Chantal Mauduit
ABITO IN PARADISO
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Titolo originale: J’habite au Paradis Edizione originale: © 1997, éditions Jean-Claude Lattès 2003 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Traduzione: Riccardo Castellani L’editore ringrazia per la collaborazione: Diego Borghi, Sarah Caola, Nives Meroi, Fabio Palma, Mick Régnier (Presidente Association Chantal Mauduit Namasté, www.chantalmauduit.org) 2a edizione ottobre 2020 www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 786
CHANTAL MAUDUIT
ABITO IN PARADISO
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Prefazione all’edizione italiana
7
Parole e altro…
11
Pozioni magiche patagoniche
13
Avvicinamento alla luna himalaiana Chogoride, Chogopiange
19 19
I Centauri
23
Camminare sulla Luna
27
Viaggio antartico, viaggio iniziatico
45
Passi 61 Hagen’s 61 Nangpa-La 63 Cime e sensi
67
RACCONTI 79
Il Patriarca delle stagioni 81 Max 83 Le pietre folletto 87
Improvvisazioni in Marocco Teatro Marocchino
91 101
Racconto autobiografico di una cartolina
105
Ascensioni spirituali Testimonianza dell’anziano rifugiato Nostra Signora della Pace Descrivere il ricordo prima che si manifesti
111 117 121 123
Ringraziamenti versione alpina
127
IL DIARIO DI CHANTAL 131
Sii te stesso, il tuo pensiero ti porterĂ ben al di lĂ dei tuoi desideri
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PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA Già torna a scuotermi Eros che scioglie le membra, dolceamara, indomabile, oscura belva. Saffo
Una vita ricca, quella vissuta da Chantal Mauduit. Una vita vissuta tanto intensamente da essere quasi difficile da perdonare. «…Vivi la vita fino in fondo, lascia che la passione abbia libero sfogo, la passione che non ha mai rimato con ragione e non comincerà certo a farlo con gli alpinisti!». Questo ci confessa Chantal; Chantal che ha visto l’Himalaya, che ha vissuto con tutti i sensi il paesaggio, le scalate, il sole, la luna e gli incontri. Un viaggio reale e sognato, lungo un percorso che scivola all’indietro, per cogliere il momento cruciale, al cuore di una passione, quando l’alpinismo diventa semplicemente il calice che porta alla bocca l’acqua della vita. «Da queste spedizioni multicolori…ho imparato, ho capito qualcosa, forse molto, appassionatamente, alla follia!». Non ho conosciuto Chantal. Ci saremmo potute incontrare nel ’98 al Nanga Parbat, la Montagna Nuda. Ma lei non c’era già più, se n’era andata poco tempo prima, durante la salita al Dhaulagiri. L’ho fatto adesso, leggendo questo libro: all’inizio è stato un incontro difficile, quasi conflittuale, ma lentamente si è rasserenato; riga dopo riga mi sono avvicinata a lei e al suo cuore, così diverso, forse così simile al mio. Abito in Paradiso è il complesso racconto del suo viaggio, una sinfonia in cui il suono di ogni strumento ha vita a sé e armonicamente dà vita alla sinfonia stessa: qualsiasi sintesi non potrebbe che impoverirlo. Nell’arco di un tramonto nel cielo himalaiano Chantal fruga tra brandelli di ricordi, immagini, colori e odori e in un intreccio apparentemente casuale si affollano alla memoria le montagne, i viaggi e le spedizioni. Prefazione 7
Questo libro è un crescendo fittissimo di sensazioni e suggestioni catturate con maestria, di letture coniugate con esperienze dirette, in cui il racconto scivola lungo le pagine mimando la molteplicità dell’esperienza che si affolla alla memoria, e rompendo la successione lineare del tempo fino a farci dimenticare persino la disposizione del discorso. Ci tiene per mano, Chantal, per condurci verso un modo diverso dell’essere e del corpo, finalmente non gerarchico: prima frammentato e poi ricomposto nell’armonia della sua continua molteplicità e diversità. Un viaggio ricco ed essenziale: compiuto, illogicamente, a piedi. Sono poche le persone che amano viaggiare a lungo; viaggiare così è una frattura continua di tutte le abitudini e, soprattutto, una smentita incessante di tutti i pregiudizi. A piedi le distanze non sono più calcolate in ore ma in giorni. La lentezza con cui ti sposti fa rinascere la curiosità per i particolari, fino a farti percepire quanto è vasto il mondo e soprattutto quanto è complessa la varietà di genti e culture che lo popolano: proprio quella varietà su cui si regge l’equilibrio del mondo e che la follia del nostro tempo tenta, giorno dopo giorno, di annullare. È un viaggio incalzante il suo, dentro e fuori dalla nostra società: una società caratterizzata dalla cecità indotta dal recintare, delimitare, censurare. Una società che contrappone muro a muro; una società forte di un sapere che si basa proprio sull’esclusione delle altre forme di conoscenza. La città, da sempre maschile, ha piegato il femminile alle sue modalità di comportamento e anche le donne che si ribellano, per poter dare forma al loro dissidio, devono introiettare i comportamenti maschili e una cultura che conosce solo l’aut-aut. Chantal si scinde fra tendenza alla conformità e necessità di dissonanza. Chantal scruta dentro e oltre il muro della nostra società, dentro e oltre i suoi cordoni di morale e regole sociali; ma il suo è uno sguardo rovesciato, rovesciato sull’IO femminile, sulle profondità più scure del corpo e di quel groviglio di pulsioni che chiamiamo anima. «Una maschera di fiamme, fuoco qui ed ora, fiamma libera, bocca libera, occhi liberi, la vita da guardare, parlare, da mangiare, da inghiottire, da infiammare!». Questo viaggio è il percorso di una donna che impara a vedere a dispetto della volontà degli uomini e degli dei, e in un’epoca in cui le donne hanno perso ogni autonomia in quest’arte. Chantal aspira a uno sguardo e a una voce autonomi. Perché la cultura dell’oppressione e della soppressione è Chantal Mauduit ABITO IN PARADISO 8
ormai dentro di noi; è principio logico, abitudine percettiva, modalità del porsi domande e del rispondersi, è linguaggio. Si è installata nei fondamenti della conoscenza, è riconoscibile in ciò che le categorie del sapere hanno incluso e nell’A ltro che hanno escluso. Ma esiste una Terza Via, che può reintrodurre nel ciclo della vita ciò che il sapere vincente esclude: «Non è una porta, è orizzonte, orizzonte di luce, basta aprire gli occhi che l’infinito distende le ali: in alto, in basso, in bello. (…) Bisognerà discostarsi ogni giorno al di là di ogni cliché, al di là della storia. Dotato di un occhio nuovo di bimbo, di acutezza estremizzata, l’uomo percepisce l’essenza di ogni gesto lontano dal suo schematismo razionale»; sono le persone che coltivano la capacità di vedere ormai sommersa dal nuovo tempo. È un dono tutto umano questo, che la società corrompe e tacita, il dono di attivare l’intero nostro corpo, di vedere e dire il reale, di lasciar apparire sul verso di un’immagine il suo rovescio non visibile, non accontentandosi dei simulacri. «Dalla tempesta bisogna estrarre il suo senso assoluto, la forza sprigionata dalle differenze di potenziale. Dalle differenze di cultura, di razza, di colore… come non riuscire a separare l’arco di luce umana, il lampo della disparità, il tuono dell’eco delle lingue, delle musiche, delle poesie?»
Nives Meroi
Prefazione 9
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PAROLE E ALTRO… All’inizio della strada, delle indicazioni. Nei dintorni della città un cartello: Benvenuti nel paese caleidoscopico dei sentieri multicolore, multifaccia, multifelicità. Senza prima né dopo, senza alto né basso, destra o sinistra, senza stop, frecce o sensi di marcia. Una banderuola che gira nella testa e, seguendo il vento, si orienta e si disorienta. Niente cartine, piani o bussole, solo l’acqua, l’aria, il fuoco e il vento che ne ravviva le braci, il freddo che irrigidisce l’acqua e il sole che la trasforma in nuvola.
Parole e altro… 11
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POZIONI MAGICHE PATAGONICHE Il tappo del whisky cede ai gesti esperti di una mano scozzese. Poco lontano un’altra mano, meno sicura, rimesta distrattamente nel calderone una zuppa fumante e scoppiettante. Il druido locale sostiene di essere Robin Hood, gli si potrebbe credere. In effetti ci troviamo in una foresta immensa che ricorda quella di Sherwood. Qui il Marconi, vento battezzato così dagli argentini, soffia talmente forte che sembra infrangersi sugli alberi come le onde dell’oceano; se chiudi gli occhi ti trasporta nelle immense profondità del mare. Il fuorilegge di fronte a noi non ha né arco né frecce, vive ai margini, sì, su quei margini un po’ andini, un po’ alpini, quasi divini: piccozze e ramponi nello zaino, scarponi e corde a mo’ di bandoliera. La sua vita è costellata di cime e viaggi, il signore della contea di Nottingham non è altro che Doug Scott. La sua zuppa ci scende nello stomaco, la zuppa del tetto del mondo ci avvolge di calore umano, i bicchieri rasi di whisky e vino tinto1 bruciano i ricordi mesti delle notti fredde, insonni e senza riparo passate attaccati a un chiodo in parete o sotto teli irrigiditi dal gelo aggrappati al vuoto del Dio del fuoco: il Fitzroy. 1. Vino rosso, in spagnolo nel testo, N.d.T.
Pozioni magiche patagoniche 13
Anche le ultime immagini sono ridotte a cenere, e in qualità di degna ambasciatrice mi sembra giunto il momento di aggiungere champagne a questo festino notturno. Ora navigo tra le storie di frate Tuck e le scodelle di zuppa, con gli occhi sgranati davanti al fuoco. Non sapevo se saremmo bruciati all’inferno per aver osato sfidare il Dio del fuoco che ci aveva gettato in quell’inverno perverso. Frate Tuck, al secolo Paul, durante una spedizione himalaiana in Pakistan alla volta del Gasherbrum II aveva preparato della birra al campo e aveva usato le bombole d’ossigeno per metterla sotto pressione: ecco la vera funzione dell’ossigeno in alta quota: riti orgiastici innaffiati di birra a 8000 metri sotto il Colle Sud dell’Everest… e poi dicono che è l’altitudine a rendere euforici! È tutto chiaro, o forse no, la luce s’accrocchia, anche la mia mente si inginocchia… ehi, ma tutti questi inglesi mi stanno chiamando ranocchia! Meglio che la suddetta ranocchia strisci debolmente verso la ninfea più vicina per scivolarci dentro e addormentarcisi. Tutto a un tratto i miei pensieri s’illuminano inspiegabilmente nel torpore della notte patagonica. È già passata qualche settimana da New York ed eccomi, di nuovo in viaggio! La parola “viaggio” risveglia in me colori, volti, città e paesi inghiottiti troppo in fretta dalla memoria: sfilano davanti a me come gli elfi del vento della Patagonia, istanti di vita vissuta qui e là, alla fine di un viaggio, di un giorno, di un amore. L’aeroporto brilla come una stella nel cielo di fine anno. La folla cosmopolita serpeggia tra i caffè e le sale d’attesa, in Francia è già domani, l’anno si è appena concluso e le persone si abbracciano per festeggiare l’arrivo di quello nuovo, ricco di promesse. Qui è ancora ieri, l’oceano ci separa, un anno ci separa… un nero americano mi offre del cioccolato e mi abbraccia spiato dallo sguardo intermittente delle luminarie natalizie. Poco lontano, una folla impaziente dietro le transenne brandisce cartelli e cappelli; alcuni sgomitano per guadagnare le prime file in attesa di un volto tanto sognato, un uomo cammina nervosamente con un cartello a forma di caramella. L’effervescente attesa sembra placarsi all’annuncio di un atterraggio, o meglio, dell’atterraggio! Si stropicciano gli occhi, i pettini aggiustano i ciuffi ribelli, si stringono le cravatte e si lisciano le gonne. Passano alcune ore e, a Buenos Aires, lo stesso spettacolo con attori diversi: nel ruolo dell’uomo con la caramella, Thor; nel ruolo della suddetta Chantal Mauduit ABITO IN PARADISO 14
caramella un mazzo di rose rosse, e in quello dell’aereo annunciato quello da cui scendo io. Ho lasciato il gelo invernale europeo per sprofondare nel caldo estivo del Sud America. Lussureggianti fusti secolari ci salutano con le fronde ondeggianti, le strade disseminate di capigliature corvine attendono con noi la notte del tango. Com’è facile adattarsi all’estate! Tanto che la piccola francese, scortata dal suo vichingo personale, dimentica in taxi il fuso orario e un grosso pacchetto di leccornie francesi. L’aereo parte senza quel pacchetto e uno stomaco argentino si sta rimpinzando di manicaretti d’oltre Atlantico: una tecnica tutta particolare per sponsorizzare la cucina di un paese. Un aereo si degna infine di condurci verso i cieli della Patagonia, alla volta del paese dei giganti. In altri tempi i vichinghi raggiunsero via mare le coste argentine e riconobbero subito i signori Fitzroy e Cerro Torre insieme ad altri amici di granito. Questi giganti allora regnavano su una terra protetta dal mare battagliero e ruggente alla vista della più piccola imbarcazione. Il loro discendente, Thor, ha scelto la via del Paria; la storia si ripete e il mio accompagnatore mi mostra dall’oblò una balena che catturo prontamente con la mia macchina fotografica prima che si trasformi in uno scoglio battuto dai flutti. Che visione superba quella balena, il viaggio si fa fin d’ora incantevole. Scruto l’orizzonte in cerca di piccole barche di fortuna attorniate da altre balene e delfini, e magari albatros. Rio Gallegos: atterriamo! Una palla rimbalza di piede in piede annegando nell’immensità del deserto, poi viene a riposarsi nella mia tasca che si adagia nel bus deciso a muoversi verso Calafate. Il vento ci segue, viaggia con noi, corre nella steppa, si rotola nell’erba. La sabbia si mischia in turbini convulsi, quasi a ricordare il folle benvenuto in terra di Patagonia. Il cielo plumbeo impedisce al vento di oltrepassare la linea dell’orizzonte. El Pingouin, nostro compagno e guida a quattro ruote, si blocca. Siamo arrivati ancora, un’incessante sequela di arrivi, fortunatamente sempre a destinazione. La destinazione in questo caso è Calafate.
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RACCONTI
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IL PATRIARCA DELLE STAGIONI In un’epoca antica o futura nacque un bambino. Nello stesso istante i suoi genitori piantarono una ghianda nel terreno fertile del loro giardino, e lasciarono il figlio nell’erba. Successe che il bebè non volle più spostarsi da quel luogo. Il bimbo crescendo imparò a camminare proprio mentre appariva il primo germoglio e le prime radici si tuffavano nelle viscere della terra. I genitori dovevano portargli da mangiare ai piedi dell’arboscello. Il bambino non lasciava per nessuna ragione il suo amico dalla capigliatura fronzuta. Quando arrivava l’autunno le foglie dell’albero si coloravano del più puro zafferano puntato di verde smeraldo e zebrato di rosso scuro. Il piccolo genio chiedeva allora pennelli e colori. Si impegnava a fondo a disegnare con una finezza sovrumana forme, volumi, linee, contorni e riflessi. Sembrava cogliere i suoi dipinti direttamente dai rami, e quando le foglie cadevano sotto il vento autunnale si chiudeva in una profonda meditazione. Con l’arrivo dell’inverno la meditazione diventava freddezza, non rivolgeva più la parola a nessuno, genitori compresi. In primavera, con il risveglio della natura, gli uccellini cominciavano a cinguettare e il bambino prodigio riapriva gli occhi. Ascoltava il canto dei fringuelli, delle cinciallegre, dei merli e degli usignoli. Racconti 81
Allora inventava una musica chiara, cristallina. D’estate aspettava la notte: ogni persona rimasta sveglia poteva ammirare un particolare balletto delle stelle danzanti nel firmamento. Al crepuscolo, una calligrafia sfavillante attraversava il cielo per poi scomparire alle prime luci dell’alba. Con la luna piena, la luce argentata sottolineava delicatamente questa rappresentazione notturna. In una mattina soleggiata, il bambino, divenuto ormai il patriarca delle stagioni, decise di varcare il giardino del castagno. Leggero come una piuma sfiorava il suolo a piedi nudi; a ciascun passo nascevano tele, sculture, luci, ogni suono emesso risuonava con una purezza rilassante. Fu così che il patriarca delle stagioni partì per il mondo alla volta di monsoni, nevi eterne, siccità. Le sue orme si illuminavano di giorno in giorno, si spargevano nelle città, nelle vallate, tra le cime, all’interno dei deserti. Partire, andarsene, leggiadri, alla scoperta di tutto, di nulla, e di ancor di più. Partire, imparare, disimparare; poi tornare alleggerito del futile, arricchito dall’inutile.
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MAX Una voce canta in un bosco delle Alpi: «Max è libero, c’è chi dice addirittura che lo ha visto volare». Gli animali lì intorno ascoltano, inteneriti. Bisce, cervi, volpi, cinghiali, ermellini e uccelli si ricordano di quando, in tempi antichi, tra di loro, viveva uno scoiattolo dal pelo rosso. Si chiamava Max. Come tutta la sua famiglia, i suoi cugini e i suoi vicini si divertiva a scorrazzare tra i rami. Agile, saltava da un ramo all’altro a gli occhi chiusi. Si avventurava fino al limite del bosco «per raccogliere pigne e nocciole», così almeno diceva lui. Segretamente lui sognava di lasciare la sua terra per qualche tempo, partire verso campi e villaggi. Ma a causa della sua natura non gli era facile realizzare questa fantasia; per questo restava delle ore sulla cima di un larice. Appollaiato lassù, sgranava gli occhi che avrebbe voluto fossero di larghe vedute. Comunque il suo sguardo sbatteva ogni volta contro una montagna. Sebbene la conifera sua complice crescesse regolarmente, l’orizzonte rimaneva inesorabilmente ostruito da un picco innevato. Per giorni interi guardava fisso cercando di trapassare la muraglia di roccia e ghiaccio con il suo sguardo che lui sperava affilato come una freccia. Un Racconti 83
Quest’ultima parte del libro è dedicata alle riflessioni intime che Chantal ha fatto, e subito messo nero su bianco, durante le numerose spedizioni. Troverete qui di seguito sensazioni, emozioni e descrizioni vivide, palpabili, quasi tridimensionali del suo vissuto di scalatrice e avventuriera, ma soprattutto della determinazione che la contraddistingue e ne fa un personaggio chiave nel mondo dell’alpinismo. In questa sorta di libro di viaggio sono contenute anche lettere che Chantal ha spedito ad amici che lei non mancava mai di far partecipi delle sue imprese. Questa voglia di condividere e confrontare il proprio essere con gli altri traspare da queste pagine, come anche da quelle del libro, a conferma del suo carattere solare e dell’entusiasmo che accompagnava instancabilmente ogni spostamento della french frog. Lo stesso entusiasmo ha spinto Mick Réigner (che ringraziamo per aver concesso la traduzione di questo diario) e i suoi collaboratori a fondare l’Associazione Chantal Mauduit (www.chantalmauduit.org) allo scopo di tenere vivo il suo ricordo dopo la tragica scomparsa, cosa alla quale speriamo di aver contribuito anche noi con questa pubblicazione.
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Buongiorno, un breve riassunto delle mie peripezie durante le spedizioni: all’inizio di giugno sono partita per raggiungere una spedizione svizzero-tedesca sul K2 dopo aver tentato l’Everest, dove ho raggiunto gli 8000 metri e ho passato tre notti spazzate dal vento. Ho passato un mese con i miei amici svizzeri, abbiamo tentato di raggiungere la cima ma la tempesta ci ha bloccato a 7000 metri; loro se ne sono tornati nel loro paese mentre io sono rimasta lì da sola… non potevo lasciare così presto quei paesaggi. Sono arrivate due spedizioni russo-americane (cinque russi e dodici americani) e una internazionale (tre messicani, tre svedesi, tre neozelandesi). Orgogliosa della mia autonomia ho portato tutto il mio materiale da alta montagna (tenda, gas, fornelletto, sacco a pelo, materassino…); poi mi sono aggregata ai russi e agli americani per non scalare da sola. Il campo base del K2 è a 5000 metri. Sono la seconda donna ad aver raggiunto il K2 (andata-ritorno!), l’altra è la polacca Wanda Rutkiewikcz che l’ha raggiunta nel 1986; è morta questa primavera in Nepal a quarantanove anni. Altre tre scalatrici sono salite sulla cima (una francese, una polacca, un’americana) ma sono morte durante la discesa… Il K2 nell’ambiente degli himalaisti è considerato l’8000 più difficile a causa delle frequenti tempeste e delle sue pareti molto ripide. Il primo di agosto, due russi sono giunti in cima (Vladimir Balyberdine e Guénady Copejka). Io, in cima, ci sono arrivata il 3 agosto insieme al russo Alexey Nikiforov. Dal 16 agosto anche tre americani hanno raggiunto la cima del K2: Ed Viesturs, Scott Fischer, Charly Macé. Ciao, baci. Chantal
Il diario di Chantal 133
EVEREST - PRIMAVERA 1993 Ho lasciato la Francia il 20 marzo del 1993 per volare verso Katmandu e raggiungere la spedizione neozelandese sul versante nepalese dell’Everest. Abbiamo cominciato il trekking verso il campo base il 22 marzo. La primavera, un po’ in ritardo, aveva deciso di tenere il colore bianco dell’inverno e aspettare prima di offrirci il rigoglio dei fiori rossi, porpora, rosa e dei rododendri giganti della Valle del Khumbu, la valle che porta all’Everest. All’inizio di aprile (il 2), ci siamo installati nel villaggio internazionale temporaneo del campo base a 5350 metri. L’atmosfera gioiosa della nostra spedizione risuonava sul crinale a ognuna delle nostre feste, quando le nostre tende si trasformavano in una discoteca. La squadra era formata da otto sherpa da alta quota, sei sherpa al campo base, nove scalatori, un medico e un direttore logistico. Per un mese, mentre gli sherpa approntavano il campo base d’alta quota, noi ci siamo acclimatati. Il 7 maggio siamo saliti al campo 2 a 6400, l’8 alcuni sono arrivati al campo 3, io sono salita il 9 direttamente al Colle Sud a 8000 metri, accompagnata da un sole generoso. La serata ci ha regalato un panorama eccezionale. A mezzanotte, insieme ai miei amici mascherati e qualche sherpa, respirando ossigeno a fatica, abbandoniamo i nostri piccoli rifugi di tela per affrontare la notte nera e ghiacciata. Il freddo era penetrante, avviluppava le mie piccole falangi dei piedi, allora, a 8400 metri, ho preferito ridare loro vita piuttosto che condannarli a dei geloni cronici… saggiamente decido di tornare sui miei passi. L’alba illuminava la cresta innevata del Nuptse, l’ombra di Sagarmatha (Everest in nepalese) si disegnava tra le nuvole proiettandosi verso il lontano orizzonte: sembrava volermi presentare le prossime montagne da conquistare. Sono scesa nello stesso giorno al campo 2 a 6400 metri. Durante la discesa ho incrociato un catalano, mi propone di ritentare insieme alla sua squadra; l’idea mi alletta subito, visto poi che i miei amici neozelandesi avevano deciso di interrompere la spedizione. L’indomani sono andata al campo base per risalire il giorno seguente. I catalani mi hanno accolto con grande gentilezza. Il 16 maggio mi sono ritrovata di nuovo a 8000 metri, su questo balcone d’alta quota in compagnia di scalatori catalani, con la speranza di arrampicare senza attrezzi artificiali e senza bombola di ossigeno. Alle 22.30, imbacuccato, con la frontale accesa, il quintetto parte serenamente.
Chantal Mauduit ABITO IN PARADISO 134
Due tornano subito indietro, sono troppo lenti quel giorno. Io continuo, lottando strenuamente contro il freddo, sbattendo e picchiando gli scarponi sul suolo per assicurare la circolazione del sangue alle dita dei piedi. Alle prime luci del giorno mi fermo a 8400 metri, anelando l’arrivo del sole a inondare di calore il mio cammino… sfortunatamente non riesce ad avere la meglio nella lotta con alcune nuvole; allora, scelgo per l’ennesima volta in favore delle mie estremità, ritorno al Colle Sud ad ammirare un’ultima volta il paesaggio. Domani scenderò con i miei amici catalani al campo 2 e il giorno ancora successivo al campo base (è il 19 maggio). Dopo una camminata soleggiata e profumata dai fiori primaverili nepalesi, raggiungo la civiltà, il 26 maggio, a Katmandu, felice di assaporare una doccia miracolosa… L’Everest rimane, Il mio sogno rimane, tornerò. Chantal Conquistare l’Everest, Tetto del mondo, sogno di bambino, sogno di alpinista, come per un ciclista che risale un colle senza motore, con le sue sole risorse fisiche e mentali. In primavera, quando la natura si sveglia, trovarsi a 8000 metri senza ossigeno dà la possibilità di aprirsi alla primavera dei sensi. In questi alti luoghi magici himalaiani, l’armonia con la terra trascende la materia, l’orizzonte interiore si espande. Chantal Mauduit
Il diario di Chantal 135
EVEREST - AUTUNNO 1993 Tashidélé, il buongiorno del paese tibetano, paese incantevole dove, per due volte, questo autunno non siamo riusciti a resistere alla sensualità dell’orizzonte ocra; il Nepal, suo vicino, respira discreto, nascosto da una coltre di nubi turbinose. La prima avventura prese forma dai fiori del nostro campo base in Nepal, metà settembre, pompon rosa, bulbi blu, stelle arancioni, festival di colori, di odori, di splendore, simili all’opera di un mago giapponese. Parto con due amici catalani, la mia anatra di peluche e una bandiera di Bob Marley (!); il nostro quintetto risale un vasto ghiacciaio selvaggio, un vero labirinto di roccia e ghiaccio. Qualche ora di marcia titubante, qualche giorno ormai volato, poi, un mattino, i nostri occhi carichi di piacere e dell’alba addormentata contemplano il versante sud dello Shisha Pangma. Camminiamo verso il mattino multicolore, verso un sogno diventato ormai realtà, verso un’avventura himalaiana, verso lo Shisha Pangma e Garainthon, il paese dei 108 laghi. Settembre si spegne con l’arrivo del tempo stabile, ottobre nasce sotto un cielo ben augurante; partiamo per la via britannica protetti dalla luce della nostra amica Pournima, la luna piena nepalese. Sul volto le tre notti passate sotto una piccola tenda gialla irrigidita dal gelo notturno dell’Himal, le lunghe giornate passate a camminare per giungere, il 4 ottobre, sotto un cielo radioso, ad assaporare l’istante della cima e della felicità condivisa, istante della fatica ormai svanita e degli sforzi ricompensati (probabilmente la prima volta che un’anatra raggiunge gli 8000!). Mentre i nostri occhi esultano, i nostri corpi si seccano, il gas è finito, e bere è un termine evaporato dal nostro vocabolario… durante la discesa seguo il profumo di biscotti al cocco, allucinazione olfattiva che svanirà con l’apparizione dell’acqua. Tornati a Katmandu uno degli amici rientra a casa mentre noi ripartiamo in due con Pemba, un amico sherpa, che ci accompagna ai piedi della nuova cima da conquistare: il Cho-Oyu. Ormai ben acclimatati attacchiamo un colle posteriore accompagnati dagli sguardi intensi dei tibetani dal viso bruno e tagliato dal vento, incantati dalla musica calda delle voci degli yakmen che pascolano le loro greggi. Il ritorno nel paese tibetano è segnato dal vento glaciale dell’autunno himalaiano: è già l’ultimo giorno di ottobre. Il vento si è placato e ci lascia qualche piacevole istante per gustare le delizie della cima: grazie ancora Tibet!
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SPEDIZIONE PRIMAVERILE SUL VERSANTE TIBETANO DELL’EVEREST Rieccomi a Katmandu, accompagnata dal fotografo René Robert: è l’inizio di aprile… gli occhi colmi di sorrisi delle vie, le orecchie cullate dai namasté, il cuore rinvigorito dall’autenticità; sono pronta per una nuova spedizione. Siamo membri di un gruppo internazionale, scalatori uniti dallo stesso sogno himalaiano: raggiungere l’Everest dal suo imponente versante tibetano per una via nuova e anche per la mia impresa senza ossigeno. Veniamo da ogni parte del mondo: Canada, Francia, Guatemala, Nuova Zelanda, Romania. Saliamo su un aereo e ci trasformiamo in spettatori attoniti, sorvoliamo con uno sguardo fuggevole i giganti: l’Everest, l’imponente Makalu, e il massiccio del Kangchenjunga un po’ più spostato. Giusto il tempo di osservare queste cime e subito atterriamo a Lhasa. Lhasa, antica capitale tibetana cuore della civilizzazione buddista rovinata dai cinesi… Una giornata da turisti ci porta al palazzo ormai vuoto del Dalai-Lama in esilio: il Potala, stupendo monastero che si erge sulle alture intorno alla città. Viaggiando sulle piste impolverate degli altipiani tibetani guadagniamo Xigare e il suo monastero e, da lì, le sue pareti imbiancate dove si insinua il fervore tibetano… La città di Xigare arroccata su una collina ci accoglie tra cappellini cinesi e sorrisi di lama… lo spirito è illuminato da una brillantezza dorata, dai mantra buddisti, dai colori di dipinti divini. Stiamo viaggiando nell’immensità ocra del Tibet selvaggio, verso il Chomolungma. A 5200 metri, tra bandiere di preghiera e rocce, montiamo il nostro campo base fissando le tende con tiranti di metallo e picchetti per resistere agli attacchi del vento. Nell’aria ispessita dal fumo dei ginepri e animata dalle preghiere degli sherpa sollecitiamo la benevolenza degli dei per la nostra spedizione. Le nostre cerimonie risulteranno essere di un’efficacia soprannaturale: solo il nostro gruppo si salverà dalle insidie della montagna… Con otto sherpa la nostra squadra allestisce un campo a 6500 metri, luogo guadagnato dopo 22 chilometri di morene infide tra blocchi di ghiaccio: sembravano poveri iceberg caduti in un paese sconosciuto. La nostra spedizione è arrivata fino a 7400 metri per una via vergine, tecnicamente molto difficile: ghiaccio spesso, goulotte e tratti di misto scorrono sotto i nostri ramponi esterrefatti. In cima a questa parete, due tende saranno il nostro campo 1. Il diario di Chantal 137
Finito di stampare nel mese di ottobre 2020 da Tipolitografia Pagani (Brescia) per conto di Versante Sud Srl - Milano
Chi siete voi alpinisti? Esseri erranti? Nichilisti? Essere del vuoto e non esserlo… vertigine afferrata dalla speranza, arrampica, arrampica, arrampica e arrampica. L’ego ghiaccia in fretta a 8000 metri, in compenso bisogna restare svegli ad attendere il suo disgelo. La nostra società crede di avere bisogno di eroi; ormai da millenni gli orientali vivono ben oltre questa illusione occidentale. Di certo incrociare nella vita uno dei rari esseri che hanno raggiunto un livello di coscienza d’alta quota è una tappa importante, una ricerca mistica.
€ 19,90
ISBN 978 88 85475 786