran tran” come si direbbe a Milano e dimenticare l’ansia di un settore dove tutto corre veloce e senza sosta, in un ruolo che definisce “multitasking” dove fai tante - e forse troppe – cose insieme, di cui molte intangibili, ottimizzando al massimo il tempo di tutti, tranne il tuo, personale.
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“A un certo punto della mia vita, ho capito che , stando troppo concentrato sul lavoro e sull’innovazione mi stavo perdendo, ovvero che stavo perdendo amici , famiglia e tradizioni”. La reazione di Montagna è stata forte e chiara: “riprendersi il tempo, lo spazio”. Come? Cambiando il proprio rapporto con il cibo e il vino. Facendoli diventare alimenti per la mente oltre che per il corpo. La cena diventa così un momento privilegiato di incontri con gli amici, sia al ristorante, sia fra le mura domestiche, in un’atmosfera di relax, connotata sempre da materie prime – cibi e vini- di qualità assoluta – cucinati con passione dalla moglie che condivide questa passione per il gusto. E così la casa ritorna ad essere un punto di incontro con amici vecchi e nuovi, come quando si era ragazzini. La rivoluzione di Montagna lo ha portato in breve tempo a diventare un attento enogourmet, alla ricerca continua di nuove etichette e prodotti tipici da scoprire, da provare e far assaggiare, di locali storici ed emergenti, all’insegna di personalità e caratterizzazione, di cucine di grande valore e guidate con serietà dall’impegno di chef di vaglia. Anche il “business lunch” è un’esperienza da vivere appieno e quando si riesce ad organizzare è un momento di lavoro vero, ma con modi, spazi e tempi differenti. C’è più spazio per la conoscenza reciproca, come persone, c’è uno scambio di esperienze lavorative e personali e poi si va al sodo, veloci, sulla parte finale, che è quella per cui ti sei incontrato. Impieghi lo stesso tempo di un meeting in qualche anonima sala riunioni e ti porti a casa molto di più, un incontro vero, con uno scambio sincero, non solo di accordi commerciali, ma di conoscenze, su cui poi costruisci una relazione ed una partnership commerciale molto più sincera ed efficace di quanto possa accadere attraverso una presentazione via computer o riunioni plenarie. “La mia passione mi ha portato ad organizzare proprio per e con i clienti degli apprezzati corsi di degustazione ed eventi presso il palazzo del gusto a Roma (Gambero Rosso)”.
E poi la sera Montagna si concentra sulla ricerca di un grande bianco o di bollicine memorabili, (Franciacorta in primis) passando da un piatto semplice (adora la pesta con il pesto fatto al momento) ad uno creativo, finendo sempre con un formaggio stagionato. “Dopo giornate di lavoro intenso la cena , sempre a lume di candela con mia moglie Paola e con i miei figli Federico ed Edoardo mi ha restituito quella serenità che avevo perso e mi ricarica come nient’altro”. Niente di più “semplice” ma per nulla scontato in un mondo che va di fretta anche nei rituali. E pensare che fino a 2 anni fa avevamo la tv in cucina... e spesso cenavo alle 10, solo. Ora siamo sempre tutti insieme, abbiamo un momento tutto nostro, la sera, non ci sono tv ed altro a distrarci. A tenerci insieme è l’attenzione che dedichiamo a questo momento nella scelta dei piatti e nella cucina e nei nostri dialoghi. E poi se il lavoro non è finito, ricomincio dopo cena, quando sulla costa del Pacifico è mattina e tutto corre a pieno ritmo, io chiudo la giornata, felice di essere italiano. Le sue preferenze in materia di vino? “Adoro, sempre e in tutto, gli estremi, gli opposti, fa parte appunto del mio carattere e della sperimentazione e così trovo unici e stupendi i bianchi del nord e del sud. Per primi quelli dell’ Alto Adige in testa: Elena Walch, il Kerner di Novacella, il Riesling Wind bichel di Castel Juval, il Gewurztraminer di St. Magdalena, il moscato giallo secco di Pisoni, o i Savignon di Venica e Jermann, vini eleganti e aromatici da contrapporre ai vini Siciliani come l’Insolia di Cu sumano e della Valle dell’Acate, lo Chardonnay di Planeta, per non parlare poi di Ben Rye, da Pantelleria, fantastico con i formaggi. In fatto di rossi prediligo i toscani Brunello di Mon-
talcino in testa, i grandi di Bolgheri, fini e profondi negli aromi ma anche i meno noti “Le Difese” o alcuni maremmani capaci di stupire. E poi il vicino ed adorato lombardo Ca del Bosco – Curtefranca e poi, Mastroberardino con Radici e poi… continuo a fare scoperte di nuove zone, di etichette che non conoscevo, capaci di emozionare. Penso anche alla Lacrima di Morro d’Alba, un vino marchigiano che mi ha fatto scoprire Andrea Sconfienza, chef patron del mio ristorante preferito, l’Antica Trattoria Morivione, in zona Ripamonti a Milano”. Parlando di estero ovviamente i francesi non mancano mai nella sua cantina (circa 100 bottiglie) dove però riposano anche rossi cileni, bianchi della Napa, di Sonoma e di Stellenbosch. “La grandezza dell’Italia vinicola è incredibile! Peccato che il made in Italy non sia per nulla valorizzato proprio qui, tra di noi, in Italia. Viaggiando ho notato come i francesi, gli americani ma anche i sudafricani, abbiamo creato un sistema con il territorio (ovvero comuni e regioni) ed abbiano una maggiore cultura di marketing che porta il vino ad essere uno stile di vita a cui tendere piuttosto che una bevanda da “consumo”. È assurdo che molti italiani non conoscano il piacere intenso di un aperitivo con uno dei nostri grandi vini, e dei nostri antipasti; mentre nel resto del mondo i “wine bar” hanno soppiantato pub e ristoranti, affermando un nuovo modo di vivere il mix cibo-vino”. Il vino è tragicamente snobbato, pensiamo al cinema, non ricordo un film italiano con protagonista il vino, come in “Sideways” o in “un’ottima annata” con Russel Crowe. E dire che in fatto di cinema non siamo secondi a nessuno… bah. Come sceglie i suoi vini? “Mi avvalgo di una enoteca di riferimento (Enoclub di Malfassi, a Milano)
e di consigli di ristoratori (Andrea del Morivione, Alessandro della Taverna Calabiana, che è un figlio “d’arte”) o di altri amici appassionati, leggo le guide ma spesso mi trovo in disaccordo perché nessun libro ti può consigliare come una persona vera; esiste poi un modo facile ed economico che è quello di bypassare la filiera, se scopro un vino, magari in viaggio, o a casa di amici, lo fotografo con il telefonino (come i giapponesi!), lo cerco su Internet (per l’ad di Yahoo! è prassi normale acquistare online) e lo ordino direttamente dal produttore insieme ad altri che mi faccio consigliare da lui, parlandoci dopo avere visitato il sito. Così salto molti passaggi e arrivo al punto instaurando, di fatto una relazione diretta con il produttore che diventa un conoscente. E poi ovviamente uso internet, sono moltissime le aziende che ti consentono l’e-commerce. Con il vantaggio di ricevere tutto a casa vini che magari arrivano anche da molto lontano. A parte il Morivione, quali sono i suoi chef preferiti?
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Innamorato delle griffe del vino, in realtà Montagna ama fare anche nuove scoperte di etichette meno conosciute ma ugualmente di elevata qualità.
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“Esatto: il Morivione è un raro caso per abbinamento piatti/vino, sperimentazione, il per il resto la lista è lunga dalla zona ufficio (Masuelli e Calabiana) passa per la trattoria Arlati, e verso Monza (Angelo Spinelli da Fossati) Cavenago (Enrico Bartolini) fino ad arrivare a Gessate (Mirko Villa, Ristorante Roma), etc, etc- ma la cosa che consiglio ancora una volta è sperimentare, soprattutto quando la compagnia te lo permette. Sono un motociclista appassionato ed una cosa che mi divertivo a fare in passato con altri amici centauri era girare l’Italia e fermarmi all’ora di pranzo o cena al primo posto che trovavo quando il contachilometri segnava una cifra predefinita in partenza, quindi, a caso. Fermarci nel primo posto; che fosse una trattoria, un hotel, uno stellato, non contava; ogni volta ho sentito dialetti diversi, bevuto etichette differenti e gustato piatti tipici, anzi unici; anche a distanze di 50 km da casa esistono mondi “paralleli” a quello della “solita strada” e delle “solite” guide. A pensarci bene non esiste posto al mondo
con questo patrimonio, con queste tradizioni, così diverse e così vicine, con questa cultura, certo bisogna muoversi e avere voglia di cambiare. Internet sta propria aggregando grazie alle community questo tipo di informazioni “dal basso”, ormai ogni grande città ha una applicazione per iphone o pc con la lista dei ristoranti, votate sia dai critici esperti (guida Rossa Michelin costa 7 euro sull’apple store) sia da persone “qualunque”. Vi assicuro che sono molto comode sia per le dimensioni (non pesano ed occupano nulla) sia per l’interattività (hanno mappa interattiva, recapiti etc, prenotare ed arrivarci costa zero fatica). Aggiungerei che cucina, vino e cultura sono per me una cosa sola. Quando viaggio non rientro mai senza avere visitato ed acquistato nei templi della gastronomia locale. Torno ora da Londra, dove le vetrine natalize di Fortnum & Mason (il negozio culto per l’enogastronomia in UK, come Fauchon o Hediard a Parigi) avevano cornici di quadri e prodotti di eccellenza, guada caso italiani per la mag-
gior parte, al posto delle tele. Cultura e cucina sono un binomio, certo, basti pensare che all’interno della Triennale è Carlo Cracco ad occuparsi della “cafeteria”, e poi mi è capitato spesso di scoprirlo parlando proprio con chef e proprietari di cantine illustri; citerò, uno per tutti, Gualtiero Marchesi con cui ho avuto modo di conversare a lungo una sera, a cena, vedendo la sua “brigata” al lavoro, all’Albereta. Adoro i suoi piatti e la sua cultura ricca ma non ostentata: uno chef di grande spessore intellettuale, esperto di pittura contemporanea (si ispira a Pollock per alcuni piatti) come di musica classica (soprattutto per pianoforte – Chopin è il preferito). Attento uomo di marketing che meglio di chiunque altro ha creato un marchio che ha un preciso posizionamento ed una serie di valori che – a differenza di altri – mantiene il proprio significato senza conoscere crisi, senza andare in tv a fare il divo, ma appunto, sedendosi a tavola con chi è in sintonia con il suo mondo. Quando gli ho chiesto quali fossero le tre cose più importanti, i tre motivi del suo successo, mi ha risposto: 1) fare quello in cui credi e che ritieni giusto; 2) lavorare tanto, senza fermarsi; 3) fare piatti semplici e riconoscibili. Ma il risotto con le foglie d’oro è semplice? - gli ho chiesto con un pizzico di ironia… - La sua risposta: “Montagna, lei mi ha chiesto 3 cose, la quarta è: sperimentare incessantemente, reinventandosi sempre”. E se sperimenta senza sosta Marchesi, vi auguro di non fermarvi mai! Se non quando è ora di pranzo/cena e il contachilometri segna il numero che vi piace di più, per me il 13. Buon viaggio! E non dimenticare di muovervi anche sulla rete dove ormai tante informazioni, guide, prodotti di eccellenza vi aspettano senza muovervi di casa, quando non potete muovervi… partite con Yahoo! che proprio in questi giorni ha inaugurato un canale “lifestyle” con video-ricette, anche per i single! www.yahoo.com
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N il PESCE arriva a mezzanotte
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di Elio Ghisalberti Fornitori che arrivano da Chioggia nel cuore della notte, quando tutti ormai dormono. E lei, Nadia Vincenzi, pronta ad accoglierli, nebbia o non nebbia. È l’unico modo per garantire alla clientela il miglior pescato disponibile. Ed è grande successo per questo locale della Padania profonda, frequentato dagli amanti della cucina di pesce più autentica. Castrezzato, bassa bresciana, una decina di minuti dal casello di Rovato. Campagna che più campagna non si può, tant’è che così hanno anche battezzato la via che porta nel minuscolo regno della “pasionaria del pesce”, al secolo Nadia Vincenzi. Dopo la prima apparizione in terra bresciana nei primi anni Novanta, e dopo aver raggiunto il traguardo della stella Michelin appena al di là dell’Oglio ma in provincia di Bergamo, al Desco di Sarnico, da una mezza dozzina d’anni officia la sua cucina di pesce in questo civettuolo locale costruito su misura perché possa esprimesi al meglio (la taglia è la small, otto tavoli per una ventina o poco più di coperti). Potendo ora contare anche sul figlio Maurizio che ne ha raccolto l’eredità ai fornelli, Nadia Vincenzi gira tra i tavoli raccontando nei dettagli il suo stile unico ed inconfondibile. La forte personalizzazione
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Rovato
Brescia Castrezzato
Chioggia
non nasce da mirabolanti tecniche di elaborazione o da una particolare vena creativa, bensì da ciò che sta alla base di ogni cucina di alto profilo qualitativo, dalla provenienza e dalla scelta della materia prima. Il sistema messo a punto negli anni per l’approvvigionamento del pesce, dei molluschi e dei crostacei, garantisce arrivi giornalieri o quasi direttamente dal portomercato di Chioggia. Emissari di fiducia lo selezionano appena sbarcato dai pescherecci, affidandolo quindi direttamente ai trasportatori che nottetempo raggiungono Milano. Lo scambio avviene al casello di Rovato: può essere mezzanotte come le due o le tre di notte quando il telefono trilla ed il corriere avvisa che sta per arrivare. Un sacrificio, fare quasi ogni notte ore piccole, ma è l’unico modo per avere a disposizione il pesce giusto per interpretare al meglio le ricette della costiera adriatica, prese da Trieste fino alla Puglia, passando per la Romagna e l’Abruzzo, rispettivamente terra d’origine e d’adozione di Nadia Vincenzi (il
Chioggia - Castrezzato: un viaggio notturno attraverso la Padania per garantire ai clienti il meglio del pescato adriatico.
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Nadia Vincenzi ha saputo creare un format deciso e caratterizzato, che richiama una clientela anche da molto lontano.
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fratello Bobo dopo essere stato protagonista allo Squalo Blu di Termoli, in Molise, adesso è al Ribo di Guglionesi). Nessun altro sistema potrebbe consentirgli di avere a disposizione le schie, i gamberetti grigi di laguna, le piccole pescatrici, i lupini, le moleche, i cannolicchi, i minicanestrelli, e tanto altro ancora, tutto maledettamente complicato da pulire e preparare per le cotture e le presentazioni (ecco la motivazione per cui non li si trovano altrove), ma tutto dal sapore straordinariamente buono ed originale. In una situazione del genere è chiaro che il menu cartaceo è un pretesto per rendere noto alla clientela dei non habituè che se si sceglie un percorso completo la spesa si attesta mediamente sui 70 euro vini esclusi con la possibilità per i più golosi – ma bisogna esserlo molto – di superarli. In genere terminata la lunga serie degli antipasti, mai meno di una mezza dozzina, rimane spazio per una sola altra portata da scegliere tra le cotture in coccio come gli gnocchi con il sugo di pescatrici e canocchie o la zuppa di pesce interamente sfilettata, alla griglia di
carbonella (i crostacei in particolare), o in frittura delicatissima di calamaretti e scampetti. Ma su tutto come detto veleggiano gli antipasti che in realtà sono dei mini (ma neanche tanto mini) piatti di grande gusto. Provare per credere i canestrelli crudi con nocciole tostate o gratinati; il tonno e lo spada con la frutta di stagione; la razza al forno con carciofi; le polpettine di besciamella e mazzancolle; i gamberi avvolti nel lardo con polenta; i lupini con limone e pangrattato; il polpo con spinaci freschi; gli scampi nel trevisano tardivo e scamorza; la polentina bianca con le schie di laguna. E su quest’ultima, fantastica, ricetta facciamo “chapeau” all’impegno ed all’ingegno della cucina di Nadia Vincenzi, “pasionaria del pesce” dell’Adriatico nella campagna bresciana. Ristorante da Nadia Via Campagna 15 - Castrezzato (BS) Tel. 030.7040634 www.ristorantedanadia.com Aperto solo la sera e la domenica a pranzo; chiuso il lunedì Prezzo medio 70 euro vini esclusi
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MAISON ROSSET di Nus Perché è un luogo magico di Biagio Testa e Bianca Trao Sulla strada per Aosta un agriturismo offre cucina di qualità, ambiente gradevole, piatti gustosi e molto curati. Senza civetterie e atmosfere modaiole, qui si compie il rito antico della semplicità culinaria. Adatto per bambini.
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La bimba dai boccoli biondi e gli occhi chiaretti friggeva seduta alla tavolata dei suoi compagni di asilo con genitori e maestre. Così, di tanto in tanto, tra un lardo e un reblec si alzava e faceva capolino verso la seconda sala del ristorante, fissando con sguardo curioso, furbetto e finanche un po’ malizioso, il giovane seduto a tavola di fronte a Biagio. La sera era di quelle assai chiassose alla Maison Rosset. La prima sala era infatti stipata di ben due tavolate in cena prenatalizia. L’una di adulti l’altra mista di adulti e bambini. Risate, grida, gioia di vivere e parole, parole, parole, a voce tonante o squillante. La seconda sala era invece più composta, con tavoli di massimo sei-sette persone tutte grandi, con qualche tavolo a due per coppie di giovani buongustai. L’oggetto della curiosa attenzione dei boccoli biondi era, tra tutti i popolatori delle tavole grandi, il più giovane (sebbene quasi trentenne e per di più dottore in Medicina) e forse per questo identificato dalla fanciulla come a lei più affine. Potenzialmente affine, inconsapevolmente affine, intento com’era a mangiare ogni bendidio che si trovava di fronte sulla tavola. Che bella cosa l’infanzia, regno dei sogni. “Ma chi è?” “Adesso te lo faccio vedere” e due testine bionde, anziché una, facevano capolino dal solito spazio. In più l’indice della prima era indirizzato verso il bersaglio. “Ah è quello lì?” “hi hi hi!” “nascondiamoci che non ci ha viste.” E Biagio che sedeva proprio in faccia all’ingresso della sala, si godeva quelle piccole scene di infanzia serena; lo sguardo al figlio dottore seduto di fronte; i pensieri alla propria infanzia, alla lontana gioventù e al tempo che vola
inesorabile. Al dottorino piaceva tutto di quel posto. Biagio lo sapeva e per questo aveva prenotato per tempo gli ultimi tre coperti disponibili. Tutto piaceva al dottorino. Compreso il chiasso che per quei miracoli strani della fisiologia non giungeva alle sue aree acustiche, mentre assordava i timpani del padre e, soprattutto, della madre. Piano piano però anche a papà Biagio i rumori cominciavano a giungere più lievi, come se una specie di assuefazione li rendesse più ovattati e sempre meno percepibili, proprio come un odore che si stempera nel tempo fino a far parte dell’ambiente stesso. È un luogo magico la Maison Rosset. Sta sulla strada principale, quella interna, del paese che è a senso unico in direzione Aosta. La casa è grande, ma in linea con le altre circostanti. Un tempo l’ingresso era direttamente sulla strada, dalla porta antica ora chiusa per concedere l’apertura a quella posteriore, alla estremità opposta del corridoio, cui si accede dal cortile. Grandi novità quindi, per Biagio che mancava da qualche anno. Non si sarà mica montato la zucca il bravo Camillo! Sembrerebbe impossibile, ma non si sa mai. La sua famiglia ha radici antiche in quelle terre dove da sempre alleva bestiame, ne utilizza il latte e le carni, coltiva ortaggi nella breve estate e li conserva per l’inverno. Nei secoli passati, a partire dal Settecento, la loro era l’unica casa padronale in mezzo ai prati. Nelle stanze del piano terreno si riunivano i lavoranti della fattoria, contadini e operai, per mangiare insieme. Per secoli la vita scorre uguale in casa Rosset fino a quando il giovane Camillo, ultima generazione, nata nella seconda metà del secolo breve, porta nuove prospettive in famiglia. “Apriamoci alla gente”: ci sono nelle città di pianura bambini che non hanno mai visto una vacca, una capra o una gallina e genitori che non conoscono il sapore del latte appena munto. È tempo di attirarli. E “l’arma sua segreta” è l’agriturismo, con cui dispensare ospitalità, agevolata dalla
legge e valorizzare a un tempo i prodotti dell’azienda che possano arrivare, diversi secondo le stagioni, sulle tavole degli ospiti: “de l'étable a la table” (dalla stalla alla tavola). Nel 1993, il 13 di agosto, apre dunque l’ospitalità di casa Rosset, dopo che l’intero piano terra è stato velocemente ristrutturato per essere dedicato alla nuova mensa per gente comune. Per gente che, a tavola, non ha grilli per la testa e che ama stare bene piacevolmente senza pretese di gourmanderie. Citando l’amico Raspelli, qui non è posto per “gastrogonzi”. È quella del “gastrogonzo” una categoria trasversale che prescinde da censo e da intelligenza. È popolata da individui che – spesso in branchi o piccoli gruppi, guidati da leader carismatico – frequentano luoghi di cucina più o meno elevata, spesso abbagliati dal “voglio ma non posso” o dal “che bello, ci sono le ostriche con champagne in baita e in piazza a Courma (anzi Couvma)”. Biagio, che di ostriche e di champagne non va pazzo neppure in Normandia, usa correntemente quel neologismo raspelliano (di cui è grato al saggio Edoardo), assai più elegante del classico termine (che attinge all’etimo della tradizione milanese e lombarda del “girare come trottola”) da lui abitualmente usato nei pensieri privati e irripetibili, di cui è gelosissimo. Ecco: i bambini – quasi per definizione - non possono essere “gastrogonzi” in quanto non hanno le sovrastrutture mentali e gli infingimenti di gola, testa e palato che affollano le personalità più mature. Insomma, se si riscopre il bambino che c’è in noi non si corre il rischio di essere un “gastrogonzo”. Sì, a tavola Biagio è un vero bambino (seppure scafato e forse anche troppo erudito e malizioso) e quindi ama star bene ancor prima che mangiare bene. Star bene a tavola comprende naturalmente il mangiar bene, ma è molto di più. Avremo occasione per approfondire in futuro questa elementare considerazione, per chi avrà la curiosità di seguire qua e là i racconti delle avventure alle tavole d’Ita-
lia del Biagio mangerino. Torniamo a Casa Rosset. Qui tutto corrisponde quasi esattamente all’idea di Biagio sul mangiar bene stando bene. Negli anni Camillo è riuscito a mettere in piedi un sistema di well-being che comincia a manifestarsi alle 20,30 precise (non un minuto prima) di ogni sera (salvo quelle rare in cui non ci sono prenotazioni), ora in cui apre personalmente il portone di casa agli ospiti. Alle 20,35 sono praticamente tutti accomodati ai tavoli, ciascuno al posto previsto secondo la prenotazione in-di-spen-sa-bi-le, suas quisque ad tabulas. In quei meravigliosi cinque minuti si realizza il primo incantamento: la cordiale accoglienza da vecchi conoscenti e la vista dei locali in cui si svolgerà la cena. In inverno, stagione preferita da Biagio, questi sono piuttosto bui, illuminati da lampade parsimoniose di watt, la cui luce già fioca non trova riflessi scintillanti nelle pareti e nei bassi soffitti a volta, che sono di intonaco imbrunito e nel legno dei pavimenti. Il camino acceso scalda i cuori ancora prima che i locali. Tutto è rustico e all’apparenza autentico. Piccoli oggetti di uso comune, apparecchiatura semplice ma assai curata. I tavoli sono piuttosto stipati, ma la contiguità dei gomiti e delle spalle non disturba chi è consapevole di partecipare a una piccola e semplice festa di famiglia, gioiosa e soprattutto serena. L’atmosfera e la temperatura ambientale sono calde entrambe: niente maglioni pesanti quindi, ma neppure discorsi formali e salamelecchi o civettuole smancerie. Sui tavoli sono già predisposti il cestino del pane (quello nero, preparato una volta la settimana nel forno a legna, e quello bianco, di giornata), gli antipasti, le bottiglie di vino e le caraffe di acqua (anche microfiltrata con gas) a seconda del numero dei commensali. Il vino è rosso, naturalmente e non è il caso di scegliere altrimenti. C’è chi lo fa, ma – secondo Biagio (Camillo non lo potrebbe confessare per cortesia di ospite) - forse ha capito poco dello spirito di casa. Dal
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numero di salamini deposti sul tagliere (uno a testa) si può giocare a indovinare il numero dei prenotati alle singole tavole, ancor prima che dalla conta dei coperti. Breve gioco che sta nello spazio di quei magici cinque minuti dopo le 20,30. Ma che cosa si trova sulla tavola imbandita? Una fetta a testa di reblec, qualche fetta di lardo con miele, una ciotola con composta di frutta da associare al formaggio stagionato, tartine rustiche di pane nero, peperoni e melanzane in carpione e altre piccole e saporite rusticità. Che spariscono in fretta. Il secondo incantamento è l’organizzazione del servizio. Attento, solerte, cortese e poco formale senza cadere mai nella sciatteria che alberga, quest’ultima in vece della familiarità vera, in quei postuncoli dove improvvisati (o sventurati) ristoratori, non sempre giovani, aiutati da estemporanei “portavivande” (chiamarli “camerieri” sarebbe offensivo per la categoria), propinano pasti intrisi di finzione pura (magari in piatti dalle forme di frattale) ai malcapitati che talvolta abboccano una seconda e terza volta, “gastrogonzi d’allevamento”. Il servizio cronometrico consegna su richiesta, ma ancor prima, le acque preferite (gas o no-gas) senza lasciare mai secche le fauci e rimpiazza al bisogno le “bocce” di rosso esaurite senza consentire alle papille di riposarsi forzatamente. Raramente si è così ben accuditi in luoghi anche di livello, soprattutto se al gran completo. Il numero dei camerieri (anzi delle cameriere) è esattamente quello giusto. Nei momenti topici compare lo stesso Camillo che spiega con malcelato orgoglio le vivande, raccontandone la provenienza dal lavoro della propria azienda, e regala un sorriso gentile a chiunque incroci il suo sguardo. Sì, è proprio vero, qui arrivano in tavola i prodotti delle terre dei Rosset, secondo il ritmo delle stagioni. E poi, al tavolo di Biagio, passano le frittelle calde e il tortino salato, squisiti, istantaneamente spariti. E, a ritmo battente ma non eccessivo, compaio-
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no dalla porta seminascosta della cucina in fondo alla sala le ragazze e la solerte signora con i piatti dei primi, uno dopo l’altro, annunciati alla vista dal servizio alle altrui tavole, e presto materializzati sulla propria, senza attesa snervante e con rasserenante equità distributiva tra i commensali tutti. Polenta con la fonduta (immaginiamo il fuoco di legna su cui borbotta per l’intero pomeriggio il grande paiolo), ravioli di carne. Le bambine irrequiete si sono intanto placate e soltanto raramente spuntano dalla loro sala e ormai deluse dalle aspettative del principe azzurro, sembrano più incuriosite dai cibi in arrivo sui quali ingaggiano piccole gare di ingenue profezie. Chiude la serie dei primi piatti una crema di verdure provvidenziale, delicata e saporita, calda e ristoratrice. Le poche coppie sedute ai tavoli a due sembrano beate: non sono certo approdate qui per tubare e sibilarsi promesse d’amore. Qui si ama lo stare insieme in semplicità e non si arretra davanti al cibo. Il brusio di fondo, anzi il rumore delle voci, stimola la salivazione ma inibisce i discorsi troppo impegnativi. Biagio insaziabile accoglie con soddisfazione la carne stufata al ginepro con ottime patate e, con effetto “nozze di Cana”, apprezza la qualità crescente delle preparazioni. Poi un tagliere di formaggi raccontati da Camillo con l’attenzione che in luoghi “di livello” talvolta lo fa sorridere e qui gli appare come un amichevole e sincero consiglio. Lui (Camillo) dichiara la sua preferenza per la toma stagionata, al cucciolo di Biagio piace la fontina, al vecchio il più giovane dei formaggi. Gli sguardi che si scambiano i commensali sono di soddisfazione. E di stupore quando ancora dalla benedetta porta di cucina compaiono le ciotole con – che sarà quella cosa bianca? – gelato di latte morbido e leggero. Perfetto e dal sapore antico di miele. La serata volge alla fine: ancora una tisana tiepida e digestiva, un caffè con il grappino e il rituale giro tra i tavoli
Espressione dell’offerta valdostana più alternativa ed aliena dalle mode, Maison Rosset è meta ambitissima di famiglie e gourmet in cerca di semplicità e informalità. per l’elemosina della messa: 28 euro pro-capite, solo in contanti, all’antica (per il prossimo lustro – ci dice Camillo – saranno, sono già, 30). Amen, ite, missa est. Le sale si svuotano di rumori, Camillo si rilassa seduto accanto a qualche commensale amico o conoscente o semplicemente cliente disposto alle chiacchiere; l’atmosfera resta serena e ormai del tutto rilassata sebbene nel corso di tutta la cena non sia mai stata concitata. Qui tutti sono stati bene, e digeriranno senza difficoltà. I bambini hanno bisogno di certezze e qui le certezze sono almeno tre: l’orario di apertura (20,30 in punto e – solo nei festivi – 12,30 in punto); il menu rigorosamente fisso e variato a seconda della stagione e dei prodotti disponibili in azienda; il conto immutabile per anni. E vorremmo aggiungere la semplice ottima qualità del cibo. Bisogna essere un po’ bambini per apprezzare questo luogo perché, a ben guardare, qui manca tutto quel che piace ai supposti gourmet: Manca la fantasia nelle preparazioni, manca la civetteria nelle presentazioni, manca la supponenza nelle descrizioni, manca la fatua ricerca del nuovo e la stupida ricercatezza dell’ambiente. Tutte cose, queste, di cui talvolta è utile e necessario e piacevole fare a meno, ben sapendo che la vera genialità contiene in dosi rilevanti la semplicità del bambino. E che lo stupore del cliente avveduto, non è mai il risultato di vacue piroette gastronomiche, né quasi mai di arzigogoli architettonici, ma è spesso legato allo spessore e alla solidità delle proposte che un avventore-bambino sa riconoscere e discriminare meglio di chiunque altro, come un bimbo conosce il seno materno. Riscopriamo dunque il bambino che sta in noi e godiamoci il regalo di Camillo Rosset che certamente – tornan-
do al dubbio iniziale di Biagio - non si è montato la zucca, anzi, si è perfezionato e stabilizzato nella sua giovanile e infantile voglia di gioire del piacere altrui. Bravo, proprio bravo, il nostro geniale e smaliziato Peter Pan. Che bella cosa l’infanzia, regno dei sogni. E Biagio con figliolo a seguito se ne uscì nella sera fredda e nevosa di Nus con in testa il dolce ricordo di una antica filastrocca: Oh che bel castello marcun-dirun-dirun-dello o che bel castello marcun-dirun-dirun-dà… Nus Maison Rosset Via Risorgimento, 39 0165767176 Agriturismo carte di credito: nessuna Ristoro: aperto solo la sera; anche a mezzogiorno nei festivi e prefestivi Ospitalità: sempre aperta nei week-end
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ONE ALDWYCH di Londra Il lusso ecologico di Claudio Zeni Impatto ambientale ridotto, luci a basso consumo, riutilizzo dell’acqua piovana: la ristrutturazione del luxury hotel londinese, del gruppo Campbell Gray, ha puntato sulla cultu ra green. E, in cucina, due linee si contendono la gioia dei gourmet. Un antico palazzo edoardiano nel cuore di Londra, fuori da tutti i clichè. Un soffio di storia e eleganza a due passi da Buckingham Palace e dalla vivace vita cittadina. È il ‘One Aldwych’, meta ideale per un soggiorno indimenticabile, ro mantico, ispirato al benessere e rifugio d’antan dopo una giornata a spasso tra gallerie d’arte, musei, performance teatrali e shopping in stile vintage. “Aperto nel luglio 1998 e protetto come patrimonio della storia inglese, l’hotel fu fino al 1937 la sede del quotidiano ‘The Morning Post’, per poi diventare ‘Inveresk House’ – esordisce Howard Rombough, dinamico direttore delle relazioni esterne del gruppo Campbell Gray Hotels - gli architetti scelti per la ristrutturazione dell’edificio da Lord Glenesk, proprietario del ‘The Mor ning Post’, furono Charles Mewes e Arthur Davis, gli stessi che hanno disegnato il Ritz di Londra e Parigi”. Charles Mewes (1860-1914), un franco alsaziano di nascita, studiò architettura sotto Pascal alla famosa ‘Scuola delle Belle Arti’ di Parigi, dove ottenne numerose menzioni, mentre Mewes fu il primo a creare uno stile di architettura e decorazione adeguato agli hotel di lusso, esponente di una progettazione di sviluppo pratica e logica. “Nel 1927, il The Mornig Post si trasferì e l’edificio divenne ‘Inveresk House’ – ricorda Howard – mentre nel 1935 fu venduto ad una compagnia assicurativa, prima di passare definitivamente a Gordon Campbell Gray, l’attuale proprietario e vice presidente di ‘Save the Children’, sempre esposto in pri-
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ma linea in iniziative di solidarietà nei paesi più poveri dl mondo. Mister Gray è anche una persona amante del bello e in merito all’albergo da lui creato ripete ‘Mi piace pensare all’One Aldwych come ad un hotel classico e nel contempo moderno, eccitante e divertente, un ‘stealth welth’ piuttosto che un ‘dripping deluxe, perché noi vogliamo togliere il superfluo e dare il massimo della professionalità e del comfort, non a caso la nostra filosofia è ‘Tutto dipende dal servizio”’. All’interno dell’hotel ci sono, comunque, più di 350 opere d’arte, acquistate direttamente per l’hotel da Gray e il comfort non è stato sacrificato per il design. L’hotel ha 105 tra camere e suite, due delle quali hanno palestra privata, il Cimmon Bar, un Health Beauty con piscina di 18 metri, una delle migliori Spa della città, due ottimi ristoranti l’Axis e l’Indigo, le ‘creature’ queste ultime due di Tony Fleming, uno degli chef più famosi di Londra, anche se Tony non avrebbe mai pensato di diventare il numero della capitale quando fece provare a dodici anni la sua prima ricetta ai suoi genitori. “Era un piatto di pasta con pomodori e funghi – ricorda Tony - mia madre e mio padre stavano uscendo ma io li chiamai per testare la mia ricetta, pur sapendo che era cattiva. ‘Non è male’ mi dissero e così continuai a coltivare la mia passione per la cucina’. Le cose sono cambiate da allora. Oggi Tony Fleming è lo chef dell’One Aldwych, il celebre hotel cinque stelle di Londra. “Nei due ristoranti de cerco di tenere due differenti linee di cucina – continua Tony – nell’Axis, il ristorante che possiamo definire gourmet, proponiamo i classici piatti inglesi, seppur di origine francese come gran parte della cucina british), tra cui il vitello alla ‘bourguignon’, mentre nell’altro locale, l’Indigo, proponiamo menu più leggeri con influenza asiatica e mediterranea”. Una linea di menu ben definita da Tony, che ricorda
Nella vecchia sede del Morning Post, a due passi da Buckingham Palace, si trova uno dei più esclusivi hotel londinesi.
anche quando i due locali proponevano una cucina senza carattere. “Adesso tutto è stato definito – evidenzia Tony – la gente viene all’Axis o all’Indigo e sa esattamente cosa trova. Voglio, inoltre, che il cibo sia accessibile a tutti e popolare. Qualcosa che le persone possono mangiare ogni giorno. Non sono trendy e non voglio esserlo, ma voglio solo che il cibo sia buono e fatto con cura e che la gente possa così tornare”. Se fai le cose semplici devi farle molto bene. Molti chef sono conosciuti per utilizzare ingredienti esotici o complesse presentazioni, il tutto per mascherare una mancanza di tecnica o di ingredienti poveri, ma se servi un pesce grigliato con alcune patate e una salsa bernese il pesce deve essere della migliore qualità, le patate devono avere un sapore vero e non adornare il piatto e la salsa deve essere bilanciata alla perfezione”. Quello che vuole Tony è che quando lasci il suo ristorante il pesce grigliato e la salsa bernese siano la migliore che hai mai assaggiato, perché a Tony piace cucinare anche con una precisa finalità: far diventare a cena amici degli stranieri e far sì che una
giornata buia si trasformi in una serata piena di lcue. “L’One Aldwych è stato premiato anche come ‘Green Hotel of the Year – conclude Howard Rombough – abbiamo un’attenzione maniacale nel ridurre l’impatto ambientale: dall’suo di sistemi di illuminazione a basso consumo a un ridotto spreco dell’acqua, grazie anche al riutilizzo dell’acqua piovana, perché il lusso a cinque stelle deve essere anche ecologico”. www.onealdwych.com
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PERE e MARGHERITE Caso di successo
di Claudio Zeni Nella campagna di Arezzo tre amici inventano una formula di offerta che punta sulla ricercatezza e l’atmosfera. Molta tradizione, ma anche spunti creativi, nei quali spicca la presenza del frutto in quasi tutti i piatti in menù. “Una sera di sei anni fa un'amica ci annuncia di volersi sposare e di affidare a noi il catering del pranzo nuziale – esordisce Sandro Ghiandai, che unitamente a Carlo Bianchi Mancini e Graziano Cerofolini hanno dato vita a ‘Pere e Margherite’ (tel. 0575 897067), accogliente locale di ristoro nella quiete di Pieve a Presciano, piccola frazione di Pergine Valdarno (Ar) - fino a quel momento avevamo organizzato solamente pranzi e cene per divertimento al fine di condividere insieme ad amici comuni qualche ora in buona compagnia, assaggiando pietanze del territorio preparate con particolare attenzione all’uso dei prodotti e al servizio”. La buona riuscita di quel pranzo nuziale, grazie al classico ‘passaparola’, porta Sandro, Carlo e Graziano a preparare altre piacevoli serate culinarie per la loro
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‘brigata’ di amici fino a quando, un po' increduli e un po' spaventati ma con uno scintillio negli occhi che rivela quel pizzico di follia necessaria quando si capisce che è giunta l'occasione di mettersi in gioco, non decidono il 10 ottobre 2009 di aprire ‘Pere e Margherite’, un ristorante all’insegna di una cucina attenta alla tradizione con uno sguardo rivolto anche alla ricerca innovativa verso la leggerezza contemporanea delle pietanze. Non a caso, la carta, che cambia con il corso delle stagioni, è un delizioso
trattato di specialità territoriali a cominciare dalla classica pappa al pomodoro per poi proseguire con gli straccetti di pollo del Valdarno al limone con carote e l’immancabile fiorentina con patate saporite. Se la cucina proposta a ‘Pere e Margherite’ affonda le sue radici nel territorio il nome del ristorante è, invece, il frutto della fantasia, come ricorda Sandro: “Ci piaceva il suono delle due parole ed ancora di più il piacere di creare con il frutto e il fiore un logo che ben identificasse il locale, ovvero le pere, comune alimento che tra l’altro ritroviamo in alcune nostre pietanze, e le margherite piacevole soggetto decorativo”. La ricercatezza e la genuinità della cucina curata da Sandro, la scelta dei particolari semplici e raffinati che arredano gli ambienti del locale selezionati da Carlo, la cura e l’affidabilità con cui Graziano coordina il lavoro, sono gli elementi portanti con i quali i tre amici cercano di ren-
dere speciali le persone e i loro momenti che vogliono ricordare, condividendo nel contempo con essi qualche frammento di felicità che solo una buona proposta culinaria sa offrire. www.pereemargherite.it info@pereemargherite.it
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A N R E C U L i d e c a l a P di Gianni Ventura L’offerta dello storico hotel svizzero spazia dai massaggi ayurvedici alle cene gourmet della giovane chef tedesca Kerstin Rischmeyer. Ricca di esperienze professionali, sa interpretare le esigenze dei clienti grazie a due linee di cucina: la Spa Food e la Mood Food, ultrasalutistica la prima e tutta gusto e piacere la seconda. Lucerna, da un punto di vista geografico, è per la Svizzera quello che Roma rappresenta per l’Italia. Si trova nel cuore del Paese, della Confederazione Elvetica, placidamente adagiata sulle rive di un lago che ha visto da vicino le fasi salienti della nascita della nazione, ed è un crocevia quasi obbligatorio per i transiti da sud a nord, e viceversa, tra Germania e Italia. È sempre stata una località dal look rigoroso e dalle fre-
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quentazioni aristocratiche, un po’ come tutte le cittadine svizzere a dire il vero, ma senza quella spiccata vocazione turistica che invece hanno acquisito nel tempo gli antichi villaggi di montagna diventati mete di vacanzieri mordi e fuggi e trasformatisi nello spazio di pochi decenni in grandi centri del divertimento invernale. Lucerna è, come si usa dire in queste occasioni, una cittadina a misura d’uomo. Discreta il più delle volte, ma vivace quando occorre, con il dinamismo di molte costruzioni e attività commerciali realizzate negli ultimi lustri (come nel caso di alcuni hotel progettati da architetti di grido), un’ampia scelta di ristoranti (anche etnici) che nulla hanno da invidiare a quelli di piazze più importanti e più affollate, e boutique per acquisti originali e meno scontati di quelli che offrono i marchi internazionali che tutti noi conosciamo. Tutto questo approfittando sempre del paesaggio rilassante offerto dal lago dei Quattro
Alla mole imponente del grande hotel svizzero fa da contraltare la cucina raffinata e personalizzata di Kerstin Rischmeyer: un menu-benessere premiato dalla Michelin.
o n r e d o il retrò m Cantoni e delle piacevoli passeggiate lungo gli storici ponti che collegano le due metà del centro storico sulle sponde del fiume Reuss, poco prima che questo si immetta nel lago. In una località dallo stile inevitabilmente retrò, dai ritmi rilassati, capace di riflettere un’eleganza molto lontana dal diffuso cattivo gusto contemporaneo, il luogo d’elezione per l’ospitalità non può che essere lo storico Palace, uno degli alberghi diventati pura espressione del savoir faire elvetico. È un hotel la cui mole non passa davvero inosservata sulla promenade lacustre e che ben rappresenta la grandiosità delle strutture alberghiere di un tempo. I saloni sono imponenti, le stanze e le suite sempre di notevoli dimensioni, i toni e i colori pastello, e lo stile, nonostante recenti e ambiziose ristrutturazioni, è rimasto immutato e in linea con l’impronta storica dell’intero albergo. Certo, i segni della modernità si vedono nella scelta di affidare Artù n°42
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il nuovo centro benessere al celebre marchio Espa, ma il nome in questo caso offre ampie garanzie di stile e professionalità. Chi sceglie di coccolarsi un po’ tra massaggi e trattamenti trova qui pane per i suoi denti. E soprattutto può ritagliarsi su misura diverse tipologie di “rituali”. Come il Private Spa Pearl per coppie che
hanno a disposizione quattro ore da spendere tra un percorso di relax per i piedi, un light lunch, i trattamenti personalizzati della durata di due ore denominati “Time” dove si seguono le terapie più appropriate per il proprio corpo, un’ora di riposo in una suite privata, e un’ampia scelta di te alle erbe e frutta fresca in perfetta chiave
salutista. Oppure, tra le tante proposte del menù Spa, ci si può affidare alle mani di esperti di tecniche orientali, per una serie di massaggi dai nomi quasi sempre complicati (abhyanga, pur va karma, pada bhyanga) ma dai benefici effetti: sono un must per gli appassionati di applicazioni ayurvediche ma anche per tutti coloro che cercano di riacquisire l’energia e la vitalità perse nella vita quotidiana. Lo stesso principio, ed effetto, dei trattamenti olistici o delle terapie con le pietre calde laviche (hot stone), posizionate nei punti nevralgici del corpo per stimolare i chakra. Tra le proposte più singolari della Espa c’è anche un trattamento per donne in fase pre o post parto, mirato a mantenere la tonicità della pelle e a rendere più rilassato il corpo in una fase così delicata. Se il centro benessere del Palace si preoccupa di
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curare il corpo e di coccolare l’ospite, il ristorante Jasper vuole invece viziarlo e mira a prenderlo per la gola, dall’alto della sua meritata stella Michelin. Nel corso del 2010 c’è stato un avvicendamento alla guida delle cucine e il navigato Ulf Braunert ha lasciato il campo alla promettente Kerstin Rischmeyer (classe 1971), che aveva già incrociato in passato all’Hotel Giardino di Ascona nel 2000. Ori ginaria di Oldenburg, una città vicino a Brema nel profondo nord della Ger mania, Kerstin ha dalla sua una serie esperienze professionali squisitamente teutoniche (quindi con un im po stazione della cucina base “alla francese”) e la frequentazione di molti ristoranti di albergo, anche in Svizzera. Per lei è stato un lungo girovagare tra Tonbach, Baden-Baden, Zermatt, St Moritz, Silvaplana, Ascona, Schaffausen, Rostock prima di arrivare nel gennaio 2009 a Lucerna, dove per un anno e mezzo ha svolto il ruolo di sous-chef alla corte di Ulf
Braunert. Ora, con l’inizio della stagione invernale 2010-2011, ha preso in mano le redini del ristorante Jasper e ha iniziato a dargli una impronta più personale proponendo molti piatti entrati immediatamente a far parte di due diverse filosofie denominate Palace Spa Food e Palace Mood Food. Con la prima si vuole proporre una cucina creativa e salutista, molto mediterranea come impostazione e più centrata sulle esigenze di benessere del corpo. Sicuramente a basso impatto calorico e vicina alle esigenze di una clientela che vuole mantenere la linea. I piatti in carta sono, per intenderci, la trilogia di tonno con lime, avocado e cetriolo, e l’halibut sautée con gamberi Black Tiger Jumbo, patate, broccoli e tartufo del Perigord. L’altra linea di cucina invece vuole celebrare l’anima e ispeziona diverse esperienze sensoriali giocando con i carboidrati, con i gusti più decisi e proponendosi come percorso seducente e sfizioso. Qui troviamo, tra gli altri, l’entrecote di Angus Beef con patate al rosmarino, la variazione di formaggio Sbrinz accompagnata dai ravioli al tartufo, oppure il cappuccino con marroni e porcini (ed è una zuppa davvero deliziosa). Proposte dal piglio moderno e per certi versi spiazzanti, adatte a una clientela esigente e variegata che, anche negli alberghi storici, sta progressivamente cambiando e rivolge la sua attenzione culinaria a piatti meno classici e più innovativi. Una bella scommessa. Palace Hotel Luzern Haldenstrasse 10 CH-6002 Luzern (Switzerland) Tel: +41 (0)414161616 www.palace-luzern.ch info@palace-luzern.ch
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Con le CANTINETTE il business cresce di Davide Deponti Scegliere per il proprio locale una cantinetta climatizzata vuol dire avere a disposizione immediata un luogo costruito per la perfetta conservazione di ogni tipo di vino. Meglio una cantina vera, magari scavata nella roccia e ben isolata per permettere che le qualità del vino rimangano intatte per il più a lungo possibile, o una cantinetta climatizzata di ultima generazione, tecnologica e modificabile secondo le proprie esigenze del momento? Non c’è dubbio che avere a disposizione, magari esattamente al di sotto del proprio ristorante, un locale che abbia le giuste caratteristiche di umidità e aerazione per il mantenimento delle etichette più importanti, senza che le loro caratteristiche subiscano alterazioni o danneggiamenti rilevanti, possa essere il sogno di ogni ristoratore. Certo è che anche in natura non è semplice trovare spazi sotterranei che abbiano, stabilmente e per tutta la durata dell’anno, quelle caratteristiche di umidità e temperatura – rispettivamente ritenute ottimali attorno al 70% e ai 10°C – che sono considerati dagli enologi come para-
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metri fondamentali per la perfetta conservazione del vino. Senza dimenticare che non dovrebbero neppure mancare altre due caratteristiche importanti, quali una costante e non troppo accentuata ventilazione, tale insomma da “vigilare” proprio sul mantenimento di temperatura e umidità costanti, e una pressochè totale assenza di luce naturale. E che dire ancora della presenza di vibrazioni, come quelle che chi ha un ristorante ma soprattutto una cantina sotto il livello del suolo delle strade di una grande città deve subire costantemente ogni giorno e che molti esperti ritengono deleterie nei confronti di una ottimale conservazione dei vini (che si sa devono “riposare” nelle loro bottiglie)? Multifunzione e isolate Come spesso accade è allora la tecnologia a venire in aiuto di tutti quegli imprenditori che hanno ben presenti quali devono essere quelle carat teristiche di conservazione del vino ma che non hanno a disposizione uno spazio realmente adeguato e lo vogliono sostituire con uno magari più piccolo e all’avanguardia. Si chiamano cantine climatizzate e sono degli apparecchi refrigeranti costruiti ad hoc per la sola conservazione delle bottiglie di vino, poiché assicurano al loro interno la presenza delle giuste e costanti condizioni di temperatura, luce e umidità. Stabilito ad esempio, come è risaputo in base a molti studi scientifici compiuti e confermati da scienziati ed enologi nel corso degli anni, che le temperature ottimali sono 10-12 °C per i vini bianchi e 12-14 °C per i vini rossi, è possibile scegliere di acquistare un modello di cantinetta chiamato “multizona”, poiché permette che all’interno dello stesso spazio refrigerante si creino due o più differenti zone climatiche, in ognuna delle quali si possa conservare una tipologia di vino differente, nel caso in cui magari vi si debbano conservare allo stesso tempo bottiglie di rosso pregiato e
invecchiato insieme a etichette di bollicine francesi. Ma la tecnologia che sta dietro alla costruzione di questi veri e propri ambienti di conservazione per vino non è finita qui. Molto importante è infatti ricordarsi di scegliere una cantina che utilizzi un sistema di isolamento dall’esterno di alta qualità. Questa caratteristica è data soprattutto da un elemento dell’apparecchio: il vetro con il quale sono realizzate la parte anteriore e la struttura della porta che deve essere allo stesso tempo un isolante nei confronti della temperatura e della luce esterne, ma garantire un ottima visuale interna. Occhio a esposizione e consumi Non dimentichiamo infatti che la scelta di posizionare nel proprio ristorante una cantina climatizzata ha anche un valore estetico, poiché permette al cliente di ammirare da vicino la collezione di vini del locale e di fare magari direttamente la sua scelta. Per facilitare la quale i produttori di cantine refrigerate hanno studiato diverse soluzioni che, ad esempio, alternano la classica suddivisione ad alveare, che consente di tenere le bottiglie in orizzontale, con una costituita dalla presenza di mensole o riquadri, adatta all’esposizione di alcune bottiglie in piedi, in modo da mostrarne l’etichetta. Sono accorgimenti semplici, ma fondamentali, che possono rendere più efficace la presentazione del prodotto, anche se non va dimenticato che non devono certo diminuire le attenzioni del maitre o del sommelier nei confronti del vino, anzi. Come se fossero in una “vera” cantina, le bottiglie riposte sui ripiani degli apparecchi climatizzati non vanno abbandonate a se stesse, ma sottoposte a una cura quotidiana. È sempre meglio ad esempio ruotare con una certa frequenza quelle in esposizione con quelle in cantina, per evitare che condizioni non ideali di luminosità possano alterare le qualità del contenuto. Senza dimenticare poi che le botti-
glie in vista al ristorante devono luccicare: quelle ricoperte di polvere piacciono solo se si ammirano nelle segrete di un castello. Ultimo aspetto, ma non meno importante degli altri, da considerare nell’acquisto di una cantina climatizzata, è quello dei consumi energetici. Un modello con migliore isolamento termico infatti garantisce abbassamento dei costi di elettricità, anche se sono le dimensioni degli apparecchi a determinare i reali costi per l’energia da considerare. Bisogna allora tenere presente che in media una cantinetta consuma 10 kW all’ora ogni 100 litri di capacità. E quest’ultimo è un fattore che ovviamente varia in base alla capienza del proprio ristorante: se si dispone anche di una cantina classica, sarà meglio optare per una vetrina non troppo grande, ma posizionata al centro del locale e che serva da vera e propria vetrina per indirizzare la scelta del cliente.
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California Silent La cantina California Silent di Enofrigo (www.enofrigo.it) è caratterizzata da un bassissimo livello di rumorosità che la rende perfetta per essere inserita in sale ristorante di ogni ampiezza. È comandata da un pannello digitale che regola il termometro-termostato, mentre le vetrate realizzate in vetrocamera isolante a bassa emissività garantiscono un isolamento perfetto. La refrigerazione al suo interno è imperniata su un sistema con evaporatore “roll bond” in piastra di alluminio. JC-398G Realizzata da Haier (www.haiereurope.com), la cantina refrigerata JC398G ha una capacità totale (lorda) di ben 398 litri e una porta con cristallo con filtro anti Uv che permette un perfetto isolamento dei vini da ogni sbalzo di luminosità in sala. Internamente i vini sono sistemati su sei ripiani in legno regolabili in altezza, mentre il sistema di ventilazione con filtri ai carboni attivi permette un adeguato ricircolo d’aria. Cantinetta Vini Può essere anche realizzata su misura, la tecnologica Cantinetta Vini proposta da Afa Arredamenti (www.afaarredamenti.com) che ha la caratteristica importante di adattarsi al posizionamento in ambienti piuttosto grandi. Ampia anch’essa (è alta 2,60 metri, larga 2 e profonda 1,50), infatti consente l’ingresso al suo interno di una persona. Tutte le sue scaffalature sono in acciaio inox, mentre la pedana a terra e in legno di larice. La refrigerazione ottimale è garantita dalla presenza di evaporatori a soffitto e di ventilatori tangenziali che convogliano l’aria verso tutti gli spazi della cantina. Miami Illuminata internamente da led inseriti
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lungo tutta la cornice per enfatizzare al massimo l’esposizione di importanti bottiglie di vino, Miami di Enofrigo (www.enofrigo.it) è un prodotto perfetto per l’esposizioni in ambienti moderni e di design. Il suo sistema refrigerante a condensazione statica garantisce bassi consumi e ridotta rumorosità in sala, mentre la porta realizzata con vetrocamera a bassa remissività e dallo spessore di 20 mm permette un isolamento ottimale. Liz Cantina climatizzata dalle elevate prestazioni, Liz di Ip Industrie (www. ipindustrie.com) è allo stesso tempo anche una particolare e comoda isola di lavoro che permette di risolvere i problemi di spazio che spesso affliggono i ristoranti più piccoli. Ospita due scomparti con temperature differenziate e regolabili e una completa dotazione di accessori pratici e funzionali che permettono di servire le bottiglie in tavola in modo impeccabile. Hwc 2536 Hwc 2536 è la cantinetta climatizzata prodotta da Candy (www.candy.it) che ben si adatta all’utilizzo in locali e ristoranti di non troppo ampie dimensioni. Può ospitare infatti fino a 53 bottiglie, disposte orizzontalmente nei suoi sette ripiani interni,
robusti perché realizzati interamente in legno. Si comanda tramite un tecnologico display lcd ed è isolata tramite la presenza di una porta con vetro doppio strato.
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TECNOLOGIA a portata di… mano di Davide Deponti Palmari per le comande, sistemi POS computerizzati, touch screen di ultima generazione e software sempre più evoluti: non è Star Trek ma la nuova via hi tech per i ristoranti. Così cambia la gestione delle ordinazioni, ma anche il rapporto con la clientela. Tecnologia al ristorante roba da fantascienza? Sempre più ristoratori al mondo non la pensano così e, anzi, fanno di tutto per dare ai loro locali una forte impronta hi-tech. Qualche esempio? Ce ne sono a bizzeffe, partendo da una delle città più all’avanguardia del mondo, Londra. È qui che si trova Inamo (www.inamorestau-
rant.com), indirizzo per chi ama l’alta cucina asiatica ma soprattutto ristorante dotato di un sistema touch screen per i clienti posizionato sulla superficie dei tavoli: si sfoglia il menu, si vedono le foto dei piatti in scala reale, si ordina direttamente alla cucina. E mentre si aspetta si può cambiare la tovaglia virtuale con disegni diversi e fare giochi da tavolo con gli amici. È in Germania, a Norimberga, che ci siede ai tavoli di ‘s Baggers (www.sbaggers.de) accompagnati dal personale di sala: ma è l’unico modo per incontrarlo. Poi, grazie ai touch screen posizionati su ogni tavolo per ordini e pagamenti e una rete di binari in acciaio che grazie alla forza di gravità trasporta i piatti sui tavoli non li si incontra più fino all’uscita. In America esiste addirittura un caso in cui, al posto del ristorante, c’è un’enorme piattaforma internet chiamata GoMobo (www. gomobo.com), nella quale il cliente seleziona dal telefono uno tra i ristoranti “reali” convenzionati, scarica il menu, lancia l’ordine e paga. Certo, forse questi esempi sono estremi, ma oggi è davvero semplice per un ristoratore implementare di tecnologia il proprio locale, anche “solo” grazie all’acquisto di palmari per le comande, sistemi POS computerizzati per la cassa, postazioni touch screen per la trasmissioni degli ordini e software di gestione della sala. In cucina via radio Da questo punto di vista, proprio una tecnologia che è stata pioniere e per questo già molto adottata nel campo della ristorazione, è quella che prevede al punta cassa l’utilizzo di un sistema POS. Si tratta di sistemi integrati per la gestione delle comande e dei pagamenti che utilizzano grandi display, spesso anche dotati di tecnologia touch screen, per semplificare il lavoro non solo ai cassieri ma anche alla gestione degli ordini in ingresso. Sono dotati infatti di un server che si occupa del loro invio alla cucina per la preparazione senza
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dover chiamare presentare un biglietto scritto a mano. Man mano che sono diventati più comuni, i sistemi sono diventati molto più complessi, tanto che con la moderna tecnologia, ad esempio, biglietti separati possono essere stampati in una stazione di preparazione di insalate, in una di fritto e una stazione di griglia, il tutto mentre il server è sempre intento a controllare la tempistica degli ordini e che tutti i clienti siano seguiti. Altro oggetto tecnologico di uso sempre più diffuso nei nostri ristoranti è il palmare da ordinazione: si tratta in pratica di un taccuino elettronico da usare per raccogliere le ordinazioni dei clienti direttamente dal tavolo, trasmettendole via radio direttamente (e contemporaneamente) alla cassa, alla cucina e al servizio bevande. Strumento da molti visto come impersonale e capace di rendere troppo freddo il rapporto tra gestore, o cameriere, e cliente, il palmare è soprattutto uno strumento da imparare a utilizzare nel modo giusto. Per arrivare al cliente 2.0 Perché è sempre vero che è importante creare la giusta empatia col proprio ospite, ma si tratta di un fattore che riguarda comunque una bravura soggettiva all’approccio col prossimo e sembra proprio essere indipendente dall’uso più o meno massiccio della tecnologia al ristorante. Tanto è vero che una recente ricerca realizzata da Faster Food & Quicker Service e presentata a “Sapore” di Rimini Fiera, nel corso del GDO Buyers’ Day, spiega come gli italiani dicano di essere molto propensi a interagire con un ambiente hi tech durante un pranzo o una cena fuori casa. Di fronte, infatti, all’idea ipotizzata dai ricercatori di sedersi al tavolo di un locale con schermi interattivi a disposizione del cliente e la possibilità di pagare direttamente passando la carta di credito nel lettore a fianco dello schermo, il 91,4% degli italiani ha ritenuto la cosa molto interessante e il 90,9% certamente
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quasi certamente lo farebbe. È insomma il principio dell’interattività digitale a fare breccia in un pubblico a sua volta sempre più tecnologico. Sgombrato allora il campo dall’obiezione freddezza, si torna a sottolinea-
re come sia invece utilissimo usare uno strumento come il palmare nella gestione delle comande, poiché elimina dimenticanze nelle comande e errori nei conti. Tanto che è stato calcolato da un’azienda produttrice (Orderman) che il suo uso permette al ristoratore di “recuperare” una parte, prima perduta del fatturato, pari a circa l’8,5% del totale. Perché un’organizzazione del proprio complesso lavoro di ristoratore e gestore e cuoco non è certo un male necessario e la tecnologia continua a sfornare a raffica soluzioni sempre più all’avanguardia e in grado di semplificare la vita dietro il bancone, come software di gestione a 360 gradi e sistemi touch screen integrabili in cassa e in cucina. Punto Cassa Cei Systems Minimale nelle linee e velocissimo nell’esecuzione degli ordini, il Punto Cassa Cei Systems (www.ceisystems.it) si manovra tramite un ampio e confortevole schermo touch screen che visualizza un infinita serie di funzioni. Non solo quelle di apertura e chiusura del conto dei clienti, ma anche quelle di controllo delle statistiche di magazzino e reperti o di monitoraggio dell’operato dei camerieri. È personalizzabile in base alle esigenze del singolo locale. ATZ4 Messo a punto in esclusiva dalla Cei Systems di Torino (www.ceisystems.it), il taccuino palmare ATZ4 è un sistema pratico, efficiente e veloce per la raccolta delle comande al ristorante. Caratterizzato dalle dimensioni ridotte, è lungo appena 15 cm, e da una linea elegante e discreta, questo palmare è dotato di un ampio display touch screen, di un sistema vocale e di una batteria al litio integrata e di lunga durata. Sol Si chiama Sol uno tra i più avveniristici palmari proposti da Orderman (www.orderman.it), l’azienda svilup-
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patrice di sistemi elettronici per la ristorazione. Ha un display brillante da 4,3 pollici con regolazione automatica della luminosità, parte posteriore ricoperta da superficie antiscivolo e slot per scheda micro SD. Grazie a un software intelligente piatti e bevande consumati con maggior frequenza possono essere ordinati con un solo tocco. BaccoMobile Verona Software (www.vrsoft.it) è un’azienda italiana leader nel mondo per i sistemi di gestione computerizzata della ristorazione: tra i suoi prodotti di punta c’è il software applicativo BaccoMobile che, installato su appositi palmari portatili a radiofrequenza predisposti dall’azienda, permette la raccolta delle comande e la loro trasmissione diretta, non solo in cassa, ma soprattutto direttamente sulle stampanti dei diversi reparti della cucina che cosi possono gestire in tempo reale il lavoro. Max2 Prodotto in esclusiva da Orderman (www.orderman.it), il palmare Max2 è dotato di un display luminosissimo ma dai contrasti eccellenti che garantisce il massimo della leggibilità anche all’aperto in una giornata di abbagliante sole. Il sistema, funzionante per le comande con una pratica penna a touch, contiene una menu card personalizzabile e il sistema di sicurezza Auto-Lock. Hp 5000 All-in-one POS Realizzato con tutta l’esperienza di una grande multinazionale dell’elettronica di consumo come Hp (www.hp.com), il sistema Hp 5000 All-in-one POS è una soluzione tecnologica e versatile che si adatta a ogni tipo di esigenza ristorativa, e non. Grazie a un ampio e preciso touch screen può essere utilizzato senza problemi e i comandi dati dall’operatore vengono eseguiti in un lampo dal processore elettronico di ultima generazione
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Iaccarino, Caputo e Mei Se lo CHEF è scrittore
Titolo: Alfonso Caputo. ll gusto del mare alla Taverna del Capitano Autore: Ilaria Santomanco Editore: Gribaudo Collana: Grandi Chef Anno: 2010 Pagine: 224 Prezzo: 45 €
Titolo: Ritratti a Pietrasanta Autore: Ferdinando Cioffi Editore: Peruzzo Anno: 2010 Pagine: 90
Titolo: La cucina del cuore Autore: Alfonso Iaccarino Editore: Mondadori Collana: Strade Blu Anno: 2010 Pagine: 197 Prezzo: 17,50 €
Titolo: La cucina italiana all’italiana alla maniera di Sergio Mei Autore: Sergio Mei Editore: Reed Gourmet Anno: 2010 Pagine: 671 Prezzo: 130 €
Omaggio al Capitano e alla sua Taverna Il titolo è più che esplicito: “La taverna del Capitano di Alfonso Caputo”, è infatti incentrato sulla cucina e sulle ricette che hanno portato questo chef e la sua famiglia alle ottenere le due stelle per il loro locale a Marina del Cantone, sulla penisola di Sorrento. Ma protagonista è anche il territorio, sia il mare sia la terra con i loro tesori. Infatti, le ricette sono affiancate da approfondimenti sulle materie prime e sui prodotti locali tipici della Campania, che Caputo da sempre utilizza per la preparazione dei suoi piatti. “La taverna del Capitano di Alfonso Caputo”, edito da Gribaudo, è curato da Ilaria Santomanco e fa parte della collana Grandi Chef. (F.A.)
L’arte del ritratto secondo Cioffi Secondo l’opinione di molti, Ferdinando Ciuffi è il più grande ritrattista fra i fotografi contemporanei. A noi non piace fare classifiche, ma certo questo suo ultimo volume, intitolato Ritratti a Pietrasanta, sembra proprio dare ragione ai suoi estimatori. Pubblicato da Peruzzo, il volume contiene oltre centocinquanta ritratti di personalità del mondo dell’arte, della cultura, dello spettacolo, ma anche del mondo vinicolo e dell’enogastronomia. La foto di Jean Taittinger, produttore di champagne, rivela nobiltà e carisma, così come la bella immagine dei fratelli Andrea e Cesare Cecchi, vitivinicultori in Toscana, esprime –nella posa e nel sorriso- una notevole lungimiranza e una visione strategica, necessarie per ogni attività enologica di eccellenza. Anche la copertina, peraltro, riporta l’immagine della campagna di comunicazione dell’azienda: una foto che si è fatta apprezzare in tutto il mondo per la particolarità e l’eleganza del profilo.
La cucina del cuore Duecento pagine che raccontano la vita di Alfonso Iaccarino e del suo grande amore per la cucina, intesa come esaltazione spontanea ed assoluta del meglio che la natura possa offrire. Da sempre nemico giurato dei prodotti alimentari “insaporiti artificialmente”, il grande chef del Don Alfonso 1890, a Sant’Agata sui due golfi, descrive appassionatamente la sua filosofia di cucina, fatta di materie prime dai sapori integri e riconoscibili, di ingredienti naturali e semplici, nei quali il gusto originario prevale su ogni altro aspetto. Avvantaggiato dalla particolare condizione climatica della penisola sorrentina, dove (a Punta Campanella) Iaccarino coltiva in proprio frutta, verdure e ortaggi di rara qualità, lo chef di Sant’Agata racconta ai lettori la propria coraggiosa visione dei piatti e dellìofferta di ristorazione.
Alla maniera di Sergio Mei Un’opera monumentale, una sorta di opera omnia di tutte le grandi preparazioni di uno degli chef più bravi ed apprezzati d’Italia, Sergio Mei. Quasi settecento pagine riccamente illustrate riproducono con dovizia di particolari l’universo della autentica cucina italiana e delle sue ricette più tradizionali e creative. Il volume, edito da Reed Gourmet, conduce il lettore all’interno di quello che può essere definito il Codice alimentare della cucina italiana, illustrato con immagini di alta qualità e supportato da indicazioni molto precise per quanto riguarda ingredienti, tempi di cottura, preparazione e servizio. Da ogni pagina emerge lo stile unico di Sergio Mei, un grande personaggio che al Four Seasons di Milano ha creato un riferimento gastronomico di valore internazionale.
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