1.Corpo

1.

CORPO

Nella migliore delle ipotesi, il corpo resterà , anche teoricamente, eternamente ambivalente. Oggetto e anti-oggetto: che attraversa e annulla le discipline che pretendono di unificarlo – luogo e non-luogo.

Jean Baudrillard – Lo scambio simbolico e la morte

Nel punto in cui inchioda l’individuo a un’identità puramente biologica e asociale, essa gli promette di lasciargli assumere in Internet tutte le maschere e tutte le seconde e le terze vite possibili, nessuna delle quali potrà mai ap-

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Due film, entrambi usciti nel 1999, rovesciano l’idea che siano gli uomini a controllare le macchine: si tratta di The Matrix dei fratelli Wachowski ed eXistenZ di David Cronenberg, che con diverse sensibilità propongono in chiave fantascientifica un mondo in cui l’umanità vive schiava di intelligenze artificiali o inebriata da videogiochi collegati direttamente alla spina dorsale. Se in The Matrix il corpo umano è la fonte di nutrimento delle macchine, perfetta metafora dell’osmosi che ci lega ad esse (si consideri che è decisamente più facile cambiare un operatore al terminale di un computer che l’intero calcolatore elettronico), in eXistenZ assistiamo alla mutazione genetica di cavi elettrici che si trasformano in cordoni ombelicali o a consolle di videogiochi simili a membra umane. David Cronenberg sembra suggerirci che la trasformazione dell’organico in inorganico sia già in atto, anche se l’uomo si trova a non esserne l’artefice bensì lo strumento. In questo senso il corpo viene attratto verso la propria smaterializzazione biologica: un’attraente virtualizzazione, pegno necessario per poter vivere tutte le molteplici vite offerte dalle esistenze in rete.

Così il filosofo Giorgio Agamben:

CORPO

. Avatar

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partenergli in proprio. A ciò si aggiunge il piacere, svelto e quasi insolente, di essere riconosciuti da una macchina, senza il fardello delle implicazioni affettive che sono inseparabili dal riconoscimento operato da un altro essere umano. Quanto più il cittadino metropolitano ha perduto l’intimità con gli altri, quanto più è diventato incapace di guardare i suoi simili negli occhi, tanto più consolante è l’intimità virtuale con il dispositivo, che ha imparato a scrutargli così in profondo la retina, quanto più ha smarrito ogni identità e ogni appartenenza reale, tanto più gratificante è essere riconosciuto dalla Grande Macchina, nelle sue infinite e minuziose varianti.1

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Al di là del successo commerciale di The Matrix2 e delle lucide e folli visioni di Cronenberg, occorre evidenziare come l’ultimo decennio abbia determinato la progressiva smaterializzazione del corpo, evaporato in una nettuniana nube dai contorni indefiniti e indefinibili.

La consapevolezza che il corpo non fosse più necessario per vivere una vita reale in Internet si è consolidata sia nelle derive fumettistiche e affaristiche di Second life sia, soprattutto, nel surrogato di presenza offerto dai nuovi social network. Il corpo non serve più, anzi impedisce una più stretta adesione ai modi e ai tempi della rete: on line è possibile asserire quello che la voce potrebbe rifiutarsi di affermare, si possono iniziare e interrompere rapporti d’amore e relazioni, anche intense, che solamente il nostro doppio in rete potrebbe vivere e sostenere. Se pensiamo che il protagonista del film Avatar di James Cameron (2009) è un soldato paraplegico che sente di vivere veramente la propria vita solo quando è nelle spoglie, per l’appunto, del proprio avatar, alCfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma, 2009, p. 81.

Per una lettura suggestiva ed esaustiva cfr. S. Zizek, Matrix o i due lati della perversione, in Lacrimae rerum. Saggi sul cinema e il cyberspazio, Scheiwiller, Milano, 2009.

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3 Ricordiamo film come Il tagliaerbe (1992) e Johnny Mnemonic (1995) in cui le tecnologie applicate alla ricostruzione di spazi e luoghi virtuali assumevano contorni drammatici e addirittura horror.

4 C’è un filo sottile che collega il tema del doppio all’incognito e al perturbante: da Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814) di A. Von Chamisso, passando per Il sosia (1864) di F. Dostoevskij, Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde (1886) di R. L Stevenson e Il ritratto di Dorian Grey (1890) di O. Wilde, il doppio ha sempre assunto la sinistra e spettrale configurazione del doppelgänger: tutt’altro rispetto all’amichevole volto di un fratello gemello. In questa prospettiva anche la cinematografia si è frequentemente ispirata al doppio sottolineandone gli aspetti inquietanti e paurosi: ricordiamo le gemelline di Shining (Kubrik, 1980), ancora Cronenberg con gli Inseparabili (1988) e Le due sorelle (De Palma, 1973).

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lora capiremo la profonda trasformazione di sensibilità che l’umanità sta assumendo verso le nuove forme di vite mediate in rete. Il corpo offeso e martoriato del soldato rinasce nelle forme sinuose e atletiche del Na’vi: su Pandora il marine può compiere acrobazie incredibili, addomesticare animali volanti, fino alla consapevolezza che la sua vera esistenza si realizza solamente nelle spoglie del proprio doppio. Il suo vero corpo rappresenta invece la dannazione e il dolore dell’impedimento, un fardello inutile, un incubo dentro cui, paradossalmente, sprofonda ogni qual volta il soldato si sveglia, tornando a essere se stesso.

Con il film di Cameron, da considerarsi un vero e proprio evento massmediologico mondiale più che un semplice prodotto dell’industria dell’intrattenimento, dal terrore e dalle fosche previsioni che l’avvento della realtà virtuale suscitò fin dall’inizio3, si è ora giunti a considerare la vita in rete come una forma di esistenza, sotto molti aspetti, preferibile a quella vissuta sotto spoglie in carne e ossa. Anche in questa direzione il capovolgimento operato dalle culture digitali sulla figura dell’avatar è oppositivo e radicale: se il tema del doppio ha assunto un’accezione profondamente negativa nella storia della letteratura e del pensiero moderno, lasciando intravedere nel nostro sosia il nostro nemico4, la nostra ombra, ora new media e social network ribaltano tale immagine, promettendoci una vita virtuale più in-

tensa e felice, a patto che a viverla sia il nostro avatar, il nostro duplicato digitale.

. Fantasma

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Il corpo si è trasformato nel campo di battaglia in cui ogni giorno si compie la guerra di senso e di significato della nostra esistenza. Calamitato verso la smaterializzazione operata dal mondo digitale, nelle sue ultime declinazioni della realtà aumentata, il corpo subisce un attacco nel profondo, nel significato stesso di presenza e di soggetto percipiente. Viene modificato chirurgicamente affinché aderisca con più forza a un simulacro di corporeità, sintetizzato nell’epifania dell’immagine televisiva o della rappresentazione massmediale – mentre piercing e tatuaggi ne urlano l’insostituibilità, ma sono soltanto le ultime difese di una guerra già perduta.

La stessa definizione di medium, descritto da McLuhan come estensione, protesi elettrica della corporeità, assume ora una connotazione precisa riguardo alla trasformazione del nostro percepire il corpo: Ogni invenzione o tecnologia è un’estensione o un’autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri tra gli altri organi e le altre estensioni del corpo. (…) Sul piano fisiologico, l’uomo è perpetuamente modificato dall’uso formale della tecnologia (o del proprio corpo variamente esteso) e trova a sua volta modi sempre nuovi per modificarla.5

Consideriamo pertanto che se è vero che il corpo si è sempre modificato grazie all’utilizzo delle diverse tec5 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, pp.

55-56.

6 Cfr. A. Tarquini, Dite addio al mouse, il computer si comanda con il pensiero, in «Il Venerdì di Repubblica» del 11.02.2011, Roma, p. 54.

7 P. K. Dick, Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci, Roma, 2004.

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nologie realizzate dall’uomo, è altresì vero che le recenti, nuove tecniche della comunicazione digitale stanno trasformando la nostra corporeità e la nostra persona in una sorta di fantasma: ovvero un’immagine senza corpo. In questa direzione appare emblematica la comparsa del casco Epoc che, munito di diversi sensori che captano gli stimoli elettrici cerebrali di chi lo indossa, riesce a trasformarli in comandi digitali. Il sogno umano di compiere un’attività con il comando del pensiero non è più relegato al mondo della fantascienza, ma ha assunto la forma di uno tra i tanti accessori messi a disposizione dell’uomo. Inoltre, accanto alla possibilità di tradurre impulsi cerebrali in azioni (ma anche visualizzare immagini e comporre musica attraverso pensieri ed emozioni), è già disponibile anche la tecnologia definita come la ‘naturale evoluzione del touchscreen’; ovvero un sistema che, “grazie a mini camere all’infrarosso, identifica la mano che si avvicina”, con “schermi-tavolo sensibili ai comandi della mano anche a distanza”6. In sostanza la possibilità di tradurre i pensieri in azioni o in immagini e suoni, unita a una rielaborazione grafica ottenuta grazie al movimento delle mani, sembra la realizzazione dell’immaginario di Minority report di Philp K. Dick7, successivamente tradotto in film da Steven Spielberg nel 2002. Il riequilibrio ‘organico’ imposto dalle nostre nuove estensioni elettroniche passa ora attraverso l’evidente subalternità dell’insieme delle funzioni corporee rispetto all’indiscusso primato della vista, mentre la capacità delle nostre membra sembra dover perdere definitivamente di efficacia e intensità.

Le sensazioni che il corpo percepisce e recepisce in presenza non sembrano più intellegibili e vengono quindi rese superflue, abbandonate alla stregua di parti non più

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utili, superflue e dunque dimenticate: come i denti del giudizio che non crescono più, o come la pelle che, non avendo più il problema del freddo, diventa sempre più glabra.

Guardiamo, ma vediamo sempre meno. Non pensiamo più il corpo come unità di percezione (dunque di sapere) e di identità, bensì come un assemblaggio di agenzie periferiche, utili o inutili per svolgere determinati compiti, determinate funzioni. Il “ti vedo” del film Avatar, inteso come visione d’amore e messaggio di riconoscimento del vicendevole sentimento, esplicita invece il diritto assoluto e radicale della vista di allocare continuamente il senso della percezione e del sentire la realtà.

. Mutazioni

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Smartphone e tablet: le nuove, nostre, protesi elettriche, personalizzate e interconnesse8, determinano sempre più la nostra comprensione del modo in cui il corpo interagisce socialmente e sessualmente, come suggerisce Sally O’Reilly: Riorganizzando la percezione delle nostre capacità e dei nostri desideri [...] il corpo si muove al di là della sfera della soddisfazione privata in reti dove il piacere viene dato e ricevuto. La pratica diffusa del sesso telefonico e del cybersesso – un’attività disgiunta da qualsiasi imperativo biologico – dimostra in che modo una piacevole mescolanza dei sensi, dal tatto all’olfatto fino alle più sot8 Non a caso è stato proprio Derrick de Kerckhove, ‘erede’ degli studi e delle intuizioni di Marshall McLuhan, a collegare la visione del medium come estensione del corpo umano alla teoria della connessione delle intelligenze sullo sfondo del contesto tecnologico delle reti. Si veda a tal proposito D. de Kerckhove, Brainframes.

Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna, 1993.

Cfr. S. O’Reilly, Il corpo nell’arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2011, p. 132.

Parafrasando le conclusioni di Guy Debord in G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.

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Il risultato sembra essere una positivistica fiducia nelle possibilità della tecnologia di chiarire gli ingranaggi delle funzioni corporee, fiducia contrapposta all’incapacità di rivelarci i meccanismi intimi del desiderio e del desiderare. La società contemporanea va dunque operando una nuova mutazione genetica del corpo: da oggetto a immagine di un oggetto10. Il processo di reificazione che ha condotto la corporeità a diventare cosa, al fine di poter essere contemplata, desiderata e venduta, è diventata ora l’immagine di una cosa, l’immagine di un prodotto. Una réclame. Non si cerca nel corpo un tramite, un varco per accedere a una fonte di conoscenza (una sorta di “col corpo capisco”, come scriveva David Grossman), bensì andiamo compiendo un’ulteriore trasformazione della nostra corporeità: da oggetto – prodotto e merce, funzionale alla società dei consumi e per questo principio e conclusione di ogni desiderio – a fantasma del piacere narcisistico. L’esasperante e maniacale ossessione con cui la comunicazione pubblicitaria, l’informazione e l’industria dell’intrattenimento osservano il corpo è da leggersi non più come culto morboso e ricerca edonistica di perfezione, ma come vera e propria prova dell’inattualità con cui pensiamo alla corporeità. Réclame di creme, di profumi, di cure dimagranti, ma anche milioni di copie di riviste di gossip con dettagli sul corpo di uomini e donne più o meno famosi, sottolineano la fine del corporeo a vantaggio dell’immagine della corporeità. Ancora con Agamben:

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tili sfumature psicologiche, possa essere compressa in un mezzo linguistico, trasmessa e riassemblata nell’immaginazione del ricevente.9

Siamo così abituati all’interpretazione che del mito di Narciso ha dato la psicologia moderna, che definisce narcisismo il chiudersi e il ritirarsi della libido nell’io, che finiamo col dimenticare che, dopo tutto, nel mito il giovinetto non è innamorato direttamente di sé, ma della propria immagine riflessa nell’acqua, che egli scambia per una creatura reale.11

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Non amiamo noi stessi attraverso il nostro corpo – premessa indispensabile per imparare ad amare gli altri – ma inseguiamo la nostra immagine, riflessa ininterrottamente nello specchio luminoso di milioni e milioni di monitor.

. Oggetti che ci inventano

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Ogni volta che pensiamo la molteplicità e la complessità di significati racchiusi nell’idea di corpo ci troviamo di fronte a un equivoco e a un tranello: da un lato la malintesa possibilità di conoscersi a prescindere dal corpo, dall’altro la presunta, ingannevole certezza che sia possibile collocarlo tra parentesi, sospenderne il giudizio e percepirlo come altro da noi. In realtà il corpo ci si offre sempre come unità, identità di corporeità ed esistenza, quindi come presenza: non posso conoscere il mondo se non grazie al corpo, e ogni cosa che percepisco è tale in quanto filtrata, passata attraverso questo.

L’inganno si realizza quando cerchiamo di pensare il corpo come un ente, oggettivandolo come qualcosa di esterno; così facendo possiamo pensare il corpo, senza tuttavia riuscire mai ad averne una vera consapevolezza, giacché esso si mostra sempre in maniera diversa: Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino, 1977, p. 97.

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Il corpo, soggetto per eccellenza, può diventare l’oggetto di un’indagine conoscitiva solamente se si accetta l’idea che non è possibile separare l’ordine della comprensione da quello dell’esistenza; se si allontana il corpo dall’esistere, quello che rimane è un mero fatto biologico, un organismo. Infatti io posso vedere l’altro poiché il mondo si svela ai miei occhi, e posso lasciare che tale rivelazione attraversi la mia corporeità. Posso Cfr. E. Husserl. Metodo fenomenologico statico e genetico, Il Saggiatore, Milano, 2003, pp. 58-59.

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come un insieme funzionale di organi, come mezzo di comunicazione per esternare la nostra interiorità o ancora come una spia rivelatrice del nostro benessere o malessere. Quando ci ammaliamo curiamo la parte che ci fa male, dimenticando spesso il resto del corpo; eppure il più delle volte è esso stesso a parlarci attraverso l’evidenza di segni e messaggi, mentre il suo esprimersi rimane il più delle volte inascoltato. Un ideale punto di partenza per non cadere nella trappola di pensare il corpo come qualcosa che abitiamo e che ci appartiene fino a un certo punto, ci viene offerta dalla distinzione operata da Husserl tra persona e sostanza, ovvero tra la percezione della natura con la mediazione del corpo e gli oggetti del mondo circostante; per Husserl il corpo è infatti il “centro di funzione per tutti gli altri oggetti, per tutte le mie funzioni”, dunque è inseparabile dalla nostra possibilità di conoscenza. Il mondo delle cose che ci appaiono davanti agli occhi, “il loro essere, la loro verità diviene il mio proprio e ciò per la mediazione del mio corpo, quale attivo organo di percezione”12. Qualsiasi processo di apprendimento o semplice acquisizione di informazioni che non tenesse in considerazione il corpo, inteso come centro e mediazione di tutte le nostre funzioni, produrrebbe sempre una conoscenza incompleta, fallace, comunque illusoria.

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sentire il desiderio dell’altro farsi sangue, ma anche la repulsione o la semplice indifferenza innervarsi dentro di me, attraversando la mia nudità. Ma mentre lo sguardo, messaggero dell’intelletto, testimonia la mia visione del mondo, solamente la presenza del corpo ne garantisce la conoscenza; e questo perché noi non siamo mai davanti alle cose che accadono, bensì ci siamo dentro. Il corpo è spazio di mediazione tra me e il mondo: il profumo di un corpo, altro da noi, è già di per sé conoscenza. Un sapere che nasce dalla saggezza delle nostre membra, e che racchiude la necessità di ricucire l’antico strappo che la tradizione della civiltà occidentale ha operato tra corpo e mente. Una lacerazione che Leo Strauss individuò negli archetipi culturali di Gerusalemme e Atene13, ovvero nella storica separazione e contrapposizione tra spirito e corpo, tra cielo e terra, tra filosofia e scienza. Un’eredità di pensiero che solo l’esperienza esistenzialista novecentesca impose di rivedere, considerando un nuovo modo di avvertire l’esserci: il Dasein di Martin Heidegger. L’uomo non più come dualità di anima e sangue, cultura e natura, bensì come unità inseparabile di essere e modi, animalitas e humanitas.

L’errore del biologismo non è ancora superato per il fatto che alla corporeità dell’uomo si aggiunge l’anima, all’anima lo spirito, e allo spirito l’esistentivo, e per il fatto che si predica più forte che mai l’alto valore dello spirito, per poi far ricadere tutto nell’esperienza vissuta della vita [...].

Il filosofo Leo Strauss, tedesco ed ebreo, afferma che dall’antica unione di fisica e metafisica (nell’opera di Aristotele la metafisica era così chiamata semplicemente perché costituita dai libri che venivano dopo quelli inerenti la fisica) si è ora giunti a una separazione netta e inconciliabile tra scienza e filosofia. Da ciò deriva la “svalutazione di ogni sapere che non sia scientifico in questo senso peculiare [...] ma la scienza si basa su determinate ipotesi fondamentali che, in quanto ipotesi, non sono necessarie in senso assoluto e che rimangono sempre delle ipotesi”. Cfr. L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino, 1998, pp. 51-53.

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Così come l’essenza dell’uomo non consiste nell’essere un organismo animale, altresì questa insufficiente determinazione dell’essenza dell’uomo non può essere eliminata o corretta con la semplice attribuzione all’uomo di un’anima immortale o delle facoltà della ragione o del carattere della persona.14

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Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano, 1995, p. 47

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Se è impossibile conoscere il mondo al di fuori della mediazione del corpo, sarà allora determinante riflettere e considerare su come le trasformazioni prodotte da Internet stanno cambiando i nostri rapporti interpersonali. Infatti l’avvento dell’era post PC (così definita dallo stesso Steve Jobs) ha visto nascere e consolidarsi rapidamente numerosi social network di cui il più famoso oscilla continuamente intorno al miliardo di utenti. In questo modo la questione si sposta verso la prima grande verità che, sempre, l’apparire di un corpo porta con sé: l’affermazione dell’insostituibilità della presenza. Si può evitare uno sguardo, finanche l’abisso degli occhi altrui, ma è impossibile non considerare la presenza del corpo. Se pensiamo inoltre che l’intero sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione si basa sulla rimozione del concetto di presenza, computata come un costo oneroso sia per il trasporto sia per la perdita di tempo, se non addirittura come un vero e proprio ostacolo per una più efficace comunicazione, allora avremo ben presente cosa significa, per il nostro tempo, quella che potremmo chiamare non-presenza. L’idea di vita, di esistenza, racchiude sempre in maniera implicita il concetto di presenza/assenza: se posso asserire la realtà dell’altro è perché ho avuto, almeno una volta, l’espe-

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Non possiamo quindi pensarci come compresenza di mente e corpo poiché siamo un’unità indivisibile, indistinguibile.

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rienza di un corpo altro da me. Ora, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, anche se non percepisco la presenza dell’altro posso comunque affermare che esso esiste, perché sta dialogando per iscritto con me su una chat di un social network o perché di lui possiedo decine e decine di prove che mi rimandano verso la sua essenza: fotografie, documenti, frammenti di altri dialoghi, di altre voci, perdute nella rete come un tempo si perdevano i satelliti nello spazio. Ma se posso vivere intensamente l’esistenza di qualcuno che si cela di fronte alla percezione del mio corpo, sono allo stesso tempo costretto ad affermare che tale presenza né si rivela davanti a me in presenza né si trova in assenza rispetto alla mia persona. Il mio corpo conosce, quindi, l’esperienza della non-presenza. È evidente che con questo non si intende affermare che è meglio affrontare lunghi e scomodi viaggi per poche ore di lavoro, o che sia sempre e comunque preferibile la presenza rispetto ad altre forme di comunicazione mediata; sarebbe certo molto facile dimostrare che le nuove tecnologie ci stanno migliorando la qualità della vita: ci aiutano ad apprendere meglio, con meno fatica, e costituiscono dei veri e propri moltiplicatori delle possibilità di affermazione personale. Tutto questo è evidente, eppure sembra più interessante – lo è sempre – cercare di osservare e valutare quello che non appare.

Scrive Jean Baudrillard: Ora, le situazioni interessanti sono quelle in cui l’oggetto si sottrae, diventa inafferrabile, paradossale, ambiguo, e infetta con questa ambiguità il soggetto stesso e il suo protocollo d’analisi. Ci si è sempre preoccupati delle condizioni nelle quali il soggetto scopre l’oggetto, senza esaminare affatto quelle nelle quali l’oggetto scopre il soggetto. Ci vantiamo di scoprire l’oggetto e lo concepiamo come se attendesse tranquillamente di essere scoperto.

[...] E se fosse esso, l’oggetto, che si scopre in tutta questa faccenda? Se fosse esso a inventarci?.15

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Forse non siamo noi a utilizzare le nuove tecnologie per migliorare le nostre vite, forse sono gli oggetti16 che, ogni giorno, ci pensano e inventano per noi (o meglio, al posto nostro) un’altra vita.

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Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto, Raffaello Cortina editore, Milano, 1996, p. 61.

16 L’antropologo fisico André Leroi-Gourhan giunse alla conclusione che è stato l’utilizzo degli attrezzi a far sì che il nostro cervello si sviluppasse, e non il contrario. In questo senso gli strumenti hanno modificato la nostra capacità di apprendimento, per cui l’uomo è spinto a costruire nuovi attrezzi dopo che l’uso di questi lo ha modificato nel profondo.

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