Nejc Zaplotnik
LA VIA traduzione di Dušan Jelinčič
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Titolo originale: Pot Edizione originale: © Mladinska knjiga Založba, Ljubljana, 2006 2019 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Traduzione: Dušan Jelinčič Consulenza linguistica: Ivana Sarazin
www.versantesud.it ISBN: 978 88 85475 953
Nejc Zaplotnik
LA VIA Traduzione di Dušan Jelinčič
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Prefazione di Dušan Jelinčič La meta dentro di sé
7
Ho trovato la via
19
Le notti e i giorni
35
Africa
61
Solo per cani e alpinisti
71
Campo 5
83
La cima nascosta
103
Karim 108 Gulam Mohamad
109
Ali
111
Drago 113 Gli uccelli nel bosco cantano ancora
125
La dea, madre della terra
143
Il Thorong La brilla al chiaro di luna
169
Al mio migliore amico a questo mondo, a mia moglie Mojca
Nejc Zaplotnik LA VIA 6
LA META DENTRO DI SÉ
RINCORRERE IL TRENO GIÀ PARTITO Prima di parlare della Via di Nejc Zaplotnik, libro cult dell’alpinismo sloveno, bisogna inquadrarlo nell’ambito di un fenomeno, che a molti potrebbe risultare incomprensibile, ma che ha le sue solide radici nella storia e nelle tradizioni del paese subalpino. Paese che ha sulla propria bandiera il simbolo stilizzato della sua montagna più alta, il Triglav, che gli Sloveni ogni anno salgono a migliaia come in un pellegrinaggio. Perché l’alpinismo sloveno rappresenta un fenomeno a livello mondiale che dura ormai da tempo e non mostra segni di cedimento. Le sue ragioni sono varie e risalgono al carattere, alla storia, situazione politica e conformazione geografica del territorio. La Slovenia è – con i suoi boschi, foreste, fiumi e laghi – dopo la Finlandia il paese più verde d’Europa. Ma soprattutto ci sono bellissime montagne, ideali per la gente comune, che hanno fatto sì che l’alpinismo e l’escursionismo diventino lo sport nazionale e soprattutto fenomeno sociale. Il piccolo territorio sloveno, prima di diventare stato sovrano nel 1991 è sempre stato terra di conquista anche alpinistica innescando l’orgoglio nazionale soprattutto tra le due guerre mondiali, quando sul Triglav e sulle montagne vicine imperversavano gli scalatori tedeschi e austriaci. Successivamente, dopo la Seconda guerra mondiale, il sistema socialista invogliava le persone ad emergere, perché i fuoriclasse sportivi, quindi anche gli alpinisti, erano privilegiati economicamente e soprattutto potevano viaggiare frequentemente. Infine, quello che ha contribuito moltissimo allo sviluppo dell’alpinismo sloveno è stato il carattere degli stessi abitanti – accontentarsi di poco, lottare tanto per realizzarsi, stringere i denti e non lamentarsi mai. Avendo fatto di necessità virtù e prendendo atto che i mezzi erano pochi, gli scalatori ci hanno messo il cuore e l’entusiasmo, e soprattutto tanto sudore e allenamento. Con questo approccio psicologico vincente, una preparazione fisica professionale, la motivazione alle stelle, una mentalità ben ancorata Prefazione 7
alla realtà e la sobrietà nei programmi, i sogni e i desideri sono emersi prepotentemente, anche se in ritardo, e si sono trasformati in splendida realtà. Perché gli alpinisti jugoslavi, la grande maggioranza dei quali erano Sloveni, sono arrivati al grande alpinismo quando le pareti mitiche e le grandi vette erano già state scalate. È stato allora che il capo carismatico dell’alpinismo sloveno Aleš Kunaver ha pronunciato la famosa frase: “Se vuoi acciuffare il treno in corsa devi correre più veloce di lui” che era come un grido di guerra. I risultati negli ultimi tre decenni del secolo scorso non si sono fatti attendere, tanto che Reinhold Messner disse che allo sviluppo dell’alpinismo moderno, che è stata un’invenzione britannica e centroeuropea, hanno contribuito molto gli Stati Uniti, il Giappone e soprattutto i paesi oltre l’allora Cortina di ferro, ma che il passo determinante nel suo prosperare lo hanno fatto gli Sloveni, mentre Steve House ribadiva che non esisteva terra al mondo dove il paese influenzasse l’alpinismo così profondamente come la Slovenia. Infatti, la lista dei successi degli alpinisti sloveni in tutto il mondo è impressionante. Spuntati dal nulla, nel 1975 tracciarono una via nuova nella parete sud sull’Ottomila Makalu, seguito soltanto due anni dopo dalla prima su un altro Ottomila, il Gasherbrum 1 nel Karakorum, per raggiungere l’apoteosi con la scalata nel 1979 della cresta ovest dell’Everest per una via nuova, chiamata Via Slovena, che resta ancora oggi la via più difficile per la vetta più alta del mondo. E poi non si contano più le prime e le prime ripetizioni nell’Himalaya, nel Karakorum, in Patagonia, nella Yosemite Valley in California, nelle Alpi di casa e nelle Alpi Occidentali, tanto che la grande cronista dell’alpinismo mondiale Bernadette McDonald, quella di Ti telefono a Katmandu, ha scritto che a Chamonix gli arrampicatori francesi, quando incrociavano i colleghi sloveni, di loro sentenziavano lapidari: ‘Se sono Sloveni sono sicuramente fortissimi’. D’altra parte, gli Sloveni sono ormai abbonati ai Piolet d’or, Piccozze d’oro, che sono dei premi Nobel per gli alpinisti, avendone vinti già sette volte, compreso il primo nel 1992, l’ultimo invece nel 2019. La ragione del loro successo l’ho toccata con mano nella spedizione sul Broad Peak nel 1986, a cui ho partecipato insieme ai mosti sacri Tomo Česen, Silvo Karo, Pavle Kozjek, Andrej Štremfelj e Viki Grošelj. Era impressionante lo spirito spartano che vi regnava e che bandiva ogni minima forma di comodità. Io dormivo con altri tre in una tenda da campeggio, nella tenda grande utilizzavamo i sacchi di riso come sedie, a colazione, pranzo e cena mangiavamo solo fiocchi d’avena, riso e chapati, e poi chiaramente scalavamo senza ossigeno, corde fisse e portatori, tutto in spalla e pedalare. I risultati? Dodici su quattordici membri della spedizione, incluso chi vi scrive, hanno scalato Nejc Zaplotnik LA VIA 8
la vetta del Broad Peak, quattro di loro hanno raggiunto in 32 ore in stile alpino la vetta del vicino Gasherbrum 2, mentre Tomo Česen ha tracciato una prima sul secondo sperone degli Abruzzi sull’attiguo K2. E poi quei ragazzi sapevano fare tutto, a parte parlare tre o quattro lingue: cucinare, riparare il materiale, cucire e addirittura fare le iniezioni. Inoltre, in due mesi non ho mai assistito a un pur minimo litigio, invece ho notato tanto cameratismo, correttezza, lealtà d’altri tempi e solidarietà. Chiaramente c’erano anche momenti difficili e ragioni di possibili tensioni, ma tutti hanno sempre saputo fare un passo indietro. E comunque sono sempre stati attenti e realistici nel gestire quei pochi mezzi finanziari che avevano a disposizione. Adesso viene spontaneo chiedersi: erano dunque dei privilegiati o dei poveri in canna? Probabilmente tutt’e due, o forse la verità sta nel mezzo. Lo stato di sportivo di prim’ordine dava loro dei vantaggi economici con cui coprivano soltanto in parte le spese. Non erano quindi poveri nel senso letterario del termine, semplicemente la loro attività esigeva tanto denaro ben oltre le loro possibilità. Mi ricordo quando, incontrandolo per caso ad Askole sulla via al Broad Peak, il grande alpinista polacco Vojtek Kurtyka mi disse di non aver potuto scalare il Trango Tower, perché i suoi compagni di cordata giapponesi erano dei mediocri alpinisti e non ce la facevano proprio a continuare l’ascensione. I Giapponesi gli hanno pagato la spedizione, lui invece ha contribuito con… se stesso. Dunque, si trattava della differenza delle possibilità finanziarie tra i paesi occidentali e quelli dell’est, e non di povertà in senso lato. Comunque, i più grandi alpinisti sloveni sono quasi sconosciuti all’estero, in patria invece sono passati dall’anonimato a essere quasi idolatrati, non perdendo comunque l’umiltà, ben sapendo che la vita vera è comunque altrove. I vari Franček Knez, Tomo Česen, Nejc Zaplotnik, Andrej Štremfelj, Silvo Karo, Janez Jeglič, Tomaž Humar, Slavc Svetičič, Marko Prezelj e tanti altri hanno fatto la storia dell’alpinismo sloveno. Inoltre Zaplotnik, con le sue tre prime su tre Ottomila, e Česen e Humar, con le scalate su pareti fino ad allora ritenute impossibili, hanno innalzato il livello psicologico e l’accezione stessa dell’alpinismo moderno. L’impossibile è diventato possibile. Sicuramente si tratta di un alpinismo diverso per approccio e mentalità, in cui ha un ruolo importante il rapporto con la sofferenza e con la morte. Gli alpinisti dell’Est, sloveni, polacchi, russi, cechi, slovacchi accettano la sofferenza e la morte in maniera sobria, ben sapendo che fanno parte del gioco, che l’incontro con loro è possibile e comunque prezioso e quindi si preparano a dovere con l’allenamento, che comporta velocità, e gran senso psicologico che presuppone intelligenza e buon senso. Però è anche vero cha la morte ha Prefazione 9
attinto troppo dalla irripetibile generazione polacca degli anni Ottanta e anche gli sloveni hanno dato un elevato contributo di vittime. Per quanto riguarda la sofferenza invece, questa viene accettata, come insegna Friedrich Nietzsche, come grande maestra di vita, quella che dischiude la porta della verità, perché spinge a farsi domande sul più profondo senso della vita e su tutto ciò che in condizioni normali si tende a dare per scontato. Ma non è tutto oro quel che luccica. Ci sono state delle spiacevoli polemiche, come quella, allargatasi presto a macchia d’olio anche oltreconfine, della prima salita di Tomo Česen sulla parete sud del Lhotse e quella sull’uso sproporzionato dei social nella comunque eccezionale salita solitaria di Tomaž Humar sulla parete sud del Daulaghiri e ancora del suo soccorso con l’elicottero sul Nanga Parbat. Nonostante questi scivoloni che potremmo definire fisiologici, l’alpinismo sloveno resta ai vertici mondiali, confermando le sue sane e solide basi.
IL MITO TROPPO UMANO E LA SUA VIA Ci sarà una ragione se Bernadette McDonald ha scritto ben due libri sull’alpinismo sloveno, uno sui guerrieri venuti dall’Est, l’altro sul prigioniero del ghiaccio Tomaž Humar, nei quali ha seminato tantissime citazioni dalla Via di Zaplotnik, libro che si è fatta tradurre a voce per skype da un’amica slovena. E ci sarà una ragione se le ristampe della Via dalla sua prima uscita nel 1981 non si contano più, che anche recentemente è stata ripubblicata come romanzo d’appendice dal maggiore quotidiano sloveno Delo e che le massime e i pensieri più belli sono usciti in un libro-cofanetto regalo. E non è neanche un caso che Zaplotnik abbia un monumento a Kranj, un angolo di museo, vie alpinistiche dedicate a lui, mostre, documentari e quant’altro e che addirittura tanti genitori hanno chiamato il loro figlio Nejc in suo onore. Ma qual è il segreto di questo libro alpinistico che è assurto a libro-simbolo della comunità slovena? Le ragioni sono varie e spesso molto differenti tra loro, ma tantissimi, e non solo alpinisti, lo hanno adottato perché rappresenta la parabola della vita dove tutti vi si possono rispecchiare. È un libro che tramite l’alpinismo rappresenta la metafora della nostra esistenza, dove le montagne fanno da quinte maestose e le sue storie vere compongono un mosaico di un romanzo di formazione in racconti. Forse questo ‘Bildungsroman’ si può riassumere nell’ormai celeberrimo motto, tratto dalla sua poesia alla fine del primo racconto: Nejc Zaplotnik LA VIA 10
Chi cerca la meta, resterà vuoto quando l’avrà raggiunta, chi invece trova la via, avrà la meta sempre dentro di sé. È vero che questo adagio l’hanno già scritto in vari modi grandi filosofi e scrittori, ma nessuno come lui ha saputo applicarlo così coerentemente alla propria quotidianità. O come ha detto Viki Grošelj, l’amico e compagno di varie spedizioni che l’ha dissepolto dalla valanga sull’Ottomila Manaslu e infine posato nella tomba: “Nejc viveva la sua vita pregna di umanità in maniera così schietta, vera e sincera proprio come l’ha descritta in questo libro”. Un pregio non da poco, che ha trasformato le sue pagine in una specie di bibbia che ha influenzato tutta una generazione di alpinisti, che lo leggevano e rileggevano prima di ogni salita come un libro guida. Ma questo non basta ancora per spiegare il successo della Via. Determinanti sono le idee che l’autore esprime in questi racconti che ha scritto negli ultimi anni della sua vita, troncata a 31 anni nel lontano Nepal. Concetti di un’attualità e freschezza che odorano di gioventù, speranza, delusione, gioia, disperazione, voglia d’amore, sogni d’immenso, gioia di vivere e catarsi nell’assoluto. Ogni racconto, come Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, nell’imponente palcoscenico delle montagne, contiene delle idee e riflessioni che potrebbero stare anche a sé stanti, ma che qui sono collegate in una collana di nove perle che ancora dopo decenni brilla senza segni di appannamento. Come tutti i ‘Bildungsroman’ comincia con la prima giovinezza in una famiglia contadina numerosa e la prima voglia di libertà e orizzonti lontani. Da bambino, Zaplotnik era molto malato e proprio allora, come ha scritto lui stesso, si è condannato alla libertà, costi quel che costi. La parabola continua con un bambino che diventa ragazzo che di giorno va a scuola, pascola il gregge e sogna le montagne circostanti, e di notte legge all’insaputa dei genitori. La via è già tracciata e ormai parte con inarrestabile vigore. Le prime arrampicate e i prima amori arrivano contemporaneamente e con loro i primi dubbi e la voglia di evadere. Già allora rende giustizia alla montagna, sentenziando alla vista dei primi compagni caduti sulle pareti di casa che, nonostante l’apparenza, non esistono montagne crudeli. E già allora abbraccia il motto di Edith Piaf di non rimpiangere nulla: je ne regrette rien! Anche l’orgoglio nazionale, o forse soprattutto sociale, viene prepotentemente a galla, quando con i suoi calzoni lisi e le scarpe consumate con la propria scalata elegante e veloce umilia degli alpinisti austriaci attrezzati a puntino, che lo offendevano come sporco Balcanico. Con la sua brama di conoscenza e la voglia di varcare i limiti la parabola si sposta prima in Africa, dove traccia Prefazione 11
una via nuova sul Mawenzi in Tanzania, poi nella Yosemite Valley in California, dove a vent’anni scala la via Salathé su El Capitan. L’orizzonte si allarga ancora nei prossimi racconti sulle salite in Himalaya, sul Makalu, dove a 23 anni traccia una nuova via sulla quinta montagna del mondo, e sul Gasherbrum 1 con la prima salita sulla cresta sud-ovest, dove già esterna un’ideologia e una filosofia propria che prorompono con la sicurezza di uno che tutto quello che ha, se l’ha guadagnato sul campo. Se nel racconto sulla spedizione in California si sofferma soprattutto sulla società e quindi sull’esteriorità, in Himalaya le sue riflessioni fanno un salto di qualità. Il cartello Only for dogs and alpinists!!! con tre punti esclamativi nella Yosemite Valley, posto davanti al campo degli alpinisti vestiti in maniera bizzarra, senza un soldo, che bevono birra e fumano erba era emblematico ed era lo specchio di cosa pensava la società perbenista americana dei suoi cenciosi abitanti. La contraddizione postcapitalistica degli alpinisti paragonati a cani, mentre gli innocui orsi erano intoccabili e potevano tranquillamente vagare tra le tende e razziare il cibo, è palese. Come per i combattimenti di cani, anche i turisti grassi e sudati di Nejc si sedevano sui terrazzi soleggiati e fisavano con i binocoli le pareti per scovare gli alpinisti e a ogni caduta, puntualmente finita con un pendolo sulla corda, seguiva un volgare strepitare da stadio. Invece nei seguenti racconti himalayani Zaplotnik si dedica soprattutto all’amicizia, alla lealtà e al loro contrario: l’invidia. È addirittura commovente la scena del dialogo nell’ultimo campo sul Makalu prima dell’attacco alla vetta. Al momento cruciale, quando pensavano di non poter salire senza l’ossigeno – e non c’erano bombole per tutti – tutti con le lacrime agli occhi volevano rinunciare alla cima, sogno di una vita, a favore dell’altro. Quando fu loro comunicato che l’ossigeno non era necessario cominciarono a gridare di gioia e rotolarsi come bambini. Probabilmente non è un caso che il libro sia dedicato ‘al mio migliore amico a questo mondo – a mia moglie Mojca’. L’amicizia come un solido patto che dura tutta la vita. Ma Nejc parla anche dell’invidia. Questa parola è ripetuta spesso perché da persona leale e sensibile l’ha sovente percepita. Perché essere diversi dalla massa, non seguire i consigli di quelli che si reputano onniscienti, e dopo avere ragione, è una pecca imperdonabile, soprattutto se il tuo atteggiamento indipendente porta al successo. Perché il successo è sopportato molto peggio della cattiveria e della vigliaccheria e bramare più di quello che ti hanno destinato è una inaccettabile trasgressione. E poi parla tanto della famiglia, dei suoi tre figli piccoli di cui si chiede cosa stanno facendo, ma anche gli scerpa e i portatori sono spesso nei suoi pensieri. Nejc Zaplotnik LA VIA 12
Li vuole conoscere, aiutare, strappare loro un sorriso. E soffre con loro e con i loro bambini, che prende nel suo sacco a pelo quando hanno freddo. Però nella gioia e nel dolore, nella fatica e nell’ozio c’è spesso un velo di malinconia come se si accorgesse che il tempo corre troppo in fretta e presagisse la propria fine. Non a caso nel racconto che precede quello più lungo e sontuoso sulla grande spedizione all’Everest parla degli uccelli che ancora cantano nel bosco. Come se volesse appropriarsi lo stupore dei suoi bambini con cui va a passeggiare tra il verde. Allora tra i giochi e la gioia condivisa con i pargoli viene assalito dai dubbi e dai rimorsi quando lo accarezza un impercettibile alito di vento, come volesse avvertirlo di non dimenticare che la vita vera è solo a casa e che gli orizzonti lontani sono soltanto una breve parentesi che rendono la quotidianità più sopportabile. Il racconto sull’Everest è sì la storia di una grande vittoria, ma anche il momento della crescita e della disillusione definitiva. Sa che dopo lo straordinario successo della prima sulla vetta della Madre dell’Universo più in alto non si può salire, ma anche percepisce il richiamo della vita vera, quella delle responsabilità e della lotta quotidiana nella nebbia a valle, che tutti i potenziali Peter Pan dovranno prima o poi affrontare. Già sulla cima dell’Everest, frastornato dalla fatica e dalla mancanza d’ossigeno il suo subconscio gli detta le parole riascoltate al campo base con gran stupore, ‘sono in cima e non so cosa fare’. Non c’è quindi niente di eroico nell’assediare e dopo tante battage vincere la guerra conquistando la vetta. Il suo subconscio ha solo confermato quello che gli è sempre sgorgato dal cuore con grande sincerità: non sa cosa fare perché la meta fuori di te non esiste e la cima è soltanto una tappa nel cammino sulla via che dura in eterno. L’ultimo racconto è la storia di un ritorno a valle, di un lento avvicinarsi a casa, e non di una conquista: o forse il saper ritornare è già di per sé una conquista. Il titolo che cita il passo Thorong La al chiaro di luna sotto le Annapurne – dove Zaplotnik, subito dopo la spedizione sull’Everest, ha fatto per sei mesi l’istruttore di alpinismo nella scuola per sherpa a Manang, fondata e gestita dagli sloveni fino ai tempi recenti – è simbolico. Si arrampica, si vince e si perde, si spera e ci si dispera, ma alla fine quello che determina i nostri giorni sono la pioggia e il sole, il riso e il pianto, la nebbia e il chiaro di luna. L’idea per aprire quella scuola è venuta proprio sull’Everest, quando lo sherpa Ang Pu, dopo aver scalato per la seconda volta la cima, al ritorno con la seconda cordata slovena, è scivolato sul ghiacciaio e non si è saputo fermare con la piccozza e i ramponi. E in quella scuola e nei villaggi vicini Nejc incontra l’umanità vera e decide di amare quella terra. Prefazione 13
Ed è proprio qui che l’autore svela la sua grande sensibilità, quando in ospedale ammira la tenerezza di un padre per il proprio bambino ferito o quando la vista di una bambina vestita di stracci sporchi nelle stradine di Katmandu lo scuote fino al midollo. E infine si deve confrontare con la solitudine, la confusione, la paura del domani e qui si palesa il giovane neanche trentenne con tutti i problemi e le contraddizioni di quell’età, quando afferma che la strada scende ripida, anche se la curva dei successi continua ad impennarsi, oppure quando dice di ammirare le persone la cui vita è una pianura calma, perché la sua è come un fiume in piena. La verità è che non vorrebbe o semplicemente non potrebbe mai essere come loro, anche se qualche volta nei momenti più bui sogna una pianura senza vento e una vita senza tempeste, che nelle montagne abbondano.
LA VIA ILLUMINATA DA PASSIONE E PENSIERI La scrittura di Nejc Zaplotnik è l’apoteosi della contraddizione, dell’umano, del fragile sia in montagna che a valle. Parla pochissimo di tecnica, dei gradi, del sistema di progressione in parete, tanto che dopo la salita non sa spiegare i dettagli tecnici della via, con grande disappunto degli amici che glielo chiedono. Semplicemente non gli interessa perché privilegia la bellezza, la libertà che la salita comporta e soprattutto l’uomo che scala la parete. La roccia è materia senz’anima e prende vita solo con l’arrivo dell’essere umano. Il successo senza umanità è vacuo o, come riflette sotto la parete di El Capitan: “Non ho mai dato importanza al successo e basta, se dietro non si celava un grande uomo … Il successo nella vita non ha importanza perché l’ambizione ti chiude la strada verso l’uomo, e il successo ti isola e ti aliena gli amici…” Nejc Zaplotnik, pur essendo un grande alpinista, all’epoca paragonato a Reinhold Messner stesso, è soprattutto un artista e un uomo con tutti i suoi dubbi, sbalzi d’umore e contraddizioni. Ma è pure un essere indipendente con una personalità prorompente e una gran sete di sapere, ma anche un poeta vero, come lo dimostrano i passi lirici struggenti disseminati in tutto il testo e nelle poesie alla fine di tanti racconti. Uno che detesta i conformismi e cerca la bellezza anche e soprattutto nella miseria e negli anfratti bui, perché è lì che spesso si annida, come canta Fabrizio De Andrè, che dal ‘letame nascono i fior’. Nejc è uno che è cresciuto troppo in fretta e vissuto come se fosse sempre su un treno in corsa perché amava troppo la vita e voleva coglierla in tutte le Nejc Zaplotnik LA VIA 14
sue sfumature e la sua vastità. Un uomo buono e sensibile, ribelle e senza compromessi, insofferente e dolce, sicuro e indeciso, insicuro e deciso. La sua è una scrittura moderna con tanti flashback e riferimenti letterari, coraggiosa, affrontando di petto argomenti delicati come la morte, l’amore o l’amicizia, e infine epica, com’è giusto che sia una scrittura di alpinismo, quando per esempio descrive la lotta per la vita sull’Everest o sul Makalu. I racconti, anche se scritti in vari periodi, hanno una coerenza e un filo temporale e concettuale logico e scorrevole. Ma la forza trainante della Via sono le riflessioni, i pensieri e gli adagi sempre attuali e profondamente ancorati nella quotidianità, anche se esternati in un contesto fuori dal comune, che formano con l’affascinante e spietato ambito esterno una combinazione di grande efficacia. Leggendo il libro, qualcuno ha obiettato che a volte si tratta di riflessioni e concetti semplici di un giovane entusiasta della vita e travolto dalla voglia di fare che spesso rasentano l’ovvietà e i luoghi comuni. Mi sembra un giudizio decisamente troppo severo. Allora anche la vita è ovvia e la quotidianità è… quotidiana. L’autore ha semplicemente interpretato il pensiero di quelli che cercano qualcosa di più nella vita, la conoscenza, la bellezza, e soprattutto la… via, ma che non hanno saputo esprimere. Come quando leggi i libricini Bignami e simili sulle cento massime di Oscar Wilde, Goethe o Nietzsche. Tante potrebbero suonare semplicistiche e banali proprio perché estrapolate dal contesto.
IL FILO ROSSO TRA MALLORY, KANDINSKY E BONATTI Tanti hanno voluto spiegare perché si va in montagna per le vie estreme rischiando la pelle e molti hanno liquidato la questione con una battuta o frase ad effetto. Così il grande alpinista francese Lionel Terray parla della conquista dell’inutile, George Mallory prima di sparire per sempre sotto la cima dell’Everest nel 1924 invece liquida la questione che cercherà di salire in vetta semplicemente perché è lì. Invece Nejc, partendo dal presupposto che nessuno ci va a morire, ma per vivere a piene mani, lo spiega senza tanti giri di parole: perché la forza del vissuto nei luoghi più vicini al cielo è infinitamente più intensa che a valle e che la lotta contro le avversità della natura ha una sua etica, perché ci sprona alla ricerca della bellezza, ci rinforza lo spirito e ci avvicina alla realizzazione di un amore sublime. Prefazione 15
Se il grande artista russo Vasilij Kandinsky da pittore diceva che ogni essere umano ha un suo colore – l’arancione rappresenta la convinzione nelle proprie capacità, l’azzurro la forza della profondità e il moto concentrico e il rosso risuona nell’anima con la solidità e l’energia, che non si disperde –, Zaplotnik rappresenta tutt’e tre i colori: era forte e profondo, ma sapeva vivere nel dubbio e nell’incertezza senza piegarsi. Durante la traduzione mi sono spesso chiesto a chi tra gli alpinisti più rinomati potrebbe assomigliare Zaplotnik. Forse un po’ a Messner, per la profondità delle idee e la convinzione nei propri mezzi, e un po’ a Walter Bonatti, per la forza del pensiero, coerenza e soprattutto per l’umanità con i suoi dubbi, le rinunce e la lealtà assoluta. Come Bonatti forse avrebbe abbandonato l’alpinismo estremo – nel mondo c’è ancora tanto da scoprite e da conoscere - o forse no: perché la montagna più bella è quella che non hai ancora scalato. Forse non sarebbe rimasto solo nell’alpinismo, ma avrebbe allargato la sua visione al continuo affannarsi a realizzare sogni. Però me lo immagino come Bonatti in giro per il mondo a scrivere reportage mozzafiato dai più sperduti luoghi della terra… Infatti, dopo l’Everest Zaplotnik ha decisamente rarefatto il numero delle salite e delle spedizioni. Due anni dopo la scalata sul tetto del mondo ha affrontato la terribile parete sud del Lhotse, l’anno seguente lo ha dedicato tutto alla famiglia, allo studio e al libro che è uscito proprio allora, poi nella primavera del 1983 è stato invitato a una spedizione croata sul Manaslu. L’ultima, che gli è stata fatale… Infine, l’adagio universale di Nejc sulla meta che è un’illusione e sulla via da percorrere è ancora attuale o la società, che distorce i valori e cancella il superfluo, e il tempo che tutto appiana e tutto stritola hanno amalgamato nella mediocrità le idee e i sentimenti più nobili? Penso che lo spirito che emana dagli scritti di Nejc Zaplotnik e alleggia sulla sua via brilli ancora di luce propria nel firmamento degli umani desideri, perché ognuno ha la propria Himalaya, il sogno che aiuta a vivere e la via da percorrere da meta a meta che non finisce mai.
Dušan Jelinčič, novembre 2019
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HO TROVATO LA VIA Fin dove spazia lo sguardo, solo montagne. Audaci picchi di pietra, ghiacciai, possenti versanti ghiacciati delle vette più alte del mondo. Il gemito del ghiaccio sotto di me, le tormente, le fredde notti polari, lo scroscio rilassante di un torrente glaciale, che il freddo ha lentamente trasformato in ghiaccio, le facce esauste e gli occhi luminosi degli amici, le barbe ghiacciate, le dita infreddolite, lo scoppiettio dei fuochi, il silenzioso mormorio di canzoni, le piccole articolazioni della roccia che mostrano la via, il senso di leggerezza, le strade, i sentieri, gli aeroporti, i bambini, la casa, il lavoro, le notti insonni, il fango fino alle ginocchia, la pioggia, le sanguisughe, la paura, il coraggio, gli allenamenti estenuanti, giorno dopo giorno, le feste, la corsa frenetica, il lento, silenzioso camminare del viaggiatore solitario, le vittorie, la felicità, la tristezza, la delusione, la morte, lo sforzo costante, l’ozio, una casa accogliente, l’amore, il pericolo, l’avventura… Tutto questo è la mia vita. La via che non porta da nessuna parte se non alla prossima via, che a sua volta porta al bivio seguente. All’infinito. La libertà nel senso più completo della parola. Sono condannato alla libertà, così libero, che tra la moltitudine di persone, che mi vogliono bene, e tra quelli, che non me ne vogliono, resto solo. Solo con i miei desideri, con i miei sogni, con la mia bramosia, e solo sulla mia strada infinita. E questa storia non è Ho trovato la via 19
frutto della fantasia, nata accanto al calore di una stufa, ma nata dalle parole cresciute in me, quando, con il sudore della mia fronte, mettevo alla prova la mia forza di volontà e i limiti dell’umano; e l’ho fatto a fondo. Così a fondo che so bene di non averli raggiunti neanche lontanamente, e che molti li supereranno presto. In questo sta la grandezza della vita. Vicino a Kranj, a un solo chilometro a nord, c’è il paesino di Rupa. Un campanile rosso si innalza su un basso colle e in inverno le montagne innevate delle Caravanche e delle Alpi di Kamnik brillano attraverso i frutteti spogli, e la sera il sole tramonta lontano, dietro le vette acuminate delle Alpi Giulie. Per quasi vent’anni, giorno dopo giorno, fissavo questo paesaggio, per me così magico, tra le travi dei kozolci1. In un minuscolo bilocale ci stringevamo tre fratelli, mio padre e mia madre. Io ero così malato che si erano rassegnati fossi la loro croce da portare. La celiachia e il reumatismo articolare mi tormentavano così tanto che avevo dimenticato come si cammina. Per sette anni mangiai cibo molle che sembrava già masticato, senza pane né altri carboidrati. Ero trasandato, fisicamente intollerante e come tale contrassi ogni malattia infantile possibile. Ricordo ancora come dovetti andare in ospedale a causa della scarlattina. Per via della mia dieta mangiavo tipi di frutta che gli altri bambini potevano solo sognarsi. Allora era ancora difficile trovarla, ma io ero stufo fino alle orecchie di tutte quelle arance, banane e altro cibo per scimmie, volevo solo le pagnotte profumate e fresche di forno che ricevevano gli altri pazienti. E loro bramavano la frutta, così aprimmo un mercato nero: una pagnotta per due banane o per una banana e un’arancia. Quando iniziai ad andare a scuola, ero estremamente a disagio, in quanto ero magro come uno stecchino, solo la mia pancia era bianca e gonfia, come quella di un pesce morto che si gira sulla schiena. Mia madre dovette sopportare molto per causa mia. So bene perché a Brnik, quando tornai dall’Everest, ci buttammo le braccia al collo e si mise a piangere come una bambina. “Mio figlio, con cui pellegrinavo di ospedale in ospedale, che ho portato in braccia indolenzite, al cui capezzale ho passato infinite notti insonni temendo per la sua vita, è stato sulla vetta più alta del mondo!” Anche a me scendevano le lacrime. Era una donna delle pulizie, e gli uffici che mia mamma puliva erano sempre perfetti e lucenti. Dovunque passasse, tutto brillava. Ancora oggi mi sembra così. Puliva anche le case della piccola borghesia e mi ha lasciato 1. Essiccatori per foraggio in legno di varie forme e dimensioni, comunissimi in Slovenia, N.d.T.
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l’orgoglio che nasce dopo infinite umiliazioni. Orgoglio, odio e la speranza in qualcosa di più bello, migliore e più giusto. Mio padre invece cuciva e cuciva, a casa e al lavoro, fino a tarda notte. Cuciva, canticchiava e ci raccontava storie, e noi bambini gli stavamo seduti intorno a bocca aperta e con le orecchie tese. Raccontava storie anche quando noi, già adulti, le conoscevamo a memoria e non le ascoltavamo più. L’ago sottile guizza tra i vecchi stracci e li trasforma in nuovi, gli occhiali sono appollaiati sulla punta del naso. Le parole invece, calme e lente, monotone come un ago, aprivano ai bambini un mondo di fantasmi, streghe, eroi, ricconi e orfani. Era bello a casa nostra, in un certo senso calmo e accogliente. Noi bambini passavamo i giorni feriali a scuola e sui campi e pascoli del vicino, le domeniche invece andavamo con nostro padre in gita nei boschi e sulle colline vicine. Facevamo una gita più lunga solo una volta all’anno, quando bisognava approfittare della tessera sindacale. Per riprendermi dalla malattia e per essere una bocca in meno da sfamare, ho passato tutte le vacanze, dalla prima elementare in poi, da mio cugino, nella grande fattoria Suhadolnik sotto il Grintovec. Questa era la mia vera casa. È addirittura successo che scappassi di casa, quando mio padre voleva che passassimo insieme le vacanze di Capodanno. Era il posto ideale per un giovane monello abituato al lavoro nei campi. Lavoravo sodo, a volte anche oltre le mie capacità fisiche di quegli anni, ma il lavoro pesante nella natura non mi affaticava mai. C’era sempre qualche bella domenica, in cui, dopo la messa, scappavo nei boschi sotto la Kočna o sotto la cresta di Kalce a inseguire camosci, o a cavalcare i cavalli al pascolo, o a mettermi alla prova sulle rocce. Le vacanze invernali erano sempre qualcosa di speciale. Tutto giaceva tranquillo sotto la neve alta. Riuscivo a sentire come la natura riposava, anche se allora ancora non ci pensavo. Andavamo a messa con la slitta, enorme e pesante, che però, grazie alla strada ghiacciata e appiattita da tronchi, si governava abbastanza facilmente. La strada, che d’estate si percorreva in mezz’ora, con la slitta durava solo alcuni minuti di folle corsa nel primo mattino. Facevo di tutto: badavo ai neonati, pascolavo, falciavo, aravo, mietevo, d’inverno trasportavo la legna, e mi sentivo molto adulto. Ho imparato che in natura non si va mai a riposare: se vuoi che la natura ti accolga, devi lavorare sodo e viverla! Qui ho fatto le mie prime esperienze in montagna. D’estate raccoglievamo il fieno profumato e noi bambini, quando avvistavamo degli escursionisti che si trascinavano tutti rossi in viso con i loro zaini pesanti, urlavamo a squarciagola: “Arrivano i turisti! I turisti!” Ho trovato la via 21
“Nema junaka Hrvata, kao što je bio Jelačič ban!”17 e boom, coi pugni sul tavolo. Il più entusiasta colpisce un bicchiere col polso, il sangue sgorga e si mescola con la bevanda versata, ma l’eroismo è smisurato e non bada alle ferite. Stretti in un angolo, trangugiamo impauriti un pessimo caffè e scappiamo sull’autobus. Verso l’alba si accendono le prime stelle. Il mondo intorno a noi assume piano forma e colore. Tutto è bianco come un lenzuolo, cosparso di zucchero a velo e ghiacciato. Ci prepariamo piano alla scalata, ma siamo duri come dei pezzi di legno. Sento gemere ogni singola vertebra. Cerco degli appigli su un camino verticale, ma è tutto così maledettamente liscio. Ho le dita intorpidite, non sento più nulla, ma non posso neanche piantare un chiodo per far riposare le mani e scaldarmele. Cadrò! Mišo è molto più in basso, assicurato a due chiodi precari, e osserva stoicamente la mia danza e battaglia per due vite. Il solo pensiero di finire sulle pietre sotto la parete mi infonde nuove e centuplicate energie. Neanch’io so dove riesco a trovare dell’attrito per tirarmi felicemente sulla cengia. Ci sleghiamo, mettiamo via la ferraglia e la corda e ci affrettiamo verso la cima. Il sole! Sole caldo, fonte di vita! Ci stringiamo le mani e la lunga notte è dimenticata. Non potrebbe essere altrimenti, con la piramide dello Jalovec in fiamme e le Ponce inondate dalla luce calante, il luccichio del lungo nastro dell’Isonzo tra il verde rigoglioso dei boschi ai nostri piedi, circondati da pareti che si innalzano sotto la neve fresca. Quant’è bello il mondo, se devi impegnarti seriamente per poter vedere la bellezza. L’alpinismo è un’arte: investi tutte le tue energie, tutta la tua anima nel lavoro, dimentichi tutto, vivi solo per il metro davanti a te, e quando arrivi stanco sulla cima innevata scaldata dal sole, senti in te una bellezza indescrivibile. Senti il mondo, senti la Terra, il Sole, il vento, tutto respira al tuo stesso ritmo e ti stordisce. L’amico al tuo fianco è in silenzio, solo i suoi occhi brillano sopra le guance scavate, e sai senza doverglielo chiedere che prova le stesse sensazioni. Che sta vivendo la vita stessa! Vivi la tua esistenza e quella della natura che ti circonda senza desideri, senza pensieri. La sera ti sdraierai di nuovo a letto e vivrai tutta la comodità di un giaciglio morbido e caldo. E mangi il tuo brodo caldo, fumante, con gesti lenti e reverenziali. La cena, anche se modesta, è un rito. Quando ti chini per raccogliere l’acqua da un ruscello fresco, senti tutta la bontà del liquido limpido e la felicità di avere l’acqua vicino al sentiero. Le cose entrate nella quotidianità, che gli uomini non notano più, in quei momenti sono una 17. “Non esiste eroe croato più grande, di quanto non lo fosse il bano Jelačič”, N.d.T.
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ricchezza incommensurabile, ti dedichi a loro anima e corpo. Mangi perché hai fame, bevi perché hai sete, dormi perché sei stanco, e non perché è ora di pranzo, o perché la notte è il tempo del riposo, e ogni fibra del tuo corpo sente che mangi e bevi, che dormi come un ghiro. Come in passato, quando gli uomini vagavano sulle steppe e nei boschi e non si stringevano sulle vie. In cima alla Loška stena, la notte è così fredda da poterla toccare. Abbiamo camminato tutto il giorno sulla neve vecchia e sull’erba sradicata dalle valanghe. Scaviamo un bivacco nella neve sulla cima della Krnica alla luce dorata del tramonto. Le lunghe ombre della cresta affilata si proiettano sulla nebbia che riempie il fondovalle della Bavšica. Il sole tramonta dietro al Jof Fuart, e a est sorge una luna piena che riesce quasi a mantenere la luce del giorno. Prepariamo la cena. Inizia una notte così maestosa che non diciamo una parola, e il brodo caldo ci impedisce di sentire il freddo. Completamente diverse erano le notti in cui marciavamo lungo l’infinita valle di Krma verso Kredarica. A festeggiare il Capodanno! Come regalo di Capodanno ricevetti dalla scuola un giorno di vacanza in più. L’autobus fa fatica a passare le colline innevate sopra Peračica, i fasci di luce dei fari penetrano la fitta barriera di fiocchi bianchi. Continua a nevicare, la valle sta già gemendo sotto la spessa coltre di neve fresca, chissà come dev’essere in montagna! A Dovje ci fermiamo in mezzo a una vera e propria tormenta e per poco non decidiamo di attraversare la strada e aspettare l’autobus per tornare a casa. Mojstrana è sepolta dalla neve, solo le finestre illuminate testimoniano che la zona è abitata anche d’inverno. Nel buio oltre il paese ci attende un idillio invernale, gli abeti sono curvi e si liberano con difficoltà del loro fardello. Una forza inarrestabile ci chiama verso la notte, nel silenzioso fruscio dei fiocchi di neve, del rumore del vento e del rombo delle valanghe. Che follia, questa scalata! A valle in un solo giorno era caduto un metro di pesante neve umida, sulla Kredarica invece quasi due. Non so come abbiamo fatto a tornare vivi! Facendoci strada nella neve arriviamo a Radovna, ancora buia. È già tardi, il giorno volge verso il mattino. Il paese giace sparso e silenzioso, solo qua e là si sente qualche catena e un abbaiare rauco. Dalle stalle arrivano i rumori irregolari del ruminare, il calore invitanti dei corpi animali e l’odore intenso di letame fresco. Ci buttiamo nel primo fienile che troviamo. Ci sveglia un mattino grigio, cupo e tetro. Nevica così tanto che il cielo e la terra sembrano collegati da sottili fili bianchi. Tra le alte torri bianche, che Le notti e i giorni 47
appena in autunno erano ancora abeti verdi, e tra faggi piegati quasi fino a toccare terra, navighiamo verso Zgornja Krma. Il giorno avanza spietatamente, e i nostri passi vengono divorati da infinita farina bianca. Le valanghe tuonano dal Draški vrh, alcune proprio fino a fondovalle. All’altezza della Zgornja Krma giriamo in uno stretto canale verso le baite dei cacciatori. È così pieno di neve che facciamo una fatica immane ad avanzare in salita. Il grigiore senza forma pian piano si rabbuia e ci sorprende la notte. È l’ultimo dell’anno. Ci accampiamo in una capanna dei cacciatori, accendiamo un fuoco e iniziamo i festeggiamenti, silenziosi e stanchi. Dallo zaino spuntano una bottiglia, un dolce fatto in casa, un’armonica, un pacchetto di sigarette e siamo a posto. A mezzanotte io e Stane spegniamo solennemente ‘le ultime sigarette della nostra vita’, le posiamo sulla paletta dei rifiuti, accendiamo una candela e tra i lamenti le sotterriamo nella neve davanti alla porta. La notte impenetrabile volge piano verso un grigiore ovattato. Continua a nevicare. Continuare per il sentiero è una vera e propria battaglia col fiume di neve. Prima proviamo con gli sci. Non va, sprofondano troppo nel biancore soffice. Mandiamo Tomaž e Vlasta a fare la prova del fuoco con le ciaspole. Ancora peggio. Dovremo usare le armi bianche. All’assalto! Lego gli sci sullo zaino, gli altri le lasciano nel rifugio e senza più i piedi allungati affondiamo nella neve fino alle spalle. Ti tiri fuori fino alla vita con la piccozza, poi la appoggi davanti a te, ci sali sopra con le ginocchia, poi con i piedi e ti butti in avanti. Ci diamo il cambio ogni paio di metri, chi era in testa va in fondo, in cura dalle ragazze. Il sentiero continua all’infinito. Quando traversiamo sotto Kalvarija, tutto il versante esplode e per un pelo non ci trascina indietro nella Krma. “Dobbiamo evitare il sentiero estivo, ci sono troppi rischi di valanghe!” constatammo da veri esperti. Fu davvero un po’ pericoloso quella volta. Oggi so che la verità è questa: fino a quel punto 99,9% di rischio, oltre 100%! Allora decidiamo di salire per il costone roccioso sulla cresta di Rž. Non ci ricordavamo che i sentieri vanno sempre in due direzioni: in salita, ma basta girarsi e si va in discesa. Sull’Rž ci accoglie un vento d’uragano che spazza i nostri corpi stanchi come foglie. Facciamo fatica a non volare via. La cresta si allarga in una gobba e all’improvviso sbatto conto il rifugio. Questa volta i corvi camminavano nel cielo sotto Kredarica, tanta nebbia c’era. Il meteorologo si sentiva solo ed è felicissimo di vederci. Ovviamente bisogna festeggiare di nuovo. Stanco, un po’ per la strada fatta, ancora di più per l’alcol, mi addormento nella stanza con gli strumenti meteorologici sotto il tavolo. Un grande pastore tedesco mi scalda. La mattina seguente lo guardo: il pelo rosso gli pende dal muso. Da quando i pastori tedeschi sono rosso Nejc Zaplotnik LA VIA 48
fuoco? Poi mi accorgo che il pelo non è pelo, ma lana, quella che ancora ieri era una manica del maglione che scaldava il mio braccio sinistro. E il cane mi guarda con quegli occhioni gentili... Scaliamo anche il Triglav e nel fragore della tempesta cerchiamo la torre di Aljaž sepolta sotto la neve. La discesa dalla Kredarica è un’altra strana avventura speciale. C’è così tanta neve che non riesco proprio a sciare. Con gli sci ai piedi sprofondo più volte nella neve fresca. Al rifugio dei cacciatori, dove anche gli altri si mettono gli sci, ci viene in mente la tattica dell’ariete: il primo sfonda il primo paio di metri nella neve, il secondo scende per il sentiero appena scavato e sfonda un altro paio di metri, e così via - ed eravamo un bel gruppetto - finché non accumuliamo abbastanza velocità da creare un vero e proprio tunnel nella neve. Non capirò mai come siamo riusciti a scampare alle valanghe in quelle meravigliose giornate sotto Capodanno. Quello stesso inverno camminavamo sotto il Grintovec su della neve compattata dal vento, con le ciaspole che raschiavano, e all’improvviso phhh! Ci trascina, Mojca, Igor e me, dietro una grande roccia qualche decina di metri più in basso, mentre i giganteschi lastroni di neve intorno a noi scompaiono verso Dolec, tuonando rumorosamente. Non ho mai creduto nel sovrannaturale, ho sempre confidato solo nelle mie capacità e nel mio cervello, ma oggi, dopo vent’anni di arrampicate, quasi credo nella mia buona stella. Quasi credo che con la forza di volontà, fiducia, comportamento e sensi si possono influenzare le leggi della fisica. O piuttosto il contrario: le leggi della natura influiscono sull’uomo che vive a contatto con la natura, sulla sua forza di volontà, sentimenti, corpo, sulla persona intera. La natura e l’uomo si fondono in un’armonia e si condizionano l’un l’altra. Quante volte un chiodo si è sfilato solo dopo che non mi serviva più, ho anche estratto qualche chiodo su cui mi calavo, con tanto di corda dalla fessura, quando ero già al sicuro sulla cengia. Una caduta che avrebbe aperto in due un bue si è conclusa con solo qualche graffio, sono uscito vivo e vegeto da un’auto completamente sfasciata, una valanga si è fermata a un metro da me o si è staccata quando ero già al sicuro, un masso grande come una testa mi ha mancato di pochi millimetri, una volta sulla parete del Triglav ben due massi in un colpo solo, ognuno da un lato, anche sull’Everest creparono tutte le bombole d’ossigeno, solo la mia funzionava perfettamente, ma solo fino alla cima. Per scendere non serviva più e si congelò. Non sono mai stato in pericolo mortale, perché sono convinto che i pericoli mortali non si sopravvivono. Se sopravvivi, non è mai stato così grave come sembrava in quel momento. Le notti e i giorni 49
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LA CIMA NASCOSTA1 Da qualche parte verso est, a giorni e settimane di guida su strade roventi in mezzo alla sabbia del deserto, c’è un posto dove la Terra ha toccato il cielo. Da qualche parte c’è una terra dove ghiacciai neri scavano profonde valli tra pilastri verticali di granito. Da qualche parte nel mezzo del Baltistan ci sono dei villaggi dove i sentieri delle capre nella polvere si trasformano con la pioggia in fango che arriva fino alle ginocchia. E allora i villaggi grigi si tingono di verde, e i versanti ripidi e fangosi vengono disfatti dalla caduta di pesanti massi. Da qualche parte in mezzo al Baltistan ci sono dei villaggi dove le donne si rifugiano nelle capanne di pietra quando passano i viaggiatori. Là ci sono villaggi dove i grandi cani da pastore ti accompagnano con il loro ringhiare minaccioso. E tu saluti: “As-Salam Aleikum!”. E il capo villaggio ti risponde: “Aleikum as-Salam!”, e tu incroci le braccia sul petto e ti inchini profondamente e rispettosamente. Le chiamate alla preghiera serale echeggiano tra le cime bianche e le gole di pietra: Allah Akbar - Dio è grande, queste sono le grida soffocate dal rombo violento del fiume glaciale. Sui radi pascoli alti pascolano yak selvatici, davanti ai quali preferisci 1. Traduzione di Hidden Peak che è il nome inglese del Gasherbrum I, N.d.A.
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spostarti rispettosamente. Le fiammelle dei fuochi dei portatori lanciano ombre selvagge sui detriti delle morene, e quando il chapati è pronto, gli Hunza2 cantano una canzone che continua a fondersi con il gemito dei ghiacciai nella notte. E tu giaci tra i modesti ciuffi d’erba gialla e tagliente, e con il cuore aperto assorbi il percorso eterno delle stelle, conti le stelle cadenti, il vento ti ricopre piano di sabbia fine, che scricchiola sotto i denti e si attacca alla fronte. E vieni assalito dall’eterna inquietudine dell’alta montagna, quella corrente naturale della vita che abbiamo quasi dimenticato. Allora senti che ti ha partorito la madre Terra, che sei solo una parte delle valli spoglie, dei pascoli verdi, dei ghiacciai spaccati, che sei parte del fiume e del cielo nero cosparso d’argento. Allora capisci perché questi sentieri solitari ti richiamano sempre tra le vette più alte, dove il cielo e la terra si toccano tra l’ululare dei venti. In mezzo a questo paesaggio bello e aspro camminava un gruppetto di stranieri, un gruppo di infedeli bianchi in pantaloni strappati dal lungo viaggio e in camice bianche di sudore secco. I capelli sono ciocche rigide per via del sudore e della sabbia del deserto, i visi sono sciupati e le guance scavate dalle fatiche e dal cibo inadeguato, la pelle bruciata dal sole e dai venti, le labbra sono gonfie e spaccate dagli aghi di neve delle tormente, le figure sono magre, ossute e piegate dal peso degli zaini. Sono forse persone in cerca del sole, che però guardavano a terra e trovarono solo un mero riflesso nelle pozzanghere fangose? Solo gli occhi irradiano la vita piena di chi ha superato gli ostacoli più duri, solo gli occhi testimoniano che hanno trovato il sole stesso. Alcuni di loro cercano cautamente punti di appoggio solidi con i piedi ghiacciati e doloranti, le dita ossute, sporche e dalle unghie nere stringono forte i bastoni da sci. Così la spedizione fa ritorno alla vita. Tra le facce incolte degli stranieri gli Hunza si affrettano a passi corti, piegati dai carichi. Carichi pesanti, avvolti in teli, ondeggiano sulle loro spalle. Quando il freddo serale blocca il movimento della morena e ferma i torrenti glaciali, gli Hunza si fermano, accendono i fuochi e i sottili chapati si dorano su piatte pietre incandescenti. Poi gli Hunza si spogliano e si stendono sui propri vestiti, e i corpi nudi si stringono per tenersi al caldo. Si coprono con un telone e gli infiniti discorsi a mezza voce, le canzoni e le preghiere borbottate riempiono il campo. Così gli Hunza trascorrono la notte. Gli stranieri invece si infilano nei caldi sacchi a pelo fino alle orecchie e bisbigliano del paese che stanno lasciando e del paese al quale stanno tornando, delle persone che amano, di quelle che 2. Tribù montana del Pakistan, che alcuni credono discendenti dell’esercito di Alessandro Magno. In ogni caso i capelli e gli occhi chiari sono una peculiarità di questa popolazione asiatica, N.d.A.
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prima non conoscevano e che ora, sulla lunga strada condivisa, sono diventate amiche. Le voci pian piano si spengono, i gemiti del ghiacciaio vengono interrotti solo dalla tosse e dal quieto russare. Quando la luce si accende a est, gli stranieri e gli Hunza preparano la colazione con dita intorpidite. Lo straniero offre della cioccolata o una scatoletta di pesce, gli autoctoni del chapati caldo e verdure piccanti. Il sole scalda i corpi, il brusio si fa più vivace, i carichi vengono issati sulle spalle e i bastoni sbattono sulle rocce. E la sera saranno tutti di un giorno più vicini a casa. Così torna la spedizione... Così tornavamo dal Karakorum. Quante cose avevamo vissuto! I lunghi chilometri di strade incandescenti, che corrono da un orizzonte all’altro come righelli, gli infiniti sentieri stretti, dove la polvere ti riempie gli occhi e la bocca e il sole cocente asciuga il sudore sulla fronte, i villaggi di pietra in mezzo a terrazze verdi, il serpente spezzato di uno dei ghiacciai più lunghi al mondo, il Baltoro, le cime appuntite di granito dalle forme surreali, la ricerca della via tra i seracchi e le fessure, le fatiche distruttive sulla montagna, la gioia selvaggia per la conquista della vetta e subito dopo la terribile delusione per la morte di un amico. Ora abbandoniamo questi luoghi, dove trascorremmo giorni maestosi del resto della nostra vita. Siamo più vecchi! Più vecchi di molte sofferenze, di molta felicità, più vecchi di molta gioia e al contempo di molta tristezza. E cosa ci aspetta? La patria! Solo ancora lunghi giorni di strade calde e polverose e l’infinita pianura da un capo all’altro dell’orizzonte. E poi saremo di nuovo nella terra dove vivono le persone che ci amano, nella terra con le montagne più belle del mondo, dove i larici verdi si arrampicano dolcemente fino alle pareti bianche e strapiombanti. In questa terra bellissima costruiremo nuovi ricordi e nuovi progetti. Siamo partiti a inizio maggio, e ora l’estate sta volgendo al termine... Da quando mi occupo seriamente di alpinismo, tracciare una via nuova su una delle vette più alte del mondo, con una piccola spedizione, meno attrezzatura possibile e senza bombole di ossigeno, è stato il mio sogno nel cassetto. E un giorno piovoso d’autunno Šoder mi fa: “Verresti in Karakorum?!”. Non ci pensai su, non rifletto mai su questo tipo di cose. E qualche giorno dopo chiesi ad Andrej: “Verresti in Karakorum?”. E anche Andrej non ci pensò su, gli si accesero semplicemente gli occhi e le braccia gli tremavano dall’entusiasmo. Così diventammo un gruppetto, e quelli di Tržič presero le redini in onore del settantenario della fondazione della loro società alpina. Ci furono molti problemi di organizzazione, perché La cima nascosta 105
Mi chiamò una voce di donna, tremante e dolce, mi chiamò cosÏ chiara che dovetti rispondere. E ancora oggi sotto il bianco cono di zucchero vive una fiaba, anche se hanno spento a forza il fuoco e le fiamme del desiderio dovettero consumare sÊ stesse!
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LA DEA, MADRE DELLA TERRA Mi innamorai di questa bellissima terra, dove gli dei ti invitano nel proprio regno e i demoni ti stregano e dimentichi la tua vita effimera e sei subito pronto a raggiungerli. Mi innamorai di questa gente felice, accucciata davanti alle proprie capanne, che si tolgono i pidocchi e ti salutano: “Namaste!”. Dio è in te. Dio è in me e Dio è in voi, gentili montanari, che sapete ancora ammazzare il tempo in modo così gentile e paziente e osservate curiosi le ridicole abitudini degli stranieri, che arrivano con obbiettivi incomprensibili: scalare le dimore degli dei. Torno tra le nuvole, dove tutto quello che ho capito finora scompare, dove tutte le verità diventano insignificanti e dove valgono solo il duro lavoro e una volontà di ferro. Camminiamo di villaggio in villaggio, incontriamo portatori sudati, che a Namche Bazar1 trasportano enormi travi per la costruzione di un nuovo hotel, e Vampirello cerca di nascondere i suoi enormi canini sotto il suo grossissimo labbro inferiore. Non ci riesce e non ci riuscirà mai. Vampirello è il nostro aiuto-cuoco, il kitchen boy dell’avanscoperta per la cresta ovest dell’Everest, che cercherà di capire dove ci tortureremo a morte, dove imprecheremo, 1. Namche Bazar non è il luogo più grande, ma sicuramente il più importante della terra degli sherpa, il suo centro amministrativo e commerciale, N.d.A.
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festeggeremo e piangeremo l’anno prossimo. Quando l’elicottero mi sputa sul ripido aeroporto di Sianboche2, mi gira la testa e ho le gambe molli, riesco a malapena a rimanere in piedi. Ero debilitato da una diarrea terribile, regalo delle vitamine e dell’insalata a Katmandu. Ho sicuramente ingerito un’intera divisione di amebe armate fino ai denti e ho passato tutta la notte sulla tazza del gabinetto con un catino in braccio. Tutto scorreva, scorreva e volava da davanti e da dietro, tanto da strapparmi gli sfinteri e da farmi colare il cervello dal culo. Decisamente non è una bella sensazione, ma è molto profonda, decisamente più profonda della meditazione più intensa degli sciamani3 erranti. E la mattina peso esattamente cinque chili in meno della sera prima. Quanta merda c’è in un uomo neanche troppo marcio! Poi ho camminato come un sonnambulo giorno dopo giorno verso il campo base, sorseggiando tè amaro e solo al pensiero di mangiare qualcosa le viscere mi si ribellavano. Dalla base andammo sotto il Lo La4 già il secondo giorno, e allora credevo che fosse giunta la mia ora. Indebolito ed esausto mi trascinavo dietro agli altri, poi si aggiunse l’altitudine e tra me e me stavo già dicendo addio a questo mondo, ma non volevo ammettere a nessuno, tanto meno a me stesso, che me ne stavo andando. Siamo venuti a studiare la cresta ovest dell’Everest, non a dispiacerci per chi soffre di diarrea. Il giorno è dedicato al riposo, e il giorno dopo nevica e pian piano mi rimetto in forze. Vampirello si asciuga il naso perennemente colante sul palmo della mano, si gratta le chiappe, con la stessa lava le patate e le offre a Šrauf. Allora al campo base sul ghiacciaio Kumbu esplode una bomba atomica e Vampirello può ringraziare solo la sua immensa fortuna e gli dei se è sopravvissuto. Šrauf ha infatti giurato che insegnerà l’igiene a tutto il Nepal, introducendo fazzoletti, asciugamani, saponi e altro ciarpame inutile in tutte le case degli sherpa, pulendo i nasi di tutte le future tigri delle nevi, che corrono scalzi e mezzi nudi nella neve e giocano nel fango ghiacciato intorno ai villaggi. Forse, tra un paio di secoli, ci riuscirà, perché Šrauf è testardo e diligente fino all’estremo, ma non riuscirà mai a rieducare Vampirello. Tra mille anni tirerà su con il naso e si gratterà ancora, e come premio per essere uno sporcaccione così adorabile, e anche un po’ santo per di più, gli regalo dei 2. Un prato livellato lungo 300 metri sopra Namche Bazar a quota 3700 metri. Oltre agli elicotteri ci possono atterrare solo i Pilatus porter da sette posti, aerei realizzati dagli svizzeri apposta per le montagne, N.d.A. 3. Sciamano - mago o santone che si occupa anche di guarigioni ed esorcismi, in contrasto con il sadu, che si occupa solo di preghiere e pensieri santi, N.d.A. 4. Lo La (6005 m) significa passo meridionale (guardando dal Tibet), e la sua parete sud ha presentato il problema chiave per raggiungere la cresta ovest dell’Everest, obbiettivo della spedizione iugoslava del 1979, N.d.A.
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begli scarponi Caber, così potrà nascondere le sue lunghe unghie nere sotto del cuoio lucente. Abbiamo un ottimo sirdar, Mingma, che ci ha procurato a fatica i portatori per i nostri miseri trenta carichi e che ci ha sempre assicurato che “Mingma agency the best”5. Al ritorno siamo seduti in casa sua per l’ultima cena e quando il discorso cade su alcune cose che sono scomparse, non si sa né quando né dove, dai carichi, conciò Pu Temba per le feste e gli gettò addosso tè caldo, ma Pu Temba ovvio che non aveva rubato niente e nella sua beata semplicità non ha avuto il coraggio di dire che le cose erano passate a Mingma. Erano davvero una compagnia piacevole: due scemi, un bambino e un ladro. Sarà interessante se l’anno prossimo, per la spedizione vera e propria, troveremo dei patroni così! Capimmo tutto quello che dovevamo capire: che la via sarà possibile, che sarà difficile ma sicura dalle valanghe, avevamo scalato il Lo La, che ci servirà una funivia, che si farà, si farà... Ma questo è per i taccuini ufficiali, per le annotazioni e per i rapporti, non per la mia testa, che è sempre così lontana da qualunque scartoffia. Poi potemmo tornare a casa e dire ai ragazzi, che erano già ai blocchi di partenza: “Allenatevi, allenatevi! Sarà maledettamente dura!”. E per un anno corremmo come degli ossessi, scalando pareti, caricandoci di pesi, scrivendo appunti, passandoci le maniglie di uffici e organizzazioni lavorative, ammassando montagne di cibo e attrezzatura, disegnando nuovi modelli, faticando e calcolando, calcolando, ma nonostante tutto ci mettemmo in marcia con un grosso debito. Fu come tutte le altre volte: l’associazione alpina è più d’intralcio che d’aiuto in ogni spedizione, ma quando è tutto concluso, l’obbiettivo raggiunto e i membri, oltre a mani e piedi ghiacciati e muscoli ridotti fino all’osso per le fatiche costanti in montagna, hanno anche la malattia del manager per via dell’organizzazione, i pezzi grossi affermano a livello associativo e nazionale: “Guardate che lavoro meraviglioso abbiamo svolto!” e si sdraiano sugli allori altrui e si dimenticano nuovamente dell’esistenza dell’alpinismo. E noi restiamo zitti perché abbiamo paura di essere tagliati fuori e marchiati per tutte le spedizioni future. Così funzionano queste cose. Sono nuovamente a Katmandu a pedalare per le vie sporche e polverose tra la folla, le urla dei mercanti, i clacson e le urla dei tassisti, le preghiere dei 5. “Agenzia Mingma la migliore!”, N.d.A.
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lama6, il passaggio di sciamani, il ruminare degli sporchi quadrupedi, gli hippie deperiti e drogati seduti ai bordi delle strade e i passi decisi e inamidati dei ricchi turisti boriosi, che storcono il naso davanti alla lentezza e la sporcizia orientali e non vedono l’ora di essere di nuovo a casa nei saloni tirati a lucido. E sopra tutto questo viavai passeggiano gli dei che con l’aiuto di demoni buoni e cattivi regolano questa riuscita palla terrestre, cosicché nonostante tutto il caos tutto è come dovrebbe essere. Sul maestoso toro gobbo Nandi7 arriva Shiva e le persone lasciano doni davanti al suo lingam8. Lo scoprirono perché le mucche al pascolo iniziavano a perdere latte da sole sempre nello stesso punto. Scavarono e scavarono e scoprirono un enorme lingam e oggi i fedeli indù di tutto il mondo vanno in pellegrinaggio a Pashupatinat9, e se vuoi osservare il lingam da vicino, gli sciamani ti scacciano a malo modo e va bene così. Perché gli stranieri presuntuosi dovrebbero ficcare il proprio naso dovunque? Aspettando che Tone ci dia il segnale per la partenza non ho cosa fare e vago per la meravigliosa conca di Katmandu, navigando un tempo che non mi ostacola né mi definisce più. Così ricordo il lago che un’epoca copriva questa conca, finché Manjushri, nel ruolo di artista divino, non ha creato con la sua spada magica la meravigliosa gola Gobar, che ha permesso all’acqua di defluire e creare una conca fertile10. Ozio sui tetti di Svayambunat11, osservo come il sole tramonta sul lago del passato e imparo a esistere con calma e lentezza, così piano che la vita scorre calma nonostante tutto il rumore del mondo. Ho imparato molto da persone dalla parte opposta del mondo, che faticano per una manciata di riso e per un misero tetto mezzo sfasciato sopra la testa. Mi hanno insegnato ad aspettare l’amore e ad amare l’attesa, che è migliore dell’evento in sé, mi hanno insegnato a rallegrarmi delle piccole cose, che a prima vista sono perfettamente ordinarie, e a non desiderare grandi avvenimenti ai limiti della propria esistenza. Ho imparato che posso raggiungere anche le cose che sembrano infinitamente lontane, irraggiungibili, se solo 6. Monaci buddisti, N.d.A. 7. Nandi - toro sacro della mitologia indù, N.d.A. 8. Lingam - organo sessuale maschile come simbolo religioso della creazione. La sua controparte femminile è yoni, N.d.A. 9. Pashupatinat - la parte più sacra del tempio del dio Vishnu, N.d.A. 10. La conca di Katmandu è una terrazza ovale (600 km, 1300m di altitudine) circondata da montagne sui versanti sud dell’Himalaya, ben irrigata e protetta dai venti caldi dell’India. Un dono degli dei, N.d.A. 11. Svayambunat - vecchio santuario buddista sulla collina a ovest di Katmandu, N.d.A.
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riesco a essere ugualmente infinitamente paziente, se riesco ad ascoltare i miei desideri ugualmente irraggiungibili. Poi marciavamo tra file di carichi, portati da schiene curve e vestite di stracci, cercando di dimenticare che al mondo ci sono persone che devono sfacchinare tutto il giorno al servizio di sua maestà la spedizione per una cifra irrisoria, cercando di convincerci che con ciò li stiamo aiutando, portando loro un guadagno. Chiacchieravamo, ridevamo, raccontavamo barzellette, contavamo i carichi, cercavamo preoccupati dei nuovi portatori, imparavamo la lingua e le canzoni dai bambini e nascondevamo temporaneamente la tensione dell’attesa. A Tose perdemmo nettamente una partita di pallavolo contro una squadra locale, a Namche Bazar ci accolse una vera e propria tempesta di sabbia, e si poteva raggiungere la montagna sopra il paese semplicemente allargando le mani e inclinandosi indietro, e il vento ti sospingeva fin dove volevi andare. Ma non dovevi respirare, perché l’aria era così piena di polvere minerale che a volte non sapevamo dov’era il sentiero e dove il cielo. A Tengboche12 i lama ci offrono tè salato e ci fanno una visita guidata del monastero. Ovviamente perché lasciammo una somma generosa perché calmassero gli dei ogni sera per permetterci di camminare indisturbati nel loro regno. Quello che una volta era il monastero più sacro è diventato una semplice attrazione turistica e in generale il buddismo tibetano esiste sempre di più solo per sfruttare gli ignoranti e permettere ai lama di vivere bene. I lama d’oggi per la maggior parte vivacchiano una normalissima vita secolare, di cui sembrano soddisfatti, e molti non sanno più nemmeno cosa biascicano ogni giorno. Ma nonostante questo i colpi sui giganteschi tamburo e gong, lo squillo dei lunghi corni e le preghiere mormorate si fondono con il maestoso paesaggio himalayano in una musica così terribilmente grandiosa che ti si rizzano i capelli e senti un brivido freddo. Tengboche non è un santuario solo per i buddisti, ma per tutti quelli che si commuovono alla vista della sacra bellezza dei giganti di ghiaccio e non potranno mai più vivere in pace. Se fossi un poeta, rimarrei attonito nell’entrare in questa terra ultraterrena, mi sdraierei all’ombra di un rododendro dai fiori bianchi come la neve e non parlerei mai più. Davanti a tanta bellezza anche le canzoni più auliche diventano ridicolmente misere, le parole suonano a vuoto, l’anima cerca confusa un appiglio nella pace e nell’ordine, che regnano nell’aria rarefatta della solitudine ghiacciata. Impari a non parlare e 12. Monastero buddista, famoso soprattutto per le spedizioni sull’Everest che, passandogli accanto, lo hanno descritto nei propri libri, N.d.A.
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a portare silenziosamente in te il sapere, la coscienza della bellezza, che poi trovi in tutti gli angoli della Madre Terra e non sai mai più esprimere. Non provi neanche più a spiegarti perché sai bene che la vera bellezza si può solo dare e sentire, ma è impossibile da descrivere. I primi raggi del sole ridono nei mille visi della brina notturna, l’intorpidita Kangtega stira le sue membra snelle al sole quando mettiamo gli zaini in spalla e prendiamo il sentiero polveroso davanti a noi. Ad accompagnarci ci sono casupole di pietra, boschi di rododendro germoglianti, campi di patate arati e il monumento pietrificato Ama Dablam - il dono della Madre. Ma la vita è dura nelle valli himalayane, dove noi stranieri vediamo solo il lato romantico e idilliaco. Ma a volte è ancora più dura la vita di quelli che non si fermano al confine delle valli, i cui passi inspiegabili li portano in alto, verso la brama stessa. Le tempeste himalayane non conoscono il romanticismo smielato e le pareti ricoperte di ghiaccio sono fredde e morte. Arrivammo per provare a risvegliare una principessa e liberarla dal suo incantesimo. E poi il campo base, l’uno, il due, il tre erano montati, e le corde sparivano sempre più in alto nella nebbia e il sole batteva sull’enorme specchio di ghiaccio sopra il Lo La e le tempeste scuotevano e i pensieri si congelavano e i ragazzi soffrivano, piangevano, faticavano, ridevano e speravano, speravano... Con gli sherpa montiamo una funivia e battiamo i record. Le squadre competono tra di loro a chi porterà in un giorno più carichi sulla sella. Il record rimase a sette viaggi e bisognava girare senza sosta, dalla mattina alla sera. La squadra di sherpa di quest’anno è davvero ideale. Giriamo e cantiamo sulle note di Mia cara Clementina tutte le canzoni che ci ricordiamo. Mia cara Clementina si addice così bene al ritmo monotono del giramento della manopola, come se fossimo tornati ai tempi delle canzoni da lavoro degli schiavi. Solo Kumbu nun cajna, kanci kacati dut cajna cantano gli sherpa, “a Solo Kumbu non c’è sale, e le ragazze non hanno latte”, detto in parole povere. E poi ci ricordiamo di qualche nostro inno triviale, che ce ne sono sempre in abbondanza, e la giornata passa in un attimo. La sera ci sdraiamo sui letti a castello di ghiaccio nei buchi scavati nel Lo La, e ci abbandoniamo ai sogni, per i quali c’è sempre abbastanza spazio sull’Himalaya. Se vuoi restare con i piedi per terra a questo mondo, non devi andare sull’Himalaya! Nejc Zaplotnik LA VIA 148
Chi cerca la meta, resterà vuoto quando l’avrà raggiunta, chi invece trova la via, avrà la meta sempre dentro di sé. – Nejz Zaplotnik
€ 19,90
ISBN 978 88 85475 953