O País Di storia, di uomini, di curiosità
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Del Brasile ci pare di sapere tutto, e invece sappiamo ben poco. In queste pagine non mi prefiggo certamente il compito di illustrare la complessa storia della colonizzazione, né di chiarire le idee su personaggi controversi e comunque importantissimi per la formazione identitaria di questo paese. Vorrei però contribuire a rendere l’idea di quanto il gigante sudamericano sia potenzialmente in grado di stupire il mondo, non tanto per le sue ricchezze economiche, naturali e umane, ma proprio per la ricca storia del suo popolamento che è, a mio parere, il ‘fatto’, la ‘cifra’, il ‘destino’ che ne spiega la grandezza e l’unicità. Procediamo con alcuni brevi spunti, pennellate, suggestioni. Intanto, osserviamo la mappa: il Brasile, con i suoi 8 milioni e 547mila 393 chilometri quadrati è grande 28 volte l’Italia, vanta la foresta più estesa della terra, l’Amazzonia (un milione e 400mila chilometri quadrati), è attraversato a nord dall’Equatore e, nei pressi di San Paolo, dal Tropico del Capricorno. Le diversità climatiche sono estreme: dalla foresta equatoriale alle zone aride dell’interno; dalle paludi dello stato del Mato Grosso al clima continentale del Sud. Ecco, dividiamo il paese in cinque zone. Dapprima il Norte, il Nord, con la foresta amazzonica e alcune savane. Poi il Nordeste, composto a sua volta di tre
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zone: quella della foresta (mata), quella semidesertica (Agreste), dove ci sono agricoltura di tabacco e cotone nonché allevamento di bovini, e l’arido Sertão, zona della seca, del latifondo, della povertà estrema. Quindi il Centro-Oeste, il Centro-Ovest, con l’80% della popolazione che vive nei centri urbani e il resto della zona estremamente spopolata, con la foresta amazzonica, il bacino del Pantanal e il cerrado, la boscaglia. Ecco poi il Sudeste (Sud-est), regione un tempo interamente coperta dalla mata atlantica e poi distrutta dalle grandi coltivazioni di canna da zucchero, caffè e soia; è la zona più ricca e sviluppata industrialmente, contando le città di Rio e San Paolo. Infine, il Sul, il Sud: clima subtropicale, stagioni ben scandite, piovosità variabile; per intenderci, parliamo degli stati Paraná, Santa Catarina, Rio Grande do Sul, dove clima e condizioni ambientali risulterebbero familiari agli europei. Per allacciarci alla Copa, solo le città di Curitiba e Porto Alegre offrono tali condizioni. Fu il portoghese Pedro Alvares Cabral, il 21 aprile del 1500 ad avvistare il Monte Pascoal e dunque a sbarcare sulla costa, a sud dell’attuale città di Bahia. Passano pochi anni ed ecco che prende forma il nome Brasile: la linfa rossa di un particolare tipo di legno serve come tinta e il legno stesso serve per costruire oggetti e imbarcazioni. Si chiama pau brasil questo legno. Per favorire la colonizzazione, ancora nella prima metà del XVI secolo, Dom João III divide il territorio in 12 Capitanias, mentre nel 1549 Tomé de Souza diventa il primo governatore del Brasile, portando con sé Manuel de Nobrega e altri gesuiti, con il mandato di convertire i ‘selvaggi’ indigeni. Erano cinque milioni, oggi sono poco più di 300mila. Inizia allora una storia
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lunga, dolorosa, fatale, brutale: spade e vangelo, piantagioni, schiavi – prima indigeni, poi, a partire dalla metà del secolo, africani – conversioni forzate, nascita del sincretismo religioso e del meticciato, sia biologico che culturale. Si inizia a esplorare lo sconfinato interno del paese: da San Paolo, fondata nel 1554, partono i bandeirantes, uomini temerari riuniti in compagnie che vanno alla ricerca di indios e schiavi. Nel frattempo olandesi, francesi e spagnoli effettuano le loro incursioni, determinando, e per sempre, alcune delle più suggestive mescolanze etniche e culturali. È comunque la storia del Portogallo a interessare di più: nel 1807 Dom João VI, pressato da Napoleone, fugge a Rio insieme a 15mila lusitani della corte. Cultura e società carioca cambiano una volta per tutte, perché con il sovrano arrivano scienziati, intellettuali, architetti. Quando, nel 1821, per i portoghesi è ora di tornare, il principe ereditario Dom Pedro decide, al contrario, di restare. «Fico!», grida il 9 gennaio 1822, e così nasce un’altra storia brasiliana, quella di un paese che taglia il cordone ombelicale con l’Europa, proclama la propria indipendenza (7 settembre 1822), proclama il proprio re (Dom Pedro I), promulga la sua prima costituzione (1824). Date, espressioni, nomi che restano, oltre che nei libri di storia e nella memoria collettiva, anche nelle festività, nella toponomastica, nei modi di esprimersi. Il regno del successore, Dom Pedro II, è funestato da guerre, depressioni economiche, ribellioni. La Repubblica è proclamata nel 1889; un anno prima la regina Isabel aveva abolito la schiavitù. Un fatto epocale, di cui per decenni si sentiranno le conseguenze, non tutte positive. Avendo corso a rotta di collo siamo arrivati al XX secolo. Gli stati di San Paolo e Minas Gerais grazie al
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caffè e al latte (café com leite si chiamerà di fatto questo predominio) sono straordinarie potenze economiche. Nel 1930 inizia l’epopea di Getulio Vargas, che durerà, con diverse fasi e alterne fortune, fino al suicidio nel 1954. Populista, fascista, dittatore, nazionalista, ora odiato ora amatissimo, Getulio fu la personalità politica più caratterizzante del secolo. In senso positivo fu importantissimo il suo ruolo per la libertà religiosa, l’affermazione del meticciato e del calcio come strumento di identità. Periodo straordinario sarà quello della presidenza di Juscelino Kubitschek, scandito dallo slogan “cinquant’anni in cinque”, dall’attenzione verso l’alimentazione, l’energia, i trasporti, l’industria e soprattutto il visionario sogno della costruzione di una nuova capitale, Brasilia. Il 31 marzo 1964 il presidente João Goulart viene deposto dai militari che governeranno per un doloroso, fosco e sanguinoso ventennio. La Repubblica tornerà nel 1985: primo presidente è José Sarney perché il nominato Tancredo Neves, con uno di quei colpi di teatro tanto cari all’immaginario ma anche alla realtà sudamericana, muore senza avere potuto assumere l’incarico. Verranno gli anni di Collor de Mello – che cerca di battere l’inflazione al 1700% annuale congelando tutti i risparmi – di Itamar Franco, di Fernando Henrique Cardoso, un sociologo di fama mondiale, quindi di Lula, ex metalmeccanico e infine di Dilma Rousseff, ex combattente per la libertà sotto la dittatura.
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Fin qui, seppure molto velocemente, abbiamo elencato i dati storici, i fatti più importanti. Ma c’è da fornire ancora qualche curiosità, qualche spunto di riflessione utile a comprendere meglio i cambiamenti sociali di questo Brasile. Intanto, i flussi migratori: dal 1930 al 1960 più di venti milioni di persone lasciano le campagne, soprattutto partendo dal Nordeste e dal Minas Gerais. Sono tre le grandi rotte migratorie di quelle decadi, che si uniscono ai flussi provenienti dall’Europa dell’est, dall’Italia, dal Giappone. La prima migrazione, avvenuta negli anni della Seconda Guerra Mondiale, riguarda tanti lavoratori nordestini, che lasciano la loro terra per recarsi in Amazzonia ad alimentare la produzione della gomma. La seconda, molto più persistente nel tempo, durata dagli anni ’30 agli anni ’70 del Novecento, interessa ancora i nordestinos, chiamati genericamente e un po’ dispregiativamente baianos, e ha come mèta le città di Rio e di San Paolo. La terza rotta si concentra negli anni ’50 e ’60 ed è legata al trasferimento della capitale nel mezzo del Planalto Central: l’edificazione di Brasilia, infatti, catalizza l’interesse e
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Migrazioni e sopravvivenze
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il flusso di migliaia di lavoratori prima, durante e dopo l’inaugurazione. Ha, quest’ultima migrazione, una dimensione simbolica particolare, per cui si ricalca una sorta di flusso originale, storico, ancestrale quasi: quello della rotta verso l’interno, verso il centro ideale del paese. Altra storia, quella degli afro-discendenti. Durante il periodo della schiavitù, gli africani dovettero ingegnarsi per sopravvivere e per salvare qualcosa della loro cultura fatta a pezzi. Dovettero unire, fondere, mischiare i loro piatti, le loro musiche, le loro credenze religiose a quelle dei bianchi. Di ‘puro’, in Brasile, e dovrebbe dirsi in tutto il mondo, non esiste più nulla, e in tutte le manifestazioni culturali tradizione e modernità vanno considerate come elementi che convivono dialetticamente in funzione della dinamica sociale. Leonardo Boff, ex francescano e fondatore della Teologia della Liberazione, un movimento che predilige i poveri, tutela i diritti della terra e degli emarginati e ha avuto grande visibilità nel paese, molto contrastato dalla Chiesa ‘ufficiale’, dice: “Il sincretismo, inteso come amalgama creativo di elementi di diversa provenienza religiosa, sarà probabilmente la religione egemonica dei brasiliani. Il popolo brasiliano non è fondamentalista e intollerante. Al contrario, la tolleranza, il rispetto e la valorizzazione di ogni espressione religiosa e spirituale caratterizzano l’anima brasiliana”. Anche Roger Bastide, francese, per tanti anni insegnante di Sociologia delle Religioni all’Università di San Paolo, il massimo studioso delle religioni afro, rivela come l’originalità della cultura brasiliana, la sua peculiarità, risieda nel suo essere ‘ibrida’1. E se in tanTra le numerose opere di Roger Bastide che trattano l’argomento cfr. Bastide R., Le Americhe nere, Sansoni, Firenze, 1970 (ed. or. 1967).
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ti aspetti della cultura prevale un elemento di diversa origine, non c’è dubbio che sia l’africanità – un’africanità ricreata, reintrerpretata – a connotare la religione brasiliana2.
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Per approfondire genesi e sviluppo della cultura brasiliana meticcia esistono almeno due testi ‘sacri’: Casa-grande e senzala di Gilberto Freyre e Raízes do Brasil, di Sergio Buarque de Hollanda, che focalizzano l’attenzione sull’ambiente della piantagione dove ‘nacque’ un certo Brasile e che illustrano perfettamente concetti molto discussi e controversi quali “democrazia razziale” e “cordialità brasiliana”. cfr. Freyre G., Casa-grande e senzala, Maia e Schmidt, Rio de Janeiro, 1933 e Buarque de Hollanda S., Radici del Brasile, Giunti, Firenze, 2000 (ed. or. 1936).
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Tòpoi do Brasil
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Se per quanto riguarda la musica più esemplificativa rimanderei all’ascolto (e all’apprezzamento) dei testi di samba e bossa nova, credo sia bene ricordare le parole del manifesto di quella sorta di inno nazionalista e canzone icona che è Aquarela do Brasil di Ary Barroso del 1939: ideale accompagnamento sonoro di tanti servizi televisivi sui Mondiali. Dice la canzone: Brasil terra boa e gostosa da morena sestrosa de olhar indiferente. O Brasil samba que dá bamboleio que faz gingar. O Brasil do meu amor terra de Nosso Senhor. Brasil... Brasil! Pra mim... pra mim!1
“Brasile, terra buona e gustosa della mora maliziosa dallo sguardo indifferente. Il Brasile, samba che dà, ballo che fa dondolare. Il Brasile del mio amore, terra di nostro Signore. Brasile... per me.”
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Poi, i libri. Tra i ‘propedeutici’ senza dubbio imprescindibile Macunaima del ‘modernista’ Mario de Andrade, ritratto fantastico di un uomo senza carattere alla brasiliana e Grande Sertão. Veredas di João Guimaraes Rosa e poi tutti, o quasi, i romanzi di Jorge Amado – soprattutto per chi voglia innnamorarsi di Bahia – e le poesie di Clarice Lispector, di cui segnalo anche il libro Laços de familia. Jô Soares, geniale intrattenitore televisivo è anche scrittore di successo: il suo Uno Xangô per Sherlock Holmes è un giallo davTante sarebbero le canzoni di Caetano e di Gil da citare. Tra queste, Aquele abraço e Domingo no Parque di Gil e Terra, Estrangeiro e Menino do Rio di Caetano. Imperdibile, poi il disco Tropicália: ou Panis et Circenses inciso dalla coppia tropicalista nel 1968 e replicato, con Tropicália 2, nel 1993.
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Altri simboli, miti immortali e internazionali del Brasile: Carmen Miranda, cantante di origine portoghese, che esporta canzoni, movenze, posture, vestiti multicolori e colmi di frutti tropicali in maniera davvero improbabile, che sarebbero patrimonio della cultura baiana; Zé Carioca, pappagallo in cartoon presentato da Walt Disney nel film Los tres caballeros del 1942. I due personaggi sbarcano a Hollywood e rendono il brio e il fascino tropicale patrimonio internazionale. Come dice un’espressione in voga in quegli anni: “Niente di meglio che far conoscere a Zio Sam la nostra batucada”.
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Per restare alla musica, Gilberto Gil e Caetano Veloso, anche per aver attraversato epoche, mode e dittature, nonché fondato movimenti quali il Tropicalismo, rimangono in auge, e l’ascolto delle loro liriche commoventi, dense, significative dovrebbe essere obbligatorio per chiunque sbarca in Brasile2.
vero appassionante, come coinvolgenti sono i thriller di Rubem Fonseca (Agosto, Bufo & Spallanzani). Per un approfondimento socio-antropologico niente di meglio di Brasil, terra do futuro di Stepham Zweig, del 1941 e O povo brasileiro di Darcy Ribeiro (1995), entrambi tradotti in italiano, nonché l’immortale Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss.
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Tra i film consiglierei l’antico O pagador de promessas di Anselmo Duarte, con alcune scene indimenticabili che vi faranno riassaporare il fascino antico di Salvador de Bahia; O cangaceiro di Lima Barreto, ispirato alla mitica figura del bandito Lampião, eroe del Sertão; quelli di Glauber Rocha della corrente del Cinema Novo in auge negli anni Sessanta, come Barravento o Terra in trance. Negli ultimi anni si è assistito a un fiorire di nuove tendenze, contaminazioni, esperienze cinematografiche e culturali. Alcuni titoli: l’ormai classico Dona Flor e seus dois maridos di Bruno Barreto, con Marcello Mastroianni e Sonia Braga, tratto dal romanzo di Amado; O beijo da Mulher Aranha (“Il bacio della donna ragno”), tratto da un racconto dell’argentino Puig e diretto da Hector Babenco, Central do Brasil di Walter Salles. A proposito, a questo film è legato lo scarso gradimento di cui gode Roberto Benigni in Brasile: il suo La vita è bella soffiò l’Oscar proprio al bellissimo e commovente Central do Brasil nel 1999. Divertente O Auto da Compadecida di Guel Arraes, drammatico invece Carandiru, ancora di Babenco, che racconta la sanguinosa rivolta nel maggiore carcere di San Paolo, avvenuta nel 1992. Per descrivere certe pericolose situazioni delle favelas di Rio niente di meglio di Cidade de Deus, di Fernando Meirelles, e Tropa d’e-
Prima di tornare alla seriosità dei simboli identitari ‘sacri’ quali l’inno e la bandiera, vorrei ricordare un al-
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Infine, come trascurare il senso e l’importanza delle telenovelas? Il fatto che alle 21 il paese intero si fermi e che persino l’inizio delle partite di calcio venga regolato sull’orario della novela, vi sembrerà sensazionale o deprimente, magari emblema ed ennesima dimostrazione di un paese arretrato. Ma questo avverà se siete disattenti, poco curiosi (‘poco relativistici’, direbbe un antropologo), o semplicemente troppo superficiali: c’è tutto il paese in quelle rappresentazioni un po’ grottesche, magari caricaturali, ma altrettanto certamente realistiche, utili, divulgative e realmente formative. Non per nulla i sociologi associano il fenomeno delle telenovelas a quello del futebol. Negli anni Cinquanta e Sessanta la televisione, anche in Brasile, assolse il compito importantissimo di educare il paese, di unirlo, linguisticamente e culturalmente. Nelle novelas come La schiava Isaura, O Clone, Terra nostra, non si ha a che fare con semplici racconti, sceneggiati o fiction, ma con vere lezioni: milioni di persone che non avrebbero avuto altro accesso alla cultura hanno appreso rispettivamente la storia della schiavitù, le tentazioni e i pericoli della clonazione, l’epopea dell’immigrazione italiana a San Paolo. La ricetta del successo: sceneggiatura curata, ambientazione, linguaggio, personaggi vari e tipici dei diversi luoghi, attori famosi e in grado, di novela in novela, di cambiare atteggiamento, portamento, abbigliamento e persino gusti sessuali.
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lite di José Padilha: film molto violenti, realistici (forse iper-realistici), comunque molto riusciti e di grande successo.
tro genere di simbolo, molto meno alto e nobile, ma altrettanto visibile, diffuso e dal punto di vista del prezzo e dell’opportunità, appetibile: parlo delle celeberrime Havaianas, le ciabattine di plastica – qui le chiamano cinelos – che sì, potete comprare anche a Roma e a Milano, e oramai anche a Cremona e a Siracusa; ma che qui in Brasile costano incomparabilmente meno. E poi la scelta – di colore, di design, persino di ‘personalizzazione’ – è infinita. E ancora, volete mettere poter dire: «te le ho comprate a Copacabana»?
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Il motto Ordem e Progresso è ripreso dal pensiero di Auguste Comte, il padre del Positivismo: “l’amore come principio, l’ordine come base, il progresso come obiettivo”.
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Raramente un inno nazionale viene cantato con tanto trasporto, con tanta gioiosa, nervosa partecipazione quanto quello brasiliano. Vi sono inni quali quello francese, inglese, russo, tedesco, americano e ovviamente italiano, che rimandano a fatti e personaggi storici familiari, o per lo meno abbastanza conosciuti. Le abbiamo ascoltate centinaia di volte queste note, anche, se non soprattutto, in occasione delle grandi manifestazioni sportive, a cominciare dalle Olimpiadi. Manifestazioni durante le quali garriscono al vento le bandiere nazionali, simboli altrettanto amati, e conosciuti. A proposito, la bandiera brasiliana, nella sua versione attuale, fece la propria apparizione nel 1889, anno della proclamazione della Repubblica. Vuole raccontare tanto del Brasile, quella bandiera: il colore verde del rettangolo rappresenta la foresta, quello giallo della losanga le ricchezze brasiliane; la sfera azzurra evoca il cielo, la fascia bianca, che contiene la scritta verde Ordem e Progresso, vuole significare la pace1.
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Il grido del popolo
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Ma poco o nulla sappiamo, noi italiani, dell’inno brasiliano, che pure abbiamo ascoltato e ascolteremo molte volte. In occasione della Confederations Cup del 2013 quel coro altissimo e sentito emozionò molti; stupì e fece fremere soprattutto il fatto che, una volta terminata la musica, i calciatori, trascinati dal pubblico, continuassero a cantare, a cappella, le note amate. Mi dissero i miei amici brasiliani che si trattava più di una sorta di ‘ribellione’ nei confronti di Blatter e della Fifa che di una manifestazione di orgoglio nazionale: non si sopportavano le imposizioni eccessive del massimo organo mondiale del calcio, che voleva regolamentare anche la durata dell’inno. Un gigante, si sa, non si fa limitare. Ma cosa dice, quindi, l’inno nazionale brasiliano? Scritto nel 1909 da Joaquim Osorio Duque Estrada su musiche già composte nel 1822 da Francisco Manuel da Silva, racconta il momento solenne della proclamazione di indipendenza dal Portogallo, avvenuta il 7 settembre 1822. Eccone alcune delle parole più significative, parole auliche ed erudite, che si sentono risuonare nel frastuono degli stadi: Ouviram do Ipiranga as margens plácidas De um povo heroico o brado retumbante, E o sol da libertade, em raios fúlgidos, Brilhou no céu da patria nesse instante … Brasil, um sonho intenso, um raio vívido De amor e de esperança á terra desce, Se em teu formoso céu, risonho e límpido, A imagem do Cruzeiro resplandece …
In sintesi, cosa dicono queste parole? “Il fiume Ipiranga, a San Paolo, era placido. Il popolo voleva lottare, anche a costo di versare sangue. Il cielo, la costellazione della Croce del Sud ispirava fede e speranza. È il momento di riflettere sulla grandezza e bellezza di una terra e su quale sarà il suo brillante futuro. Terra amata e adorata, il Brasile, la cui bandiera è il simbolo della gloria del passato e della pace del futuro e nella quale la giustizia verrà sempre rispettata”.
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Certo, parole retoriche e grondanti melassa. Ma non più di “Dio salvi la nostra preziosa regina”, “il giorno della gloria è arrivato” o “dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”.
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Gigante pela própria natureza, És belo, és forte, impávido colosso, E o teu futuro espelha essa grandeza … Brasil, de amor eterno seja símbolo O lábaro que ostentas estrelado, E diga o verde louro-dessa flâmula Paz no futuro e glória no passado … Terra adorada, Entre outras mil, És tu, Brasil, Ó pátria amada! Dos filhos deste solo és mãe gentil, Pátria amada, Brasil!2