Massimo Marcheggiani
PORTO I CAPELLI COME WALTER B.
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
2019 © VERSANTE SUD S.r.l. via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati L’editore ringrazia Ivo Ferrari, Linda Cottino e Francesca Tresoldi per la preziosa collaborazione. 1a edizione ottobre 2019 www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 946
MASSIMO MARCHEGGIANI
PORTO I CAPELLI COME WALTER B.
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Introduzione 7 Prefazione 9 Prologo 11 Passato remoto n° 1
13
La febbre del sabato sera
19
Guardo il cielo senza volerlo!
25
Non si impara mai a volare, tanto meno ad atterrare!
33
Passato remoto n° 2
41
Due fiaschi e un matrimonio
47
Un salto nel buio
59
Da solo non mi piace!
67
La montagna più bella del mondo
75
Un’anima in pena
81
Silvia si era appena laureata
93
Si chiamava Vanda
101
Il fiume è assolutamente silenzioso
105
Scalate a vuoto, zanzare e tanta fortuna
111
A me piace Tex Willer!
125
… e pure gli indiani!
129
Passato remoto n° 3
137
L’India, come un mantra!
141
Oggi è il primo gennaio 2017
149
Zitto e cammina!
153
Piccole fortune
161
E io scalo…
165
Sono arrivato!
175
Passato remoto n. 4
181
Vado in carcere
187
Ci eravamo visti solo una volta
201
Con Lorenzo è facile
211
E ancora…
215
Porto i capelli come Walter Bonatti
219
Ringraziamenti 222
Se partirai per Itaca Ti aspetta un lungo viaggio E un mare che ti spazza via I remi del coraggio La vela che si strappa E il cielo in tutto il suo furore Però per navigare solo Ragazzo, basta il cuore Qui si tratta di vivere Non di arrivare primo E al diavolo il destino (da Ti insegnerò a volare di R. Vecchioni e F. Guccini)
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 6
INTRODUZIONE Quando ho letto la prima volta il manoscritto di Massimo Marcheggiani è stato come ritrovare gusti e profumi d’un passato non troppo lontano ma che già necessita della sua madeleine per tornare a vivere di un’emozione reale. Ebbene sì, l’intero racconto, scritto quasi come un flusso di coscienza, per tanti della sua generazione e anche un po’ più giovani, è davvero come una piccola, prelibata madeleine. Da assaporare con la dovuta calma. Solo così, dalle profondità nascoste del nostro essere, riemergono esperienze dense e forti che ci hanno segnato. Non importa che le vicende siano narrate in soggettiva, del resto si tratta di un’autobiografia; quel che vince qui è la forza evocativa di un periodo storico – in particolare gli scoppiettanti anni ’80 e i primi ’90 del Novecento – che nel microcosmo dell’alpinismo e dell’arrampicata ben merita l’appellativo di rivoluzionario. Attorno a un imprescindibile “ombelico del mondo”, che per Massimo è il Gran Sasso, sfilano le grandi pareti alpine – Monte Bianco in primis – e quelle del mondo intero: dall’Himalaya alla Patagonia, dall’India agli Stati Uniti, fino al deserto del Sahara. Tutte teatro di ascensioni importanti che hanno fatto di Marcheggiani un alpinista di primordine. Poi ci sono le amicizie degli albori verticali – Pierluigi Bini e il Vecchiaccio innanzitutto – e quelle che hanno lasciato un solco indelebile, come con l’indimenticato Tiziano Cantalamessa. Ci sono le donne, i figli, i lavori; questi ultimi definiti precari solo perché liberi da ufficio e cartellino, ma in realtà organici al filo di un’esistenza indipendente in puro stile self-made man all’italiana. Con questo suo titolo, Porto i capelli come Walter B., il libro, di là dal riferimento all’immenso scalatore ed esploratore, è uno sprone alla libertà, all’autodeterminazione, al piacere mai pago dell’avventura.
Linda Cottino settembre 2019
Introduzione 7
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 8
PREFAZIONE Leggere un libro che parla di montagna non è cosa scontata, nemmeno quando i tuoi genitori sono alpinisti. Se poi il libro è stato scritto da vostro padre, ci si può trovare nell’imbarazzante situazione di dover dire che non si capisce, che ha annoiato, che è narcisistico e autocelebrativo. Inoltre, se sempre di vostro padre e sulla sua vita ne avete già letto uno scritto una decina di anni fa, fateci dire bellissimo, è facile temere che stia riproponendo una copia carbone del primo. Accolto in famiglia con curiosità e scetticismo allo stesso tempo, Porto i capelli come Walter B. ci ha stupiti ed emozionati: si è rivelato essere un libro molto intimo, che si stacca dalla canonica autobiografia impostata su “infanzia-giovinezza-vita adulta” ma che va invece a fiammate. È un perfetto incastro di ricordi, esperienze ed emozioni che, in quanto tali, non hanno necessariamente bisogno di un preciso filo cronologico; si intrecciano tra loro facendo rivivere molti anni dopo ciò che si era vissuto tanto tempo prima, e facendo riscoprire emozioni portate alla luce solo attraverso le esperienze degli anni più recenti. C’è tanta vita in ogni racconto, come quelli che ascolti a cena o in macchina durante qualche viaggio e solo in piccola parte parlano di tecnica. Di quando è salito in vetta a una cima Himalayana o della lontanissima Patagonia, in quale fessura ha messo il piede o ha incastrato le mani, poco ci importa, ma vogliamo sapere invece se nostro padre fosse paralizzato dalla paura o se gli stesse esplodendo il cuore. Un libro intimo, sì, perché mette a nudo e “svela” tutta la natura dell’essere umano celato sotto i panni del duro alpinista per gli altri e del papà eroe per noi. Il freddo e la fatica, le gioie e le delusioni, le paure provate in tante situazioni, mente leggi diventano anche le tue e, un po’ come quando ci si sveglia da un incubo, ti ritrovi ad esclamare: “papà, ma che sei matto?”.
Riccardo e Federico Marcheggiani settembre 2019
Prefazione 9
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 10
PROLOGO Dormo poco, ma passo un tempo inverosimile a letto. Casa mia è piccola ed è arredata con l’essenziale, quasi tutto fatto con le mie mani a cominciare dal mio letto. L’ho costruito io, così come i letti dei miei due figli, il mobile-dispensa fuori squadro in cucina, il piano cottura, il piccolo soppalco e la scala che vi sale. Quando devo o voglio fare le cose sono un instancabile lavoratore. Quando non devo o non voglio fare nulla, non faccio nulla e mi metto a letto. Succede spesso. Da diversi anni lavoro solo quattro pomeriggi a settimana nella mia palestra di arrampicata sportiva, costruita anch’essa con le mie mani. Ogni tanto lavoro anche con una compagnia di teatro-danza, che mi porta quasi sempre all’estero per una settimana o poco più e, quando capitano, non rifiuto mai quegli strani lavori definiti “acrobatici”, sia per i buoni compensi, che perché mi divertono un mondo. Quando vado a scalare non mi risparmio mai: lunghi avvicinamenti, fatica, freddo o caldo che sia per ore e ore, a volte giorni, di pura azione. No, non sono un pigro, assolutamente no! Ieri mi sono alzato verso le 7:30, sono andato al bar, ho preso il caffè, sono tornato a casa e mi sono rimesso a letto per ore. Lo faccio di frequente, mattina e pomeriggio. Ho sviluppato la capacità di stare ore in penombra senza fare assolutamente nulla: disteso, sveglio e semi immobile. Anche oggi che è domenica e oltretutto piove. Sento molto la radio e non possiedo TV, leggo tanto, ma quasi mai i noiosi libri di alpinismo. A volte divido il letto con una donna. È molto silenziosa la mia casa; mi piace ed è quasi un oblìo starci racchiuso: tutto è fermo, immobile, tranne il mio cervello… e il tempo si dilata.
Prologo 11
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 12
PASSATO REMOTO N° 1 Quasi tutti i ragazzini hanno una predisposizione atavica ad arrampicarsi su tutto quello che è arrampicabile: muretti, alberi, cancelli e scale a pioli, sfruttando la tecnica migliore per raggiungere pensili e rubare biscotti o marmellate. Io e i miei fratelli siamo nati in casa, una piccola casa non nostra, con davanti una piazzetta che era il nostro universo. Macchine pochissime e spazi infiniti dove correre, battagliare, nascondersi tra le botti e nei vicoli per dar vita ai più semplici giochi del mondo. Qualcuno più intraprendente, tra cui ovviamente io, si azzardava a “scalare” e scavalcare i muretti del palazzo semidistrutto dalla guerra di fronte alla nostra casa, per curiosare all’interno o per prendere i fichi sull’unico albero che era cresciuto tra quelle rovine. Ci si sfidava anche a raggiungere l’edicola della Madonna del campanile, che sovrastava casa nostra e sta ancora oggi a tre-quattro metri da terra, scalando le antiche pietre e a volte salendo in “artificiale” aiutandoci con le sponde del vecchio camioncino Balilla del signor Angelo Ciani, quasi sempre parcheggiato lì. Ero l’unico ad arrivarci. La piazzetta aveva dei lampioni semplicissimi: un palo e la luce sopra. Arrampicarmi su di essi era la mia passione, ma è ancora più esatto dire che amavo ciò che dalla scalata del palo ricevevo: mentre salivo questi lampioni, stringendoli fortemente con le mani e soprattutto con le gambe, avevo spesso Passato remoto n° 1 13
Rizzolaga, 1967. Foto: Arch. Marcheggiani
dei godimenti così esplosivi ed inebrianti nel basso ventre che soltanto molti anni dopo ho realizzato cosa fossero. Galeotto era lo strofinio dell’inguine sul palo che principalmente in discesa mi dava quel misterioso e inconfessabile piacere al punto che rischiavo di mollare la presa tanta era la debolezza che mi prendeva mentre avveniva la misteriosa “esplosione”. Oggi mi piacciono le donne magre e sui lampioni non salgo più, perché crescendo ho scoperto le montagne. Non c’entra nulla ma ricordo che sempre verso quegli anni, chissà perché, mi stendevo a terra in mezzo alla strada e aspettavo che passassero le signore che abitavano nei dintorni. Come le vedevo avvicinarsi, con la borsa della spesa tra le mani e a portata di udito, davo inizio ad una patetica cantilena restando immobile e ad occhi chiusi: “So’ morto… so’ morto… so’ morto…” Non mi degnavano di uno sguardo o tutt’al più pensavano che il figlio di Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 14
Traversando il ghiacciaio del Freney. Monte Bianco, 1981. Foto: M. Marcheggiani
I
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. II
A sinistra, primi tiri sullo Sperone Walker. Monte Bianco, 1981. Foto: Arch. Marcheggiani Qui sopra, Fabio Delisi sulla via Bonatti al Pilastro Rosso di Brouillard. Monte Bianco, 1983. Foto: M. Marcheggiani
III
Sopra, Marcheggiani sui pendii terminali del Baghirati. Foto: T. Cantalamessa Sotto, autoscatto in vetta al Baghirati, 6702 m. Foto: Arch. Marcheggiani
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. XVI
erano due vetuste Willis arrivate chissà come fin qui, piccole e anguste: dovemmo stiparci talmente tanto che se fossimo stati sardine non avremmo comunque fatto salti di gioia per la comodità. Le Jeep si rompevano continuamente, ma è da non credere l’immensa risorsa e caparbietà, in mancanza di alternative, che ha questa gente per far andare anche mezzi senza ruote o senza motori; veramente non ci si crede. Spesso con mazzetta e scalpello e quattro chiavi smontano e rimontano pezzi interi di parti meccaniche con ore e ore di ingegno a noi sconosciuto, stando accucciati e mai seduti. Come per magia una volta rimontato tutto si riparte. Una delle due jeep aveva, tra i vari problemi, anche lo spinterogeno che si scaldava a dismisura e la “cura”, vista con i miei occhi, era un malloppo di fango bagnato messo a mo’ di copertina tutto intorno al pezzo in questione che, di tanto in tanto veniva bagnato. Il paesaggio è indescrivibile: è come parlare del vento, del freddo o del caldo; qual è la definizione giusta per far capire a chi non c’era? È bello, bellissimo, aspro e duro, selvaggio e primordiale, villaggi di fango o tende, persone senza tempo, cielo mai visto così azzurro, verde strappato con i denti e con le unghie a una terra che senza questi uomini sarebbe solo e soltanto terra. Chilometri e chilometri di manufatti a mo’ di acquedotti portano la vita a piccole spianate dove il verde brillante stride con il brullo ma bellissimo colore circostante. Si fa buio e non eravamo arrivati da nessuna parte. La Jeep sulla quale stavo con Carlo e Paris si impantanò e si inclinò su un fianco. Buio pesto oltre i fari. Continui tentativi di uscirne senza successo e quando stavamo per rassegnarci a chissà che notte, dal nulla e dal buio più buio, come una magia compaiono due, poi tre poi cinque ombre con sorrisi senza denti, vestiti come sanno loro e ci danno il loro gratuito aiuto a toglierci dal fango. Così come dal nulla sono comparsi nel nulla ritornarono. Passammo il resto della notte in una casupola di fango e bastoni in un microscopico villaggio dove, prima di stendere le nostre distrutte ossa, ci offrirono tè con latte a temperature da altoforno e stesero dei tappeti per noi. Momenti che non dimenticherò mai. Dopo altre ore di jeep arrivammo a Rangdom Gompa. Gesù che posto!!! Una spianata grande dieci volte la piana di Campo Imperatore del Gran Sasso, circondata da montagne aride e dai colori cangianti e poco lontano, sopra un cocuzzolo alto neanche cento metri le rosse mura del monastero di Rangdom. Monaci sia maschi che femmine con i loro caratteristici abiti rosso vinaccia-arancio opaco si distinguono dai loro simili solo grazie al loro abbigliamento ma tutti, indistintamente, sembrano e sono un’immagine d’altri tempi rispetto ai nostri parametri di vita.
Due fiaschi e un matrimonio 51
Lo Z2 (6175m) a sinistra e il gemello dello Z2, nostro obiettivo mancato. Foto: Arch. Marcheggiani
Le donne indossano costumi di pesanti stoffe e ricchi di ornamenti, con pietre azzurre, coralli e argento annerito dal tempo, copricapo pesanti e ingombranti sono un tutt’uno con la loro pelle incartapecorita dal sole e i miliardi di rughe. Immagini d’altri tempi? No, il loro tempo è il nostro stesso tempo, solo che abitiamo su due pianeti di due diverse galassie. La vita qui non può essere altrimenti e noi siamo marziani in gita nel loro mondo. Non c’èra più la pista che ormai, da decine e decine di chilometri era uno sterrato sul quale non superammo mai i dieci-quindici km l’ora. Ci trovammo ad attraversare una pietraia vastissima e, come gli indiani d’America, i nostri driver indiani d’india seguivano rare tracce di precedenti passaggi fino a Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 52
ritrovare l’evidente pista che ormai, oltre i 4000 metri di quota sale verso il passo Pensi-La. Da queste parti era transitata nel 1913 una spedizione alpinistica-esplorativa italiana, partita in nave e guidata da Mario Piacenza. Avevano attraversato ed esplorato l’area dei ghiacciai Durung Drung e Rum Dum, dove noi eravamo diretti (nella catena montuosa dello Zanskar), ed avevano salito una montagna che oggi è chiamata cima Italia. Partendo a piedi e a cavallo direttamente da Srinagar avevano raggiunto l’area di loro interesse con diverse settimane di viaggio, ingaggiando di volta in volta portatori e cavalli, seguendo prevalentemente sentieri, poiché le “strade” percorse da noi erano ancora lontane dal solo essere concepite. Immagino i lunghi mesi trascorsi lontani dalle loro case, le immense difficoltà logistiche, di orientamento, di approvvigionamento alimentare, le eventuali malattie esotiche e la lungaggine del loro interminabile viaggio di ritorno. Nel 1977 un’altra spedizione italiana seguì le tracce di Piacenza; erano però solo in due ed in completa autonomia. Dal passo Pensi-La, Gino Buscaini e sua moglie Silvia Metzeltin, superando estesi ghiacciai e impervi valichi, scesero infine sul Rum Dum e qui anche loro firmarono una prima salita: la bellissima vetta glaciale dello Z2 di 6175 metri. Sul fianco Nord di questa montagna un colle la divide da un’altra fantastica cima di 6085 metri: il roccioso e ardito gemello dello Z2, mai salito e meta della nostra spedizione. Dalle nostre esauste jeep riconoscemmo, lontanissimi, gli Z2. Scaricati tutti i nostri averi, pagati e salutati gli indiani e carichi peggio dei muli iniziammo una lunga discesa che si interruppe di fronte ad un impetuoso e preoccupante fiume da guadare. Non esistono ponti, non avrebbero senso: al di là del fiume non c’è nulla che ne giustifichi la presenza. Non c’è altro che una selvaggia valle che incontra, su in alto, chilometri di morena, spinta verso il basso dal placido ghiacciaio Rum Dum. Sopra di esso montagne, montagne e montagne. Il gelido e impressionante guado mi entusiasmò; la mia parte infantile godeva da matti in questo genere di avventura: con l’acqua a metà coscia, un grande zaino in spalla e un saccone sopra di esso. Scoprii quanta fame avevo di azione maschia: il duro viaggio tra camion e jeep coperti di polvere, l’immensità di quegli ambienti e poi il guado mi appagarono appieno. Mi resi conto che è ciò che avevo sempre sognato e desiderato lo stavo finalmente sperimentando. Un primo campo lo montammo poco dopo il fiume. I giorni a seguire non furono altro che un continuo salire, scendere e risalire per portare i nostri averi, un po’ per volta, verso un campo base inventato nei pressi di due microscopici laghetti color turchese intorno ai Due fiaschi e un matrimonio 53
Sopra, salendo verso il Campo 1 sulla parete Rupal del Nanga Parbat. Sotto, il Campo 1. Pakistan, 1990. Foto: M. Marcheggiani
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Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. XX
La formidabile Neverseen Tower, circa 6000 m. India, 1992. Foto: M. Marcheggiani
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. XXII
Pagina a fronte, sopra, Secondo bivacco sulla Neverseen Tower. Sotto, “un tiro da copertina�, il penultimo prima della vetta. India, 1992. Foto: M. Marcheggiani Qui sopra, in vetta alla Neverseen Tower dopo tre giorni di scalata. Da sinistra, Di Vincenzo, Miele e Marcheggiani. India, 1992. Foto: Arch. Marcheggiani
XXV
molto sparirò da questa vetta mentre nello stesso momento godo del profondo silenzio, molto simile all’infinito del cielo o alle immense profondità marine. Ubaldo mi raggiunge felice ed io lo sono più di lui. Il fatto che sia stato allievo nei miei corsi e che ora condividiamo questa forte esperienza mi fa davvero contento. Francesco ci fotografa col suo potente teleobiettivo sulla vetta e durante le corde doppie lungo lo stretto colatoio di ghiaccio, salito quasi al buio diverse ore prima ed ora inondato dal sole. Minestre Knorr, tocchi di parmigiano e fette di speck alte un dito completano una giornata entusiasmante con due sole note fuori posto: la rinuncia di Stefano e la mancanza di vino. Bere tè ai pasti mi deprime. Era stata una salita di oltre settecento metri, fino ad una quota di 5750 metri tutt’altro che facile e conclusa nell’arco di sedici ore no stop compresa la discesa; non so agli altri ma a me stanca! Quella notte dormo come un bambino, con la pancia piena, al caldo del sacco piuma e crogiolato dal successo della scalata. Passiamo tre giorni al campo base ma poi torniamo al campo uno: vogliamo scalare ancora! Abbiamo visto, ben più lontana, un’altra montagna dalla forma accattivante. Sembrava una piramide un po’ sbilenca e quasi completamente rocciosa. Chiedo a Francesco se sé la sente di venire con Ubaldo e me a tentarne la salita; una terza persona ci fa comodo per ripartire i pesi dell’attrezzatura. Francesco non se lo fa ripetere due volte, ma con la promessa che se non ce la dovesse fare, ci aspetterà al suo punto massimo raggiunto e lo recupereremo scendendo. Non è il massimo della sicurezza questa scelta, principalmente per lui, ma decide per il sì dando prova di fiducia nei nostri confronti. Impieghiamo molto a risalire il lungo ghiacciaio Tawa, nonostante la scarsità di crepacci ed il ghiaccio duro e consistente. Un pendio regolare ci fa prendere un po’ di quota e una traversata su misto ci porta sulla evidentissima linea di salita che abbiamo scelto. Facciamo pochi tiri di corda: un po’ per il lungo avvicinamento e poi perché troviamo un posto da bivacco pressoché perfetto per stare distesi tutti e tre nella piccola solita tenda da parete. Non fermarci lì sarebbe un’offesa al regalo che la montagna ci sta facendo e a tutti gli alpinisti che spesso bivaccano scomodissimi. La parete è esposta ad est; al primo sole che ci scalda mettiamo in moto cervello e muscoli, tecnica e logica, timore e piacere di stare dove stiamo, auto emarginati dal mondo e microscopicamente piccoli, vivendo quello che l’alpinismo e poco altro possono far vivere solo e soltanto grazie a quanto Madre natura ci offre. Immagino di traversare gli oceani in barca a vela, l’esplorazione di interminabili grotte, la traversata di deserti… l’uomo diventa più grande proporzionalmente a Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 144
India, 1996. Massimo Marcheggiani sui primi tiri di corda della via CittĂ di Frascati. Foto: Francesco Camilucci
L’India, come un mantra! 145
quanto più è piccolo in relazione a dove si trova e alla pochezza di mezzi tecnologici a disposizione. Sono orgoglioso di non aver mai, e sottolineo mai, portato con me telefoni satellitari, GPS, spit, corde fisse e quant’altro avrebbe snaturato il mio alpinismo. Il granito che stiamo scalando è quanto di meglio un alpinista possa desiderare: rugoso, ben fessurato, compattissimo. Di tanto in tanto presenta dei piccoli bugni simili a funghi sui quali i piedi tengono magnificamente e io procedo senza problemi. Francesco tacitamente segue, non deve fare null’altro che scalare e portare il suo zaino. A tutto il resto pensa Ubaldo, bravissimo e partecipe: mi fa sicura, schioda, mi consiglia e, come Francesco, porta nello zaino anche parte delle mie cose. Superiamo una breve sezione di ghiaccio senza dover indossare di nuovo gli scarponi e zigzaghiamo sul misto con le leggere scarpe da roccia. Non indosso altro che una felpa di pile, data la temperatura e verso le quattro del pomeriggio tocchiamo la vetta. Francesco neanche ci crede, Ubaldo e io lo copriamo di complimenti ma ci concediamo però poco tempo per gioire: abbiamo scalato lasciando i sacchi piuma nella tendina per essere più veloci nella salita e ora dobbiamo scendere quasi di corsa. Il tempo è splendido, ma si è alzato il vento e fa freddo, e se non vogliamo passare una notte a battere i denti è meglio darsi una mossa. Le ombre delle montagne si sono allungate moltissimo sul ghiacciaio sottostante, segno evidente che il sole non aspetta i nostri comodi e così iniziamo la sequenza di corde doppie, usando quanto più possibile gli spuntoni di roccia e i chiodi solo come ultima alternativa. Al bivacco mangiamo e beviamo in quantità, poi a nanna stretti stretti nella rossa tendina in attesa del ritorno del sole e di un nuovo mattino. Quante volte sono stato baciato dal sole durante le mie scalate! Allo spuntare del giorno riprendiamo la discesa e, con diverse corde doppie, approdiamo sull’interminabile ghiacciaio. Portiamo via tutto, compreso il campo uno che smontiamo velocemente per continuare a scendere sulla lunga e terribile morena. Terminata questa ci aspetta il ripido pendio che ci porterà al campo base. Tengo d’occhio Francesco: è stanco in modo esagerato, più scende e più il suo zaino si svuota perché abbandona tutto meno il sacco piuma. Arriviamo a sera da Stefano e dal cuoco Indiano che ci sommerge di tè e cibo in quantità. Fine della fatica! Una ricca cena con tanto di torta indiana a celebrare il nostro successo: la “cima Città di Frascati” ora esiste e un certificato dell’Indian Mountaineering Foundation ne attesta la veridicità. Francesco tutto poteva aspettarsi meno che diventare un “conquistatore” di una Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 146
montagna himalayana, felice come un bambino e dopo due giorni di riposo, torna con Stefano a recuperare tutto quello che aveva abbandonato durante l’affannosa discesa. Arrivano i cavalli, si smonta tutto, si bruciano i rifiuti e si sotterra profondamente ciò che non brucia. Nella spedizione nel Garwal avevamo portato a valle tutti i rifiuti, scontrandoci poi con la cruda realtà indiana. Sotterrando bene ciò che non brucia ci pensa poi madre natura, con i suoi tempi, a decomporre il tutto. L’alternativa? Non andare in questi luoghi, solo così non si pone il problema. Nella marcia di ritorno, al primo villaggio incontriamo tre donne con bambini seminudi che ci invitano nella loro casa. È una costruzione bassa di paglia e fango con il pavimento appena rifatto, si vedono ancora le manate che hanno livellato il fango che appena indurito è già calpestabile. All’interno su di una misera stufa ci preparano il loro classico tè mentre noi offriamo biscotti. Passiamo almeno un’ora a scambiare, in uno stentato inglese, semplici dettagli delle reciproche vite. Una di queste ragazze ha tratti somatici di rara bellezza. Torniamo verso casa percorrendo a ritroso l’estenuante tragitto. Attraversiamo il sempre inquietante passo Rothang, sdraiati su sacchi di legumi e farina nel cassone di un camion; letteralmente ricoperti di polvere arriviamo a Manali. La prima cosa che facciamo è telefonare alle nostre case dalle fatiscenti cabine telefoniche. Quando ne esco, ho un sorriso che mi arriva da un orecchio a l’altro: Silvia mi ha appena detto che aspettiamo un secondo figlio. Sette mesi dopo nasce Federico dalla bellezza araba. Da Manali un lungo viaggio con un pullman da 30 posti, sul quale siamo in diecimila, ci porta a New Delhi. Io siedo strettissimo, siamo in cinque su un sedile da tre, a fianco a me un Indiano dai baffi sottili che mi guarda insistentemente, poi si addormenta e la sua testa si adagia teneramente sulla mia spalla destra. I miei tre amici stanno sul sedile posteriore e iniziano a prendermi in giro: «Ahò, gli piaci all’indiano…». «A Massimo, questo se fidanza co’ te!». Il viaggio è lunghissimo, mi addormento a mia volta e quando uno scossone mi sveglia mi trovo mano nella mano con l’indianino, che nel frattempo si era proprio fidanzato con me. Sono un uomo di mondo, fortemente tollerante e comprensivo, gli sfodero un sorriso a tutti denti e…: «Wow!! Sorry, but I don’t like…». Tra le poche foto che ho in cui vengo ritratto (io scatto circa 1500 fotogrammi a spedizione), vedo che durante questa salita non avevo il casco. Non ricordo con certezza il perché, ipotizzo solo di averlo dato a Francesco, dal momento che lui non dovendo scalare non se l’era portato. Il fatto che io sia L’India, come un mantra! 147
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. XXXIV
Nella pagina a fronte, in alto, terzo tentativo invernale alla via Martina al Paretone. Gran Sasso, 1987. Sotto, Cantalamessa durante il nostro quarto tentativo invernale alla via Martina al Paretone. Gran Sasso, 1988. Foto: M. Marcheggiani Qui sopra, Marcheggiani in apertura invernale di Ice Very Nice al Paretone nel 1991. Foto: L. Di Vincenzo
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In alto, sagome su un valico lungo il cammino di Santiago. Sopra, Piedi di pellegrino un po’ provato. A sinistra, Massimo ancora ben lontano da Santiago di Compostela. Spagna, 2011. Foto: M. Marcheggiani
Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. XLVIII
temperatura dell’esterno. Ci offrono tè bollente con grande cordialità, mentre uno dei due rincorre ed uccide una pecora; dopo averla macellata e chiusa in un sacco di juta, la vende al nostro cuoco e così per qualche giorno avremo anche la carne oltre al solito riso con verdure. Il terzo giorno di cammino piove e dopo diverse ore arriviamo alla grande spianata del campo base, dove a distanza di un solo anno ritrovo le stesse immobili pietre che contornavano le nostre tende durante la precedente spedizione; non c’è invece traccia alcuna dei nostri rifiuti, che avevamo bruciato seppellendo poi sottoterra ciò che ne rimaneva. L’agenzia di Kaushall, il titolare, è ottima! Abbiamo una tenda a testa praticamente nuova, comodissima e spaziosa dove ognuno può stipare le proprie cose. La grande tenda cucina si monta a mezzo metro dal limpido ruscello, così che il cuoco abbia acqua a portata di mano per il suo gran da fare. A meno di cinque giorni dalla partenza siamo già in zona operativa e, complice una sopraggiunta stabilità meteorologica, una volta sistemato il campo base andiamo a caccia della nostra velata montagna da scalare. Già l’anno precedente avevamo trovato un fatiscente cavo d’acciaio, messo anni addietro da pastori ad unire le sponde del tumultuoso torrente, e questo ci aveva risolto il problema non banale dei ripetuti attraversamenti facendoci evitare un pericoloso se non impossibile guado. Così, con una “tirolese” faticosa e divertente, ci avviamo verso l’alto risalendo dapprima il fondo valle, che più in alto si trasforma in ripida morena da risalire faticosamente. Sulla nostra testa troneggia la montagna che l’anno scorso volevamo scalare, ma non la degniamo della più piccola considerazione. Sulla sottile cresta di sfasciumi a volte pericolanti della morena avanziamo in uno scenario da fiaba. Lungo un ripido pendio franoso scendiamo poi sul sottostante ghiacciaio con una grande delusione nell’animo: la nostra meta, ormai ben visibile, non ha su di sé nemmeno un’ombra di ghiaccio!
UNA MONTAGNA NERA DI BRUTTE ROCCE campeggia al posto di quella per la quale eravamo partiti con una nutrita scorta di viti da ghiaccio. Risaliamo lo stesso il facile ghiacciaio costellato da miriadi di funghi fino alla base della seraccata, a circa quattromila settecento metri di altezza, che avrebbe consentito l’accesso al ghiacciaio superiore e quindi alla parete. Giunta la sera, Bagwan ci racconta di un’estate particolarmente calda e piovosa quale probabile causa del ritiro dei ghiacci. Un po’ spiazzati ci avviamo lungo la destra orografica della valle, verso il lontano ghiacciaio Tosh, per Vado in carcere 197
cercare una alternativa. Il paesaggio è semplicemente spettacolare nella sua totale assenza umana e risalita in buona parte la valle, accompagnati dall’elegante volo di enormi rapaci, forse aquile, troviamo quello che fa per noi: una montagna mista di roccia e ghiaccio, sempre dall’altra parte del fiume anche se più lontana e scomoda da raggiungere. Siamo tutti e tre d’accordo e già il giorno dopo, attraversato il fiume, ci avviamo verso la lontana meta: un percorso a volte molto disagiato, rocce instabili e zolle d’erba fino ad incontrare una seconda sponda di morena che viene dall’alto e che risaliamo a fatica. Si apre ai nostri occhi uno scenario sicuramente mai visto da nessuno, non dalla nostra angolazione almeno: stando a tutte le ricerche fatte, siamo certi che da queste parti non abbia mai messo piede essere umano. Con sollievo togliamo lo zaino dalle spalle e, spianato faticosamente un terrazzino ai piedi di una grande roccia morenica, montiamo la mia vecchia tenda da bivacco comprata nel lontano 1988 ma che ancora fa il suo dovere.
SCENDIAMO ALLEGRI E ZOMPETTANTI COME CAMOSCI ma il più camoscio di tutti, Lorenzo, ruzzola malamente e si frattura una mano: fantastico! Ma un po’ di fortuna sta dalla nostra parte perché un gruppetto di trekker indiani, tra cui un medico, si è sistemato per la notte vicino al nostro campo. Il bravo dottore guarda la mano gonfia e mezza nera di Lorenzo e, dopo brevi manipolazioni, fa una steccatura da manuale confermando l’ipotesi di frattura. Io mi ricordo di alcuni alpinisti a cui, prima di attaccare qualche via in montagna, bastava un cenno di mal di pancia o malessere di per tirarsi indietro, in realtà per il timore di affrontare la scalata. Tutto comprensibile, l’esperienza fa davvero la differenza a volte. Lorenzo è fortunatamente l’opposto, e due giorni dopo risaliamo al bivacco; il panorama inutile a dirsi è formidabile e tra l’altro scopriamo una montagna altrimenti invisibile dal basso, una torre prevalentemente rocciosa alla testata di un ghiacciaio che si insinua lateralmente alla valle di Tosh; la sua foto ingrandita è appesa nella mia palestra, deciso come sono a scalarla prima di non avere più fiato. Ci concediamo un pomeriggio di riposo e vista di un tramonto da cartolina, con fulmini a grande distanza, ma la notte una coltre di neve ricopre tutto e al mattino ci tocca riscendere per forza al campo base lasciando in tenda tutto il materiale ed ovviamente anche il cibo: formaggio, speck, chapati e altro. Quando due o tre giorni dopo torniamo al bivacco una brutta sorpresa ci attende: una fantomatica bestia a quattro zampe (no, non c’entra Massimo Marcheggiani PORTO I CAPELLI COME WALTER B. 198
nulla lo yeti…) si è infilata in tenda tramite una piccola manica semi aperta e si è portata via tutto il cibo, lasciandoci magnanima cinque buste di minestre Knorr (fortunatamente la bestia non sapeva usare i fornelli, altrimenti si sarebbe mangiata pure quelle!). Comunque, dopo aver mangiato quel poco che rimaneva, ci infiliamo nei sacchi piuma prima del buio, con un tramonto quasi inquietante a darci la buona notte. Pur stando stretti come sardine riposiamo abbastanza bene ma verso mezzanotte, svegliato da strani rumori, devo uscire di corsa per cacciare la bestia che sta saccheggiando il mio zaino contenente un po’ di pane e biscotti. Sono le quattro di una notte gelida e ricca di stelle quando usciamo e ci prepariamo per la nostra montagna. Ognuno con i propri pensieri, chiusi a riccio nelle giacche da montagna, ci avviamo verso i ripidi pendii soprastanti. Il tipico e confortante rumore dei ramponi che mordono il ghiaccio è la sola compagnia che ognuno di noi ha: ci diciamo pochissime cose, concentrati a non raggiungere l’affanno tipico dell’alta montagna. Ci leghiamo per superare in sicurezza dei crepacci di dubbia consistenza e intorno ai quattromila novecento metri di quota raggiungiamo, a giorno fatto, il ripido canale di misto individuato come via di salita. Durante la preparazione mi guardo intorno: la cosa che più mi rapisce è la nostra immensa piccolezza in questo teatro di monti e valli. A volte mi immagino di vedermi da molto in alto ed è impressionante quanto microscopico divento al cospetto delle montagne… specialmente qui, tra spazi sconfinati e assoluta assenza umana. Forse è questo che mi dà la misura della nostra “grandezza”: la capacità di partire, scalare e tornare da avventure in ambienti miliardi di volte più grandi di noi. L’alpinismo, che storia fantastica! Mi lego, posiziono chiodi e friends su un fianco, rinvii e qualche vite da ghiaccio sull’altro e qualche anello di cordino. Impugno le mie piccozze rigorosamente senza longe e senza dragonne e vado. Ecco l’azione, ecco l’Io alpinista, ecco realizzarsi ancora il mio Essere: Io-Che-Scalo… poche altre cose mi sono appartenute così tanto nella mia ormai lunga vita (a Manikaran ho compiuto sessantadue anni). Siamo veloci, Lorenzo viene sempre da secondo senza un lamento mentre è Stefano che mi fa sicura. Diversi tiri di corda ci portano sotto un seracco non proprio minaccioso. Ne esco facilmente a sinistra e recupero sulla sommità di una cresta glaciale piuttosto lunga, ma bella ed elegante; questa ci porta alla base della parete rocciosa di un bel granito rosso molto articolata. Ne faccio un paio di tiri da primo, poi (un po’a malincuore) dò i capi di corda a Stefano e quando sono circa le 14 ci ritroviamo sulla comoda vetta, a 5350 metri. Vado in carcere 199
Siamo felici, certo. È sempre molto bello raggiungere la cima, di qualsiasi montagna. Ancora oggi quando arrivo in cima al Corno Grande o al Corno Piccolo del Gran Sasso, dopo averli scalati un milione di volte, mi sento pieno di qualcosa che mi fa stare bene esattamente come accadeva sulle vette alte e inviolate in remote regioni dell’India del Nord. Non restiamo molto in vetta, nuvoloni neri arrivano come quasi ogni giorno a darci fastidio. Dopo le solite foto, scendiamo sul versante Est precedentemente scelto come ovvia via di discesa (siamo saliti da Nord) e dopo l’ultima lunga corda doppia su tre chiodi approdiamo sul ghiacciaio sottostante. Scendiamo in parte legati e poi ognuno per sé seguendo il proprio ritmo, ma sempre tenendoci reciprocamente a vista. Quando arriviamo alla tenda, nevica. Tè bollente, poi tre minestre in successione, e prima ancora del buio ci mettiamo al caldo nei sacchi piuma. Il ritorno al campo base ci vede fradici per il classico temporale pomeridiano ma ormai non ci importa più di bagnarci. Al base Bagwan, con il suo sorriso disarmante, è felice con noi. Il cuoco ci fa penne alla bolognese (fu un attentato a dire il vero), tè al latte a mille gradi e il resto è l’ordinaria amministrazione di una spedizione. Secondo Bagwan l’animale misterioso e vorace è semplicemente un Ghileri, grossa specie di ghiro e ora noi chiamiamo la montagna “Ghileri pakrò”, che in hindi significa “ladro”. Chiamiamo invece la via Broken hand: la mano di Lorenzo è gonfia e nera ma sembra che lui se ne freghi, cosa che non farà invece sua madre quando in aeroporto lo abbraccerà, lo bacerà, lo prenderà per un orecchio e lo porterà poi dritto in ospedale da dove uscirà dopo oltre una settimana.
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CI ERAVAMO VISTI SOLO UNA VOLTA Ci eravamo visti solo una volta due estati prima, a Prati di Tivo, e ci eravamo detti sì e no mezza parola dopo esserci educatamente presentati. Lui era un conoscente di miei conoscenti e la cosa finì così come era cominciata, con semplici saluti. Oltre ad uno scambio di mail per via di un mio libro con Ivo Ferrari non avevo condiviso altro, fino a quando mi manda un sintetico ma chiarissimo sms. «Mi piacerebbe trovare un socio per vedere il mare dal Paretone del Gran Sasso in inverno. Ciao, Ivo». Punto. La prima reazione che mi viene in mente è quella di fare orecchie da mercante, penso di non rispondere al messaggio facendo cadere la cosa con un meschino silenzio. Detto tra noi mi è venuto un certo timore misto ad ansia al pensiero di rimettere piedi e mani nel grandioso scenario di quell’enorme e ostile parete. Quanto tempo è passato dall’ultima volta? Lo so con certezza perché fu il giorno in cui io ed Alberto Bettoli ci trovavamo lì per aprire una nuova via, ma quando mancavano meno di cento metri all’attacco si staccò una valanga. Fino a quel momento eravamo sinceramente convinti che quella sezione di parete fosse al riparo da qualsiasi calamità naturale. Restammo Ci eravamo visti solo una volta 201
«Un percorso, il mio, che non è stato proprio una passeggiata… anni e anni di convivenza con un Io non particolarmente amato, stimato né accettato; […] di lavori onesti ma senza prospettive. […] idee sul proprio futuro assolutamente confuse… Poi ho cominciato a scalare, a seguire questa strada che mi ha dato sicurezza interiore, autostima, piacere nel fare ciò che faccio». Massimo Marcheggiani, Porto i capelli come Walter B.
«Massimo Marcheggiani è tra i miei alpinisti preferiti, capace di fare sognare intere generazioni con prime salite, prime invernali, prime solitarie. Un uomo completo e forse troppo poco conosciuto nei salotti dell’alpinismo, ma proprio questo amplifica il personaggio. Con Porto i capelli come Walter B. Massimo e i suoi meravigliosi compagni di cordata ci conducono in momenti di vita e di alpinismo veri, da cui gli amanti della montagna devono solo prendere esempio». Ivo Ferrari
€ 19,90
ISBN 978 88 85475 946