L'Arte del ghiaccio

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EDIZIONI VERSANTE SUD


Prima edizione italiana: Novembre 2014 ISBN 978-88-96634-88-2 Copyright © VERSANTE SUD S.r.l. via Longhi, 10 Milano - www.versantesud.it Per l’edizione italiana Tutti i diritti riservati Edizione originale: Glaces: arts, expériences et techniques Copyright: © 2012, Blue Ice Press, Chamonix Traduzione: Simone Bobbio, Flaviano Bessone (cap. La Storia) Copertina: Fred Degoulet su Bleu comme l’Enfer, Champsaur, Francia (Foto Thomas Vialletet) Risvolto: Due cordate impegnate su La dame du lac a Montriond, Francia (Foto Sebastien Laurent) Retro da sinistra: Christophe Raillon su Fandaumas, Diois Francia (Foto Manu Ibarra) Audrey Gariépy su un sigaro di Pont-Rouge, Quebec (Foto Guillaume Vallot) Parete nord della punta Young, Grandes Jorasses, massiccio del Monte Bianco (Foto Tomas Mueller) La cordata di Jeff Mercier su Lou Monstraou, Diois, Francia (Foto Manu Ibarra) Fotografie: degli Autori dove non diversamente specificato Ringraziamenti I fotografi: Sylvain Audibert, Max Berger, Walter Cecchinel, Chris Christie, Marco Conti, Simon Destombes, Gilles Durand, Clay Enos, Claude Gardien, Laurent Girousse, Benjamin Guignonnet, Andrew Lanham, Sébastien Laurent, Irene Marcotti, Helias Millerioux, Christophe Moulin, Tomas Mueller, Antoine Pecher, Philippe Pellet, Christian Pondella, Pablo Pontoriero, David Ravanel, Mark Twight, Guillaume Vallot, Thomas Vialletet. Consulenti e correttori di bozze: Magalie Blanche, Marinette Blanc-Gras, Bernard Chevallier, François Humbert, Michelle Ibarra, Frédéric Mère, Patrick Mougel, Yann Maleville, Rémy Nouailletas, Elodie Ratto, Toni Rocca, Patrick Wagnon. Per conoscerci meglio: www.minusestplus.org www.blueice.com www.manu-ibarra-alpineguide.com www.vertical-experience.com Stampa: Monotipia Cremonese - Cremona

Musée Alpin de Chamonix: Catherine Poletti Museo Nazionale della Montagna: Marco Ribetti Coloro che ci hanno concesso le loro testimonianze: Walter Cecchinel, Frédéric Dégoulet, Tim Emmet, Will Gadd, François Marsigny, Christophe Moulin, Pavel Shabalin, Lüdger Simond, Bruno Sourzac, Ueli Steck, Mark Twight . Blue Ice: Alberto Giolitti, Irene Marcotti, Giovannibattista Rossi


Jérôme Blanc-Gras Manu Ibarra

L’ARTE DEL GHIACCIO Tecniche, materiali, storie dell’arrampicata su ghiaccio

EDIZIONI VERSANTE SUD


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INDICE Prefazione di Jeff Lowe Introduzione degli Autori 1 - La Storia

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Dall’Antichità al 1908: il Ghiaccio come Avversario 17 1908-1968: il Ghiaccio delle Pareti Nord 20 1968-1998: il Ghiaccio delle Cascate 27 Dal 1998 ai Nostri Giorni: Il Ghiaccio “Sportivo” 39 La Striscia del Tempo 44

2 - Il Ghiaccio - La Neve

- Il Ghiaccio di Neve - Il Ghiaccio d’Acqua - Gli Altri Supporti per la Scalata

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3 - L’Attrezzatura

L’Attrezzatura per la Progressione Il Materiale di Sicurezza Altra Attrezzatura Manutenzione

4 - La Progressione - Scelta dell’Itinerario

- La Cordata - La Scelta dell’Attrezzatura

- Scelta delle Protezioni

- Organizzazione dell’Attrezzatura - Uso dell’Attrezzatura - Muoversi sul Ghiaccio - L’Ingaggio - Quale Itinerario?

5 - La Sicurezza - Introduzione

P rotagonisti

- Check&Go Cascate - Check&Go Montagna - Casistica

6 - Bibliografia

Laurent Girousse e Yannick Gast su “Légende d’automne”, Champsaur, Francia @ Laurent Girousse.

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Walter Cecchinel 69 Lüdger Simond 73 Bruno Sourzac 113 Will Gadd 117 François Marsigny 147 Pavel Shabalin 149 Tim Emmett 153 Mark Twight 181 Ueli Steck 185 Fred Degoulet 205 Christophe Moulin 209 Jérôme Blanc-Gras 211

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INTRODUZIONE DEGLI AUTORI Questo libro è il frutto di alcuni anni di lavoro e riflessione. Per molto tempo l’arrampicata su ghiaccio, e tutto ciò che ne consegue, hanno occupato uno spazio considerevole nella nostra mente. Quarant’anni di esperienze collettive fatte di salite, viaggi, incontri e confronto su innovazioni tecniche hanno condotto alla nascita di nuove discipline e metodi di insegnamento. Vogliamo condividere queste passioni e questa esperienza proprio come Yvon Chouinard con il suo libro del 1979 intitolato Climbing Ice. Ci auguriamo che le seguenti pagine siano interessanti e contengano utili informazioni sul ghiaccio e le sue evoluzioni, sull’attrezzatura, sulle tecniche e sulla storia di questa nostra attività. Ci rivolgiamo con un medesimo approccio sia al principiante, che all’esperto e al professionista.

evolvere la tecnica, non potranno mai sostituire il ruolo dello scalatore nell’individuazione dei parametri rilevanti per la sicurezza. Gli esempi che presentiamo nel libro derivano da esperienze reali di altri scalatori comprese persone provenienti da altre culture alpinistiche con cui abbiamo scambiato informazioni e che hanno voluto condividere con noi la loro passione e visione per l’arrampicata su ghiaccio. Li ringraziamo per la loro collaborazione. Come potrete scoprire all’interno di queste pagine, consideriamo l’arrampicata su ghiaccio una forma di alpinismo. Lo scalatore deve quindi accettare con piena responsabilità qualsiasi esposizione al rischio. Ciascuno deve provare e validare le informazioni e tecniche fornite nel libro in base alla propria esperienza.

Un altro motivo che ci ha spinti a concepire quest’opera è legato ai numerosi incidenti gravi che hanno coinvolto i nostri amici. Abbiamo spesso registrato presso gli altri alpinisti una difficoltà – talvolta un rifiuto – ad analizzare le circostanze e le cause delle tragedie. Siccome, quando arrampichiamo su ghiaccio non vogliamo affidare la nostra sicurezza esclusivamente all’istinto e al caso, abbiamo creato un metodo che consente agli scalatori di indentificare e valutare i pericoli fornendo esempi concreti che possono aiutare a osservare, prendere decisioni e fare scelte con maggiore consapevolezza. Ma non vogliamo apparire dogmatici, né fornire un catalogo di regole da rispettare. Grazie alla nostra esperienza di Guide alpine sappiamo che non esiste una formula magica per prendere decisioni facilmente in montagna. Solo l’osservazione, la riflessione e la discussione possono aiutare a trovare soluzioni per affrontare con cognizione di causa questa nostra attività. La nostra analisi del ghiaccio e il metodo Check & Go sono stati elaborati su base empirica e si fondano prevalentemente sull’esperienza umana e non su test di carattere scientifico che, per quanto sarà in grado di

Manu Ibarra su “Fall Out Corner”, Cairngorms, Scozia

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John Mac Gregor, Il Ghiacciaio di Taconnaz © Collezione del Musée Alpin de Chamonix.

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La Storia

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La storia

Ricostruire la storia dell’arrampicata su ghiaccio o, piuttosto, le vicende degli uomini e delle donne che vi si sono cimentati è un esercizio delicato e obbligatoriamente incompleto per la quantità di aneddoti e punti di vista differenti da mettere in risalto. L’alpinismo su ghiaccio ha sempre fatto parte della storia più generale dell’alpinismo, ma da esso si distingue per numerosi aspetti legati alla materia su cui si esprime, il ghiaccio, che ha reso preponderante l’interazione tra gli uomini e i loro strumenti, spingendo a volte l’uno, a volte l’altro elemento, verso nuove tecniche e nuovi territori. Questa storia è anche singolare per il fatto che le sue grandi evoluzioni sono state determinate da spiriti contestatori a margine delle correnti dominanti degli usi e di un certo pensiero corrente. Dai primi salitori delle vette fino agli adepti del dry-tooling, numerosissimi alpinisti hanno esplorato questo universo strano e magico, con audacia e innovazione, spesso senza lasciare traccia del loro passaggio. A tutti loro vogliamo porgere il nostro omaggio in queste pagine. Dall’antichità al 1908: il ghiaccio come avversario I primi passi dell’uomo sul ghiaccio risalgono sicuramente a un’epoca che precede di molto i nostri orizzonti di arrampicatori: bisognerebbe risolvere i misteri di Ötzi, la mummia di 5000 anni fa scoperta su un ghiacciaio in Tirolo a più di 3000 metri di altitudine abbigliata di vesti e calzature molto elaborate. Difficile quindi immaginare quali uomini si siano avventurati per primi su questo elemento austero e scivoloso. Le popolazioni che vivevano di caccia e raccolta o che conducevano le loro greggi attraverso le montagne conoscevano il ghiaccio da millenni. Camminando su pendii innevati, suoli gelati e corsi d’acqua allo stato solido, hanno imparato a sviluppare una certa abilità e una serie di strumenti per affrontare tale terreno. Tuttavia è facile immaginare che queste genti non si avventurassero troppo in alto e troppo tardi in stagione. I ghiacciai che più tardi diventarono il teatro di prime ascensioni e prime scalate su ghiaccio sono restati a lungo un luogo sconosciuto, misterioso; erano il simbolo stesso dell’ostilità dell’alta montagna oltre a essere, secondo le credenze, abitati da demoni! Nel 1610, nel momento in cui il loro avanzamento verso i fondovalle minaccia case e colture, ci si rivolge anche alla Chiesa. Proprio in quell’anno Jean d’Arenthon, vescovo

di Ginevra, guiderà una processione organizzata per esorcizzare le «ghiacciaie» della valle di Chamonix. Un cambio d’ottica Dal Rinascimento la rappresentazione delle grandi montagne incomincia a cambiare. Queste immense barriere geografiche faticose da aggirare, i luoghi in cui si svolgevano i sabba delle streghe, diventano a poco a poco un elemento accettato del paesaggio (il primo panorama del massiccio del Monte Bianco è rappresentato nella “Pesca miracolosa” di Konrad Witz nel 1444). Alcuni intellettuali come Conrad Gessner esaltano persino le gioie che può procurare loro un’ascensione. Nella sua De admiratione montium del 1541 egli dichiara: «Io sono fermamente risoluto a salire ogni anno qualche montagna o almeno una di esse […] sia per esplorare la loro flora che per dar nobil esercizio al mio corpo e felicità al mio spirito1». Altri artisti e uomini di lettere iniziano a evocare questa stramba idea: tra essi Marc Théodore Bourrit, mastro di cappella della cattedrale di Ginevra nel 1766, che farà un tentativo al Monte Bianco qualche anno più tardi. Ma è attraverso la scienza che le alte vette, e dunque i ghiacciai, conquistano gli onori della ribalta. Le élite intellettuali di Zurigo e di Berna desacralizzano definitivamente le Alpi nel sedicesimo secolo quando alcuni geografi ne disegnano le prime carte (Aegidius Tschudi e Thomas Schöpf per l’Oberland), alcuni cosmografi come Sebastian Münster ne tracciano una descrizione, alcuni naturalisti ne elogiano le caratteristiche di nuovo laboratorio biologico. Insomma, per dare avvio all’avventura della scoperta delle Alpi bisogna aspettare un evento scatenante in un contesto economico rinnovato. Il diciottesimo secolo, che vede l’espansione del regno Britannico, segna l’inizio di un’era di esplorazione in tutti i campi. Ricchi gentlemen inaugurano il “Grand Tour de l’Europe” che passa per “Chamouny” e il suo mare di ghiaccio. ll Monte Bianco è diventato un irrinunciabile centro di interesse da quando si sa che è il punto culminante delle Alpi con i suoi 4807 m. Horace Benedict de Saussure, ricco scienziato ginevrino interessato a misurare la pressione atmosferica in altitudine, offre una ricompensa a chi ne calcherà per primo la vetta. Tutti conoscono il seguito e il successo strepitoso di Jacques Balmat e Michel-Gabriel Paccard nel 1786. Oltre a sottolineare il valore dell’avventura umana di questi due “chamoniard”, bisogna ricordare che la loro prima vera esplorazione dell’universo ghiaccio fu compiuta con

Jacques Balmat armato di alpenstock e ascia appesa alla cintura, Bacle d’Albe, 1787 © Collezione del Musée Alpin de Chamonix.

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La storia La striscia del tempo 218 a.C. Annibale supera le Alpi con 9000 soldati, cavalli e 37 elefanti 126 Ascensione dell’Etna, dell’imperatore Adriano 1336 Ascensione del Mont Ventoux, Francia, di Petrarca 1358 Ascensione del Rocciamelone, Italia, di Bonifacio Rotario 1492 Scoperta dell’America di Cristoforo Colombo Ascensione del Monte Aiguille, in Francia, sotto l’iniziativa del re Carlo VIII. L’equipe, composta da specialisti in fortificazioni, da un tagliapietre e da un carpentiere, è condotta dall’ufficiale Antoine de Ville 1521 Ascensione del Popocatepetl (5452 m), Messico, da parte di soldati spagnoli su ordine d’Hernán Cortés 1743 Esploratori francesi raggiungono i piedi delle Rocky Mountains 1786 8 agosto: ascensione del Monte Bianco (4807 m) di Jacques Balmat e Michel-Gabriel Paccard Parecchie ascensioni seguono un po’ dappertutto nelle Alpi: Grossglockner (3798 m) nel 1800 dell’abate Horrash, Ortler (3899 m) nel 1804, Jungfrau (4158 m) nel 1811 e Breithorn (4164 m) nel 1813

I primi strumenti L’attrezzatura, dai vestiti agli accessori, non ha sempre avuto la stessa funzione attraverso le varie epoche. Quando i primi alpinisti si lanciano sulle Alpi e testimoniano le proprie imprese attraverso racconti scritti e dipinti, si tratta prima di tutto di dar prova di stile e non di tecnica. De Saussure, che verrà rappresentato una prima volta bello paffuto, seduto sul ghiaccio e issato dalle sue guide, farà correggere questo primo quadro con dettagli più dignitosi. I rappresentanti della borghesia dovevano essere soprattutto eleganti: cappelli a tesa larga e redingote per gli uomini, gonne e ombrelli per le donne. Le guide si incaricavano di colmare le lacune di questo equipaggiamento. Successivamente i primi attrezzi sono stati modificati dalla loro funzione originale. Le calzature sono quelle che si utilizzavano nei campi, in cuoio solido, alte ma morbide. Il bastone è quello dei pastori e cacciatori al quale sarà presto aggiunta una punta di ferro: il celebre alpenstock. I ramponi utilizzati dai pastori non fanno che una breve apparizione. Simler descrive così questi attrezzi e i loro utilizzatori nel 1574: «Per evitare di scivolare sul ghiaccio, si attaccano ai piedi delle calzature che assomigliano a dei ferri da cavallo, con tre chiodi puntuti, e che consentono di restare ben fermi in piedi. In alcuni luoghi si servono di bastoni ferrati e, appoggiandosi sopra di essi, superano dei pendii ripidi. Si chiamano alpenstock e sono soprattutto i pastori che se ne servono». Questo alpenstock, il più delle volte in frassino, assicura appoggi efficaci e rappresenta un rimedio all’assenza di corda nei passaggi esposti o spaventosi, fungendo da «collegamento» tra la guida e il suo cliente. In base allo status sociale del suo utilizzatore, l’alpenstock poteva essere nudo, ornato di un corno di camoscio o di una sfera.

INIZIO del MESTIERE DI GUIDA e del turismo alpino dei gentleman inglesi 1812 Primo esempio conosciuto di scalata in Scozia da parte di Coloma Hawker 1821 Creazione della Compagnie des Guides di Chamonix 1823 Prima ferrovia in Francia 1828 Ascensione del Pelvoux (3946 m), massiccio degli Écrins, da parte del

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Il famoso ferro a quattro punte.


La storia Scarponi chiodati.

I chiodi sotto le suole I primi ramponi della storia erano delle vere e proprie calzature a chiodi e risalivano in realtà all’antichità. Le calighe elevatae speculatoriae, le calzature da spia, erano utilizzate dalle legioni romane per muoversi su terreni impervi. Più tardi i pastori del Medioevo hanno utilizzato dei ferri a tre punte fissati alle loro calzature per affrontare i tormenti dell’inverno: i veri antenati dei nostri ramponi amovibili. Ma durante gli albori dell’alpinismo, di fronte alla varietà dei terreni affrontati in montagna, diventa più logico fissare stabilmente una “ferratura” sotto le suole delle calzature per garantire una migliore aderenza su terreni scivolosi e una maggiore solidità delle calzature. Le forme dei chiodi vengono perfezionate: le ali di mosca ricoprono generalmente i bordi delle suole e i chiodi piramidali ne tappezzano la superficie. La ripartizione e il numero dei chiodi ha una grande importanza; numerosi incidenti vengono attribuiti a una cattiva chiodatura, per esempio quello della celebre guida Emile Rey, al Dente del Gigante, nel 1895. Più tardi appaiono i “Tricouni”, dal soprannome del gioielliere e alpinista ginevrino che ne fu l’inventore. Destinati prima di tutto alla scalata su roccia, questi nuovi chiodi propongono un migliore aggancio ma alleggeriscono anche notevolmente le calzature (circa 200 g). L’utilizzo delle scarpe chiodate durerà a lungo per due ragioni importanti: le suole in caucciù non esistono ancora e si scivola facilmente su roccia e su terreno glaciale. Quando il ghiaccio o la neve si fanno più ripidi, una guida si incarica di tagliare dei buoni scalini.

Capitano Durand 1829 Ascensione del Finsteraarhorn (4275 m), Svizzera, di Jakob Leuthold e Johannes Währen 1830 Traversata del Karakorum tra Turkestan e Kashmir di Alexandre Gardener 1843 Pubblicazione di “Travel through the Alps and Savoy”, prima letteratura di montagna di James David Forbes, fisico scozzese 1849 L’Europa entra in un periodo di sviluppo economico 1850 Prima ascensione del Piz Bernina (4049 m), Engadina, Svizzera, di Johann Coaz 1854 Inizio dell’età dell’oro dell’alpinismo Wetterhorn (3692 m), Oberland, Svizzera, di A. Wills 1855 Prima ascensione del Monte Rosa (4634 m), seconda cima delle Alpi, Svizzera, per la cordata di James Grenville 1857 Creazione dell’Alpine Club a Londra 1858 Prima ascensione dell’Eiger (3970 m), Svizzera, di Charles Barrington, Christian Almer e Peer Bohren 1860 La Savoia è riunita alla Francia 1861 Prima ascensione del Weisshorn (4512 m), Svizzera, di John Tyndall accompagnato dalle sue guide 1862 Creazione del Club Alpino Austriaco (Ö.A.V.: Österreichischer Alpenverein) 1863 Creazione del Club Alpino Svizzero (C.A.S.) e del Club Alpino Italiano (C.A.I.) 1864 Prima ascensione della Barre des Écrins (4102 m), il più meridionale dei “4000” alpini, di Adolphus Warburton Moore e Edward Whymper, guidati da Michel Croz e Christian Almer padre e figlio

I “Tricouni” sul bordo e al centro della suola.

1865 Prima ascensione del Cervino (4482 m), Svizzera, di Edward Whymper, lord

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La storia

Francis Douglas, Charles Hudson, D.R. Hadow e le guide Michel Croz e Peter Taugwalder padre e figlio. La morte, nella discesa di Douglas, Hadow, Croz e Hudson, dà all’accaduto un’enorme risonanza Ascensione dello Sperone della Brenva, Monte Bianco, delle guide Jacob e Melchior Anderegg accompagnate dai loro clienti Moore e Walker per i quali viene tagliata una vera e propria scalinata nel ghiaccio! 1867 Acquisizione americana dell’Alaska dalla Russia 1869 Creazione del Club Alpino Tedesco (D.A.V.: Deutscher Alpenverein) 1870/1871 Guerra tra il Secondo Impero francese e i regni tedeschi uniti sotto il regno di Prussia 1873 Fusione del Ö.A.V. e del D.A.V. per creare il Club Alpino austro-tedesco: D.Ö.A.V. 1874 Creazione del Club Alpino Francese (C.A.F.)

Tagliare il ghiaccio e le prime piccozze Di fronte alla necessità di “domare” il ghiaccio e intagliarlo, gli accessori per le mani si compongono di un alpenstock e di un’ascia, il più delle volte appesa alla cintura. Nel 1840 la combinazione di questi due strumenti conduce alla nascita della prima piccozza. Pesa circa 2 kg, è molto lunga e la sua paletta, in un primo tempo, è parallela all’asse del manico. Michel Croz, nel 1860, utilizzerà ancora una piccozza di questo tipo. In base alle caratteristiche tecniche del terreno si utilizzano indipendentemente alpenstock, piccozza e ascia, ma questi due ultimi attrezzi restano gli attributi principali della guida. Sull’»Alpine Journal» del 1864, Leslie Stephen ne dà la giusta spiegazione: «Non taglio mai scalini quando posso avere una guida che lo fa al posto mio. Da una parte perché questa guida sa farlo molto meglio e poi perché è pagato per questo». Ogni guida si fa forgiare il proprio attrezzo, con le proprie misure e marchiato con il proprio nome, che gli resterà fedele per un’intera carriera. Difficile dunque tentare una numerazione completa dei differenti modelli di piccozze che sono state forgiate nel corso del diciannovesimo secolo. Verso la fine del diciannovesimo secolo la piccozza conoscerà importanti migliorie: la becca si allunga e la lama dell’ascia, fino a quel momento posizionata in verticale, viene orientata orizzontalmente. Si comincia a innovare con delle lame di forma triangolare ma soprattutto con modelli di piccozze a testa smontabile o interamente smontabili, come quella di Zsigmondy.

1877 Prima ascensione della Meije (3984 m), massiccio degli Écrins, di Emmanuel Boileau de Castelnau e le guide Pierre Gaspard padre e figlio I canonici dell’ospizio del Gran San Bernardo (Svizzera) importano degli sci dalla Norvegia 1879 Cresta di Zmutt al Cervino di Alfred Mummery, Alexander Burgener, Petrus e Augustin Gentinetta 1880 Chimborazo (6274 m), Equatore, di E. Whymper e J.A. Carrel Periodo di infatuazione per la scalata su roccia 1881 Aiguille Verte (4122 m), massiccio del Monte Bianco, di Mummery e Burgener 1883 Prima spedizione “sportiva”

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Sin: una piccozza degli albori con becca e lama verticali. Dx: una piccozza più evoluta con becca e lama orizzontali.


La storia

La corda L’utilizzo della corda suscitò a lungo dibattiti nei circoli alpinistici: alcuni ritenevano che fosse una forma di imbroglio, altri assicuravano che era pericoloso utilizzarla poiché poteva amplificare le conseguenze di una caduta. Questo timore era in parte fondato perché le tecniche di assicurazione non erano per niente o poco elaborate. Nel 1864 Michel Croz rischiò di cadere in un crepaccio perché assicurava i suoi compagni con la corda a tracolla… Fin dalle origini è stata fabbricata con fibre vegetali: gli antichi Egizi confezionavano corde a partire dal papiro, dal Medioevo e fino alla Seconda Guerra mondiale si creavano intrecciando la canapa. All’inizio del ventesimo secolo si consiglia di costruire corde da alpinismo in canapa di Manila e si distinguono due tipologie: le corde a trefoli e quelle ritorte. Queste ultime sono più sensibili all’abrasione contro la roccia e possiedono un’anima interamente nascosta dalla treccia esterna, che rende difficile valutarne l’usura. Difatti i casi di rottura sono numerosi. Nel manuale di alpinismo edito dal Caf nel 1904 si accenna a un metodo per valutare lo stato della corda: un colore scuro e un odore caratteristico sono segni di putrefazione. Simbolo dell’alpinismo, la corda si diffonderà capillarmente solo all’inizio del ventesimo secolo.

nell’Himalaya indiano di W. Graham, accompagnato da due guide 1887 Cresta Kuffner al Mont Maudit di Kuffner e Gussfeldt 1888 Spedizione nel Caucaso e ascensione del Dych Tau di Mummery con la guida H. Zurfluh 1889 Couloir de Gaube, Vignemale, Pirenei, di Jean Bazillac, François Bernat-Salles, Henry Brulle, Roger De Monts e Célestin Passe 1890 Pareti nord del Piz Roseg, del Lyskamm e del Piz Bernina di Louis NormanNeruda e Christian Klücker. 1893 Cresta di Peuterey all’Aiguille Blanche, Monte Bianco, di Christian Klücker, Emil Rey, César Ollier e Paul Gussfeldt 1893 Crowberry Gully, Scozia, di Harold Raeburn 1894 Monte Cook (3754 m), Nuova Zelanda, di T.C. Fyfe, G. Graham e J.M. Clarke Il treno arriva a Fort William (Scozia) “Tower Ridge” al Ben Nevis, Scozia, di N. Collie, J. Collier e G. Sollly 1898 Couloir nord del Coup de Sabre, Oisans, di A. Reynier, C. Verne con M. C. Gaspard e J. Turc 1896 Inizio della costruzione del trenino allo Jungfrau, in Svizzera, che attraversa la parete nord dell’Eiger 1897 Monte Saint Elias (Alaska) del Duca degli Abruzzi

Aconcagua (6962 m), Argentina, di Mathias Zurbriggen e Edward Fitzgerald

1898 Creazione dello Scottish Mountaineering Club Corde di canapa.

Couloir Gravelotte sulla parete nord della Meije, di E. Gravelotte, J. Turc, C. e D. Gaspard

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La storia 1899 Mount Kenya di Sir Mackinder, César Ollier e Joseph Brocherel Campanile Basso (2877 m), Dolomiti, di Otto Ampferer e Karl Berger 1902 Prima guida del Ben Nevis di W. Inglis Clark

Prima spedizione internazionale al K2 (8611 m), Pakistan, diretta da Oskar Eckenstein

1903 Prima traversata con gli sci tra Chamonix e Zermatt del Dr. Payot, J. Coutte e A. Simond 1904 Il treno arriva a Chamonix 1906 “Green Gully” al Ben Nevis di H. Raeburn e E. Phildius Inizio della costruzione della teleferica dell’Aiguille du Midi, nel massiccio del Monte Bianco. 1907 Trisul (7120 m), primo “7000” di Tom Longstaff, i fratelli Brocherel e il Gurkha Karbir Fondazione del primo club alpino femminile a Londra: il “Ladies Alpine Club”

Chiodi e moschettoni: gli accessori dei rocciatori Sulla roccia l’impiego della corda conduce allo sviluppo di tecniche molto particolari per l’assicurazione e all’invenzione di nuovi accessori che permettono di fissarla al supporto roccioso. Nel 1879, scendendo dal Petit Dru, la guida Jean-Charlet Straton inventa il metodo della corda doppia “a S”, facendo scorrere la corda sulla spalla e la gamba. Successivamente, per compensare l’assenza di eventuali scaglie di roccia o rilievi intorno ai quali far passare la corda, ci si inventa i chiodi. Essi furono utilizzati per la prima volta dalle guide di Whymper, Tyndall e Mummery alla fine del diciannovesimo secolo. Molto pesanti e ingombranti, sono fabbricati di ogni taglia e forma, nudi o talvolta dotati di un semplice gancio, vengono rapidamente muniti di un anello per bloccare e far scivolare la corda. In un primo tempo si utilizzano per le discese, poi diventano un accessorio d’assicurazione per il primo di cordata, anche se costringono a slegarsi e rilegarsi ogni volta. Verso il 1910 Otto Herzog, uno dei promotori del chiodo con Hans Dülfer, sarebbe stato il primo a impiegare un accessorio ben conosciuto dai pompieri bavaresi per risolvere questo problema: il karabiner. Un anello che può essere aperto per mezzo di un dito e che migliora grandemente la resa in tema di assicurazione. I primi moschettoni in acciaio pieno sono anch’essi molto pesanti e vengono commercializzati a Monaco a partire dal 1921. Chiodi e moschettoni non saranno conosciuti dagli alpinisti occidentali prima dell’inizio degli anni 30.

Inizio della costruzione del Tramway del Monte Bianco che ha per progetto di andare sino in cima. Alla fine si fermerà al Nid d’Aigle (2372 m) nel 1912 1908 Nuovo modello di rampone e di piccozza corta proposti da O. Eckenstein 1909 Una spedizione condotta dal Duca degli Abruzzi raggiunge i 7500 m sul Chogolisa (7665 m), Pakistan L’esploratore americano Peary raggiunge il Polo Nord 1910 Tre funzionari di Fairbanks salgono la cima nord del Monte McKinley (Alaska), senza alcuna esperienza antecedente e

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Dal Karabiner al moschettone.


La storia I ramponi di Eckenstein Alla fine del 19° secolo si sviluppano diversi progetti di rampone amovibile, come il modello “Pastori di Brescia” del 1876 o quello di Algan nel 1884 che possiede già 10 punte simmetriche e un sistema di articolazione! Il loro utilizzo avviene prevalentemente in Tirolo e nelle Alpi Occidentali. I loro detrattori sono numerosi, fra i quali Whymper che li qualifica come «mezzi artificiali sui quali non ci si può fidare nelle discese ripide». Per molti si tratta di una svalutazione del ruolo della guida. Zsigmondy aggiunge che «non conviene alle guide di Zermatt utilizzare i ramponi perché, rendendo così inutile il taglio degli scalini sulle immense pareti di ghiaccio, si perderebbe la reputazione della montagna, quella di meravigliare il viaggiatore con così tanti scalini da tagliare». Bisognerà attendere il 1908 quando l’ingegnere e alpinista britannico Oskar Eckenstein (1859-1921) rivoluziona le mentalità esponendo i modelli risultanti dalle sue ricerche in due articoli del’”Ostereich Alpenzeitung” e lanciando il concorso dei cramponneur, prima vera competizione di scalata sul ghiacciaio della Brenva. Spirito contestatario, promotore di altre attività come la scalata dei massi, Eckenstein propone la sua idea al fabbro Henry Grivel che, benché scettico, gli costruisce i suoi accessori. Si tratta dunque di ramponi che riuniscono i punti forti dei differenti modelli esistenti: sono snodabili, relativamente leggeri e attrezzati con un sistema di aggancio efficace. Su questo tipo di materiali verranno apportate scarse modifiche fino agli anni ‘30, se non l’apparizione di modelli regolabili ideati dal tenente Trémeau durante la Prima Guerra mondiale. La tecnica di ramponaggio “Eckenstein”, ribattezzata più tardi tecnica “Charlet”, resterà una referenza per lunghi anni.

grazie a 500 dollari forniti dal proprietario di un saloon

Guglia di Brenta (Campanil Basso), Dolomiti, di Paul Preuss

Primo utilizzo in arrampicata del “karabiner” di Otto Herzog 1911 Uno dei più grandi exploit alpinistici di tutti i tempi: l’austriaco Paul Preuss supera da solo, in due ore e senza corda, la parete est del Campanil Basso (Dolomiti) Parete nord del Laliderer (Karwendel) di Angelo Dibona, Luigi Rizzi e i fratelli Meyer

Grépon dal versante Mer de Glace di Joseph Knubel e Geoffrey Winthrop Young

Karl Blodig sale tutti i 4000 delle Alpi accompagnato dalle due guide H. Brocherel e R. Todlirmter

Cresta di Furggen al Cervino di Piacenza e Carrel

Amundsen raggiunge il Polo Sud

1912 30 giugno: primo concorso di “cramponneur” organizzato sul ghiacciaio della Brenva, versante italiano del Monte Bianco al quale partecipano guide e portatori 1914 Inizio della Prima Guerra mondiale in seguito all’assassinio di Francesco Ferdinando di Asburgo a Sarajevo, Jugoslavia Parete ovest del Totenkirchl, Kaisergebirge, di H. Dülfer 1917 La Rivoluzione Russa di ottobre segna l’instaurazione del primo regime comunista

Il rampone di Eckenstein in un’illustrazione del 1934.

1918 «Wilder Kopf”, prima via di sesto grado, nell’Elbsandstein, Germania, di Emmanuel Strubich e Armo Sieber

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La storia 1919 Creazione del G.H.M da parte di Jacques de Lépiney, Paul Job, Paul Chevalier 1920 “Observatory Ridge” al Ben Nevis di Harold Raeburn 1921 Prima spedizione di ricognizione sull’Everest del colonnello Howard-Bury dal versante tibetano. Ascensione fino al Colle Nord e individuazione della futura “via normale”

Le piccozze cominciano ad accorciarsi Con l’adozione del rampone, anche le piccozze cambiano forma. Devono essere più leggere, più maneggevoli e favorire, oltre il taglio, un possibile ancoraggio su ghiaccio. Eckenstein propone un modello di piccozza che misura circa 80 cm e che si utilizza con una mano sola. Poco a poco, i primi denti appaiono sulla becca...

Seconda spedizione che raggiunge l’altitudine di 8320 m 1924 Primo utilizzo dei chiodi da ghiaccio di Fritz Riegele e Willo Welzenbach, nel corso della loro ascensione della parete nord-ovest del Gross Wiesbachhorn Parete nord-ovest dell’Aiguille du Plan, massiccio del Monte Bianco, di Jacques de Lepiney, Jacques Lagarde e Henry de Ségogne Breithorn Orientale, Vallese, Svizzera, di E. R. Blanche, K. Mooser e R. Lochmatter George Mallory e Andrew Irvine scompaiono sull’Everest (a circa 8470 m d’altitudine) Primi Giochi Olimpici invernali a Chamonix 1925 Couloir nord-est del Pic Sans Nom, massiccio degli Écrins di Jacques Lagarde, Pierre Dalloz, Henry de Ségogne, Georges e Jean Verne

I primi chiodi da ghiaccio Negli anni ‘20, con la diffusione della corda, dei chiodi e dei moschettoni, si comincia a pensare a dei chiodi speciali per il ghiaccio. È Fritz Riegele, alpinista austriaco e compagno di cordata di Willo Welzenbach, che per primo li mette a punto. Saranno utilizzati “ufficialmente” per la prima volta nel 1924, al momento della prima ascensione del Gross Wiesbachhorn. Lunghi e piatti, ornati di qualche dente, si piantano a martellate. D’altro canto non offrono che una relativa sicurezza. Toni Schmid, che salì la parete nord del Cervino con suo fratello Franz, sarebbe anche caduto cercando di piantarne uno sulla parete del Wiesbachhorn nel 1932. Le prime viti tubolari fanno la loro apparizione in Germania a partire dal 1938. Il modello “Roseg” (a sinistra, nella foto sottostante) è un tubo con in testa un anello.

Parete nord-ovest del Civetta, Dolomiti, di Emil Solleder e Gustl Lettenbauer Pareti nord dell’Eiskogele, del Grossglockner, del Klockerin e della Dent d’Hérens di Willo Welzenbach In Italia il Partito Nazionale Fascista diventa partito unico 1926 Parete nord dell’Aiguille du Plan,

50 L’arte del ghiaccio

Sopra: una delle prime piccozze “tecniche” con i denti sulla becca. Sotto: chiodi da ghiaccio


La storia I ramponi a dodici punte All’alba degli anni 30, Laurent Grivel, guida e figlio maggiore di Henry, ha l’idea di migliorare i modelli di rampone esistenti aggiungendo loro due punte frontali. Questi nuovi modelli a dodici punte apportano un miglioramento tecnico e anche un cambio di mentalità. Anderl Heckmair riferirà questo commento dopo averli provati: «Utilizzo per la prima volta i ramponi a dodici punte. Il loro mordente mi stupisce e la sicurezza che procurano, anche nelle zone più ripide, mi mette a mio agio». Grazie a questa nuova tecnica, verrà a capo poco tempo dopo delle difficoltà ghiacciate della parete nord dell’Eiger. Come lui, la maggioranza degli alpinisti delle Alpi orientali li adottano con entusiasmo, trasportando con successo la loro tecnica di scalata sul ghiaccio ripido.

massiccio del Monte Bianco, di Jacques Lagarde e Henry de Ségogne 1927 Via de “la Sentinella Rossa” e “Via Major” al Monte Bianco di Franck Smythe e Thomas Graham Brown 1928 Pic Lenin (7134 m) al Pamir Alai di Erwin Schneider, Karl Wien e Eugen Allevrin Versante Nant Blanc dell’Aiguille Verte di Armand Charlet e Camille Devouassoux 1929 Laurent Grivel mette a punto i ramponi a dodici punte, muniti di punte frontali Pilastro sud della Marmolada, Dolomiti, di Christomannos, Micheluzzi e Perathoner 1930 Couloir nord-est delle Droites, massiccio del Monte Bianco, di Jacques Lagarde e Bobi Arsandaux Parete nord-est della Punta Gnifetti, massiccio del Monte Rosa, di Jacques Lagarde e Lucien Devies

Manifesto pubblicitario della Salewa

1931 Parete nord del Cervino dei fratelli Schmid, arrivati a Zermatt da Monaco in bicicletta! Parete nord del Triolet, massiccio del Monte Bianco, di Robert Greloz e André Roch Parete nord dei Grands Charmoz, massiccio del Monte Bianco, di Willo Welzenbach e Willy Merkl 1932 Parete nord-ovest dell’Eiger di Hans Lauper, Knubel, Zurcher e Raven

I ramponi a dodici punte di Laurent Grivel.

Parete nord della Dent Blanche di Karl Schneider e Franz Singer

Parete nord del Grosshorn, Svizzera, di Willo Welzenbach, Alfred Drexel, Ernst Schulz e Hermann Rudy

Couloir “Couturier” all’Aiguille Verte di Marcel Couturier, Armand Charlet e Jules Simond

1933 Hitler è nominato cancelliere dal

L’arte del ghiaccio 51


Lüdger Simond 72 L’arte del ghiaccio


I protagonisti

Lüdger Simond L’INNOVAZIONE AL SERVIZIO DEL GHIACCIO Intervista a Lüdger Simond L’azienda Simond è nata nella valle di Chamonix nel lontano 1860, concepisce e costruisce materiale tecnico per alpinisti da allora. Lüdger Simond ne è a capo da oltre 40 anni e ha visto nascere tutta l’attrezzatura per le ascensioni moderne e per le cascate di ghiaccio; è stato attore principale nell’evoluzione che ha portato alla comparsa di lame a banana, ramponi con quattro punte frontali e denti in linea e le prime piccozze dal manico curvo. Secondo te, come è nata la piolet traction? «La prima fotografia di piolet traction che ho visto è quella della prima salita al couloir “Lagarde-Ségogne” all’Aiguille du Plan (1926)! Si vede bene che tiravano con forza sul manico… Si è iniziato a parlare di trazione sulla piccozza quando è cambiata la concezione delle lame: non più per tagliare il ghiaccio ma da piantare nel ghiaccio. All’inizio i primi modelli sono stati la “Super E” e la “Super D”, poi la “PB” e la “MK2” che avevano ancora il manico di legno, ma lame cave e affilate per penetrare il ghiaccio. Poi si è passati alle piccozze col manico in metallo: la “Forest” proveniente dagli Usa che però non era ancora al passo con le nuove tecniche di arrampicata… Poi nel 1970 abbiamo concepito la “720” con manico di alluminio, gomma e poliuretano e una nuova geometria per la lama. E nel 1975, la “Chacal-Barracouda” con la famosa lama a banana». Come vi è venuta l’idea della lama a banana? «Ho osservato moltissimi ghiacciatori, essendo io stesso uno di loro, ma non di livello elevatissimo. Sapevo che quelli forti si adattavano a qualsiasi attrezzo, tuttavia volevo facilitare loro la vita… La particolarità dell’arrampicata su ghiaccio nelle Alpi è che l’abbondanza di opportunità consente di utilizzare in continuazione le piccozze. Mi ero reso conto che le lame curve utilizzate all’epoca consentivano di restare solidamente ancorati al ghiaccio, ma non offrivano un angolo di penetrazione ottimale: era la parte superiore della lama che colpiva la superficie. A sinistra: Sir Edmund Hillary visita gli stabilimenti della Simond © archivio Simond. A destra: I nonni

L’arte del ghiaccio 73


Poi sono stato in Scozia dove si utilizzava la piccozza di MacInnes, la “Terrordactyl”. Lassù gli alpinisti scalavano su ghiaccio sottile o neve dura, per cui la lama del “Terrordactyl” era molto incurvata verso il basso, adatta per l’aggancio e il misto. Era difficilissima da piantare nel ghiaccio e ancor più da estrarre! Per questo motivo gli scozzesi erano lenti sul ghiaccio spesso. Mi sono detto che era necessario un compromesso: una lama orizzontale all’estremità per favorire la penetrazione e progressivamente angolata per consentire l’aggancio dei denti. Così ho concepito un prototipo con un sistema di regolazione della testa in modo da trovare il miglior angolo a forza di tentativi. Quando ho presentato questo primo modello a Donald Snell, commerciante in attrezzatura da montagna a Chamonix dal 1934, mi ha guardato e ha detto: «Hai montato la lama al contrario»! Non ero tanto interessato al parere degli alpinisti, volevo che testassero la mia nuova piccozza…» Quali alpinisti sono stati più collaborativi in questa evoluzione con i loro commenti tecnici? «Bisogna sapere che l’evoluzione in Francia è rimasta bloccata per tanti anni da Armand Charlet che imponeva il suo metodo di arrampicata su ghiaccio a livello dell’Ensa (Ecole Nationale de Ski et Alpinisme). A quel tempo si costruivano già i ramponi con quattro punte frontali apprezzati da tutti i ghiacciatori più forti, ma all’Ensa non si dovevano utilizzare! Va però anche detto che i ghiacciatori con ramponi a punte frontali sapevano muoversi esclusivamente verso l’alto, Armand Charlet insegnava una cosa fondamentale, a spostarsi lateralmente e in discesa. Tuttavia ha frenato un’evoluzione che in Austria procedeva già da parecchi anni. Walter Cecchinel è stato il primo a rompere gli indugi e a rifiutare il metodo Charlet in seno alla stessa Ensa dove era professore. È stato effettivamente il primo a sbloccare la situazione». E come si è sviluppata in seguito la tecnica del piolet traction? «Per essere efficaci su ogni terreno ghiacciato era necessario mescolare la tecnica rigida che si praticava sulle punte anteriori dei ramponi con piccozza e pugnale da ghiaccio e il metodo “Charlet”. I pugnali non erano efficaci da soli, venivano abbinati a una piccozza “tecnica”. Poi al pugnale si è aggiunto un manico corto ed è nato il primo martello da ghiaccio, il “Condor glace”, che consentiva una maggiore penetrazione della lama

74 L’arte del ghiaccio


I protagonisti e permetteva di piantare i chiodi che all’epoca venivano martellati nel ghiaccio. Poi la “Condor glace” è evoluta nella “Super Condor” che aveva una punta nella parte bassa del manico. Gli alpinisti hanno iniziato a usare questo martello-piccozza associato a una vera piccozza. In realtà, tutto si è svolto in maniera molto progressiva finché non si è passati a due piccozze per la trazione. Per quanto riguarda i ramponi, la tecnica consisteva nel salire sulle punte per diversi metri e poi riposarsi appoggiando lateralmente il piede. Noi abbiamo aggiunto due punte sotto quelle frontali, in modo da migliorare l’appoggio, poi abbiamo allineato i denti laterali per favorire la presa del bordo laterale del rampone. Con l’arrivo della piccozza Chacal e della sua lama a banana, gli alpinisti hanno iniziato ad affrontare itinerari sempre più ripidi. Diversi inverni senza neve hanno spinto le Guide alpine a individuare delle attività “palliative” per i loro clienti, hanno iniziato a risalire i torrenti gelati, a

fare del “ruisseling”, e ben presto si sono avventurati su vere e proprie cascate». In tutto questo processo, come è avvenuta l’evoluzione delle viti da ghiaccio? «Come il resto dell’attrezzatura, l’evoluzione delle viti da ghiaccio è stata profondamente influenzata dalle esigenze del momento. Un tempo l’alpinista non aveva la possibilità di cadere. Poi su roccia si è iniziato a ammettere l’idea di cadere e da lì anche su ghiaccio. Dai chiodi a cavatappi si è passati a quelli tubolari o conici, più resistenti ma più difficili da recuperare. Prima del 1970 la velocità non era un problema, né una preoccupazione. Su una parete nord, più tempo si impiegava, più l’ascensione era considerata difficile… Successivamente c’è stata un’inversione di tendenza, è diventata di moda la velocità con Messner, Escoffier, Profit, e il problema del recupero dei chiodi è diventato indispensabile. Così è apparso il concetto della vite, derivato da altri ambiti come l’industria delle perforazioni». Venendo ai tempi più recenti, quali sono state secondo te le esperienze più feconde nel mondo del ghiaccio? «Le competizioni hanno giocato un ruolo fondamentale: Cortina d’Ampezzo, Pitztal, Kirov… È stato necessario trovare nuove soluzioni per aiutare gli scalatori a superare gli ostacoli come tetti e strapiombi e a stancarsi il meno possibile. Abbiamo testato le piccozze su spesse travi di legno e abbiamo inventato la prima piccozza col manico curvo, la “Scud”, consentendo agli atleti di risparmiare preziose energie. Poi sono apparse nuove punte sulla fronte e sul retro dei ramponi. Insomma, sono stati anni stupendi, ci siamo proprio divertiti».

Pubblicità Simond apparsa sulla rivista “Mountain” © Diritti riservati.

L’arte del ghiaccio 75


Rilevazione della temperatura

10 8 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 -10 -12 -14 -16 -18 -20

temperatura massima temperatura minima

Temperatura (°C)

Influenza della temperatura Situazioni esemplari

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

Giorni

14

15

16

17

18

19

20

21

22

23

24

25

Esempio

Fragilità

Durezza

Dilatazione

Altre osservazioni

Condizioni

A

Escursione termica limitata

Debole

Media

Debole

La struttura non presenta segni di fusione



B

Escursione termica forte, temperature minime basse

In aumento

In aumento

Superficiale all’inizio, poi sempre più profonda

La struttura non presenta segni di fusione

 Strutture

C

Temperature in rialzo, escursione termica limitata.

In diminuzione

Costante o in diminuzione

In diminuzione da cui consegue un allentamento delle tensioni

La struttura non presenta segni di fusione



D

Escursione termica limitata, temperature minime negative, temperature massime appena sopra lo 0.

Debole

Debole

Debole (non vi è un cambiamento di fase poiché la temperatura massima non è sufficiente per avviare la fusione)

La struttura non presenta segni di fusione

 Attenzione:

E

Escursione termica limitata, temperature minime positive

Minima

Molto debole

Debole

La struttura è sottoposta a notevole fusione

 Crolli!

F

Brusco calo delle temperature

Importante

Forte

Importante

Ghiaccio asciutto

  Attenzione: strutture scollate dal supporto e sottoposte a notevoli tensioni!

G

Aumento delle temperature con massime negative

Debole

Media

In diminuzione, di conseguenza riduzione delle tensioni

La struttura non presenta segni di fusione

H

Escursione termica forte con temperature minime negative e massime positive

Variabile nel corso della giornata

Variabile nel corso della giornata

Notevole (perché avviene un cambiamento di fase)

La struttura è sottoposta a fusione



94 L’arte del ghiaccio

fragili!

considerare anche gli altri fattori ambientali


Il ghiaccio

tale fenomeno sia legato all’apporto di acqua che appesantisce le strutture nei loro fragili punti d’appoggio. Grazie a una breve ondata di caldo, certe cascate possono essere rinforzate dal fenomeno di fusione e rigelo che rinsalda le fratture. Il caso particolare del cambiamento di fase Quando la temperatura dell’aria è stabilmente positiva di giorno e negativa durante il rigelo notturno, l’acqua subisce il cosiddetto cambiamento di fase45. Il passaggio dallo stato liquido a quello solido comporta, come tutti sanno, una forte espansione della materia e quindi crea robuste tensioni. L’incidenza dell’aumento delle temperature è una questione di durata e ampiezza. Il sole L’azione del sole sul ghiaccio è generalmente benefica a patto che la temperatura atmosferica resti negativa. In queste condizioni di plasticità in superficie e solidità in profondità, il ghiaccio può subire di tutto o quasi: i colpi di piccozza e rampone, talvolta anche violenti, non provocano il distacco di scaglie né le “filature” che compaiono nel ghiaccio freddo. Il primo aggancio è di solito quello buono e il ghiaccio rinnovato in superficie non trasmette le vibrazioni generate dai movimenti dello scalatore a quello più profondo. Il sole riscalda per irraggiamento; se tale irraggiamento è forte, uno splendido e omogeneo ghiaccio blu si trasformerà in un ghiaccio granuloso, anche a una profondità di 10-20 cm. Le impurità46 trasportate dal vento o disciolte nell’acqua catturano i raggi solari i cui fotoni poco per volta rosicchiano il ghiaccio come delle termiti generando goccioline d’acqua che di notte ritornano allo stato solido. Ecco come, giorno dopo giorno, aumenta lo spessore del ghiaccio granuloso. Alle nostre latitudini questo fenomeno è visibile soprattutto sulle cascate esposte al sole, orientate a sud ovest. Anche le superfici esterne al ghiaccio, come la roccia o la vegetazione, assorbono i raggi solari e restituiscono calore all’aria generando il fenomeno della convezione termica che genera l’inverso e l’indritto delle montagne. Quindi arrampicare su ghiaccio al sole va fatto solo con temperature rigide. E bisogna sempre prestare attenzione ai primi raggi del sole su una parete ghiacciata: dopo il gelo notturno, l’apporto brusco di calorie può provocare la caduta di ghiaccioli o pietre.

La pioggia La pioggia e il ghiaccio sono fratelli coltelli. La pioggia non solo fornisce le calorie che mancano al ghiaccio, ma produce un’azione meccanica di abrasione che ne moltiplica l’effetto distruttore. Cola lungo le superfici ghiacciate e si insinua tra esse e la roccia scollando letteralmente i legami tra la struttura e il suo supporto. Le cascate diventano cave, i chiodi da ghiaccio incontrano il vuoto prima di terminare la loro corsa contro la parete. Dopo la pioggia, il ghiaccio appare più liscio e compatto perché le precipitazioni puliscono la superficie di ogni asperità. Se poi segue un periodo di freddo intenso, i rischi aumentano notevolmente: il ghiaccio si tende e i pochi punti di “ormeggio” diventano fragili, la neve in superficie con la sua azione isolante si è sciolta e l’aria gelida penetra tra il ghiaccio e la roccia accerchiando la struttura da tutti i lati.

45 - La nozione di fase incrocia in parte il concetto più noto di cambiamento di stato della materia. I tre stati della materia, gassoso, liquido e solido, costituiscono in effetti 3 fasi differenti. 46 - Polvere, sabbia, terra, foglie…

Formazione di ghiaccio sopra un accumulo di neve.

L’arte del ghiaccio 95


La neve La neve, soprattutto quando è umida, ha la capacità di incollarsi al ghiaccio, fiocco dopo fiocco su tutte le superfici poco meno che verticali, fino a formare strati di spessore considerevole. Fin qui nessuna conseguenza negativa per lo scalatore, a parte il fastidioso lavoro di ripulitura. Sovente tale neve isola la struttura dalle basse temperature e dalla differenza di gradiente di cui abbiamo parlato precedentemente. L’inconveniente principale viene in seguito perché la neve, con il suo effetto isolante prolungato, riscalda il ghiaccio in superficie e ne peggiora la qualità. Attenzione quindi all’uscita dai tiri ripidi!47 Si può passare rapidamente da un ghiaccio eccellente a uno impregnato d’acqua e inconsistente dove gli ancoraggi alla cieca sono difficili da valutare.

Il caso particolare del ghiaccio “crostoso Attenzione si tratta di una vera e propria trappola dopo recenti nevicate. Con basse temperature, il deflusso dell’acqua su uno strato di neve fresca forma una crosta anche di alcuni centimetri di spessore. La neve al di sotto assume la funzione di nastro trasportatore e provoca lo scivolamento di ampie placche di crosta al primo colpo di piccozza. Da evitare assolutamente! Il vento Il vento asciuga il ghiaccio è può addirittura rompere le stalattiti; in certe zone molto esposte può cambiare la forma delle strutture ghiacciate poiché penetra dappertutto. Quando è freddo tende il ghiaccio, quando è caldo ne provoca una rapida fusione. 47 - Vedi il paragrafo “L’ingaggio” all’interno del capitolo sulla progressione.

Il ghiaccio d’acqua e i fenomeni atmosferici Cosa bisogna ricordare • Il freddo in sé non è un criterio di sicurezza, può addirittura essere un fattore di rischio! • In tema di caldo, è tutta una questione di intensità. • Scalare al sole è un piacere raro, riservato alle regioni fredde: Canada e Quebec… • L’arrivo della pioggia impone prudenza allo scalatore! • Le nevicate non fanno la felicità dei ghiacciatori! • Il vento amplifica l’effetto degli altri fenomeni. Parametri esterni

Vantaggi

Inconvenienti

Il freddo

Possibilità di scalare al sole

Se è rapido porta forti tensioni all’interno della struttura ghiacciata che sopporterà male gli stress da aggancio (rilascio di scaglie, fessurazioni) e le vibrazioni (rischio di crollo al passaggio di uno scalatore).

Il caldo

Il ghiaccio plastico accetta bene gli ancoraggi. Il ghiaccio elastico assorbe bene le vibrazioni Certe fratture vengono rialimentate con acqua e si rinsaldano Rilascio positivo delle tensioni

Erosione da flusso d’acqua Crollo se le alte temperature permangono a lungo

Il sole

Con temperature basse: - il ghiaccio plastico sopporta bene gli ancoraggi - il ghiaccio di superficie assorbe bene le vibrazioni

I primi raggi possono provocare caduta di pietre e di ghiaccioli Si crea il ghiaccio granuloso

Il vento

Nessuno

Se caldo accelera la fusione Se freddo aumenta la fragilità delle strutture

La pioggia

Alimenta le cascate a gocciolamento

La struttura viene scollata dal proprio supporto Il ghiaccio viene dilavato Se è seguita da un periodo di freddo trasforma la cascata in una bomba a orologeria

La neve

Isola le strutture garantendo un gradiente termico ridotto

Rende più laboriosa la ripulitura Riduce la qualità del ghiaccio in superficie e nelle zone esposte più a lungo Può causare la formazione di ghiaccio crostoso

96 L’arte del ghiaccio


Il ghiaccio

G H

A

D

H

D

A

D D

D

B C

D

D

C

F B

H G

E

D

D

E

H

E

Le cascate di grande portata Elementi costitutivi A Tubo cavo B Campana C Medusa

Elementi di equilibrio D Appoggi laterali E Appoggi alla base F Effetto a volta

H

H

H

Elementi di instabilitĂ G Passaggio di acqua H Buchi

L’arte del ghiaccio 97


L’evoluzione dell’attrezzatura è legata alle possibilità tecnologiche di ciascuna epoca storica, ma dipende anche in maniera più determinante dai modi con cui si pratica l’alpinismo in un determinato momento: i materiali sono figli del loro tempo e della tipologia di alpinismo dominante1 in quel tempo. Per esempio gli scarponi chiodati e le asce per tagliare il ghiaccio dovevano soddisfare le necessità degli alpinisti all’epoca della conquista delle grandi vette delle Alpi. I ramponi classici a 12 punte e le piccozze a becca curva erano sufficienti per la salita delle pareti nord negli anni 50/70. Negli anni 80 gli alpinisti posarono i loro occhi sulle cascate di ghiaccio e inventarono, per scalarle, nuovi accessori tra cui i ramponi rigidi con le punte frontali verticali e le piccozze con lama a banana. Tutte queste innovazioni hanno soddisfatto approcci al ghiaccio molto differenti, ma sono il frutto di tecnologie di produzione molto simili. I materiali da montagna oggi devono rispettare le norme UIAA2 in quanto vengono utilizzati per la sicurezza personale. In questo capitolo entreremo anche nel merito di questi argomenti. Testa Lama

P

β

α Manico PICCOZZA Elementi costitutivi

L’ATTREZZATURA PER LA PROGRESSIONE Le piccozze

La piccozza, discendente diretta dell’ascia3, fu inizialmente utilizzata per tagliare il ghiaccio e veniva associata a un bastone da passeggio. Successivamente i due oggetti furono uniti in uno solo il cui manico venne progressivamente accorciato per migliorare le possibilità di ancoraggio a scapito della capacità di taglio. È il simbolo della montagna, chi ne possiede una entra automaticamente nel novero degli alpinisti; la tipologia di piccozza che ci appendiamo allo zaino rivela le nostre ambizioni alpinistiche. L’oggetto che prende il nome di piccozza necessita di due elementi principali per essere definito tale: una lama o becca che si pianta nel ghiaccio e un manico con cui infiggere tale lama. Vi sono poi altri elementi che forniscono una maggiore polivalenza allo strumento: una punta al fondo del manico per l’utilizzo in modalità “bastone da passeggio”, un’impugnatura per migliorarne la tenuta, un martello dal lato opposto alla becca per piantare i chiodi, una paletta per tagiare la neve o talvolta nulla di tutto ciò per risparmiare sul peso. In questo paragrafo tratteremo esclusivamente le piccozze per la scalata su ghiaccio verticale, con lama a banana e manico corto. Gli elementi costitutivi Il manico Tradizionalmente era in legno4, ma da quando la piccozza è considerata uno strumento di progressione e il suo manico una forma di assicurazione5, i produttori sono passati ai profili tubolari in lega d’alluminio poiché il legno non consente la riproducibilità delle caratteristiche di resistenza e tenuta richieste dalle norme di sicurezza. La testa Nelle prime piccozze era costituita di un singolo pezzo di ferro forgiato a mano. Successivamente, per ridurne il costo, i produttori hanno lanciato modelli con la testa assemblata di diverse componenti rendendo anche la becca intercambiabile. Tutti i sistemi attuali di fissaggio delle lame alla testa della piccozza sono robusti e performanti. 1 - Vedi il capitolo sulla storia. 2 - www.theuiaa.org 3 - Il termine francese “piolet” deriva dal termine in dialetto piemontese “pioletta”. 4 - Di carya o di frassino. 5 - Come corpo morto.

122 L’arte del ghiaccio


L’attrezzatura

La lama Era inizialmente parte integrante della testa della piccozza e si presentava dritta con una sezione quadrata per spaccare e tagliare più facilmente il ghiaccio. Gli alpinisti le aggiunsero dei denti e la resero curva per migliorare le capacità di ancoraggio. Successivamente le capacità di aggancio della lama inclinata a 45° (ideata dagli scozzesi), unita alla facilità di penetrazione della lama curva, diedero vita alla lama a banana6. Oggi l’angolo α ha un valore vicino ai 50°, mentre l’angolo β si avvicina ai 60°.7 Per un funzionamento ideale della piccozza è necessario che in posizione di trazione sul manico, la punta P sia l’elemento più basso della lama. Vi sono due tipi di norme che corrispondono a due utilizzi differenti delle becche: le lame B (basiche) sono regolate da norme meno esigenti e si utilizzano su neve e ghiaccio delle vie classiche; le lame T (tecniche) sono regolate da norme più esigenti e si utilizzano su neve, ghiaccio e roccia difficili. Solitamente gli alpinisti utilizzano tali lame all’opposto di quanto viene definito dalla norma perché una piccozza della tipologia T è troppo spessa per un utilizzo efficace su ghiaccio e misto, D’altronde l’assicurazione del secondo di cordata su questo tipo di lama rinforzata è più faticoso rispetto alla lama di tipologia B. L’utilizzo si distingue quindi in questo modo: lame B, più performanti, per cascate di ghiaccio e drytooling; lame T, più resistenti, per salite classiche, pareti nord ingaggiate e spedizioni. Le norme si basano su un test di flessione della lama ma una tipologia sfugge a tali esperimenti: la lama tubolare. Essa agisce come un perforatore, la sua forma circolare o semicircolare concentra le forze sul cilindro di ghiaccio

ricavato dalla percussione, un po’ come le viti tubolari. Rispetto alle piccozze classiche che agiscono come un cuneo, quelle tubolari non impongono tensioni nel supporto e si rimuovono più facilmente tramite un movimento rotatorio. Ma sono state abbandonate perché il loro utilizzo su misto è molto delicato (l’estremità della lama tubolare è fragile) mentre è impossibile in fessura. Il peso Il peso della piccozza è una vera e propria ossessione per gli alpinisti contemporanei che su questo argomento sono in grado di agitare i fantasmi più profondi della loro irrazionalità. Alcuni invocano la leggerezza, altri elaborano teorie complicate a favore di un certo peso necessario per l’ancoraggio della becca. Il peso complessivo di una piccozza non è significativo della sua efficacia, indica semplicemente il numero di grammi che sarà necessario trasportare nello zaino in occasione degli avvicinamenti e delle discese. Tale criterio è molto importante per attività come lo scialpinismo o l’alpinismo, molto meno sul terreno delle cascate di ghiaccio. L’equilibrio della piccozza, ovvero il suo centro di gravità8, è l’elemento realmente importante. Il peso e la velocità Considerando la formula dell’energia cinetica (E=1/2mv²), possiamo concludere che una variazione di velocità v ha un effetto più significativo sull’energia E rispetto a una variazione equivalente della massa m. Dunque, una piccozza leggera necessiterà di una maggiore velocità del colpo per ottenere la medesima energia cinetica di una piccozza più pesante9. E siccome la natura fa le cose per bene, è più facile imprimere maggiore velocità a una piccozza leggera rispetto a una pesante. Come vedremo nel capitolo sulla progressione, questo aspetto genera due tipologie distinte di gestualità. Il baricentro È il centro, o meglio il vero cuore del problema. In passato si pensava che una piccozza dotata di testa pesante fosse garanzia di efficacia nell’ancoraggio; l’evoluzione della pratica attuale si è spostata verso piccozze più leg6 - Questa innovazione fu utilizzata per la prima volta sul modello “Chacal” di Simond. 7 - Il disegno moderno dei denti lungo questi due segmenti della lama comparve per la prima volta sul modello “Pulsar” di Charlet-Moser. 8 - Attenzione a non confondere equilibrio e peso della piccozza. 9 - Una piccozza di massa m dotata di una velocità 2v ha la stessa energia cinetica di una piccozza di massa 4m e velocità v.

Esempio di lama tubolare.

L’arte del ghiaccio 123


Manutenzione L’affilatura

Innanzitutto bisogna osservare che l’affilatura dell’acciaio deve sempre avvenire senza un aumento della temperatura per evitare di far perdere alcune qualità della tempratura. Di conseguenza utilizzando una mola elettrica è fondamentale bagnare continuamente l’acciaio. Una limaa58 mano evita invece questi problemi.

58 - L’affilatura comporta la rimozione dello strato antiruggine.

VITI DA GHIACCIO Affilatura

F

Le viti da ghiaccio L’affilatura di una vite da ghiaccio è un’operazione delicata che richiede grande abilità e manualità. Sono necessarie una lima cilindrica e una piatta oltre a due pezzi di legno con scanalatura a U per proteggere la delicatissima e liscia superficie del tubo dalla stretta della morsa. L’obiettivo è ottenere una vite dotata di 4 denti della stessa altezza H, orientati secondo uno stesso piano perpendicolare all’asse del tubo e dotati di bordi taglienti x di buona qualità. Laddove il filetto fosse danneggiato, è possibile dare qualche colpo di lima. Non bisogna iniziare un tale lavoro senza avere delle conoscenze nell’ambito dell’affilatura per evitare di peggiorare la situazione rendendo una vite danneggiata definitivamente inutilizzabile. In seguito è possibile trattare la superficie con un lubrificante al silicone per proteggerla dalla ruggine ed eliminare attriti contro il ghiaccio. In ogni caso è sempre meglio conservare le viti in un ambiente asciutto.

H

α

b

β

x

a

L’astuzia È possibile svasare i denti di vecchie viti da ghiaccio dotate di una superficie di pessima qualità. In questo modo il trapano effettua un foro leggermente più ampio del diametro del tubo limitando la frizione della filettatura. Le viti attuali hanno una forma leggermente conica con un trapano più grosso del tubo. Il tubo di una moderna vite da ghiaccio.

138 L’arte del ghiaccio


L’attrezzatura

1

2 Punta accorciata

Punte piegate

Bisogna innanzitutto verificare che le punte non siano state piegate eccessivamente a contatto con la roccia. Per fare ciò è sufficiente guardare all’interno del tubo. Per raddrizzarle, usare delicatamente un paio di pinze.

3

4

Verificare che almeno 3 delle 4 punte del trapano siano alla stessa altezza, in caso contrario diventa difficile introdurre la vite nel ghiaccio. L’affilatura consiste nel ricreare la struttura del trapano con i suoi bordi taglienti equilibrando la lunghezza delle punte per ottenerne almeno 3 uguali. Alla fine dell’affilatura l’altezza della punta H dovrà essere pari, almeno, a quella del filetto F. 5

Se necessario, utilizzare una lima cilindrica per Si inizia affilando alternativamente la superficie a dei quattro denti per ridurre l’altezza dei 3 aumentare l’altezza del dente H. denti più lunghi riportandoli all’altezza di quello più corto. Si finisce ripristinando l’apertura degli angoli β e γ. Attenzione, inclinare la superficie a verso l’interno del tubo. 6

7

In seguito, riprendere con la lima la superficie b rispettando l’apertura degli angoli α e δ. Attenzione, inclinare la superficie b verso l’interno del tubo.

L’arte del ghiaccio 139


I ramponi Affilare i ramponi tradizionali in lamiera L’affilatura di questo tipo di ramponi è semplice ma influisce poco sulla loro performance: il suo obiettivo è semplicemente di restituire un po’ di “morso” alle punte arrotondate dal contatto con la roccia. Bisogna quindi conservare la geometria originaria senza modificare la posizione della punta e quindi senza modificare le superfici dette “di riferimento”. Le punte simmetriche come quelle frontali devono essere affilate in maniera simmetrica.

Affilare i ramponi dotati di punte frontali forgiate Questo tipo di rampone si affila come i ramponi tradizionali salvo sulle punte frontali che vanno trattate come le lame delle piccozze. È fondamentale conservare inalterata la posizione del punto P nella parte bassa della punta anteriore e scegliere tra una geometria per il ghiaccio o per la roccia. L’affilatura “da roccia”, come per la lama della piccozza, fornisce più presa e consente di sollevare maggiormente i talloni; la modalità “da ghiaccio” rende i ramponi meno fragili e più polivalenti.

Attenzione! Mai praticare l’affilatura “a scalpello”60 su punte che non sono state previste in questo modo per non correre il rischio di indebolirne la struttura senza migliorarne l’efficacia.

60 - Affilatura piatta come uno scalpello da legno lungo tutto lo spessore della lamiera.

A destra: Bubu Bole, un esperto nell’affilatura per dry-tooling, impegnato su “Quartier nord” a Gramusat, Francia © Philippe Pellet.

RAMPONI Affilatura 1

2

3 Superficie posteriore

Superficie anteriore

Le punte frontali di questo rampone sono affilate “a scalpello”. Per ramponi di modelli diversi le cui punte anteriori sono simmetriche, l’affilatura deve essere effettuata sui due lati in maniera simmetrica.

142 L’arte del ghiaccio

La superficie di riferimento di questa punta è Al contrario, la superficie di riferimento di questa punta quella anteriore. è quella posteriore. L’affilatura deve quindi essere effettuata sulla L’affilatura si effettua quindi sulla superficie anteriore. superficie posteriore.


L’attrezzatura

4

5 Superficie posteriore

Superficie anteriore

La superficie di riferimento di questa punta è anteriore. L’affilatura si effettua quindi su quella posteriore.

La superficie di riferimento di questa punta è esterna. L’affilatura si effettua all’interno.

L’arte del ghiaccio 143


Per raccogliere la corda in sosta il piede può sempre tornare utile.

La gestione della corda

Quali nodi sono più adatti? Su una corda umida o gelata il nodo semplice, il suo derivato per giuntare le fettucce, il nodo a otto e il nodo inglese sono particolarmente difficili da disfare. Consigliamo quindi il bulino e, suo cugino, il nodo bandiera che si sciolgono facilmente anche con corda umida, gelata o bloccata. Attenzione: questi nodi non sono facili da ricordare e si disfano facilmente se non vengono accoppiati con un nodo di bloccaggio. In arrampicata Come abbiamo visto nel capitolo sui materiali, la corda è l’unico vero sistema per ammortizzare una caduta in arrampicata su ghiaccio. È quindi importante che il fattore di caduta sia più basso possibile sia in partenza dalla sosta, sia lungo il tiro. FC (fattore di caduta) = H (altezza della caduta) / L (lunghezza della corda sollecitata) Questa formula è valida in assenza di attriti che rischiano di ridurre drasticamente la lunghezza di corda che ammortizza la caduta. La corda deve assorbire un’eventuale caduta lungo tutta la sua lunghezza: per fare ciò, si deve svolgere senza angoli né sfregamenti.

Per evitare alla catena di assicurazione sollecitazioni eccessive in caso di caduta è importante ridurre al massimo il fattore di caduta e gli attriti. Per evitare che la corda formi degli angoli troppo acuti riducendo la sua capacità di scorrere bisogna allungare i punti di assicurazione (nel caso di corda singola o corde gemellari) e/o moschettonare separatamente le due mezze corde.

LA GESTIONE DELLA CORDA SUI TIRI

Utilizzo di una fettuccia (rinvio sdoppiato o fettuccia ad anello) per allungare il punto di protezione e ridurre l’attrito della corda

In questo caso, soltanto gli ultimi metri della corda (in rosso) fungeranno da ammortizzatore in caso di caduta

166 L’arte del ghiaccio

In questo esempio la quasi totalità della corda utilizzata dal capocordata sarà in grado di ammortizzare la caduta. Questa soluzione è consigliata con corde intere o corde gemellari.

Moschettonaggio separato delle due mezze corde per evitare attriti. Attenzione: da non fare con corde gemellari.


La sera Una corda umida ghiaccia e diventa difficile da utilizzare: non dimenticate quindi di asciugarla. Per risparmiare spazio è possibile ripiegare la corda con la cosiddetta treccia a catenella19.

L’Abalakov e la clessidra

La clessidra Come su roccia, anche il ghiaccio offre dei punti di assicurazione naturali. Bisogna servirsene senza esitazione perché in base alla loro dimensione possono essere molto solidi e si utilizzano facilmente. • La fettuccia non deve mai essere fissata con il nodo a bocca di lupo poiché ridurrà la resistenza della clessidra. • Prima di assicurarsi a una colonna, verificare attentamente che sia solidamente collegata, soprattutto alla base, al resto della cascata; se necessario ripulire il cono dalla neve per verificarne la tenuta. • Per agevolare il passaggio della fettuccia è possibile ingrandire il buco con alcuni colpi di piccozza. • Si può utilizzare un moschettone come zavorra in caso di lancio della fettuccia attorno a una colonna particolarmente ampia.

possibile nella massa ghiacciata. Successivamente, in questa piccola galleria che si viene a creare, bisogna infilare un cordino da almeno 7 mm ottenendo un ancoraggio che tiene anche 700 daN. Uno studio recente20 evidenzia che l’Abalakov verticale, ottenuto con i fori posizionati uno sopra l’altro, ha una resistenza superiore. È anche possibile passare la stessa corda da arrampicata all’interno dell’Abalakov. Per questa operazione è necessario un ghiaccio asciutto e che l’ultimo della cordata verifichi lo scivolamento della corda.

La calata in doppia

Bisogna prestare attenzione a dove si piazza la corda. Con due mezze, il nodo di giunzione potrebbe incastrarsi dietro alle stalattiti oppure staccarle mettendo in pericolo i membri della cordata sottostanti. Il primo a calarsi deve quindi giocare all’elefante nel negozio di cristalli staccando e rompendo con i piedi tutti i volumi di ghiaccio a rischio. Si consiglia vivamente di utilizzare anche il nodino autobloccante.

L’Abalakov Questo sistema è stato inventato dallo scalatore russo Vitaly Abalakov e non è altro che una clessidra artificiale. Ha modificato radicalmente il modo di scalare su cascata permettendo di piazzare soste e punti d’assicurazione solidi in qualsiasi area composta da ghiaccio omogeneo e sufficientemente solido. Consiste nello scavare due buchi con una vite da 20 cm a una distanza minima di 12 cm e farli incontrare più a fondo 19 - Vedi il paragrafo “La manutenzione” nel capitolo sull’attrezzatura. 20 - J.Marc Beverly, BS-EMS, M-PAS, Certified Guide, Stephen W.Attaway, Ph.D, Ice Climbing Anchor Strength : An In-Depth Analysis, ottobre 2008.

ABALAKOV Come si realizza Per costruire una clessidra orizzontale, iniziare sempre dalla mano più debole: la sinistra se siete destri oppure viceversa.

Patricia Schanne, membro della Mountain Academy, si protegge a una clessidra con la fettuccia.

2

1

≈45°

3

4

12 cm min

L’arte del ghiaccio 167


utilizzato per uncinare la crosta sottile, senza bisogno di affondare la becca. La corretta manutenzione degli attrezzi In tutti questi casi, pur sapendo che l’efficacia di un ancoraggio dipende dalla quantità di forza applicata e dalla precisione, l’affilatura delle piccozze è essenziale. Con lame taglienti un gesto preciso non ha mai bisogno di essere violento, indipendentemente dalla qualità del ghiaccio. Quindi è inutile randellare perché non è necessario scavare una vera e propria scala né è consigliabile indebolire l’intera struttura mettendo sé e i propri compagni in pericolo. Con il tempo e l’esperienza di impara a dosare i propri gesti e ad adattarsi alle differenti caratteristiche del ghiaccio. Alternare gli ancoraggi Piazzare le piccozze una sopra l’altra aiuta a guadagnare metri e a ridurre il numero di colpi. Il successo passa dai piedi! Usiamo ‘sti ramponi!

Ogni aggancio di picca deve essere seguito da due movimenti di piede. Fatelo! L’iserimento dei ramponi nel ghiaccio deve essere rapido, sicuro e deciso. L’arrampicata su ghiaccio è sempre frontale? I ramponi possono ruotare sugli appoggi laterali utilizzando l’interno o l’esterno del piede e si possono usare in opposizione. I piedi devono spostarsi lateralmente per migliorare l’equilibrio. Una scalata fluida Sfruttare ogni ancoraggio Il vostro bacino deve sempre posizionarsi in asse con l’ancoraggio della piccozza e con i piedi ben divaricati. In questo modo le piccozze agganciano il ghiaccio seguendo due linee parallele mentre le anche ondeggiano da una all’altra. Bisogna ugualmente adattare la gestualità agli ancoraggi: in base alla loro solidità e al grado di sopportazione del ghiaccio le piccozze possono essere piantate più o meno in alto.

LA GESTUALITÀ DA PERFEZIONAMENTO

1

Posizione in equilibrio: piedi divaricati, piccozza in asse con il bacino. Lo scalatore si appresta a piantare la seconda piccozza.

172 L’arte del ghiaccio

2

Il piede su cui avverrà la spinta si posiziona in asse con il centro di gravità.

3

Il secondo piede viene portato verso l’alto simmetricamente al primo.

4

Ritorno alla posizione di partenza in equilibrio con il bacino incollato al ghiaccio.

5

6

Posizionamento del piede (destro) sulla parte esterna della pianta e rotazione del bacino per ottimizzare l’allungo.


Alternare progressione e riposo La scalata procede attraverso fasi rapide di azione in cui il corpo si raccoglie e spinge sul piede opposto alla piccozza piantata e fasi di riposo in cui si riacquista l’equilibrio con le braccia tese e il bacino vicino al ghiaccio. Questa alternanza consente di dare un ritmo allo sforzo, di osservare il ghiaccio, di proteggere la progressione e di prevedere i passaggi successivi. Ottimizzare l’allungo Su un ghiaccio che lo consente, si può puntare l’esterno del piede opposto alla piccozza piantata per salire più in alto con l’altra.

La gestualità da esperto

Apre le porte alle vie di elevata difficoltà. In questa fase le piccozze diventano un’estensione degli arti e collegano indissolubilmente lo scalatore al suo supporto. Bisogna conoscerne le sottigliezze che consentono di piazzarle in posizioni inedite e di utilizzarle con la medesima gestualità adottata su roccia. Le mani alla base delle piccozze Adattarsi alla qualità del ghiaccio Significa dosare i colpi utilizzando agganci delicati e a uncino o addirittura le mani.

Adattarsi ai rilievi Piantare le piccozze in opposizione, incrociarle, cambiare mano, appoggiarsi sulle picche o sulle lame per ristabilire l’equilibrio, agganciare a uncino e compiere delle trazioni sui piedi. Adattarsi al supporto Su roccia bisogna incastrare le lame nelle fessure e uncinare le reglette. Incastrare e uncinare le lame Poggiare la punta delle lame su piccole reglette di roccia o in piccoli buchi significa saper controllare tutti i movimenti con delicatezza poiché bisogna muovere la becca il meno possibile per evitare di strapparla dalla parete. Incastrare la lama in una fessura invece richiede meno delicatezza perché si basa su un movimento di torsione che non deve mai venir meno provocandone la fuoriuscita. Un movimento assai particolare è l’incastro all’inverso della lama in un tetto. E anche possibile passare la gamba intorno al manico per sollevare ulteriormente il peso. Il movimento è stato intitolato allo scalatore statunitense Toni Yaniro. Cambio di mano Il problema si pone in maniera più evidente in dry-tooling quando la lama poggia su una presa di roccia, senza effetto incastro, e quando lo scalatore è appeso nel vuoto sen-

P

CAMBIO DI MANO SUL MANICO DELLA PICCOZZA

B A

F Jérôme Blanc-Gras blocca le piccozze all’inverso a Le Fayet, Francia.

L’arte del ghiaccio 173


Mark Twight 180 L’arte del ghiaccio


I protagonisti

Mark Twight AL DI LA’ DEL BENE E DEL MALE Un’icona dell’arrampicata su ghiaccio anni 90, Mark Twight si è creato un nome grazie al suo alpinismo nichilista, no future, ispirato alla cultura punk in cui è cresciuto. Ha perseguito la difficoltà tecnica e l’ingaggio su pionieristiche vie nuove in giro per il mondo, molte delle quali scalate con stile innovativo. È autore di diversi libri e lavora come preparatore atletico per un ampio raggio di clienti tra cui sportivi professionisti, attori, vigili del fuoco e personale militare. Durante una scalata particolarmente difficile oppure nel bel mezzo di una situazione socialmente complicata dalla mia dedizione maniacale per l’arrampicata, mi sono spesso domandato: «Come diavolo mi sono cacciato qui»? La mia famiglia mi ha fatto conoscere le montagne, ma due libri mi hanno convinto a scalarle: il manuale americano Freedom of the hills e Ragno Bianco di Heinrich Harrer. Un altro volume dalla biblioteca di Time Life Nature intitolato The Mountains mi ha suggerito cosa aspettarmi dall’alpinismo. Ho iniziato a scalare sulle rocce e falesie dello stato di Washington e quando i miei amici si sono spostati verso le pareti più calde e assolate di Yosemite e Smith Rock, io mi sono proiettato sulle cascate e sull’esplorazione delle Alpi. In fondo, sono nato a Yosemite e, per rimanere fedele al mio spirito ribelle adolescenziale, non potevo ritornare in quei luoghi. Ho trovato – o meglio lui ha trovato me – un grande compagno di cordata la cui creatività e assenza di comportamenti autolimitanti mi hanno aperto gli occhi su un modo diverso di arrampicare. Andy Nock e io abbiamo individuato una maniera per muoverci leggeri e per arrampicare veloce. Lui ha costruito il primo sacco da bivacco imbottito, con una base sagomata per contenere un materassino in espanso. Abbiamo scalato in inverno, abbiamo cercato tutti i modi possibili per alimentarci individuando i prodotti che ci consentissero di acquisire il maggior numero di calorie con il minor peso. Ci siamo portati alla base delle pareti con gli sci e le abbiamo scalate con gli scarponi. È stata la mia preparazione per il futuro. Luglio 2000: Steve House scala il tiro chiave della “Diretta slovacca” al Denali, Alaska. A questo punto della salita sono trascorse le prime 24 delle 60 ore totali della salita in single-push © Mark Twight. A destra. Aprile 1992: Andy Parkin segue sull’ottavo tiro di “Beyond good and evil”, Aiguille des Pelerins, durante il terzo e vittorioso tentativo © Mark Twight.

L’arte del ghiaccio 181


Mark Twight 182 L’arte del ghiaccio


I protagonisti

Ma le cascate erano un vicolo cieco, su di esse negli anni 80 non accadeva nulla di nuovo. I veri talenti dell’alpinismo erano pochi, emergevano in quel contesto ma si erano costruiti la propria esperienza su altri terreni. All’epoca sentivo il richiamo delle Alpi, cosmopolite e accessibili, mentre le montagne dell’Alaska non mi attiravano ancora perché erano oltre la mia portata e troppo selvagge. Soltanto dopo scoprii che i migliori ragazzi del mondo erano laggiù e io dovevo andarci per bruciarmi o temprarmi con quel fuoco. Nel 1984 la rivista «Outside» commissionò a Jon Krakauer un articolo sull’Eiger per descrivere la storia e fornire resoconto e suggerimenti sulle caratteristiche tecniche, ambientali e logistiche della Parete Nord. Jon mi propose di seguirlo in un viaggio che mi mandò letteralmente fuori di testa. Restammo in attesa di bel tempo per tutto il mese di settembre che si rivelò il più umido dal 1864 e durante quel purgatorio una tempesta di foehn distrusse le nostre tende piantate a monte della Kleine Scheidegg. Quella notte mi ero fumato una canna, ero finito a letto con una donna più anziana di me che mi aveva rivoltato come un calzino e sostanzialmente avevo anestetizzato ogni mia ambizione alpinistica. Che tornò presto, come una furia, durante una due giorni di alta pressione che giudicammo troppo breve per attaccare la parete nord. Ero una pentola a pressione, volevo scalare, mi dispiaceva perdere la finestra di bel tempo, ma mi ritrovai a una festa alla Kleine Scheidegg durante la quale provai a sopprimere i miei sentimenti con alcuni bicchieri di vino trangugiati come si prenderebbe un analgesico. Era un suicidio temporaneo, presto abbandonai la serata, preparai lo zaino e alla luce della frontale mi diressi ai piedi della parete del Monch. Col giungere dell’alba avevo già sfondato due ponti di neve senza, per fortuna, cadere nei crepacci e avevo attaccato la seraccata alla base della roccia spostandomi verso una straordinaria vena di ghiaccio che ne delimitava il lato destro. Al sorgere del sole ero ingaggiato nella parete che, scoprii soltanto più tardi, era stata scalata per la prima volta da Dougal Haston e Ole Eistrup nel 1976. C’erano passaggi ripidi – il grado è un Td+ – che rappresentavano il mio limite dell’epoca ma mi diedero consapevolezza del mio potenziale. Fu una di quelle esperienze che ti cambiano la vita e mi insegnò che avevo il talento per raggiungere le mie ambizioni. Successivamente tentammo lo stesso l’Eiger, ma la neve troppo profonda ci costrinse alla ritirata dalla base del secondo nevaio. Tornarono indietro con noi anche Christophe Profit e Sylvaine Tavernier che seguii a Chamonix dopo che Jon tornò a casa. Ap-

Marzo 1998: Steve House ripercorre il quattordicesimo tiro di “The gift” sul Mount Bradley, Alaska, dopo che una stalattite si è staccata e lo ha proiettato sul pendio di neve sottostante © Mark Twight.

pena vidi la valle di Chamonix, il mio stomaco mi disse che il mio destino era lì davanti a me. Durante le mie prime due settimane nel massiccio del Monte Bianco salii in solitaria il Triangle du Tacul; durante la scalata fui superato da Benoit Grison che mi fece cadere in testa un po’ di ghiaccio durante il sorpasso. Poi, sempre da solo, scalai la “Gabarrou – Albinoni” e il “Super Couloir”, al Tacul e la “Via degli svizzeri” sulla parete nord delle Courtes. A quel punto mani e dita erano troppo gonfie per continuare e un breve intervallo di maltempo mi offrì una pausa. Con il ritorno del tempo sereno, compii la prima delle mie “scalate da compleanno” sulla parete nord del Grand Charmoz. Per un pelo non finì male, in alto sulla via “Heckmair – Kroner”, quando mi cedettero i piedi e una piccozza. Ma restai attaccato con l’altra e continuai a salire nel bel mezzo di una tormenta che era stata annunciata per il giorno successivo. A causa di scarsa visibilità e pessima cura dei dettagli, mi ritrovai a scendere dalla parete est, anziché ovest, sopravvivendo a diverse valanghe e a calate in doppia attrezzate su un solo chiodo per conservare l’attrezzatura. Ormai perso alla base della parete, l’intuito mi condusse alla Mer de Glace e giù fino al paese che sarebbe presto diventato casa mia. La potenza del massiccio del Bianco mi cambiò per sempre la vita; lì affinai la mia attitudine modificai la mia tecnica di scalata. La libertà di espressione e lo scarso senso del pericolo stapparono in me una fontana che crebbe in una tempesta: tutto ciò non sarebbe mai accaduto in America. Oltre a ciò, le relazioni che si crearono con François Marsigny, Alain Ghersen, Jean-Christophe Lafaille, Fred Vimal e Andy Parkin gettarono le fondamenta per future ascensioni. Quel che ho imparato da loro ha reso possibile quel che ho fatto dopo ed è potuto accadere solo sulle vie di ghiaccio nel massiccio del Monte Bianco.

L’arte del ghiaccio 183


Caso 2

Le temperature miti nei giorni precedenti e nel giorno stesso della scalata hanno allarmato il capocordata che ha resistito alle pressioni del suo secondo per tentare un’attraente sezione di ghiaccio sottostante la colonna visibile sulla destra della foto. I due hanno allora deciso di attaccare la cascata parallela alla linea originaria. Quarantacinque minuti dopo la colonna è crollata spontaneamente. Prima

198 L’arte del ghiaccio

Dopo


Analisi

B A D

C

Fattori ambientali

Fattori strutturali

Fattori umani

Temperature (C°)

 Rigelo debole nei giorni precedenti  A Struttura non ancorata alla roccia (infil-  Corretta analisi e decisione del capocordata  Temperature positive nel giorno della sca- trazioni di acqua) lata  B Struttura fratturata in alto nel punto di  Pressione del secondo ancoraggio al supporto  Ora avanzata  C Appoggio debole (buchi)  D Struttura non auto-sostentata

Andamento delle temperature

10 8 6 4 2 0 -2 -4 -6 -8 -10 -12 -14 -16 1

2

3

4

Temperature massime

5

6

7

8

Giorni

Temperature minime

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Giorni del crollo

L’arte del ghiaccio 199


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