LA MONTAGNA DEI FOLLETTI

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Titolo originale: Troll Wall Pubblicato da Vertebrate Publishing, Sheffield, 2011 www.v-publishing.co.uk Copyright © Tony Howard, 2011 www.nomadstravel.co.uk Copyright presentazione © Doug Scott, 2011 Disegni © Tony Howard, 2011 2012 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Luglio 2012 www.versantesud.it ISBN 978-88-96634-48-6


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R A M P I C A N T I

Tony Howard

LA MONTAGNA DEI FOLLETTI La storia della prima salita della parete più alta d’Europa Traduzione di Lorenzo Frusteri

EDIZIONI VERSANTE SUD


Tony Howard è cresciuto nella Chew Valley, all’estremità Nord del Peak District. Ha iniziato ad arrampicare nel 1953, facendosi conoscere per l’apertura di nuove vie e per il contributo alla pubblicazione di guide d’arrampicata delle falesie locali. All’inizio degli anni 60 ha lavorato come istruttore, qualificandosi come Guida del BMC (British Mountaineering Council) nel 1965, l’anno in cui lui e i suoi amici realizzarono la famosa prima salita del Troll Wall. È stato uno dei soci fondatori della Troll Climbing Equipment, producendo e commercializzando il primo set al mondo di dadi, le prime imbragature moderne e le prime fettucce cucite. Ha fatto la guida e arrampicato in tutto il mondo, scoprendo nuove aree e aprendo moltissime nuove vie.


Ai Troll, per averci lasciato vincere. E al resto della squadra, Bill, John, Nick, Rob, Jeff e Maggie, inoltre Smiler per la sua piacevole compagnia durante la ricognizione invernale; al nostro patrocinatore, Jack Longland, Presidente del British Mountaineering Council, e Alan Baker, “il nostro uomo a Londra”, per i contatti con gli sponsor; ai nostri numerosi sponsor, per averlo reso possibile.

Mi sono trovato così spesso alla mala parata Di fronte alla potenza di Trolldom Dio aiuti l’uomo il cui piede scivoli In tale ora fatale. Arne Garborg



Presentazione È piuttosto tipico sia di Tony Howard, sia dell’epoca in cui realizzò le sue vie più prestigiose, il fatto che nel 1965 abbia scritto un esauriente e, a quanto si vede, affascinante resoconto della sua epica prima salita del Troll Wall, e sia poi immediatamente fuggito in campagna per evitare le luci della ribalta, dimenticandosi di tutto quanto per quasi mezzo secolo! È meraviglioso che adesso finalmente noi possiamo leggere delle gesta e delle emozioni dei personaggi coinvolti in questa avvincente saga norvegese. Era tempo che avessimo maggiori informazioni su questo alpinista, che così tanto ha contribuito all’arrampicata sia in Gran Bretagna che all’estero. Quello che segue è un ottimo, onesto racconto privo di esagerazioni o falsa modestia. Una volta iniziata, ho trovato questa storia una lettura impellente, impossibile da interrompere, non solo per coloro che sono interessati all’arrampicata su grandi pareti, ma anche per chiunque tragga piacere dal leggere di epici viaggi nell’ignoto. La salita del Troll Wall da parte dei membri del Rimmon Mountaineering Club è stata significativa sotto molti aspetti. Come prima cosa ha portato alla luce una nuova, vasta area di grandi pareti alla pari con le Dolomiti e Yosemite, e tuttavia dotate di un carattere del tutto diverso e peculiare, reso tale dai freddi, umidi venti che soffiano dal Mare del Nord. Secondariamente, la via in sé ha marcato un significativo passo in avanti, in virtù delle difficoltà incontrate e del totale impegno richiesto per superarle. Dei sette membri del Rimmon Club partecipanti alla spedizione sul Troll Wall, Rob Holt, Jeff Heath e Margaret Woodcock erano presenti con funzione di appoggio ai più esperti John Amatt, Tony Howard, Tony Nicholls e Bill Tweedale, che avevano pianificato di percorrere la linea più evidente, dritta attraverso la parte centrale della parete, senza

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nessuna possibilità di ritirata, se non verso l’alto o lungo la via di salita. Questa era la linea precedentemente studiata da Tony nella ricognizione, e aveva catturato l’attenzione dei membri del gruppo, diventandone l’ossessione. Il loro entusiasmo non faceva che crescere, mentre, ormai di ritorno in Gran Bretagna, lavoravano sodo per guadagnare i soldi necessari a finanziare la spedizione. La scena arrampicatoria del Nord dell’Inghilterra era cambiata in modo apprezzabile dopo la guerra. Arrampicare all’estero non era più una prerogativa esclusiva del Club Alpino o dei tipi di Oxbridge. Durante gli anni 60 e 70 molte spedizioni promosse da club locali avevano toccato località remote, gli Oread of Derby andarono sulla penisola Lyngen nella Norvegia artica e sul Kulu, nell’Himalaya indiano. Il Nottingham Climbing Club andò nelle montagne Tibesti in Ciad e nell’Hindu Kush in Afghanistan, e via dicendo. Adesso, chiunque avesse un po’ d’iniziativa avrebbe potuto approfittare della maggiore diffusione e comodità dei mezzi di trasporto, che inoltre erano divenuti anche molto più economici. Non era più una rarità, per un giovane arrampicatore, lavorare otto mesi e poi trascorrere il resto dell’anno a scalare, magari recandosi nelle Alpi in autostop, sfruttando la diminuzione delle tasse e facendo lavori occasionali soprattutto in cantieri edili, o come per i membri del Rimmon, imbarcandosi sulle rotte del Mare del Nord. Ironia della sorte, dopo aver trascorso millenni e millenni nell’ombra, una volta emerso dalle profondità dell’ultima era glaciale, il Troll Wall vide l’arrivo di due diverse spedizioni esattamente nella stessa settimana: una spedizione norvegese e una dal Nord dell’Inghilterra. I mezzi d’informazione si buttarono sulla notizia e crearono l’idea di una “gara” a chi avrebbe raggiunto la cima per primo. Ciò che preoccupò Tony e la sua squadra tuttavia, quando vennero a sapere di questa presunta gara, non fu il fatto che potessero venire “sconfitti” giungendo in vetta per secondi,

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ma che la spedizione norvegese potesse attaccare per prima la “loro” via, di fatto sottraendogliela. In questo caso non sarebbero più potuti essere i primi a percorrere una linea sconosciuta, mai toccata da nessuno, perdendo il brivido insito nella scoperta - le fessure nascoste, le soste e le cenge da bivacco - e svelando i misteri celati da questa parte della montagna. Tutto ciò può essere provato solo una volta: in seguito tutto è noto, e sparisce quella curiosità compulsiva che mantiene unita ed in corsa una squadra sorpresa da orribili tempeste, in alto su di una parete espostissima e con grandi difficoltà tecniche. Un altro “ragazzo” del Lancashire, Don Whillans, riconobbe che “c’è sempre stata competizione nell’arrampicata, ma per la via, non per essere migliori di qualcun altro”. Ciò fu dimostrato successivamente, quando entrambe le spedizioni riuscirono a portare a compimento due vie parallele e indipendenti, dimostrandosi reciproca ammirazione; sebbene i norvegesi avessero completato la loro via per primi, ricevettero le sincere congratulazioni di Tony, John e Bill, e del resto della spedizione del Rimmon: a questi ultimi non importava che fossero stati i norvegesi i primi a uscire sulla vetta, anzi, in realtà, per quanto li riguardava, ciò era del tutto logico e naturale, visto che in fondo il Troll Wall era la “loro” montagna. Con il passare del tempo, la “Via Inglese” fu riconosciuta come una classica, divenendo sempre più popolare. La “Via Norvegese” non fu ripetuta fino al 1997 e da allora ha avuto non più di due o tre altre ripetizioni. I Troll hanno riso per ultimi in ogni caso, quando tutta la parte centrale della “Via Inglese” si è staccata nel corso di un’enorme frana. La via non è più stata percorsa da allora. Accettando la sfida posta dal Troll Wall, i ragazzi del Rimmon fecero un enorme passo verso l’ignoto: questa impresa era al di là di qualunque altra via avessero mai provato prima. Di conseguenza, l’esito rimase incerto fino alla fine, il che rappresenta una garanzia per ogni avventura che si rispetti. Un arrampicatore moderno farà fatica ad

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immaginarsi cosa potesse significare, negli anni 60, trovarsi su una parete di 1200 metri, con enormi sezioni strapiombanti, spazzati dalla pioggia e dal nevischio; arrampicare senza imbragatura, senza indumenti impermeabili e attrezzatura da bivacco, senza le attuali “portaledge”, senza i mezzi per fare sicura e calarsi, senza carrucole e senza tutte le moderne protezioni che ora noi diamo per scontate. Inoltre avevano rinunciato alle radiotrasmittenti per non “defraudare la via della pura essenza di trovarsi lassù, soli e completamente in ballo”, affidandosi pertanto al buon senso personale circa le condizioni meteo, la lettura della via e il reciproco benessere psicofisico. Dobbiamo affermare che non si trattò di una salita in stile alpino: avevano un po’ ridotto le possibilità di fallimento ricorrendo all’uso delle corde fisse di polipropilene nelle placche della parte bassa. In ogni caso la squadra dovette battere in ritirata quando il loro equipaggiamento si dimostrò inadeguato durante una prolungata tempesta, scegliendo di lasciare il materiale e le provviste al punto più alto raggiunto, in vista di un successivo tentativo. Avevano inoltre con sé alcuni tasselli a espansione, ma non li usarono mai. Tony Nicholls, nel corso del primo tentativo, aveva salito alcuni dei tiri più impegnativi, occupandosi anche di issare gli enormi sacchi del materiale senza una carrucola; esausto e con le mani in pessime condizioni, decise che sarebbe stato solo d’impaccio ai propri compagni, scegliendo di non partecipare al tentativo definitivo per rimanere invece con la squadra di supporto al campo base. Gli altri tre si sarebbero dovuti adeguare alla nuova, ridotta squadra, ma anche alla tristezza causata dal lasciare un bravo compagno a terra. Al giorno d’oggi non si apprezza abbastanza la differenza che esiste tra mettere un chiodo e mettere un tassello. Arrampicare in apertura su di una parete strapiombante, anche con 280 chiodi e cunei al seguito, non garantisce certo il risultato; se invece l’arrampicatore accetta l’uso dei tasselli, allora con una buona dose di perseveranza certamente si

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può proseguire: usare i tasselli, quindi, veramente “uccide l’impossibile”. D’altro lato, posizionare un chiodo dipende dalla configurazione delle fessure; il progresso è dettato dalla geografia della montagna, e le possibilità, per l’arrampicatore, si riducono a quelle offerte dalla roccia. La descrizione di come Tony viene a capo dell’ultima sezione del Great Wall dimostra chiaramente che l’uso dei chiodi non elimina rischi e incertezze: solo spingendo al limite la sua forza, il suo bagaglio tecnico, la sua immaginazione e il suo coraggio, gli è stato possibile salire quella parte di via, anche ricorrendo ai chiodi. Certamente un moderno arrampicatore armato di trapano elettrico non avrebbe lottato così duramente; tuttavia, così facendo, avrebbe privato la via della sua essenza e sminuito la grandezza dell’impresa. Quella parte della via richiese una grande determinazione da parte di tutti i membri della squadra, costretti ad affrontare la notte appesi alle soste e alle fettucce. Tre giorni dopo però, raggiunsero la cima del Trollveggen completando la loro odissea, la quale aprì nuove possibilità per tutti i ragazzi del Rimmon e per tutti gli arrampicatori in generale, soprattutto in Gran Bretagna. La salita del Troll Wall dimostrò cosa potesse nascere dalle solide fondamenta dell’arrampicata britannica sia su ghiaccio che su roccia; i piccoli club locali si lanciarono in spedizioni nelle remote montagne dell’Alaska, Patagonia, Baffin e Himalaya, e nel giro di dieci anni nuove vie molto più dure, lunghe, strapiombanti, e a quote superiori, vennero aperte sia in Karakourum che in Himalaya. Giunti a quel punto, gli arrampicatori potevano avvalersi di tutte le innovazioni tecniche “pesanti”, come le protezioni che provenivano dagli Stati Uniti, e di quelle “leggere”, come le imbragature che erano prodotte dalla Troll Climbing Equipment Company, la compagnia fondata da Tony e da altri due membri del Rimmon Club, Paul Seddon e Alan Waterhouse. Infine, forse il fattore più importante, fu il rapido diffondersi delle informazioni, che permise agli

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arrampicatori di conoscere sempre meglio e più rapidamente ciò che di nuovo veniva realizzato in tutto il mondo. Nel 1967 John Amatt e Rusty Baillie, armati di skyhooks, rurps, e di un intero set di chiodi americani in acciaio inossidabile, salirono i 1650 metri della parete Nord del Semletind, in stile alpino. John successivamente divenne un oratore e motivatore di grande successo; emigrò poi in Canada dove fondò il Banff Mountain Film Festival. Anche Tony, insieme ad altri appartenenti al Rimmon Club, continuò a dare il suo contributo, sotto forma di molte nuove vie e della prima guida di arrampicata e trekking per Romsdal. Con Bill Tweedale, nel 1967 realizzò la prima salita del pilastro Est del Breitind, alto 2000 metri, e dell’altrettanto alto pilastro del Semletind con Rob Holt e Wayne Gartside. Tony, Bill, Rob e Wayne salirono inoltre il versante Sud-Est del Kongen, alto 1800 metri. Lavorando in qualità di designer alla Troll, Tony sviluppò la prima imbragatura moderna, e successivamente il modello “Whillans”, dotato di cosciali. La versione leggera di quest’ultimo, è, secondo molti, ancora la migliore imbragatura da montagna in circolazione. Naturalmente, la gestione quotidiana dell’azienda era spesso e in gran parte lasciata nelle mani dei collaboratori di Tony, considerando quanto fosse forte per lui il richiamo delle montagne. Con il passare degli anni, Tony e la sua compagna Di Taylor scoprirono incessantemente nuove aree di arrampicata e trekking in Marocco, Egitto, Etiopia, Sudan, Madagascar, Nagaland, Oman e in particolar modo il Wadi Rum in Giordania. Grazie alle esplorazioni di Tony e dei suoi amici, e alle guide da essi pubblicate, il Wadi Rum è divenuto una delle più popolari destinazioni mondiali di arrampicata nel deserto. Howard, soprannominato dai suoi amici “Tony d’Arabia”, dette prova di valere quel titolo pubblicando una guida di trekking delle alture della Palestina; non sarebbe certo stato un best seller, ma rappresentava un coraggioso sforzo, in considerazione dei gravi problemi che avevano

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afflitto e ancora affliggevano la regione. In ogni luogo in cui Tony abbia arrampicato ha sempre dimostrato enorme rispetto per l’ambiente circostante e le popolazioni del luogo, esattamente come in Norvegia molti anni fa.

Doug Scott Cumbria, gennaio 2011

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Prefazione Nel maggio 2010 mi fu chiesto da Dave Durkan, che in quel momento stava raccogliendo informazioni sulla storia dell’arrampicata in Norvegia per conto del Club Alpino Norvegese, se per caso avessi degli articoli inediti a proposito del Troll Wall e delle altre mie esperienze in quei luoghi durante gli anni 60. Scartabellando tra il vecchio materiale, la mia compagna, Di Taylor, trovò la bozza di questo libro, scritta a macchina su carta protocollo e ormai sbiadita. Buttata giù immediatamente dopo la salita della via, l’avevo messa in disparte per lasciare spazio ad altri progetti; fui completamente assorbito da un tour di conferenze, scrissi una guida d’arrampicata e iniziai a costituire la Troll Climbing Equipment, per commercializzare le nuove attrezzature che avevamo sviluppato e creato per la nostra impresa. In seguito fui invitato a far parte dell’equipaggio di uno yacht che avrebbe navigato da Maiorca all’Inghilterra, e poco dopo mi unii ad alcuni amici del mio club di arrampicata in un viaggio in Islanda. Dopo avere trascorso due durissimi mesi invernali sui pescherecci islandesi, io e un altro ci procurammo un passaggio fino in Norvegia a bordo di un piccolo mercantile danese, che naturalmente rischiò di affondare quando il timone si ruppe nel bel mezzo di una tempesta “forza 11” appena al largo delle costiere norvegesi; ciononostante riuscimmo ad arrivare a Romsdal in tempo per le festività del Nuovo Anno, e ci trattenemmo lì fino all’autunno successivo, aprendo nuove vie e vivendo principalmente grazie al denaro guadagnato sui mercantili, arrotondato durante l’estate con il mestiere di guida. A quel punto erano già trascorsi due anni dalla prima stesura di questo libro, io ero attirato da nuove avventure e la polvere lo stava già ricoprendo, dimenticato su uno scaffale. Quarantacinque anni dopo – la metà di un’intera vita – grazie a Dave, ho riscoperto quel manoscritto, scritto dal

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giovane me stesso: mi è sembrato avere la freschezza e l’entusiasmo di un’avventura giovanile e spero che sia così anche per voi. Per mettere la nostra storia sotto la giusta prospettiva, cosa necessaria dopo quasi mezzo secolo, ho aggiunto l’introduzione e ampliato la parte iniziale, per includervi poi alcune delle mie più rilevanti avventure nell’Artico e nell’Antartico; infine ho aggiunto una postfazione. Per il resto, è esattamente così come lo scrissi, molti, molti anni fa.

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Introduzione “Accadono cose strane sotto il sole di mezzanotte…” disse una volta Robert Service, il celebre poeta del Klondike. Una di queste strane cose accadde senza dubbio proprio nel 1965, quando un gruppetto di ragazzi inglesi del tutto sconosciuti portò a termine la prima salita del Troll Wall in Norvegia, la patria europea del sole di mezzanotte. È utile ricordare che all’epoca il Troll Wall era chiamato “Il Miglio Verticale” ed era la parete inviolata più alta d’Europa. Era anche considerato impossibile da scalare. La nostra salita ebbe luogo in un’era completamente diversa da quella odierna, per quanto riguarda l’arrampicata: l’equipaggiamento nei primi anni 60 stava solo cominciando ad evolversi rispetto a quello usato dai pionieri dell’epoca vittoriana; è vero che in seguito alla spedizione britannica sull’Everest del 1953 (l’anno in cui iniziai ad arrampicare) le pesanti corde di canapa erano state sostituite da corde in nylon più resistenti e leggere; è vero anche che gli scarponi con la suola chiodata erano rapidamente scomparsi già intorno alla metà degli anni 50, sostituiti da quelli con la suola in gomma Vibram; è infine vero che nuove, leggere scarpette da arrampicata stavano finalmente affacciandosi sul mercato; ma l’arrampicata – soprattutto da primi – rappresentava ancora un impegno molto serio e audace, con ben poco in favore dell’arrampicatore in termini di protezione. Non esistevano freni per fare sicura: dovevi tenere la corda a mani nude dopo essertela passata intorno ai fianchi; non esistevano nemmeno discensori per calarsi: ti passavi la corda intorno al corpo e scivolavi giù lungo di essa, il che rappresentava una pratica molto scomoda e altrettanto pericolosa. Non esistevano le comode portaledge dei giorni nostri, sulle quali passare la notte in parete, e naturalmente la grande varietà di chiodi in acciaio temprato inventata e sviluppata in America non era ancora giunta nel Regno Unito. Gli unici chiodi che avessimo a disposizione erano

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quelli in acciaio tenero che si piegavano o si spaccavano se incontravano un ostacolo quando venivano martellati nelle fessure. Oltre a questo, le maniglie jumar per risalire le corde erano introvabili in Gran Bretagna, e noi avevamo l’equivalente europeo, le Heibeler Prusik, che erano molto difficili da utilizzare e godevano della piacevole reputazione di saltare fuori dalle corde durante l’uso. Noi le portammo solo per le emergenze. La cosa che forse sorprenderà maggiormente, è che non esistevano le imbragature; la corda veniva semplicemente legata intorno alla vita. In alternativa si usava una specie di cintura, sempre fatta di canapa, alla quale si univa la corda tramite un moschettone a ghiera fatto, come la maggior parte dei moschettoni di quell’epoca, non certo di una lega di alluminio bensì di acciaio pesante e dotato di una chiusura con un dente tanto pronunciato da staccarti un pollice in caso di uso maldestro. Un intero set di moschettoni era tanto una necessità quanto un handicap da trasportare, ma fortunatamente i primi materiali di alluminio stavano già arrivando sul mercato. I chiodi rappresentavano inoltre un problema etico: sebbene li avessimo a disposizione, in Gran Bretagna il loro uso non era accettato come invece avveniva da lungo tempo nelle Dolomiti e nelle Alpi; dalle nostre parti infatti non ci furono vie di artificiale fino agli anni 60, periodo in cui gli arrampicatori iniziarono ad affinare le tecniche di arrampicata in artificiale sugli enormi strapiombi di calcare del Derbyshire e degli Yorkshire Dales. Quelle pareti in quel periodo erano naturalmente al di là di ogni possibilità di arrampicata libera, e quindi si tollerava l’uso di chiodi su di esse, ma in ogni altro luogo chiodare rappresentava ancora un tabù e vi si ricorreva raramente. Quando iniziai ad arrampicare, all’inizio degli anni 50, l’unico mezzo per proteggere il primo di cordata era rappresentato da anelli di corda, i cui grossi nodi venivano incastrati nelle spaccature; un’altra possibilità era passarli intorno agli spuntoni di roccia o ai sassi incastrati nelle fessure; in alcuni casi il primo di cordata si portava dietro

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alcuni sassi, proprio allo scopo di inserirli nelle fessure come dei cunei di legno o dei moderni dadi. Alla fine di quella decade poi, la grande innovazione fu rappresentata infatti dai vecchi bulloni da edilizia; erano di svariate misure, si poteva passare facilmente la corda nel foro, ed erano perfetti per essere incastrati. I veri e propri dadi progettati esclusivamente per l’arrampicata e fabbricati dagli stessi arrampicatori, cominciarono ad apparire solo all’inizio degli anni 60, contemporaneamente ai leggeri moschettoni in lega di alluminio. Come è facile immaginare, l’enorme varietà di forme, stili e dimensioni dei dadi da incastro attuali, all’epoca non era nemmeno concepibile. I friend non furono prodotti fino alla fine degli anni 70, e al loro posto, lungo le larghe, bagnate e strapiombanti fessure delle Exit Cracks sul Troll Wall, l’unica possibilità di protezione era rappresentata da grandi e pesanti cunei di legno, che avevamo ricavato tagliando alcuni alberi di betulla giù al campo base, e che avevamo poi trasportato con grande fatica per tutta la salita. Il motto, all’epoca, era sempre e solo: “il primo non vola mai”. Tra questi pionieri dell’attrezzatura c’eravamo io, Alan Waterhouse e Paul Seddon, tutti membri del Rimmon Mountaineering Club, una delle tante associazioni di arrampicatori sorte in quel periodo nel Peak District e nelle zone a esso circostanti, come per esempio il Manchester Grit, il Black and Tans, il Nottingham CC e l’Alpha. I membri del Rimmon erano particolarmente attivi sul grit delle zone più a Nord, infatti stavano lavorando alla nuova guida della Chew Valley per il British Mountaineering Council. Nel 1963 in un solo giorno aprirono 52 nuove vie sulla sperduta parete di Ravenstones. Dopo qualche tempo la rivista Mountain pubblicò un articolo intitolato “True Grit”, nel quale l’autore Dave Cook affermava: “C’è stato un momento, verso la fine degli anni 60, in cui sembrava che lo spirito e le tradizioni del grit si stessero imponendo ovunque. Le grandi mani e le grandi bocche dei membri del Rock and Ice, Alpha, Black

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and Tans, YMC e Rimmon facevano proseliti in tutta la Gran Bretagna come in una specie di lavaggio del cervello, e inducevano in tutti gli altri, con le parole e con i fatti, un forte senso di inferiorità.” In quel periodo facevo anche moltissima artificiale, durante le vacanze estive nelle Dolomiti, o nei grandi strapiombi del Derbyshire, recentemente scoperti. Mentre aspettavo che il mio compagno, un terribile dormiglione, arrivasse, percorrevo in solitaria assicurata vie come Big Plum e Avernus, e quasi tutto il primo tiro di Mecca. Una volta Bob Dearman era appeso a pochi metri di distanza, e mi gridava incitamenti mentre lavorava la via The Prow per farne la prima salita. Credo che il bagaglio tecnico e di esperienza sviluppato su queste vie sia stato responsabile della illogica fiducia che sentivo all’idea di provare il Troll Wall. Oltre a ciò, l’arrampicata in artificiale mi infuse la motivazione necessaria per progettare una cintura ventrale più larga, sia per stare più comodi che per poterci attaccare il materiale; infatti vi avevo cucito una larga fettuccia in modo che formasse una specie di piccolo sedile, il che rendeva tutte le operazioni come calarsi, stare appesi sotto i tetti, trasportare il materiale e perfino volare, molto più comode. Dato che in quel momento ero disoccupato, potevo guadagnare qualche soldo fabbricando le nuove cinture ventrali per Bob Brigham, che poi le vendeva nel suo negozio di Manchester. Successivamente alla salita del Troll Wall, questa quasiimbragatura, fu commercializzata con il nome di Mark 2, prima di essere sostituita dal nuovo modello, cinque anni dopo, quando ormai io, Alan e Paul eravamo soci nella Troll Climbing Equipment. Lavorando in collaborazione con Don Whillans, riuscimmo a progettare la prima vera imbragatura al mondo – il modello Whillans – realizzata appositamente per la spedizione britannica sulla parete Sud dell’Annapurna. Dovettero poi trascorrere altri nove anni prima dell’uscita di un nuovo modello che unisse le migliori caratteristiche del Mark 2 e del Whillans: il Mark 5 era provvisto di cintura

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ventrale e cosciali uniti sul davanti da un anello di sicurezza, e questo design divenne rapidamente la norma per tutte le imbragature, di qualunque marca e modello. Alla Troll inoltre fummo i primi a utilizzare fettucce cucite, altra grande innovazione, ma nella nostra “beata ignoranza”, nel lontano 1965 sul Troll Wall eravamo più che felici con le nostre semplici Mark 2 e i cordini annodati! Naturalmente anche tutto l’abbigliamento e l’attrezzatura da aria aperta era altrettanto primitivo negli anni 60, se paragonato agli odierni sofisticati prodotti: per la salita del Troll Wall progettammo degli indumenti e delle tende realizzate in un materiale leggero che tuttavia era scarsamente impermeabile e del tutto non traspirante. L’insufficienza di tali attrezzature ci costrinse alla ritirata nel corso del primo tentativo. Eravamo perfettamente consapevoli che le attrezzature per un eventuale soccorso erano pesanti e rudimentali: un soccorso sulla parte alta della parete sarebbe stato senza dubbio un’impresa disperata, se non impossibile. Tutte queste circostanze significavano che questa salita sarebbe stata realmente un’enorme sfida e un compito estremamente coraggioso, che andava al di là di qualunque altra cosa avessimo fatto o tentato in precedenza. Arrampicatori ben più esperti di noi ci avevano sconsigliato di intraprendere quel progetto, ed era davvero un buon consiglio, ma noi avevamo l’insolente fiducia della gioventù, e quella parete non aspettava altro che essere salita. La mia massima, di allora come ora, era: “Finché non ci sei, non saprai com’è.” La stampa norvegese e quella britannica si gettarono sulla storia come falchi sulla preda: noi eravamo “I Magnifici Sette” che cercavano di “sconfiggere l’impossibile parete Nord”, che veniva misurata a caso dagli 800 ai 1800 metri di altezza. Quando venne fuori che al momento del nostro arrivo una squadra di arrampicatori norvegesi era già accampata alla base della parete, la stampa impazzì dalla gioia. I loro resoconti, inaspettati e ridicoli, usavano frasi sensazionali dicendo che era iniziata “la gara per la

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vetta” attraverso “la minaccia della nebbia” e “la tormenta accecante” che “avrebbero vanificato la scommessa fatta dalla squadra britannica”, prima che tornassimo a “stentare lungo la parete” e a “svanire nella foschia”, fino a quando “un osservatore non vide una minuscola cosa rossa strisciare sulla vetta”. Questi articoli in alcuni casi narravano fatti del tutto inventati, e ne ho usati degli estratti lungo tutto il libro. I giornali cercarono di buttarla sul sensazionalistico, esagerando enormemente i pericoli e le difficoltà che effettivamente incontravamo, scadendo però spesso nel ridicolo. Un articolo, per esempio, riferiva di come “dal loro bivacco [gli arrampicatori] osservavano enormi blocchi di roccia volare via nel forte vento”, un’immagine davvero bizzarra. Simon Thompson, nel suo libro Unjustifiable Risk? The Story of British Climbing, ci offre la sua visione su questa tendenza giornalistica a ingigantire le avventure degli arrampicatori; riporta che “Donald Robinson, che morì in un incidente di arrampicata nel 1910, osservò che un vero e onesto resoconto di un normale giorno di arrampicata doveva ancora essere scritto”, e poi aggiunge che “ci sono solo due approcci nello scrivere di arrampicata: l’esagerare e il minimizzare.” Spero che questa storia non rappresenti nessuno dei due. Probabilmente il voler minimizzare è un tratto distintivo inglese, e di certo è molto comune tra gli arrampicatori, tuttavia nello scrivere di questa avventura, ho cercato di raccontare una storia onesta, almeno finché era ancora ben fresca nella mia mente. Anche tutti gli altri resoconti di altre arrampicate, presenti nel libro, li ho scritti immediatamente dopo averle compiute. Chiamammo la nostra via Rimmon Route, ma divenne ben presto internazionalmente nota come la Via Inglese; e dato che avevamo lasciato in parete tutti i chiodi, e che i successivi ripetitori ne avevano aggiunti altri, la nostra via diventò la più popolare e frequentata di tutta la parete. John Middendorf e Aslak Aastorp la definirono “un capolavoro di orientamento in parete, compiuto ai massimi livelli dell’arrampicata in libera e in artificiale

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del tempo.” Ciononostante, con la sua aura di invincibilità ormai scomparsa, con il miglioramento dell’attrezzatura e il progredire del livello degli arrampicatori, la via è stata anche percorsa interamente in libera, in solitaria e anche in invernale. Sfortunatamente, la Rimmon Route è caduta vittima del riscaldamento del pianeta nel 1998, quando il permafrost situato all’interno della montagna si è sciolto, causando una gigantesca frana che ha cancellato tutta la parte centrale del Troll Wall. Tutta la sezione della via al di sopra del Great Wall fino alla Narrow Slab compresa, è andata perduta, insieme a varie sezioni di altre più recenti vie che percorrevano questo tratto di parete. Tony Howard, Greenfield, dall’estremo Nord del Peak District, gennaio 2011.

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