a cura di Fabrizio Antonioli,
ROBY MANFRÈ SCUDERI
UN MARZIANO A PALERMO
2024 © VERSANTE SUD S.r.l.
Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano
Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati
1ª edizione dicembre 2024
www.versantesud.it
ISBN: 978 88 55471 527
a cura di
F. ANTONIOLI F. COLESANTI G. MAURICI
ROBY MANFRÈ SCUDERI
Un marziano a Palermo
INDICE
Introduzione 07
Io che non l’ho conosciuto di Riccardo Rubino 09
Alpinismo Siciliano di Giuseppe Maurici 13
Una storia per immagini di Gabriele Manfrè Scuderi 15
Noi, fratelli di Perla Manfrè Scuderi 33
Il primo incontro di Giuseppe Maurici 40
I primi tempi di Giuseppe Maurici 43
Sì, viaggiare... di Marco Bonamini 51
Roby Speleologo di Giuseppe Maurici 58
Il mondo sotterraneo di Rocco Favara 61
Un ragazzino speciale di Totò Sammataro 67
La maturità di Giuseppe Maurici 69
Lettera a Roby di Alessandro Bellavista 81
Le solitarie di Giuseppe Maurici 86
A Roby di Nicoletta Cassata 89
Fiori di primavera di Gianfranco Salatiello 93
Climbing, dancing di Mauro Bonazzi 97
F. Antonioli, F. Colesanti, G. Maurici ROBY MANFRÈ SCUDERI
La dedizione di Roby di Carmelo Ferlito 103
Il Pilastro a Vela sul Monte Cofano di Fabrizio Antonioli 109
Nove racconti di Gino Sturniolo 115
Ricordi di un giorno blu di Enrico Bernieri 123
La fame di Giuseppe Maurici 126
L’amicizia di Mara Abbate e Tonino Paladino 135
La fotografia di Giuseppe Maurici 142
Roby sul Civetta di Francesca Colesanti 147
I discepoli di Giuseppe Maurici 150
Fatica, fatica, fatica... di Isabella Anastasi 155
Un’eredità ingombrante di Luigi Cutietta 159
Scalare con Roby di Davide Ruvolo 163
Lo scisma di Giuseppe Maurici 166
The last goodbye di Giuseppe Maurici 170
Le tracce di Roby di Maurizio Oviglia 175
Le ombre di Roby di Eugenio Pinotti 179
Le sirene che cantano in Sicilia di Ivo Ferrari 183
Un nuovo incontro di Gino Sturniolo 186
Caro diario di Giuseppe Maurici 188
INTRO d U z IONE
d I FABRI z IO ANTONIOLI, FRANCESCA COLESANTI, GIUSEPPE MAURICI
Nel 2024 cade l’anniversario della scomparsa di Roby, avvenuta trent’anni fa mentre scalava da solo sul Monte Pellegrino, a Palermo.
Francesca, Giuseppe, Fabrizio siamo stati tutti e tre amici, compagni di cordata e di vita di Roby e abbiamo pensato di non disperdere i tanti ricordi di una persona che ha lasciato il segno nel mondo che ha attraversato e che molti ancora ricordano con un’emozione speciale: Roberto Manfrè Scuderi.
Abbiamo iniziato a tastare il terreno nel marzo di quest’anno e trovato subito l’adesione di una quindicina di persone, che hanno dato la propria disponibilità a contribuire a questo progetto collettivo con ricordi e riflessioni personali. Quindi abbiamo proposto l’idea a Versante Sud che ci ha subito risposto in modo affermativo. Il libro esce con 35 pezzi scritti da Perla (sua sorella) e da altri amici.
Gabriele, suo fratello, partecipa con una preziosa e inedita storia per immagini. A fine maggio abbiamo organizzato un incontro a Palermo con alcuni amici, compagni di cordata e giovani estimatori, al quale hanno partecipato: Rocco Favara, Riccardo Rubino, Marco Bonamini, Giuseppe Maurici, Davide Ruvolo, Fabrizio Antonioli, Perla Manfrè e Mauro Bonazzi. È stato un momento davvero molto emozionante, qualcuno fra noi non si vedeva da lustri.
Abbiamo quindi delineato la struttura di questo libro, volutamente disomogeneo, che non ha voluto imporre modalità di scrittura, né di stile, né tantomeno di contenuti, lasciando a ognuno la libertà di scrivere facendosi guidare dai propri sentimenti. Siamo felici di essere riusciti nel nostro intento e ringraziamo Roberto Capucciati, Marco Geri, Giovanni Bassanini e tutti gli amici che hanno partecipato scrivendo o inviando foto.
Tutte le foto di Roby da piccolo sono di Maria Teresa Cappellani.
RICCARDO RUBINO. Classe ’90, avvocato, giornalista, quasi-alpinista, di Marsala. Allievo del 67o corso di roccia della Scuola del CAI di Palermo. Devoto alla montagna, dove il fiato non può essere sprecato.
IO C h E NON L’ h O CONOSCIUTO
di RICCAR d O RUBINO
Una volta mi capitò di leggere questa frase di Kōbō Abe, drammaturgo giapponese, che dice:
Il bastone è stato il primo strumento creato dall’umanità per mettere una distanza tra sé e le cose minacciose, per proteggersi. Il secondo strumento creato dall’umanità è stata la corda. Una corda è usata per legare cose importanti e tenerle vicine.
Da allievo della Scuola Costantino Bonomo, neofita dell’arrampicata, sento fortissima l’emozione – una mareggiata dentro il cuore – quando mi imbatto in un chiodo arrugginito piantato dentro la fessura di una roccia. Su quel chiodo convergono una tale quantità di significati che elencarli tutti è impossibile, perché di fatto essi si moltiplicano man mano che stringi i muscoli per mantenere l’equilibrio.
Ma due, in particolare, mi sembrano i più importanti. Il primo significato – più immediato – è la generosità. Chi lascia un chiodo lo fa per assicurare sé stesso, ma anche per chi verrà dopo. È come il caffè sospeso a Napoli: un lascito non al singolo, ma all’umanità. Il secondo significato è la traccia. Significa che da lì c’è già passato qualcuno, quella strada è stata già percorsa.
Quando metti le mani su maniglioni su cui qualcuno s’è già appeso, allora è come se la tua mano si sovrapponesse a quella di chi è venuto prima di te: e allora presente e passato si uniscono. Il chiodo è come una corda spirituale, infissa per sempre sulla parete. Se la corda che collega il tuo ombelico a quello del tuo compagno costituisce il “presente”, il chiodo è la corda morale che ti collega al passato.
Su ogni corso di roccia organizzato dalla Scuola Costantino Bonomo di Palermo, a un certo punto, aleggia un nome. Prima viene appena sussurrato; poi, a mano a mano, viene evocato sempre con più forza. “Roby”.
Roby è Roberto Manfrè Scuderi, e sul suo Monte Pellegrino tutti gli alpinisti di Palermo incastrano le dita nelle fessure da lui scoperte.
La prima delle domande attiene sempre al suo momento più tragico: scaturisce dal timore con cui tutti, in un modo o nell’altro, ci troviamo a confrontarci a ogni rinviata più lunga del previsto. Quel che è successo sulla Via a Giulio è storia, e costituisce solo l’epilogo di una vita con lo sguardo sempre rivolto verso l’alto. Materia per la cronaca, circostanza da anniversario. A noi, però, interessa come è vissuto e, più di ogni altra cosa, ciò che ha lasciato.
È un errore ritenere che Roby Manfrè Scuderi sia patrimonio dei soli arrampicatori palermitani. Io, marsalese di mare, spinto per destino geografico contro la linea orizzontale del Mediterraneo, a un certo punto della mia vita ho sentito il bisogno di vedere che cosa ci fosse su quelle cime che passavano veloci sullo sfondo di un’autostrada. Un collegamento ad Internet, una ricerca veloce e i misteri dell’algoritmo portano a un articolo caricato sul GognaBlog, “Sutta U Picu Ru Suli”. L’autore è questo misterioso Roby Manfrè, che – con prosa sapida – abbina relazioni asettiche a racconti esilaranti. Da lì scopro cosa significhi salire sul Pizzo di Mirabella dalla Cresta Ovest, e che il Cofano ha più vie dell’agro che circonda la nostra parte di provincia, piatta come un tavoliere. Chi sarà mai questo Roberto Manfrè? A questa domanda, la risposta viene fornita dalla stringa di ricerca di Google, che rinvia a un altro articolo, intitolato “Vent’anni fa, Roby. E trenta”. Lo scrive Fabrizio Antonioli, da lì capisco che si tratta di un qualcuno che non c’è più. Leggo, approfondisco, mi imbatto nelle storie di Costantino Bonomo, di Maurizio Lo Dico, di Fabrice Calabrese: tutti nomi che lì per lì non mi dicono niente, ma che legandomi in cordata con chi li ha conosciuti mi rendo conto essere più vivi che mai.
Termino il 67° corso di arrampicata organizzato dal CAI di Palermo nel 2023, grazie al quale imparo che dietro a una difficoltà si cela sempre un’opportunità: laddove una fessura deturpa l’omogeneità del calcare, lì la roccia ti offre l’alloggio per un friend.
F. Antonioli, F. Colesanti, G. Maurici
ROBY MANFRÈ SCUDERI
C’è una dimensione quasi sapienziale nell’arrampicata, costituita da un patrimonio di conoscenza e di esperienza che non si esaurisce nelle didascalie dei manuali, ma è oggetto di una tradizione (quasi in senso giuridico) che travasa dal più esperto all’allievo. Per questo motivo faccio di tutto per legare il mio “otto ripassato” ai “senatori” della Costantino Bonomo, così da imparare quel trucco, quella manovra, per suggere esperienza: saranno Marco Bonamini e Fabrizio Antonioli a raccontarmi di Roby e delle sue capacità fuori dal comune. Se ne parla, di questo Roby, ma con un fare a volte di difficile decifrabilità: le informazioni vengono rese in maniera poco sistematica, quasi reticente. Capisco dalle poche parole di Marco Bonamini, dalla malinconia di Fabrizio Antonioli, dai ricordi di Gino Sturniolo e dalla dedica che Giuseppe Maurici appone alla famosissima “Guida Grigia” che Roby è una ferita ancora aperta, che si ostina a non rimarginarsi. Almeno per coloro che lo hanno conosciuto. È un atteggiamento che disorienta, ma che aiuta a capire una cosa fondamentale: Roby Manfrè Scuderi non si può conoscere solo a parole. Roby Manfrè Scuderi va rivissuto stringendo le mani sullo stesso calcare che ha toccato, spremendo gli alluci sulla roccia che si è lasciata vincere da lui, assicurandosi ai chiodi che ha battuto e agli spit che ha piantato.
Roby Manfrè Scuderi, per un trentenne che emetteva appena i primi vagiti nel 1994, è più vivo che mai. Continua ad esserci, nonostante siano passati decenni dalla sua scomparsa. E ve ne potete accorgere voi stessi come non manchi giorno che il suo nome venga pronunciato, quando qualcuno chiede chi ha aperto questo o quel monotiro.
No. Roby Manfrè non è solo dei palermitani. È anche nostro, che sulle sue vie, ogni domenica, tentiamo – senza mai riuscirci – di emularne l’eleganza dei movimenti. E lì con noi ogni volta che filiamo la corda ed esegue anche il nostro otto ripassato, benché il filo che si annoda sia quello dei ricordi. Roby Manfrè Scuderi è anche la nostra magnesite, il suono di ogni scatto del moschettone.
Sì: lo conosciamo anche noi, che non abbiamo sentito la sua voce.
GIUSEPPE MAURICI. Dal 1981 Istruttore di Alpinismo, cofondatore della Scuola di Alpinismo C. Bonomo del CAI di Palermo, ha aperto oltre 50 vie nuove sulle pareti siciliane, la maggior parte con Roby, con cui ha condiviso molte stagioni di bellezza e spensieratezza. Spera di andare in pensione, per dedicarsi liberamente alle sue passioni.
ALPINISMO SICILIANO
di GIUSEPPE MAURICI
Scrivere un libro su Roby Manfrè non può prescindere dal raccontare, almeno parzialmente, la storia alpinistica della Sicilia e delle sue scalate. Non intendo quelle moderne, compiute da astri internazionali come Tommy Caldwell a San Vito o da Maurizio Oviglia, ma di quelle piccole salite, minori e dimenticate dal tempo, che sono state realizzate quasi negli stessi anni in cui in Italia si scrivevano le pagine dell’arrampicata moderna, del Nuovo Mattino piemontese e dei Sassisti in Val Masino.
In quello stesso periodo, isolata dal mondo (se si escludono le riviste ufficiali che si potevano leggere alla sezione del CAI), cresceva, dapprima a Palermo e poi in tutta la Sicilia, una generazione di scalatori ed esploratori che hanno aperto le porte alla modernità: sia scoprendo o riscoprendo storie ancora più antiche, di personaggi come Fosco Maraini e Gino Soldà, ma anche di loro compagni siciliani che scalavano negli anni ’50; sia aprendo vie nuove e sconosciute, spesso di difficoltà elevata, soprattutto per gli standard del tempo.
Negli anni ’70, senza aver avuto alcun contatto con questi predecessori, a Palermo si forma quasi casualmente una generazione di giovanissimi scalatori che reinventa l’arrampicata in Sicilia, cercando le tracce del passato e, soprattutto, confrontandosi per la prima volta con il mondo esterno.
Un gruppo di scalatori che scopre, sorprendentemente, di non essere così arretrato come temeva e di potersi misurare senza troppe difficoltà con l’alpinismo vero e proprio.
Questa generazione trova il suo principale interprete in Roberto Manfrè Scuderi, per tutti e per sempre “Roby”, il quale comincia a scalare intorno ai dodici anni, con lo zio Costantino e altri arrampicatori dell’epoca, ma presto si affranca dalla loro ombra per intraprendere un proprio cammino, insieme ad altri ragazzi suoi coetanei. Chi scrive ha avuto il privilegio di percorrere buona parte di questo cammino legato alla sua corda, dapprima alla pari, dopo rinunciando a qualsiasi velleità di confronto.
Il legame che si crea nel periodo iniziale, quello della formazione negli anni ’70 e delle prime esplorazioni negli anni ’80, non si spezzerà mai e l’amicizia che si era costruita non verrà mai meno, unendoci come fratelli. Fino all’ultimo Roby non smetterà mai di frequentare casa mia, passando a scuppuluni, come si dice qui da noi, per farsi una doccia dopo aver arrampicato e prendere una tazza di tè insieme. Un privilegio condiviso con altri membri della stessa famiglia come Marco Bonamini, che resterà un riferimento per tutti noi.
Roby ha aperto in Sicilia oltre 300 vie nuove, dai monotiri, alle grandi salite su pareti che nulla hanno da invidiare alle Dolomiti. Alcune di queste vie hanno dovuto attendere anni prima che qualcuno osasse ripeterle, mantenendo inalterate le difficoltà da lui superate e l’aura di mistero che le ha ammantate per decenni.
Oggi, a trent’anni esatti dalla sua scomparsa, è bello che tanti amici, alcuni come me di lunga data e che hanno percorso insieme moltissima strada, altri che hanno avuto il privilegio di averlo come maestro nei pochi anni che hanno condiviso con lui, comunque tutti protagonisti di quel periodo e compagni delle sue avventure, raccolgano frammenti di vita per cucire insieme il ritratto di un palermitano, un siciliano che, superando i propri limiti, ha saputo proiettarsi avanti nel tempo e, contemporaneamente, raccontare piccole storie di vita vissuta, a volte pericolosamente.
F. Antonioli, F. Colesanti, G. Maurici
ROBY MANFRÈ SCUDERI
UNA STORIA PER IMMAGINI
di GABRIELE MANFRÈ SCU d ERI
Che figli potevano nascere da una simile coppia? – mi sono chiesto a un certo punto mentre, con alcuni vecchi album poggiati sulle ginocchia e altre foto sparse in modo disordinato sul tavolo, ripercorrevo a volo d’uccello la storia della mia famiglia. Mi era stato chiesto di scrivere qualcosa per questo libro e ho subito pensato che le immagini mi avrebbero dato l’ispirazione giusta.
Ho cominciato a frugare e a lasciarmi trasportare da un mare di ricordi, fatti, come per tutti, di gioie e dolori. A poco a poco le immagini mi hanno sganciato dall’incombenza di scrivere, ho capito che bastavano da sole.
Ho capito che non avrei mai avuto la possibilità di trasporre in un testo le emozioni e i mille dettagli che il linguaggio visuale riesce invece a trasmettere e ho deciso così che la cosa migliore sarebbe stata far parlare le fotografie stesse, lasciando a loro il ruolo di protagoniste. Le semplici didascalie che le accompagnano sono il mio omaggio a Roby e a nonno Dante, senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile.
Non c’è dubbio che la passione per la montagna e l’arrampicata di Roby sia stata un’eredità familiare: i nonni materni erano dei montanari, per il nonno Dante Cappellani la passione per le montagne siciliane e quella per la fotografia andavano di pari passo. Una strana coincidenza volle che persino il negozio di fotografia e l’abitazione della famiglia Cappellani si trovassero nello stesso edificio del CAI, il quale purtroppo fu distrutto da un bombardamento anglo-americano durante la Seconda Guerra Mondiale.
Maria Teresa, nostra madre, raccontava di quando lavorò alla realizzazione di una mostra fotografica di nonno Dante, e di come con i guadagni di quel lavoro poté comperarsi il suo primo paio di sci. Raccontava anche che le sue prime lezioni di sci le furono impartite dallo scrittore, viaggiatore e antropologo Fosco Maraini che all'epoca frequentava le attività del CAI di Palermo.
Poi arrivò il Dopoguerra e, per due giovani che non avevano quasi nulla, andare in montagna diventò una sorta di rinascita, nella speranza di un futuro di pace, libertà e gioia di vivere. Così accadde che Antonio Manfrè Scuderi e Maria Teresa Cappellani si conobbero durante un’avventurosa gita a Piano Battaglia.
A sinistra, 1982. Roby in apertura della Superplacca (Monte Pellegrino).
Foto: Arch. Manfrè
A destra, 1981. Roby in apertura sul Monte Gallo.
Foto: Giuseppe Maurici
Nella pagina a fianco, 1982.
Roby slegato sul primo tiro della Canna Filicudi.
Foto: Giuseppe Maurici
A fianco, fotografia aerea della Canna Filicudi – alta 80 metri –sulla quale nella pagina a fronte vediamo Roby arrampicare.
Molte cose sono state fatte in seguito: piantare un albero nel punto dove fu rinvenuto il suo corpo, coinvolgere i conoscenti per lasciare traccia di memorie condivise e altre che si sono andate affievolendo con il passare del tempo.
Pochi mesi prima della morte di Roby, anche Maurizio Lo Dico, sottoposto a un intervento di trapianto di reni danneggiati fin dalla nascita, venne a mancare.
Il pensiero fu che, con Roby, potessero essere insieme ad arrampicare sulle pareti del paradiso.
ROBY SPELEOLOGO
di GIUSEPPE MAURICI
Per un breve periodo sia Roby che io fummo istruttori ai corsi di speleologia e realizzammo, insieme ad altri amici, ricerche ed esplorazioni di grotte sconosciute. In quel periodo le contaminazioni tra i gruppi di scalatori e speleologi erano frequenti e così era facile dedicarsi a entrambe le attività. Molti speleologi avevano esperienza di arrampicata, magari con stile non molto ortodosso, ma sicuramente capaci.
La speleologia muoveva allora i primi passi con le moderne tecniche di sola corda e molte esplorazioni erano fatte con tecnica mista, con le scalette in alluminio e la sicura dall’alto, mentre si cominciavano a usare le prime maniglie e a comprendere la tecnica dei frazionamenti. I sacchi erano ovviamente pesantissimi e si cominciava a usare il PVC per le tute, garantendo asciutto perfetto fuori e bagnato dentro, grazie a tessuti non traspiranti. In quel periodo si era in piena esplorazione dell’Abisso del Vento, nelle Madonie che, con i suoi –210 metri, era la grotta più profonda della Sicilia.
Nel corso di un’esplorazione con bivacco all’interno dell’Abisso della Pietra Selvaggia a Monte Pellegrino eravamo: io, Roby, Paolo Madonia e Gabriele Salatiello, e la colonna sonora era costituita da The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd; al mattino fummo svegliati dalle imprecazioni di un nostro
F. Antonioli, F. Colesanti, G. Maurici ROBY MANFRÈ SCUDERI
compagno che ci stava raggiungendo, scendendo lungo le corde lasciate il giorno prima.
Un’altra esplorazione di quel periodo, cui presi parte anche io, fu quella del sistema di Monte Conca. Partimmo il sabato pomeriggio con il pulmino VW del CAI e bivaccammo fuori dall’inghiottitoio che individuava l’ingresso della grotta. L’indomani fummo letteralmente inghiottiti dal fango che costituiva il pavimento delle gallerie, con stivali che restavano attaccati a quest’argilla densa. Qualcuno rischiò di restare intrappolato e dovette essere tirato fuori a forza, con la corda.
Come in (quasi) tutto quello che faceva, anche nella speleologia Roby diede il meglio di sé, nel periodo in cui vi si dedicò. Rocco Favara, geologo e padre del Soccorso Alpino a Palermo ebbe un rapporto molto stretto con lui in quel periodo e quel legame è proseguito anche nei tempi a seguire; Rocco è stato una figura di riferimento per tutti noi, al di là del fatto che si fosse speleologi o rocciatori.
Ovviamente avevo con me macchina fotografica, treppiedi e teleobiettivo e così lo immortalai, lui e la sua metodica progressione in auto-sicura, mentre era impegnato sugli ultimi tiri.
Quando sembrò che mancasse ormai poco all’uscita, salii verso la parte alta di Monte Pellegrino per arrivare sulla sua verticale; potevo sentirlo ma non vederlo, la parete strapiombava fino alla fine e così, per scattare le ultime foto con il sole che ormai stava tramontando, mi spostai per oltre 200 metri sul bordo della parete, prima di riuscire a vederlo, un punto giallo a non più di 30
metri dalla fine, sotto un diedro strapiombante.
Tornai alla macchina per andare a comprare dell’acqua, pensando che avrebbe gradito sicuramente, e poi aspettai che arrivasse. Dopo circa mezz’ora, stanco di aspettare, preoccupato e ormai al buio, decisi di andargli incontro anche se non avevo con me una frontale, ma non lo trovai. Nel frattempo lui, una volta uscito dalla via, aveva preso un altro ramo della stessa pista su cui mi trovavo, ma in direzione opposta, così quando tornai alla macchina, piuttosto preoccupato, lo trovai che mi aspettava, stanco e immagino scocciato perché non lo avevo aiutato con lo zaino.
Ancora oggi “conoscere” una via di Roby suscita enfasi al solo pensiero, gioia se non commozione quando la si affronta. La meraviglia rimane, il mito persiste. Una volta, dopo un’arrampicata a Capo Zafferano con lui, Chiara e Isabella, siamo andati a fare il bagno a mare restando poi a guardare il tramonto con le gambe penzoloni sul muretto. Era per questo che scalavamo, per essere felici.
— LUIGI CUTIETTA