DEEP PLAY - Paul Pritchard

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Titolo originale: Deep Play. A climber’s Odyssey from Llanberis to the Big Walls 1997 © Baton Wicks - London / The Mountaineers - Seattle 2005 © VERSANTE SUD s.a.s. via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana Tutti i diritti riservati Traduzione: Antonella Cicogna L’editore ringrazia: Sarah Caola, Mario Manica, Fabio Palma. 1a edizione Marzo 2005 www.versantesud.it ISBN 88-87890-21-8


I RAMPICANTI

Paul Pritchard

DEEP PLAY

L’odissea di un climber da Llanberis alle big wall

Disegni di Andy Parkin

EDIZIONI

VERSANTE SUD


TORRE CENTRALE DEL PAINE EL REGALO DE MWONO

Una distesa verticale priva d’orizzonti. Due dimensioni. Su. Giù. Fai scorrere la jumar su il più possibile. Inspira. Carica il piede nell’asola. Tira col braccio destro. Distenditi in piedi. Espira. Clinc. Siediti sull’imbraco. Fiatone. Guarda in su. È sempre lontano. Fai scorrere la jumar. Inspira. Carica il piede. Tira. Distenditi. Espira. Clinc. Siediti. Fiatone. Fai scorrere. Carica. Tira. Clinc. Siediti. Fiatone. Carica. Tira. Distenditi. Clinc. Siediti. Fiatone. Fai scorrere. Clunc… Punto di stallo. Un chiodo. Carica. Espira. Distenditi. Clinc. Siediti. Fiatone. Buio. Puntini luminosi che si muovono. Sgancia la jumar superiore. Riagganciala sopra il chiodo. Distenditi. Carica. Sgancia la jumar al petto. Tira. Distenditi. Spostala sopra il chiodo. Siediti. Fiatone. Ripeti. Frontale? No. Luna. Fai scorrere. Carica. Tira. Distenditi. Clinc. Siediti. Fiatone. Paura. Perpetuando altri pensieri. Famiglia? Perché non l’ho fatto? Fai scorrere. Carica. Tira. Distenditi. Clinc. Siediti. Perché mi ha urlato contro? Mi ha detto che pensava fossi in ipotermia. Odio. Sudore. Diavoletti alle dita. Fai scorrere. Carica. Tira. Distenditi. Clinc. Siediti. Fiatone. Ripeti. Perché non mi ha voluto? Cos’altro potevo fare per persuaderla? Convincimenti altalenanti. Avrei dovuto fare il minatore d’oro nella Sierra Madre? Nella costa oc-

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cidentale dell’Irlanda? No. Guarda in su. È sempre lontano. Respira. Sopra, risate. Voci. Non sono solo. Calore. Cibo. Spazio. Quiete. Una stanza cavernosa. Giramento. Spirale di pensieri. Tund tund tund. Risatine. Fai scorrere. Carica. Tira. Distenditi. Clinc. Siediti. Fiatone. Spazio. Quiete. Zero comprensione. Emozione. Continuo cambio. Tristezza. Amore. Rabbia. Mille domande. Perché? Fai scorrere. Carica. Tira. Distenditi. Clinc. Siediti. Fiatone. Dolore. Alla mano. Alle spalle. Al culo. Lo zaino tira in fuori. Fiatone. Di nuovo. Dormi. Ambivalenza. Steng. Fiuhh. Vuoto allo stomaco. Che grida. Che s’intensifica. Fiatone. Sveglia. Inspirare. Espirare. Ripetere. Far scorrere. Caricare. Tirare. Distendere. Clinc. Sedere. Fiatone. Ripetere. Ancora. Luce della frontale. Un cristallo di roccia che riflette. Uno specchio. Ripetere. Ripetere. La mia jumar arriva a un punto di stallo. Un chiodo nel diedro dove sono ora e di colpo vengo rigettato nella notte. Sono le due di mattina, è da ieri pomeriggio che risaliamo le corde. Il fascio della frontale crea uno specchio sulla parete. In questo specchio vedo passato, presente e immagini spaventose del futuro imminente. Sotto, la corda scivola mollemente nel buio. Sopra, scompare, tesa, nelle costellazioni notturne di un cielo del sud. Un bel po’ sotto c’è Sean che segue. Lo so che sta pensando allo stato della corda fissa. Con questo buio è impossibile sapere quanto le nostre fragili corde in questi ultimi cinque giorni di bufera siano state ulteriormente danneggiate dal vento, nostro violento e impassibile compagno. Eravamo arrivati in Cile cinque settimane fa, felici e senza sospetti, con dei buchi lampanti nel nostro equipaggiamento messo assieme in qualche maniera. Sferragliando giù per il Paese, il nostro entusiasmo aveva avuto tempo di crescere. Io e Noel Craine ci sentivamo come bambini lasciati in libertà, mentre Simon Yates e Sean Smith erano le vecchie mani di questa partita attorno al mondo. Hanneke era la più rilassata di tutti noi. Signora olandese, residente a Londra, aveva partecipato a una mia serata di diapositive per la raccolta di fondi da Heights, punto di ritrovo di Llanberis. Il suo sogno era di fare un

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trekking in Patagonia, e così Hanneke ci aveva chiesto di unirsi come sherpa, cosa per la quale si rivelò subito tra i più forti del gruppo; fu presto una di noi. Viaggiammo in terza classe, su un treno carico di contadini che portavano i loro raccolti da Santiago a Puerto Montt. Fortunato come sempre avevo anche trovato una tenda di tela che qualche boy scout aveva scordato sotto il sedile, e divenne la mia casa per diversi mesi. Ci divertivamo e ridevamo, le campagne rigogliose scivolavano dietro il finestrino, quando d’improvviso il treno frenò e assistemmo, nostro malgrado, a una scena orribile. Nonostante si procedesse a venticinque miglia orarie, un campesino era inciampato nella rotaia proprio davanti a noi ed era finito sotto le ruote, laggiù in qualche parte sperduta della Valle Centrale. Tutti erano scesi dal treno a vedere, i macchinisti trascinavano via il corpo straziato. Le reazioni dei nostri compagni di viaggio furono scioccanti. «Un boracho», dissero. Un ubriaco. I giovani si erano messi a ballare break dance al ritmo dei loro stereo portatili, come fossero a una vera festa, mentre i più vecchi avevano iniziato a passarsi il matè, una forte bibita stimolante alle erbe. Era passato solo un anno da quando Pinochet era stato spodestato e ci chiedevamo se la gente, in tutti quegli anni, si fosse immunizzata alla morte o più semplicemente avesse imparato a conviverci, e ora riprendeva a celebrare la vita. Nelle sessanta ore di autobus verso sud, attraverso la pampa, guardando fuori da un finestrino polveroso quella bruna distesa piatta d’arbusti, non mi fu difficile capire perché la Patagonia meridionale fosse conosciuta da tutti come il luogo più remoto del Pianeta. Da qualche parte a sud di questa monotonia, sopra l’orizzonte di questa convessa superficie di terra desolata – talmente continua nella sua convessità che ovunque si poteva disegnare la rotondità della Terra e non era difficile immaginarsi su di un grande globo – da qualche parte, laggiù, si innalzavano torri bianche e dorate che nemmeno la mente più fervida era in grado di immaginare. A Punta Arenas schivammo i marinai che volevano unirsi a noi a bere. Posammo onorati di fronte all’obiettivo di giova-

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ni ragazze che non avevano mai visto così tanti tipi biondi allo Stretto di Magellano, e firmammo autografi. «Un bacio!» urlavano, e noi eravamo ben lieti di accontentarle. Superammo centinaia e centinaia di alberi mozzi carbonizzati, eredità dell’industria della carne, en route verso Puerto Natales, dove al supermercato spendemmo settecento dollari in cibo, padelle e pentolini. Noel acquistò un pallone da calcio, entusiasta del fatto che ci saremmo potuti tenere in allenamento giocando a calcio al campo base. Alla nostra prima partita, tra le risate divertite dei gauchos, il pallone andò a bucarsi su una pianta di yucca. Arrivati sotto le montagne ci riposammo e festeggiammo con una cordata americana che aveva scalato con successo la Sud della Torre Centrale. Ci diedero anche qualche consiglio per affrontare le pareti in stile big wall. Eric, un grosso veterano da parete, talmente sbronzo da non reggersi sulle gambe, ci disse di andar su e di farla finita con tutte queste storie. Festeggiamo anche con un gaucho che ci avrebbe aiutato a portare tutte le nostre cose al campo avanzato, nelle foreste di conifere. Pepe, croato di seconda generazione, e la sua famiglia vivevano in tenda in questa regione selvaggia, blu e grigia, perché, come ci dissero loro stessi, non sopportavano la legge. Uomo di molta saggezza e pochi denti, Pepe sarebbe diventato il nostro mentore di politica, usi e costumi cileni. Aveva visto parecchie cordate andare e venire. «Non molti lasciano questo posto con la cima nel sacco», diceva mentre il vino nella brocca calava. Più tardi, quella sera, narrò di altri giorni, di quando la Patagonia aveva resistito con tutte le sue forze. E di come, alla fine, il regime avesse preso il potere. «I soldati erano in piedi sulla mia testa, mi tagliarono i capelli con un coltello. Era vietato farseli crescere.» In cammino dietro il cavallo di Pepe, io e Noel facevamo a gara per vedere cosa ci avrebbe riservato la misteriosa foresta di conifere della Valle Ascensio. Dei picchi neri si radunarono su un cespuglio e un paio di condor sfrecciarono attorno alla cima di Paine Chico. «È come essere allo zoo», indicò Noel quando vide una famiglia di guanacos trotterellare via. Il grup-

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po trovò molto divertente affibbiarmi il soprannome di Nandù, gli struzzi della specie Rhea che si vedevano scorrazzare qui attorno. «Sì, molto divertente, Simon.» Al Campamento Torres trovammo due capanne deserte. L’interno era arredato con camini anneriti da anni d’utilizzo, mobilia fatta in qualche maniera a mano, e targhe che commemoravano le grandi salite, con le vie e tutti i nomi alla base marchiati a fuoco nel legno. In una stanza separata dalle capanne trovai un forno costruito con una grande latta quadrata incastrata nelle pietre e, a fianco, una pala per la pizza intagliata con cura. C’era persino un telefono che qualche scalatore doveva avere intagliato amorevolmente nel legno per chiamare casa in preda alla nostalgia, durante una delle ennesime tempeste. Riempii gli scaffali della nostra nuova dimora, mentre Noel selezionava il materiale d’arrampicata con l’impazienza di un bambino – c’era il sole, il tempo era calmo e dai racconti sapevamo che non poteva durare. In quel tranquillo microcosmo, sotto le fronde degli alberi, montammo entrambe le tende. Il vento poteva soffiare quanto voleva là fuori, qui saremmo stati in pace. La nostra dimora! Ne avremmo avuto di tempo per conoscerla a fondo! Tre giorni dopo essere scesi dall’autobus, gironzolavamo già sotto la gigantesca pepiera della Torre Centrale del Paine. Non avevo mai visto nulla di simile prima d’ora, così strapiombante e per così a lungo. Era una sorta di illusione ottica, come se la parete non ce la potesse fare, come se stesse per crollare sopra le nostre teste da un momento all’altro. Feci qualche passo indietro, barcollante. Gli altri tre avevano già fatto grandi vie. Io ero l’unico che non aveva mai scalato cose simili. E se li avessi delusi? Ero contento che avessero fiducia in me. Io e Noel eravamo amici per la pelle e sapevo che mi avrebbe sempre sostenuto e aiutato se avessi combinato qualche casino. Assorbivo le informazioni e le tecniche da Simon e Sean. Per me erano i veterani, sembravano saperla lunga. Ci mostrarono come fare una truna nella neve e come leggere le nuvole, anche se le nuvole non si comportavano come avrebbero dovuto. Tut-

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ti e quattro eravamo indecisi e nervosi e discutemmo sulla scelta della salita. L’altro versante, quello ovest, era solo la metà di quello che avevamo di fronte, ma era completamente esposto al vento. Io volevo salire la parete più imponente. Ho sempre pensato in grande e scelto le sfide più difficili e molte volte senza successo, ma è così che funziona. I miei fallimenti superano di gran lunga i mediocri eventi della mia vita. Dopo molte ore di discussione arrivammo a una decisione. L’avvicinamento alla parete Ovest era troppo lungo, mentre la parete Est aveva la linea. Eravamo gli unici scalatori nel parco. Trasportavamo la nostra attrezzatura su per i ripidi pendii morenici sotto il vento e la neve, per poi tornare nella nostra foresta privata a mangiare e dormire. Ora sapevamo dove andare. La parte più ripida, liscia e alta della Est era percorsa da una fessura sottile di oltre mille metri che divideva la parete a metà. Troppo sottile per le dita. Eravamo tutti sgomenti ma, superato quell’iniziale senso di malessere che la linea suscitava in noi alla sola vista, concordammo che quella era la via da tentare, la più estetica di tutte. Proprio come ci era stato detto, il tempo era infernale. A casa, Rab Carrington, veterano della Patagonia, aveva scosso la testa e alzato le sopracciglia quando, eccitato, gli avevo raccontato dove eravamo diretti. «Perché diavolo vuoi andare là, ragazzo?», fu la sua risposta. «Pioverà per due mesi di fila!». Trascorremmo la prima settimana a dissotterrare i trecento metri della nostra statica da sotto la neve polverosa e instabile che smaltava la parete. Ogni tanto trovavamo dei chiodi e molto più tardi, quando la parete fu completamente sgombra, ne contammo sessanta su placche rocciose di grado VS. Eravamo attoniti. Chi avrebbe potuto fare una cosa simile? Per via della neve i tiri facili diventavano difficili e infidi, e il nevischio e il ghiaccio rendevano estremamente disagevole la parete. Era ormai chiaro, avevamo sbagliato vacanze. Ci arrampicammo fino a una cengia scoscesa e coperta di neve, proprio sotto al punto in cui la parete si faceva davvero verticale, e allestimmo il campo con una portaledge multipia-

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no. Ci avevano avvertito di non usarla in Patagonia per via dei venti fortissimi. Non per nulla, l’ultima spedizione alla Torre Sud era fallita per un enorme pezzo di ghiaccio caduto proprio su una portaledge che aveva rotto la gamba al suo occupante. Ma eravamo troppo pigri per pensare di ripetere l’avvicinamento da valle ogni santo giorno, inoltre la parete era strapiombante e sembrava garantirci una certa protezione. Di fatto, non cadde mai un sasso da quella parete e i grossi pezzi di ghiaccio che si staccarono sembrarono precipitare orizzontalmente, sostenuti dalle correnti a getto di sudovest. Simon si tirò su sulla portaledge e mi guardò cupo: «Non startene là seduto, fa’ qualcosa». Non potevo credere alle mie orecchie. Ma chi pensava di essere? Avevo tirato da primo tutto il giorno, montato l’intero campo con Noel. E adesso che cercavo di riprendere fiato per due dannatissimi minuti, questo veniva a dirmi: «Datti una mossa!». L’avrei voluto prendere volentieri a pugni, rispondergli che io almeno potevo scalare sui gradi difficili; ma non dissi una parola e tenni il muso per quasi tutta quella salita sulla Torre Centrale del Paine. Non capivo. A casa, al pub, era sempre così rilassato; e in quel nostro giro in India era stato lui a chiedermi tranquillamente se mi andava di fare un grande viaggio. Andy Cave me lo aveva presentato al bar di uno degli Hotel Harrogate. Non ero mai stato un vero alpinista ed ero rimasto di stucco quella sera nell’ascoltare i suoi racconti su quei luoghi così lontani: di Mark Miller malmenato dai taxisti a Rawalpindi perché aveva speso tutti i soldi della corsa per un tappeto; o di tutte le malattie tropicali di cui Simon si era preso una bella fetta (epatite, due volte; e la misteriosa malattia che anche dopo la biopsia al colon i dottori non erano riusciti a diagnosticare); e di quel gran mercanteggiare per le strade di Delhi con gli artisti indiani sempre pronti all’imbroglio. Potevo sentire l’odore dolciastro dell’aria calda senza mai essere stato là. Quest’uomo mi interessava. Ma ora, alla nostra prima big wall assieme, iniziavo a pensare che non lo conoscevo affatto. Non volevo arrampicare con lui. E se si fosse arrabbiato ancora con me? Per il resto dei giorni mi legai in cordata con Noel.

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Non l’ho mai affrontato riguardo a quell’incidente sulle portaledge se non di recente, quando mi ha chiesto di dargli qualche impressione sulla salita per il libro che stava scrivendo. Gli ho raccontato di come mi ero sentito allora e lui mi ha risposto che pensava fossi in ipotermia, ed era preoccupato per me. Quello che avevo erroneamente interpretato come un attacco gratuito nei miei confronti era al contrario un suo modo di prendersi cura di me! Ricordo che, un paio di anni fa, arrampicavamo su una grossa scogliera, marcia e sporca di licheni, nella penisola di Lleyn, e avevo chiesto a Simon perché se ne andasse sempre in giro così per il mondo. La sua risposta mi fece ripensare ai miei propositi di non smettere mai di viaggiare. «Cerco di farlo molto meno ora» mi aveva risposto con lo sguardo altrove, che indagava il Mar d’Irlanda. «Ora faccio solo tre o quattro viaggi l’anno. Una volta me ne restavo in giro molto di più perché mi sentivo perso. Dovevo farlo, non esisteva altro per me. Era diventato puro consumismo, come tutto il resto; una lista di luoghi da spuntare, finché le sensazioni hanno iniziato ad appiattirsi. Cercavo me stesso, suppongo.» Poi si era voltato e mi aveva guardato come uno che la sa lunga: «Farai così anche tu. Ti verrà voglia di saltar fuori dalla corsia di sorpasso per scoprire a che punto sei. Vorrai una base e un po’ di stabilità». Quella fu la prima volta che mi sentii offeso da lui e dalla sua arroganza. Come poteva pensare di sapere, anche minimamente, cosa volessi io? Allora mi sembrò che avesse voluto tenermi a lezione, dirmi di rallentare i ritmi. Ma più avanti, frenato dagli incidenti e dalle malattie, parte di ciò che aveva detto mi sembrò avere un senso. La cengia scoscesa, dove eravamo noi, era il punto più alto raggiunto da una cordata spagnola di Murcia, che per arrivare là aveva fatto due spedizioni. Tre anni prima avevano abbandonato tre sacconi da parete pieni zeppi d’attrezzatura che noi avevamo notato da sotto, e che avevano sicuramente influito sulla nostra scelta della via da aprire. I sensi di colpa che provammo nel frugare nei sacconi furono subito messi da parte perché noi avevamo l’appoggio delle autorità: i ranger del Par-

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co ci avevano chiesto se potevamo portar quella robaccia fuori da lì. Ma l’eccitazione del bottino si trasformò ben presto in disappunto nel rovistare tra il materiale recuperato. Dentro i sacconi c’erano per lo più cose bizzarre, incluso un barile con centinaia di pile andate, enormi bandiere coi loghi degli sponsor e una radio a transistor. Che diavolo! Con tutta quella roba non c’era da stupirsi che non fossero riusciti ad arrivare più in alto. Dopo un sonno irregolare nel nostro porta-villaggio, formato da una portaledge doppia più due singole, io e Noel ci mettemmo all’opera sui cento metri della guglia sopra il nostro campo in parete. Anche se era troppo strapiombante perché la neve potesse durare, c’era un sacco di ghiaccio nelle fessure. Noel fece il primo di una serie di voli, quando i copperhead saltarono via su un tiro in artificiale e lui precipitò dieci metri. Mi accusò di averlo lasciato cadere, cosa che avevo fatto, ma che negai fermamente. Be’, avevo freddo e dormivo a occhi aperti per alleviare la noia... Lo bloccai, ma dopo. Il mio sprazzo di vitalità si esaurì su una cascata di ghiaccio che affrontai con le mie scarpette d’arrampicata: finii coi piedi congelati, e decisi di metterle via per non tirarle più fuori. Il giorno successivo, con Simon e Sean impegnati nel recupero dei sacconi, i due “topi da parete” partivano in marcia per il Grande Colatoio che caratterizza la parte centrale della linea. Di nuovo, Noel cercò di progredire più velocemente con le scarpette, ma il freddo intenso lo costrinse a tornare indietro a metà del tiro e a infilarsi gli scarponi doppi. Poi toccò a me tirare su un camino marcio e ostruito. Adesso, a metà, in equilibrio su due Lost-Arrow, tentavo di infilare una lama. Sentii il colpo secco di una corda che entrava in tensione, poi di nuovo, e ancora più forte. Sapevo cosa stava accadendo. Trenta minuti prima ero già volato dallo stesso punto. Caddi dalla stessa cengia per atterrare nuovamente su Noel. Era di pessimo umore ma riusciva ancora a sorridere, sebbene la sua sosta fosse su due chiodi tanto malfermi quanto le mie protezioni. Sembrava più arrabbiato del fatto che fossi atterrato su di lui mentre si stava arrotolando l’ultima delle sue sigarette. Poi feci in tempo a raggiungere un’altra cengia strapiombante su questo scudo

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enorme, senza il minimo appoggio per i piedi, un intero tiro sopra. Sputai e lo sputo si librò nell’aria verso l’alto, come una tela di ragno nel vento. Se avessi seguito quello strano desiderio, quello che tutti provano quando si sporgono a guardare giù lungo i fianchi della Torre Eiffel, cadendo slegato non avrei toccato roccia fino al ghiacciaio. Natale passò con continui sali e scendi, incursioni e ritirate lungo le corde incrostate dal ghiaccio. Sopravvivere a una tempesta di quaranta ore nella nostra opprimente bara di nylon si rivelò un buon espediente per comprendere i rapporti umani che nascono in condizioni di paura e di scarsa igiene personale. Nella bufera Noel gridava citazioni dal suo libro di fisica quantica, mentre io arrotolavo lunghe sigarette con le sue pagine. Quando ci soffermammo sul gatto di Schrödinger, la portaledge si alzò in volo come un aquilone e le cuciture della tenda iniziarono ad aprirsi. Cucinare là dentro era una procedura pericolosa e consumava una quantità d’ossigeno preziosa. La condensa gocciolava dalle pareti e formava una sorta di brodaglia sotto i nostri materassini. Era molto meglio essere il cuoco che l’addetto alla raccolta neve, là fuori. Noel passò dentro due bacinelle di neve e si sporse oltre il bordo della portaledge nel disperato tentativo di alleviare la sua stitichezza da immobilità. Gli urlai di muoversi perché il nevischio soffiava in tenda e lui si lasciò cadere rapido, ingoiato nel nulla, legato solo da due metri di corda. «Gesù, non sono tagliato per fare lo scalatore di big wall» brontolò. Io ridevo e scuotevo la testa, mentre lui si tirava su nuovamente nella portaledge. Poi, un giorno, il sole sorse calmo e splendido, e due figure intossicate dal monossido di carbonio scivolarono faticosamente sulle jumar fino al loro punto più alto. Noel attaccò un enorme diedro strapiombante che in cima terminava con dei blocchi di roccia instabili, disposti come singole cassette di sicurezza infilate in bell’ordine sullo scaffale. Io lo assicuravo proprio sotto, e qualunque cassetta lui avesse scelto di aprire mi sarei trovato sulla stessa traiettoria. Per superarle, Noel dovette dapprima guadagnarsi un varco scostandole con un chiodo in una manovra delicata, poi progredì in artificiale su micronut. Non

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potevo correre a ripararmi da nessuna parte. Continuava a dirsi: «Non peso niente. Non ho massa». Con quella tecnica di meditazione anche il rurp più schifoso avrebbe offerto un po’ di sostegno. Due giorni di paura, di dormite con gli occhi aperti, di stratagemmi mentali per superare quel tiro. Poi è il mio turno: un altro tiro su uno scudo liscio e strapiombante, con le protezioni distanti, per arrivare ai piedi della Bara, una delle poche caratteristiche evidenti della via, dalla base. È di nuovo tardi, Sean e Simon iniziano la lunga risalita sulle jumar, seicento metri o quasi sotto di noi. È ora di darsi il cambio. Per altri tre giorni progrediamo lungo il diedro sferzato dalle bufere di neve, superando falsi orizzonti. Siamo sempre più spossati, e diventa sempre più difficile stare attenti ai nodi, ai rinvii e alla sicurezza di ciascuno di noi. Abbiamo rischiato tutti la pelle per questo, salvati in extremis dal richiamo di un compagno. Ma la visuale oltre le creste, sulle valli sottostanti, migliora col passare del tempo; un po’ come quando si sale sulla quercia di casa, e a un certo punto si riesce a vedere nel giardino del vicino. Sean collezionò quasi più miglia aeree che terrestri, con le protezioni che si staccarono su un camino ghiacciato che avrebbe condotto al nostro bivacco di vetta. Ma il terreno era talmente ripido che fece un volo aereo senza pericoli. Mentre i due “alpinisti” si preparavano a trascorrere la notte in alto, io e Noel riposavamo sulle portaledege del campo in basso, in fremente attesa di ripartire a mezzanotte lungo le corde. Eravamo là, distesi a discutere sulla relatività, quando improvvisamente, e con nostro orrore, le doppie iniziarono vibrare sotto i nostri letti. Strano, perché a parte i nostri affabili condor, in questa valle non vedevamo anima viva da più di un mese. Sentimmo un respiro pesante, apparvero dei guanti. E quando, con un sorriso da istantanea, spuntò il faccione del nostro amico americano Steve Hayward, scoppiammo a ridere. Era risalito sulle jumar trecentocinquanta metri, per festeggiare in parete. Scaricò sulla portaledge vino, birra, cioccolato, burritos con fagioli, sigarette vere e la posta che ci aveva mandato il nostro allenatore e manager Hanneke dal campo base. Altro che acquolina in

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bocca! A metà della mattina seguente eravamo di nuovo col resto del gruppo, ben attenti a non sbandierare la nostra abbuffata. Stretti tutti assieme su una cengia di neve macchiata di pipì, mille metri sopra il ghiacciaio, osservavamo Simon che, con salti da ranocchio, tentava di progredire lungo una sottilissima venatura più in alto. Eravamo penosamente a corto di moschettoni e non aveva niente con cui rinviare. Finalmente, quaranta metri dopo, Simon trovò un buon punto per mettere un friend, e vi si appese fiducioso. Un grido… Con le teste completamente rivolte all’indietro vedemmo la sua sagoma proiettarsi nella grigia e spumosa atmosfera. Rimbalzò e rotolò giù lungo il diedro, schiantandosi contro una cengia appena sopra le nostre teste. Emise un lungo gemito, e ogni tanto parole senza senso. Cercammo di calarlo, ma le corde si erano incastrate nella fessura. Ci guardammo tutti negli occhi, attanagliati da pensieri orribili. Un grave incidente qui, così distanti da qualsiasi aiuto, poteva trasformarsi in una vera odissea. Simon riuscì a girarsi e a rispondere alle nostre suppliche: «La corda si è impigliata, forse ho un braccio rotto. Datemi un minuto per districare questo casino». Nella caduta la corda si era infilata in una sottile fessura e non eravamo riusciti a calarlo prontamente dove eravamo noi. Simon si comportò da duro: era sopravvissuto a prove molto ardue in passato e, senza perder tempo, riuscì a calarsi fino alle portaledge. Roteò il braccio all’altezza della spalla, sembrava fosse a posto, ma tremava. Si scusò per tutto il casino e in quella brutta situazione provai rispetto per lui e il muso scomparve. Noel tirò nuovamente da primo, gettando ogni cautela dalla finestra (al Paine il vento è troppo forte), io lo seguii rapido nella morsa di uno stretto camino strapiombante. Dalle fessure di granito il ghiaccio spuntava a inclinazioni bizzarre come un mare di funghi e le mie dita vi affondavano dimenandosi come Fay Wray nella stretta di King Kong. Quando riuscii a liberarmi fu come emergere da una lunga apnea; di fronte a noi il blocco sommitale e un tratto meno inclinato. Eravamo euforici. Tra grida di giubilo spedii Noel sul tiro successivo: una fessura

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nascosta che trovammo solo dopo un grosso pendolo. Ormai nell’oscurità fissammo la nostra corda per la discesa e quella per arrampicare, e ci calammo al bivacco tra ondate di immensa gioia. Festeggiammo a base di avena fredda e sali minerali. Albeggiò in modo insolito il giorno seguente; faceva troppo caldo ed era molto ventoso. Su di noi gocciolinava acqua. Mi sollevai e il mio materassino volò via e circumnavigò il blocco sommitale, come un tappeto volante privo di guida. Non prestammo grande attenzione a quei segnali sinistri, e in un’ora ci ritrovammo nel pieno del disgelo. Iniziammo a risalire sulle jumar sotto una cascata d’acqua tra le morse di quello che il giorno prima era stato il camino ghiacciato. Le giacche da giardinaggio in nylon, recuperate nella capanna degli attrezzi di Noel, avevano funzionato incredibilmente fino a quel momento, ma c’era ben poco da fare contro quel torrente ghiacciato in pieno disgelo. Simon tirò coraggiosamente la prima metà del tiro, ma tornò indietro ghiacciato da far paura, ancora dolorante per la caduta del giorno prima. Sean, che aveva deciso di arrivare in cima con le sue scarpe da trekking di tela, ora si ritrovava coi piedi congelati. Non avevamo né cibo né gas, e non ci rimase che abbandonare. Ci calammo lungo i mille metri di corda fradicia e logora, coi cuori che calarono ancora più in basso. Una volta a terra fu un misto di sensazioni. Non avevamo davvero intenzione di ritornare lassù, ma uscirono esattamente le parole opposte. Avevamo fatto davvero tutto il possibile? Avremmo dovuto salire più veloci nei giorni precedenti? Tutte domande senza risposta. Optammo per la fuga. Abbandonammo il nostro campo base nella foresta di larici, corremmo per tre ore fino alla fine della strada, in tempo per l’ultimo autobus. Altre tre ore ed eravamo al villaggio di pescatori di Puerto Natales. Fu un gruppo squinternato di montanari a varcare il paese. La fame malcelata sotto le barbe sfatte e i nostri grufolii senza senso presi per chissà quale strana lingua avevano seriamente preoccupato lo staff del ristorante che ora, timidamente, serviva a questi selvaggi portate illimitate di salmone, col terrore di lasciarci pure le mani. Dopo una notte trascorsa al bar, io e Sean andammo alla

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Mylodon Disco, una sana decisione alpinistica. E la realtà si trasformò in un concetto oscuro. Pochissimo tempo prima eravamo a tre tiri dalla cima della Torre Centrale, su pareti vertiginose, sferzate da venti feroci; ora ci ritrovavamo a saltare al ritmo della musica, nello sfavillio vorticoso di luci multicolori. Milodonti di velluto alle pareti, senoritas, liquidi fluorescenti. Mi trovai ancora una volta a urlare. Uscimmo barcollando nell’alba e alcune donne del posto ci aiutarono a entrare in un nuovo bar, questa volta molto esclusivo: non aveva insegne e l’entrata era chiusa a chiave. Bussarono in codice e alla porta rispose una figura indistinta. Le nostre amiche si dileguarono, probabilmente non volevano essere associate a noi. Entrammo. Ricordo un salotto molto spartano con casse di alcool. Ricordo anche che ordinai una birra e che Sean si accasciò. Rovistai nelle sue tasche e dissi all’uomo sfuocato che non potevamo pagare. Fui costretto a trascinare Sean fuori da là, in strada. Impiegai parecchio a spingerlo lungo il marciapiede, Sean Smith è un omone. E non mi rimase altro che abbandonarlo là. Quando finalmente riuscii a trovare l’hotel, gli altri stavano facendo colazione. Ero in uno stato di panico da sbronza e piuttosto scosso. «Presto, venite. Ho abbandonato Sean.» Mi zittirono, si precipitarono con me fuori della sala da pranzo perché stavo facendo una gran scenata, dissero, e mi accompagnarono dove l’avevo lasciato. Quando arrivammo là, di Sean non c’era traccia, solo una montagnetta di vomito. Oh be’, Sean è grande e grosso. Riuscirà a badare a sé stesso. Quando comparve, a metà giornata, disse che si era risvegliato in una strana stanza e che doveva essere stato portato là dal proprietario della casa, con il quale non era riuscito a scambiare una parola. Uno dei tanti esempi di ospitalità cilena a cui ho assistito. Così, satolli, ci rimettemmo in marcia verso la nostra montagna. Noel era sempre più agitato e noi non ne capivamo assolutamente il motivo. Ben presto scoprimmo che aveva detto ai suoi superiori della Oxford University che si sarebbe assentato per una breve vacanza in Cile. Voleva ritornare al suo laboratorio il prima possibile. Gli rubai il passaporto per convincerlo a restare, ma lui giocò il suo jolly e tirò fuori un secondo passa-

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porto. Dannazione! Fu una tristezza vederlo andar via. Aveva fatto molto più della sua parte e meritava un’altra fessura. Aveva ragione però, il futuro imminente sembrava cupo. Era stato un periodo stressante per tutti noi. I problemi infiniti che la Torre e il tempo avevano disseminato sul nostro cammino avevano reso i nostri rapporti sempre più tesi. Sembrava una fase particolarmente stressante per Simon. Più tardi ci rivelò che aveva deciso di venire in viaggio quasi per abitudine, anche se ora sapeva di essere in giro da troppi anni. Cos’altro avrebbe potuto fare, però? Era ciò che aveva sempre fatto – passava da un paese all’altro, attraversava il mondo con la frenesia di una trottola, in un turbinio di città tropicali, avvicinamenti, montagne. Era sempre andato faticosamente avanti senza mai fermarsi, coi paraocchi, senza mai voler guardare oltre per timore di vedere... una casa... una donna... un po’ di stabilità... un po’ di soldi per cambiare, tutte cose che un tempo aveva considerato trappole per topi. Forse c’era qualcosa di vero in tutto questo; vivere come altra gente e non come un perenne vagabondo eccentrico. Dopo quella caduta e la nostra spaventosa ritirata in una tempesta furibonda, scelse anche lui di non ritornare lassù. Lo stato delle corde fisse lo preoccupava e c’erano troppe cose per cui vivere. Aveva deciso. Piuttosto saggiamente, pensai. Non c’è onore nel morire, solo un accrescimento d’immagine. Quando la jumar arrivò al punto di stallo, nel diedro, sfinito sganciai la maniglia superiore e la riagganciai sulla corda sopra il chiodo. Sollevai la gamba sinistra nell’asola e feci scorrere la maniglia verso l’alto. Con uno sforzo mi misi di peso su una sola gamba, sganciai la maniglia all’altezza del petto, mi distesi in piedi e la riagganciai sopra il chiodo. E così di nuovo, senza mai smettere. Alle nove della mattina io e Sean fummo in cima alle corde. Il vento soffiava forte e quando le raffiche esplodevano tra i gendarmi di roccia sopra le nostre teste si levavano gemiti spaventosi, come non avevamo mai sentito prima. Il cielo era blu. Avevamo lasciato la capanna nella foresta alle 15 e 30 del giorno prima e non ci eravamo più fermati. Nelle ultime ore avevo

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tirato un’altra lunghezza con tratti in libera, in bilico sugli scarponi di plastica. Ero stanco di tutto e mi sentivo stranamente distaccato, mentre mi arrischiavo con le protezioni sotto i piedi. Pensai a mio padre, alla sua routine di cantante di night club, a come gli piacesse essere un uomo di spettacolo. Ma ora ero io lo showman, caddi con un lungo volo aereo da un tetto, e quando un nut tra la roccia e il ghiaccio saltò via dovetti lottare con tutte le mie forze per mantenere la testa concentrata. Non c’era posto per le emozioni qui, solo per correzioni acritiche e con la consapevolezza che un incidente avrebbe potuto avere esiti catastrofici. Dopo il disgelo, la montagna si era ricongelata e le fessure erano intasate di ghiaccio duro. Ogni manovra per mettere le protezioni richiedeva un enorme dispendio di tempo, perché prima si doveva batter via il ghiaccio. Il tiro finì su un nevaio, sopra potevo vedere vecchie corde fisse che conducevano alla cima, non lontana. Questa volta, con l’euforia arrivò anche la stanchezza. Ma adesso era certo. Appena sotto, i condor volavano in cerchio, le loro ombre saettavano dal diedro alla parete. Sean condusse il tiro e arrivammo in cima superando canaloni di misto e fessure logorate dal ghiaccio. Che vista diversa! Lago Paine, La Fortalezza e lo Scudo. Apparvero all’improvviso e altrettanto scomparvero, con le nuvole che avanzavano rapide. Non riuscivamo a stare in piedi e avevamo gli occhi colmi di lacrime, più per il vento che per la gioia. Nella prima doppia le corde si impigliarono in un cumulo di sassi e Sean dovette arrampicare di nuovo l’ultimo tiro e andare a liberarle. Ci volle moltissimo tempo e arrivammo al bivacco in parete solo a mezzanotte. Bastò un attimo che ero già piombato nel torpore, mentre Sean continuava a tenermi sveglio con tisane per reidratarci. Con le luci dell’alba arrivò l’allarme bufera. Le nostre corde, sollevate dalle correnti ascensionali, si attorcigliavano e s’impigliavano nelle fessure o nelle lame, costringendoci a tagliarle più volte. Nella foga andai avanti un paio di tiri fino a una cengia e attesi Sean, che non arrivò. Dopo un secolo mi sporsi fuori e lo vidi che lottava con le corde, in alto, in una nuvola spumeg-

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giante. Urlai, ma la mia voce fu strappata via, lontano da me. Non potevo far altro che aspettare. Dopo un’ora arrivò Sean lungo la corda e mi gridò in faccia imbestialito: «Avevo bisogno di te lassù, e invece te la sei svignata. Dovevi tenere i capi della corda perché non volassero via. Si sono ficcati dietro il diedro e incastrati in una fessura. Mi ci sono voluti secoli per liberarli». Mi scusai, provai vergogna. Avevo affrettato le cose, e messo a rischio Sean. Giù al base cercai di accontentarlo in tutti i modi, facendo molto di più della mia parte di lavoro. Ma ora, in doppia lungo le placche smaltate di ghiaccio, il nostro obiettivo era ritornare al caldo e al sicuro. Discendemmo il ghiacciaio durante la notte, con la faccia a monte su pendii di venti gradi, per non essere spazzati via dal vento. Quando fummo nella foresta, alle prime ore del mattino, non svegliammo nessuno. La mattina Hanneke e Simon entrarono in tenda e mi dissero che erano davvero contenti per noi. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e tornai a dormire. I festeggiamenti iniziarono solo qualche giorno più tardi. Mentre ci stavamo rilassando con Pepe e la sua famiglia, giunse la notizia dell’arrivo imminente di una spedizione dalla Murcia. Poteva essere solo quella, e molto probabilmente i suoi componenti avevano già notato che i ranger del Parco indossavano la loro roba. Ci preparammo ad affrontarli e ci nascondemmo. Io e Sean ci ficcammo dietro un cespuglio e guardammo i murciani scaricare due jeep piene di attrezzatura e montare il campo. Iniziammo a preoccuparci quando si misero a fare Kung Fu. Cosa pensavano di farci? L’inevitabile avvenne nei pressi della baracca di Pepe una notte, quando i quattro infelici spagnoli uscirono allo scoperto. Si iniziò con strette di mano ma si degenerò presto in un match di grida. Dopo averci informato che il loro capo spedizione era corso all’ospedale con l’ulcera ingrossata per la rabbia, ci chiesero di poter dare un’occhiata nelle nostre tende. Sean non tollerò che la cosa andasse oltre e si mise in mezzo. Voleva sapere perché diavolo avessero usato sessanta spit sui primi trecento metri di placche facili. Ci fu un piccolo scontro, anche se nessuno aveva la mi-

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nima intenzione di attaccare Tres Platos, come Sean era stato soprannominato dai gauchos locali per l’inaudita dose di cibo che riusciva a spazzolarsi. Non avevamo nulla da dare ai murciani. I loro pochi indumenti erano stati distribuiti ai gauchos e ai ranger. Gli spagnoli se ne andarono, odiandoci. Io e Sean ci sentimmo terribilmente in colpa e gli lasciammo le nostre corde, anche se sembravano davvero ben equipaggiati. Fu l’ultima volta che li vedemmo, venimmo poi a sapere che erano ritornati subito a casa senza tentare niente. Chiamammo la nostra salita El Regalo de Mwono16, Il Regalo di Mwono, in onore del dio Tehuelche che abita tra quelle guglie ghiacciate. I Tehuelche sono scomparsi ora, spazzati via dai colonizzatori, molti di loro abbattuti come animali. Avevano scelto di non mettere mai piede sulle montagne per paura di accendere la rabbia di Mwono , ma sapevo che uno di loro, forse un giovane agile e imbrattato di fango, con indosso una pelle di guanaco, non era riuscito a reprimere la curiosità e si era avventurato oltre, per esplorare e cacciare ai piedi delle grandi pareti. Dubito però che avesse pensato di scalarle. Il regalo era la salita, non il bottino che aveva suscitato così tanti rancori, e per noi fu un onore ricevere un dono così.

16 Mwono è erroneamente riportato come Mwoma in molte riviste e sulla targa del rifugio Torres. N.d.A.

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NOTE DELL’AUTORE PIROMANE Le cave di gritstone di Bolton sono posti deprimenti ma sono sempre state tutto per me. Fin da piccolo quei luoghi di abbandono industriale erano come una calamita per me, dove potevo scalare o semplicemente esplorare il passato. Mai pubblicato. MERCANTI DI PIETRE, TESTE D’ARDESIA E ALTRI Nel 1986 mi sono trasferito nella capitale dell’arrampicata inglese, a Llanberis, per seguire la carriera di scalatore full time. È una fortuna e una sfortuna che le cose non possano sempre restare uguali. On the Edge 69 1997. PERSO NELL’EDEN DI BROCCOLI Gogarth è l’emblema inglese dell’arrampicata su scogliera. Quando tocchi la sua roccia senti la storia attraversarti le dita. Ho amato e odiato Gogarth. Su Red Walls penso di essere cresciuto un po’. High 1987. SOPRAVVISSUTO Ed Stone faceva parte di un gruppo di amici molto cari di Llanberis. Con lui ho condiviso molti bei momenti. È morto arrampicando in solitaria sulla parete Trinity di Y Wyddfa nel 1994. Mai pubblicato. SULLA GRANDE PIETRA La prima di molte salite a Sron Ulladale. Successivamente ho scalato Knuckle Sandwich (E7) con Johnny e Moskill Grooves (E6) con Johnny e Ben Moon. Dieci anni dopo The Scoop è stata ripetuta in giornata: ma con i chiodi in situ e una descrizione della via, questa ascensione è senz’altro più fattibile. On the Ege 49 1995.

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DIARIO DI BHAGIRATHI Nel 1990 parto per la mia prima “spedizione” alpinistica con Johnny Dawes, Joe Simpson e Bob Drury. Viaggiamo in coppia con un’altra cordata inglese impegnata a tentare lo Shivling e mettiamo a segno un debole tentativo al Bhagirathi 3. È tutto così nuovo per il sottoscritto, Bob e Johnny, e organizziamo la spedizione con vero entusiasmo. Adesso, trascorsi diversi anni, sarebbe difficile ritrovare quella stessa magia. Oggi vivo le mie spedizioni come vacanze e il mio approccio è senz’altro più rilassato. Mai pubblicato. EL REGALO DE MWONO Dopo un apprendistato a Yosemite mi butto a pesce nell’estremo. Sarà la mia prima esperienza d’arrampicata su big wall e l’inizio di un giro di nove mesi su quattro ruote attraverso l’America Latina. El Regalo de Mwono è una via di 1200 m, difficoltà 6, 5.11, A4, ghiaccio difficoltà Scozzese V. Il gruppo era composto da Noel Craine, Sean Smith, Simon Yates, Hanneke Steenmetz, e il sottoscritto. American Alpine Journal 1993. EL CABALLO DE DIABLO La più bella libera che abbia mai fatto è stata segnata dai sensi di colpa. Quest’ascensione ha per me più valore di qualsiasi altra. La giornata, la compagnia, lo stile: tutti gli ingredienti per una salita perfetta. La discesa è stata però tutt’altra storia, una vera lezione di vita. È tristemente ironico che Philip sia morto anni dopo su questa montagna. Abbiamo valutato la salita ED+, E5, 7a, 550m. On the Edge 1996. DI PASSAGGIO Un’altra pausa in un lungo viaggio attraverso l’America Latina. On the Edge 1996. IL DOTTORE E LA STREGA Nel 1992 in Bolivia, con nostalgia di casa, mi sono preso la

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dissenteria amebica. Ero appena arrivato dal Brasile dove, coi miei amici baschi, catalani e argentini, avevo realizzato una magnifica salita su roccia. Con la febbre alta, presente e passato prossimo si intrecciano. On the Edge 65 1997. PARTITA SOLITARIA Mi andò male su Gogarth nel 1993 mentre tentavo la seconda salita del primo tiro diretto di Pat Littlejohn su Games Climbers Play. Glenn Robbins, il mio amico australiano e compagno di cordata di quel giorno, riuscì a tirarmi fuori dall’acqua, mi rianimò e sedette con me per tre ore finché Oliver Saunders passò per caso da quelle parti. Glenn lo richiamò e Oliver si precipitò a chiamare i soccorsi. Mountain Yodel 6 1997. ADRIFT Nel maggio del 1994 con Steve Quinlan ho salito una nuova linea sulla parete Est di El Capitan a Yosemite. Il punto clue della salita è stato per me il tiro che abbiamo soprannominato UK Cowboy. Dopo quell’ascensione siamo partiti direttamente per Baffin Island. Difficoltà della via Adrift: 6, A4, 5.9, 1000m. On the Edge 60 1996. HYPERBOREA Parete Ovest dell’Asgard, 1994. Simon Yates, Sean Smith, Keith Jones, Steve Quinlan, Noel Craine, Jordi Tosas, Paul Pritchard. Difficoltà della via Hyperborea: 6, A4, E4. 1000 m. On the Edge 45 1994. UNA STORIA TRA SOPRAVVISSUTI Teo Plaza è morto sotto una valanga su El Tronador con altri suoi amici mentre si stava allenando per diventare guida in Argentina. Era tra i giovani di Bariloche con maggior talento. On the Edge 1995. CASTELLI DI SABBIA Torre di Trango, spedizione mista maschile e femminile. Donna Claridge, Celia Bull, Geraldine Westrupp, Kate Phillips,

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Noel Craine, Adam Wainwright, Andy Cave, Paul Pritchard, Ali Hussain Abadi, Ismael Bondo, Captain Jamal Mohammed. La via degli Sloveni è lunga 1000 metri ed è stata salita in libera in stile pulito da Wolfgang Güllich e Kurt Albert e successivamente, per girare un film, da Catherine Destivelle e Jeff Lowe. La difficoltà della via è di 5.12b. Il ghiaccio nelle fessure ci ha obbligato a realizzare alcuni tratti in artificiale e per noi la difficoltà è stata di 6, 5.10, A2. La prima ascensione è di Francek Knez, S. Canker e B. Srot, nel 1984. On the Edge 53 1995. SU SHARK’S FIN CON PHILIP LLOYD Con Philip Lloyd e Johnny Dawes nel 1993 cerchiamo di salire il Shark’s Fin al Meru al Gangotri Glacier. Facciamo dietro front quando a Johnny, accidentalmente, una mattina cadrà lo scafo dello scarpone mentre cerca di infilarselo appena dopo aver bivaccato. In ricordo dell’ultima volta con Philip. Mountain Review 7 1994. EROE PER CASO: SILVO KARO Un uomo tosto da un mondo altrettanto tosto. Un’ispirazione. On the Edge 58 1996. A SCUOLA DI GUARIGIONE DA ANDY PARKIN Mi trovai nei guai su Centre Post Direct Finish e feci un volo di 50 metri. L’esito fu il seguente: quattro vertebre frantumate, rottura dello sterno, frattura del cranio. Nick Kekus calò me e altri quattro clienti per un canalone di mille piedi e mi restò vicino finché non arrivò l’elicottero. Da Andy ho imparato come ricostruirsi la vita (restando sani di mente) anche quando tutto sembra devastato dalla malattia e dalle ferite. Articoli presi da On the Edge 48 e 57.

Nota: la maggior parte degli articoli sono stati stati modificati e sostanzialmente rielaborati dalla loro prima pubblicazione.

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APPENDICE Itinerari sulle pareti Est e Nord-Est della Torre Centrale del Paine, Cile 1 The Whale of the Winds Josè Carlos Tamayo, Jon Lazkano, Eric Brand, Steve Heywood, Sebastian de la Cruz, 1990/91. (cordata spagnola-americana-argentina) VI, 5.10b/c, A2 2 Via Magico Est Maurizio Giarolli, Elio Orlandi, Ermanno Salvaterra, 1986 UIAA VII, A3 (cordata italiana) 3 Riders in the Storm Kurt Albert, Wolfang Güllich, Bernd Arnold, Norbert Bätz, Peter Dietrich, 1990/91 5.12d, A3. La via è stata attrezzata con corde fisse e poi liberata quasi completamente. (cordata tedesca).

4 El Regalo de Mwono Paul Pritchard, Sean Smith con Noel Craine, Simon Yates, Henneke Steenmetz (supporto), 1991/92 5b (5.10), A2, A3 (un tiro di A4) (cordata inglese con supporto olandese). 5 Parete Nord-Est (Via dei Sudafricani) Michael Scott, Richard Smithers, Paul Fatti, Roger Fuggle, Mervyn Prior, Art McGarr, 1973/74 5.8 A2, A3, A4 6 Una Fina Linea de Locura Diego Lura, Ramiro Calvo, Teo Plaza, Peter Garber. Una settimana più tardi Nicholas Benedetti, Philip Lloyd, Lura. 6b, A3

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(cordata argentina con supporto americano e sudafricano) Torre Centrale del Paine EL REGALO DE MWONO 1200 m. VI, A4, 5.10, V grado scozzese Materiale usato: corde fisse per 1000 metri. Molti knife-blades e Camalot piccoli e grandi, corde da 50 metri. Vetta raggiunta il 16 gennaio 1994.

Itinerari sulle pareti Nord e Ovest dell’Asgard, Isola di Baffin 1 Valkyrie Chris Breemer, Brad Jarrett, 1994 Avvicinamento in elicottero VI, A4+ 2 Inukshuk Denis Burdet, Cedric Choffat, Pierre Robert, Jean Michel Zweiacker, 1995. VI, A3+, 5.10 (cordata svizzera) 3 Nunavut Txus Lizarraga, Miguel Barazaluce, Raul Malero, Natxo Barriuso, 1996. Avvicinamento in elicottero. VI, A3, 5.8 (cordata spagnola)

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4 Hyperborea Noel Craine, Paul Pritchard, Steve Quinlan, Jordi Tosas e nella fase iniziale Keith Jones, Simon Yates,1994 (16 giorni). 5.11, A4 (cordata anglo-americana-spagnola) 5 Via Porter Prima ascensione e solitaria di Charlie Porter, 1976 La prima parte era stata salita insieme a Rick Silvester, Shary McVoy


5a Tentativo scozzese 6 Diretta alla Parete Ovest Earl Redfern, John Barbella e compagni,1988. Avvicinamento in elicottero.

neamente segnata sullo schizzo di Pritchard. N.d.T.) 8 Sperone Sud Guy Lee, Rob Wood, Phil Koch,

7 Sperone sud Mario Manica, Fabio Leoni, Luca Leonardi, Fabrizio Defrancesco, 1988. 27 ore in stile alpino. La via italiana ripercorre probabilmente alcuni tiri iniziali della via del 1971 per poi tenersi a destra (erroAsgard HYPERBOREA 1000 m. VI, A4+, 5.11 Stile Capsula corde da 60m Vetta raggiunta il 10 luglio 1994 Materiale usato: 37 rivet, 10 spit Sul disegno: o/w=fessura off-width xxxx=rivet o spit = sosta

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INDICE PREMESSA ALL’EDIZIONE ITALIANA

5

INTRODUZIONE

15

MERCANTI DI PIETRE, TESTE D’ARDESIA E ALTRI

35

PREFAZIONE PIROMANE

PERSO NELL’EDEN DI BROCCOLI SOPRAVVISSUTO

SULLA GRANDE PIETRA DIARIO DI BHAGIRATHI

TORRE CENTRALE DEL PAINE - EL REGALO DE MWONO TORRE NORD DEL PAINE - EL CABALLO DE DIABLO

9

25 43 51 56 64 78 96

DI PASSAGGIO

107

PARTITA SOLITARIA

121

IL DOTTORE E LA STREGA ADRIFT

HYPERBOREA

UNA STORIA TRA SOPRAVVISSUTI CASTELLI DI SABBIA

SU SHARK’S FIN CON PHILIP LLOYD EROE PER CASO: SILVO KARO

A SCUOLA DI GUARIGIONE DA ANDY PARKIN NOTE DELL’AUTORE APPENDICE

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126 132 150 158 172 177 187 199 203

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Finito di stampare nel mese di marzo 2005 da Monotipia Cremonese - Cremona


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