Sulla linea del rischio - Andy Kirkpatrick

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Titolo originale: Cold Wars - Climbing the fine line between risk and reality Pubblicato da Vertebrate Publishing - Sheffield www.v-publishing.co.uk Copyright © 2011 Andy Kirkpatrick Illustrazioni dell'Autore 2014 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Luglio 2014 www.versantesud.it ISBN 978-88-98609-21-5


I

R A M P I C A N T I

Andy Kirkpatrick

SULLA LINEA DEL RISCHIO Traduzione di Lucia Prosino

EDIZIONI VERSANTE SUD



A Ella ed Ewen

È stata la gravità che ci ha spinti giù e il destino che ci ha separati. Tu hai domato il leone nella mia gabbia ma non è stato abbastanza per cambiare il mio cuore. Ora ogni cosa è un po' sottosopra così come è un dato di fatto che le ruote si sono inceppate. Quello che è buono è cattivo, quello che è cattivo è buono lo scoprirai quando raggiungerai la cima. Ora sei sul fondo. Bob Dylan, Idiot Wind


Prefazione Alcuni mesi fa mi recai in Svizzera per la presentazione dell’edizione tedesca del mio primo libro Psycho Vertical, uno scritto che termina alcune ore prima che abbia inizio questo. Alla cerimonia, zeppa di tipi piuttosto accademici e decisamente seri, un’anziana signora svizzera dai capelli bianchi si avvicinò e mi chiese cortesemente se non ero un po’ troppo giovane per scrivere la mia autobiografia. La sua domanda mi spiazzò, specialmente se si considera che Psycho Vertical finisce quando ho solo ventinove anni, con ancora una buona decina d’anni di viaggi e avventure da raccontare. Aveva un fare intimidatorio, come le maestre di una volta, e non ebbi il coraggio di dirle che si trattava della prima parte di una trilogia! «Oh sono certo che, una volta letto il libro, troverete che Andy ha molto da raccontare», disse Robert Steiner, il traduttore. «Ma siete così giovane,» disse la signora, non molto convinta. Doveva avere ben più di sessant’anni e aveva di certo molte storie da raccontare anche lei. «Non è un’autobiografia» dissi, sminuendo la sua domanda, allo stesso tempo imbarazzato al solo pensiero, visto che non l’avevo mai considerata tale. «È solo la storia di un climber» aggiunsi, cercando di sembrare umile. Sentendomi ancora un po’ a disagio, mi condussero in una stanza enorme piena di persone che stavano tutte aspettando di sentirmi dire qualcosa sul libro. Robert mi aveva messo in guardia, dicendo che mi avrebbero dato del filo da torcere, visto che gli Svizzeri di lingua tedesca generalmente considerano quelli come me – che sembrano, cioè, non aver troppo a cuore la loro vita – come un po’ matti, e quindi piuttosto negativamente. Mi ritrovai sul palco, osservavo tutti quei climber seri, pensando a cosa potevo dire, come potermi spiegare, come raccontare il libro e la mia visione della vita. «Salve» dissi, Robert che traduceva simultaneamente. «Mi chiamo Andy Kirkpatrick e sono un malato di mente. » L’austera e rigida platea scoppiò a ridere. Ero salvo.

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Psycho Vertical narra le avventure di un uomo che combatte: contro la parete, contro se stesso, ma che alla fine ha la meglio. Cerca di rispondere alla domanda: «Perché arrampichiamo?» Sulla linea del rischio affronta un’altra questione: «A quale prezzo?»

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Prologo Yosemite Giugno 2011 Mi ci erano voluti undici giorni per raggiungere l’ultima lunghezza, il tratto di parete sotto ai miei piedi, salito interamente da solo, alto come un grattacielo. Ogni giorno mi era sembrato l’ultimo. Spinto al limite, ma senza poter tornare indietro, ero solo contro la parete – guancia a guancia. Ora era tutto finito, la cima distante pochi metri, con solo un tetto strapiombante da superare, una facile fessura dalla quale penzolare. Reticent Wall, una delle pareti più dure al mondo, l’avventura della mia vita. Ed era quasi finita. Il pensiero continuava a ronzarmi in testa. «L’avventura della mia vita.» La parete si era presa tutto quello che potevo darle, e in questo modo mi ero reso conto di quanto potessi dare come climber, come essere umano. La parete era diventata uno specchio nel quale si rifletteva la mia vita con una chiarezza sbalorditiva. Quassù, una persona di poco successo, un ragazzo senza grandi aspettative, con un lavoro senza sbocchi e un matrimonio che non funzionava, poteva davvero essere qualcuno. Quassù potevi trasformare la tua vita. Una volta sceso, il mondo mi avrebbe visto con occhi diversi. Forse anch’io me ne sarei potuto convincere. Mi spinsi verso la fessura, con i piedi che dondolavano, dopo due settimane mi girava ancora la testa per l’esposizione. Per dieci anni mi ero spinto oltre i miei limiti, scalando nelle Alpi, in Patagonia, in Norvegia e qui in Yosemite, consumato da una spinta incessante che sembrava contrastare il mio carattere. La verità era che non mi sembrava di aver molto da perdere in un gioco dove la posta era altissima. A metà del tetto mi concessi di guardare in basso e provare l’impeto del brivido della paura. Tutti i miei eroi, gli dei dell’arrampicata, avevano terminato le loro scalate in questo stesso modo. E mentre la paura mi invadeva, ancora una volta, capii cosa vuol dire essere sovrumano.

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«Ciao. Sono sceso. Sono salvo,» dissi, in piedi nella cabina telefonica del Yosemite Lodge, le gambe ancora tremanti per la lunga discesa dalla cima di El Capitan, i piedi pulsanti dopo undici giorni appesi a fettucce. Era sera tardi in Gran Bretagna. Sentivo Ella cantare in sottofondo, a casa dopo la scuola. Mi immaginavo Mandy seduta sulle scale dove tenevamo il telefono. La vedevo con la mano sul pancione che custodiva il nostro secondo bambino. «Ce l’hai fatta?» «Sì.» «Stai meglio adesso?» «Sì.» «Vuoi provare a guadagnarti da vivere in questo modo?» «Sì» dissi, cercando di non piangere. Sembrava fossi in grado di scalare una delle pareti più dure al mondo in solitaria, ma avevo troppa paura di dirle di no. Mi sedetti al caffè del Yosemite Lodge, la luce del sole filtrava dalle finestre, i grossi rami oscillavano per la leggera brezza, le loro foglie sfregavano contro i vetri. La grande stanza era quasi vuota. Piatti sporchi venivano impilati di fianco a me, i resti della colazione e del pranzo. Non mi ero mosso per tutta la mattinata, felice di stare semplicemente seduto lì a leggere il mio libro, guardando gli alberi e tutta la gente che andava e veniva. Non mi ero mai sentito così in pace con me stesso. Ieri a quest’ora ero sul passo chiave di Reticent. Sarei potuto benissimo essere una salma adesso; issato dalla squadra di soccorso dalla cengia dalla quale ero partito ieri, distrutto in mille pezzi, la mia storia quella di uno scalatore impazzito che aveva tentato di scalare una delle vie più severe al mondo in solitaria, e di come ne fosse uscito un uomo libero, che si era spinto oltre i limiti, ed era morto. L’unico modo in cui questa storia si sarebbe potuta svolgere. La via era ben al di sopra delle mie capacità. Ma non ero morto. Ce l’avevo fatta. Le foglie sfregavano contro i vetri. Qualcuno rideva attorno a me. Pensai alle cadute.

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Pensai a quanto avessi desiderato tirarmi indietro. A quanto fossi vicino al limite. Pensai alla paura. Sapevo che sarei morto. Volevo morire. Ce l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta. «È Kirkpatrick,» disse una voce che conoscevo. Mi voltai e vidi Leo Houlding e Jason Pickles che mi venivano incontro. Con le loro t-shirt hawaiane, pantaloncini e occhiali da sole, sembravano rock star – come lo sono, del resto. «Dove sei stato?» chiese Leo, uno dei migliori arrampicatori del Regno Unito. Un bel ragazzo dal fisico slanciato, Leo passava sempre qualche mese all’anno in Yosemite. Era uno che viveva il sogno. «Ad arrampicare» dissi. «Sì, questo lo immaginavo» disse Leo facendo roteare gli occhi, i suoi modi sempre molto decisi. Una cosa che gli si poteva perdonare, giustificata dalla sua sicurezza di sé, la sua bravura come arrampicatore toccata dalla magia. «Non molto…,» dissi, preparandomi a dire tutto. Leo mi interruppe. «Bé, io e Jason abbiamo appena liberato la parete ovest della Leaning Tower,» disse, mettendosi in posa, nessun segno della tipica riservatezza inglese, le sue parole come una vera sfida. «Ho appena fatto Reticent Wall in solitaria» risposi, impassibile. «Oh» disse Jason, guardando Leo con un sorrisetto. La faccia di Leo fu priva d’espressione per qualche istante, come se stesse aspettando conferma che non si trattasse di uno scherzo. «Complimenti» disse infine, stringendomi la mano, sorridente. «Una bella impresa» disse Jason, ogni tensione di colpo svanita. «Sembra che tu abbia perso molto peso» disse Leo, toccandomi la pancia con il dito. «Sono la mia ombra passata» rubando una frase del grande Mo Anthoine. «Conosci Pep?» mi chiese Leo, indicando il “Tavolo degli

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Dei”, dove si sedevano tutte le superstar. «Dovresti parlare con lui. Aveva scalato Reticent con la sua ragazza Sivia tempo fa.» Ci dirigemmo verso il tavolo al quale non avevo mai osato avvicinarmi; ogni persona seduta un volto noto, le giovani superstar, gli eroi di domani, e le leggende, erano tutti lì a parlare, dando l’impressione di essere quelli che contano. Queste persone erano state in posti – sia fisicamente che nei pensieri – che pochi possono immaginare. «Ragazzi, questo è Andy. Ha appena fatto Reticent in solitaria» disse Leo, la sua mano sulla mia spalla. Ero imbarazzato. Mentre si giravano tutti verso di me, sentivo che sarebbe stato impossibile tirarsi indietro. Mi sentivo come Benny Hill. «Sei un duro, amico» disse un vecchio ragazzo che portava occhiali da sole. «Continua così» echeggiò un ragazzo più giovane che indossava strani occhiali da vista. «Bravo Andy» disse una ragazza che sembrava avere circa dieci anni. «Oh non è stato niente di eccezionale. Anche Leo avrebbe potuto farlo» dissi, sedendomi al tavolo per la prima volta. «Pep, questo è Andy. Andy, questo è Pep» disse Leo, mentre prendevo posto vicino a un bel ragazzo spagnolo, uno di cui sapevo già molto. Pep Masip era una delle star dell’arrampicata su big wall. «Andy, ho letto alcuni dei tuoi scritti, è un piacere incontrarti» disse Pep, stringendomi la mano. «Com’è stato?» Parlammo della via per un po’. Quali tiri erano i più difficili, quali i più belli, dove pensavamo che fosse il passo chiave. «Quali sono i tuoi progetti per questo viaggio?» chiesi, ansioso di sentire cos’aveva in mente di fare questo eroe. «Inizialmente volevo fare Native Son, ma poi ho cambiato idea» rispose. Native Son era una via dura, ma non come Reticent. «Perché sei sceso?» chiesi, pensando a un buon motivo per una scelta del genere. «Ho cambiato idea» «Hai cambiato idea?»

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«Sono solo stanco». Leo chiese a Pep di Amin Brakk, l’ultima via che aveva scalato. Si trattava di una parete in Pakistan e l’aveva fatta con la sua ragazza, Silvia Vidal, una delle migliori arrampicatrici di big wall in circolazione, e Miguel Puigdomenech, anch’egli su Reticent insieme a loro. Dovevano condividere un portaledge. A metà parete, Silvia e Pep si erano lasciati. «Accipicchia!» disse Leo, entrambi cercavamo di immaginare come si potesse fare una cosa del genere, e andare avanti. «Avevamo altro per la testa, quindi non fu poi così difficile» rispose. Avevano finito le scorte, sottovalutando la lunghezza della parete, e avevano arrampicato con razioni limitate, consumando i loro corpi fino a che non avevano raggiunto la cima. La discesa richiese altri due giorni. Avevano impiegato trentaquattro giorni per completare l’intera via. «Non è bene» disse Pep, «chiedere così tanto al tuo corpo. Non sono stato più lo stesso da allora» «Dimmi Andy, sei sposato?» chiese Pep, cambiando discorso. «Sì» «Hai figli?» «Sì, ho una figlia di tre anni e un altro in arrivo» risposi. «È difficile fare queste cose quando si hanno moglie e figli?» mi chiese. «È difficile per Mandy, mia moglie. Pensa sempre che morirò» «Sembra una donna intelligente, tua moglie» disse Pep con un sorriso. «Quante volte ci sei andato vicino su Reticent?» «Solo una volta» dissi, pensano alla mia caduta di quarantacinque metri sulla seconda lunghezza dura, una caduta che sarebbe potuta essere fatale. «Forse due» aggiunsi, ricordandomi della bufera, quando per poco non mi assiderai. «Un paio di volte» dissi, mentre altri episodi simili mi tornavano in mente. Pep sollevò le sopracciglia. Aveva dieci anni più di me. Sapeva come andavano le cose. «Il problema non è il morire in sé» disse. «L’arrampicata è come un’amante, e tua moglie lo sa. Quando siete assieme, non importa quanto tu ami la tua famiglia, i tuoi pensieri sono sempre rivolti alla tua amante, all’arrampicata.»

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Il cervo balzò fuori dal bosco. Spaventato. In mezzo alla strada. Era impossibile mancarlo. La macchina stava andando a ottanta all’ora. Mandy era accanto a me, la sua pancia ben in vista. Ella era dietro, dormiva nel seggiolino. Sapevo che l’avrei centrato – lo vidi nei suoi grandi occhi. Anche lui lo sapeva. Entrambi dritti verso il disastro sulla strada per Scarborough. Come spesso accade, tutto sembrò rallentare. Non c’era tempo per spaventarsi, nemmeno per fermare il tempo. Tolsi il piede dall’acceleratore per metterlo sul freno, benché sapessi che era ormai troppo tardi, le ossa del piede ancora piene di lividi dopo essere stato in parete, le mani che tenevano strette il volante, rese forti dai molti issaggi. Sapevo di dover rimanere nella nostra corsia e non perdere il controllo sulla strada molto trafficata, con macchine e camion che sfrecciavano veloci dal lato opposto. Stavamo per colpire il cervo. Ci scontrammo. Un gran colpo. Rallentai. Era come andare a sbattere contro un muro morbido, fatto di argilla bagnata, il cervo che si curvava contro il cofano, un ammasso di carne e ossa, il vetro che si rompeva, i nostri corpi lanciati in avanti e poi spinti indietro dalle cinture di sicurezza. Mandy aveva urlato e il mio piede aveva schiacciato il freno – troppo tardi. Il cervo si scartocciò dal cofano con mosse rallentate, girando su se stesso, le sue gambe inconsistenti, lanciandosi sulle macchine, evitandole e poi finendo sul ciglio della strada. Tenevo saldo il volante. La macchina rallentò. Tenevo saldo il volante. Avevo il pieno controllo della situazione. Mi fermai sul lato erboso della strada, le macchine dietro a noi che rallentavano per guardare il cervo. Ci eravamo fermati. «Tutto ok Mandy?» dissi, guardandola, il suo pancione orgoglioso emergeva in bella vista dalla cintura di sicurezza. «Mio Dio, non riesco a credere a quello che è appena successo» disse, il panico nella sua voce. «Tutto ok?» chiesi ancora. «Sì… sì, sto bene.» Mi girai per vedere Ella. Era ancora addormentata. «Tu rimani in macchina» dissi e uscii. Il

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traffico si era ormai fermato. Altre persone erano uscite dalle loro macchine, tutti che si dirigevano verso il cervo. Mi unii a loro, il cervo era disteso sul terreno sporco, la sua lingua fuori, il petto che si alzava e abbassava. Aspettai il suo ultimo respiro. Stava morendo. Era morto.Tornando alla macchina, controllai il danno. La parte anteriore era piegata, un fanale completamente rotto. Aprii il cofano e controllai il motore, tirando via inutili pezzi della carrozzeria. Sembrava tutto a posto. Montai in macchina e chiesi di nuovo a Mandy: «Sei sicura che sia tutto a posto?» mettendole la mano sulla pancia. «Sì, e tu?» rispose: «Io sto bene.» Misi in moto il motore. Sembrava non avere problemi. Il traffico aveva ripreso a scorrere, una Land Rover verde si fermò dove stava il cervo, un uomo con gli stivali scese. Mi rimisi in moto e guidai verso Scarborough. Mandy scoppiò a piangere. «Non riesco a credere alla tua calma» disse, singhiozzando. «Sei così calmo.» Alcuni giorni prima ero sul passo chiave di Reticent Wall. «Cosa succede papà?» disse Ella, che si era svegliata in quell’istante. Arrivai al lavoro lunedì mattina. Mentre vendevo scarponi da dietro il bancone, raccontavo la storia della mia vacanza a quante più persone volessero ascoltarmi. I piedi mi facevano ancora male dai giorni passati in parete, le mie mani erano ancora gonfie e piene di cicatrici. Morivo dalla voglia di tornare là ed essere lontano dalla routine di tutti i giorni. Ero stato trasformato in qualcosa di magnifico. Ma ora ero di nuovo uno come gli altri. «Dove sei stato, giovane?» chiese un cliente che conoscevo da lungo tempo, una volta un grande himalaista, che ora, però, non faceva quasi più niente. La prima volta che lo incontrai era appena tornato dall’Everest. Avevo diciannove anni. Era la prima persona che conoscevo che ci era stata, e gli strinsi la mano quasi fosse un astronauta. La stretta di mano ferrea, era un uomo tutto d’un pezzo, con un sorrisetto furbo sul viso. Allora. Ora la sua stretta era decisamente blanda – come il suo corpo. I suoi capelli, una volta in perfetto ordine quasi fosse un militare, erano scompigliati, i suoi vestiti troppo grandi e smessi.

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C’erano macchie sulla sua camicia – resti di pappe per bambini. Era conciato da buttar via. Un’ombra. Ora ero io quello forte. Gli parlai di Reticent Wall e mi sembrò di mettere il dito nella piaga. «Sto pensando di affrontare il Latok con alcuni compagni» mi disse. Il Latok era una delle montagne più difficili al mondo, una cima che i migliori scalatori avevano tentato per anni. Guardai bene la sua faccia gonfia, la sua pancia che si vedeva anche attraverso i vestiti larghi che indossava per nasconderla, più a se stesso che agli altri. I suoi bambini andavano già a scuola, ma potevi ancora sentire il loro peso su di lui. Si stava illudendo. A trentacinque anni, sembrava già aver tirato i remi in barca. Non sarebbe andato molto lontano. «Buona fortuna» dissi. «E tu cos’hai in programma?» mi chiese. «Qualcosa di veramente duro» risposi. «Forse smetto di arrampicare» dissi a Mandy mentre eravamo seduti in riva al fiume. Ella stava pagaiando nell’acqua, il sole creava ombre tutte attorno a noi. «Sarebbe bello» disse senza enfasi. «Perché dici così?» «Non credo di poter continuare così.» «Nemmeno io.» Ero in piedi nel soggiorno e tenevo tra le braccia Ewen, il mio secondogenito, nato solo dodici ore prima. Mandy stava dormendo al piano di sopra. Ero in piedi e guardavo aerei sfracellarsi contro grattacieli, trasformarsi in fiamme, in quella bella giornata di settembre. Prima cadde una torre, poi l’altra, in diretta, alla televisione. Era il primo giorno in tanti anni in cui non avevo pensato all’arrampicata nemmeno per un attimo. «Credo che me ne andrò» dissi a Dick, il miglior capo che avessi mai avuto. I miei giorni a lavorare in un negozio volgevano al termine. «Voglio tentare di guadagnarmi da vivere con la sola arrampicata.»

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«Puoi permetterti di andartene?» mi chiese, chiaramente interessato, più come amico che come capo. «Con le conferenze, gli articoli e altre cose posso andarmene e concentrarmi solo sull’arrampicata. E poi credo di aver lavorato fin troppo in un negozio di arrampicata» dissi. Adoravo Outside, adoravo lavorare per Dick Turnbull e passare del tempo con gli amici, andare in bicicletta fino al Peak District ogni giorno. Non c’era giorno in cui il lavoro mi pesasse. Guadagnavo bene, per essere un negozio, avevo molte vacanze, pagate e non, e avevo fatto della mia passione il mio lavoro. Dick e il suo negozio erano pietre portanti nella vita che mi ero costruito. «Amo lavorare qui, ma so di dovermene andare» dissi. «Perché?» chiese Dick. «Per cominciare, non sopporto che la gente mi dica: “Sei ancora qui?” E poi, è tutto troppo facile. Potrei rimanere qui per sempre. Non fai veri progressi nella vita se sei troppo felice.» «Come vuoi.» «Oh, e Snow and Rock mi ha contattato per una possibile sponsorizzazione» dissi, Snow and Rock era una delle catene di negozi di outdoor più grandi di tutta la Gran Bretagna. «Sarebbe un po’ strano essere sponsorizzato da un negozio e lavorare in un altro.» «Quindi questo è il tuo ultimo giorno qui?» disse Dick. «Così sembrerebbe.» Mentre suonava la musica, la bara con la salma del nonno di Mandy scivolava via oltre i tendoni. Lei era seduta accanto a me nel primo banco. Le tenevo la mano. Stava piangendo. Da lungo tempo non ci eravamo tenuti per mano. Ora una mano di Ella era nella mia e una in quella di Mandy. Era Ella che teneva unita la nostra famiglia. Uscimmo e rimanemmo in piedi tra le lapidi mentre lei cercava di fermare le lacrime. «A cos’hai pensato quando hai visto la bara?» mi chiese. «Che forse il prossimo funerale al quale parteciperò potrebbe essere il mio.» «Anch’io.» L’alba ci vide ai piedi di Fallout Corner, una classica via dura

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di misto, di circa tre lunghezze, in una falesia tutta brina e gelo del Cairngorms. Dovevo tenere una conferenza a Inverness quella sera per raccogliere fondi per il Torridon Mountain Rescue Team, e avevo chiesto a Ian Parnell e mio padre di venire con me. Vedevo di rado mio padre. I miei genitori si erano separati quando avevo sei anni, e io mi trasferii dal Galles a Hull con mia madre, mio fratello e mia sorella. Mio padre si era rifatto una sua vita, e probabilmente i papà erano diversi negli anni 70. Ciononostante, aveva lasciato una lacuna enorme che non si era mai colmata, solo rappezzata alla meglio. Non lo avevo mai odiato consciamente per questo, e con il passare del tempo mi rendevo conto di come un padre potesse non vedere i suoi figli. Capii come un figlio possa ancora amare un genitore che non c’è mai: l’amore profondo dentro di te è più forte di ogni cosa. Ora che avevo dei figli miei, però, mi sembrava sempre più difficile comprendere un tale comportamento. Più che pietà per i miei anni da giovane, ero dispiaciuto per mio padre: era lui che ne pagava il prezzo. Tirai fuori l’imbrago dallo zaino e vidi che c’era appesa la stessa attrezzatura, inclusi uno skyhook e alcuni birdbeak, di quando avevo raggiunto la cima di Reticent Wall sei mesi prima. Sei mesi in cui non avevo arrampicato per niente. «Quant’è dura questa via figliolo?» chiese mio padre. «È un sesto grado, credo.» Attaccai la prima lunghezza, Ian scattava foto mentre mio padre mi assicurava, dando l’impressione di non averlo fatto per molto tempo, stando lì con le corde che gli si attorcigliavano, indossando ramponi che qualcuno gli aveva prestato. «Vuoi che mi fermi mentre ti sistemi?» gli urlai, preoccupato mentre lo guardavo alle prese con un groviglio intricato di nodi, con il chiaro indizio che non mi stava affatto facendo sicura. «No, non ti preoccupare. È tutto sotto controllo, adesso metto tutto a posto» disse, la testa in basso, concentrato. Continuai, grattando e raschiando sopra di lui, girando la becca delle piccozze nelle fessure fino a che non erano ben incastrate, i polpacci pesanti e deboli. «Lo sai che sono dieci anni buoni che non arrampico d’inverno» mi urlò. «Sì, anch’io mi sento così» gli dissi.

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Durante i miei viaggi, avevo incontrato molte persone che avevano conosciuto mio padre Pete mentre lavorava per la Royal Air Force, quando esercitava la professione di preparatore atletico, oppure in seguito come uno tra i più longevi team leader nella squadra di Soccorso in montagna della Royal Air Force. Mi parlavano tutti di lui come di una persona che faceva, in genere, una buona impressione, anche se alcuni lo ritenevano un po’ matto. La maggior parte degli aneddoti iniziava con: “Un giorno, io e tuo padre…” per poi narrare imprese eroiche. Un ragazzo mi parlò di come lui e mio padre pagaiarono lungo il Mare d’Irlanda in un kayak doppio, e di come lui si fosse presentato in tenuta da corsa – senza vestiti impermeabili, né muta – e ancor peggio, senza niente da mangiare. «Ne prenderò un po’ da te, non ti preoccupare» è quanto avrebbe detto. Sembra anche che, come per questa nostra scalata in Scozia, non fosse montato su un kayak almeno da una decina d’anni. Arrivarono a destinazione, ma dovettero strisciare dai loro kayak all’ufficio traghetti per sapere quand’era il passaggio successivo per tornare a Holyhead. Ci misi anni a capire in che modo mio padre – e ora io – potesse dar vita a così tante avventure leggendarie e incidenti quasi mortali. Alla fine mi convinsi che si trattasse di cieco ottimismo. Credeva sempre che le vittime potessero essere salvate. Quando fui arrivato in sosta, mio padre partì, arrampicando verso di me, una smorfia di concentrazione sul viso. Per tirarsi su, aveva agganciato le sue picche all’imbragatura, una tecnica non proprio etica, ma di grande effetto. Ero impressionato da come fosse contento di seguire suo figlio su una via dura, anche se non arrampicava da dieci anni. Era mio padre che mi aveva insegnato a scalare, portandomi sulla vasta placca di Idwal Slabs in Snowdonia. Era stato talmente tanto tempo fà che ne avevo i ricordi annebbiati. Da molti anni non arrampicavamo insieme. All’improvviso, mi resi conto che era il mio compagno di cordata più vecchio. «Non è andata tanto male» disse, mentre lo assicuravo alla sosta. Guardammo entrambi la lunghezza successiva – una placca strapiombante che incuteva paura.

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«Ma sono felice che sia il mio primogenito a tirarla» disse, sorridendo. A differenza di me, mio padre teneva la maggior parte delle sue storie per sé. Credevo avesse a che fare con la sua provenienza dallo Yorkshire, il non essere particolarmente esuberante, né volersi mettere in mostra. «In realtà, non mi ricordo mai niente» ammise. Eppure, ogni tanto veniva fuori qualche storiella, il che mi affascinava sempre. Una di queste venne a galla mentre gli stavo parlando di un articolo che avevo letto, di un ragazzo che era sopravvissuto alla tragedia della gara Fastnet del 1979, quando quindici marinai erano morti in una tempesta. Fu la più grande operazione di salvataggio in mare dopo la guerra. «Oh, anch’io fui sorpreso da quella tempesta» mi disse, come se stesse parlando di un semplice acquazzone. «Fu piuttosto dura. Ero su una piccola barca, durante un viaggio di allenamento organizzato da un centro affiliato a noi. Eravamo nella stessa zona e ci dirigemmo verso l’Isola di Wight per metterci in salvo. Ma siccome molti altri avevano fatto lo stesso, finimmo per attraccare oltre le mura del porto. Durante la notte, la nave si muoveva moltissimo. Stupidamente, uscii da solo per controllare un rumore che mi sembrava strano. Era buio pesto, c’erano oggetti dappertutto e finii con il cadere in mare. La cosa peggiore fu che mi infilai tra due barche. Non so ancora come feci a non finire stritolato tra le due. In qualche modo, riuscii a tornare a bordo.» Potevo immaginarlo perfettamente mentre tornava alla sua cabina barcollante, i suoi compagni che lo prendevano in giro. «Di certo Kirkpatrick è caduto in mare.» Sentendo questa storia della Fastnet, capii che mio padre non mi aveva solo insegnato ad arrampicare, ma anche a dar vita a imprese straordinarie. Era una lunghezza delicata, che seguiva un muro ripido, i ramponi in equilibrio su appoggi orizzontali mentre cercavo di infilare le protezioni in fessure ricoperte di uno strato sottile di ghiaccio. Ero molto lento, poiché ogni breve mossa richiedeva dieci minuti di riflessione, preparazione e simil cazzeggio. «Avete visto l’ora?» urlò Ian da sotto, il suo tono a indicare che l’aveva vista, e che secondo lui non facevamo in tempo a finire la

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via. Saremmo dovuti essere a Inverness per le sette. Avevo una conferenza da tenere. «No,» gli urlai, e volevo anche aggiungere che era difficile controllare l’orologio quando stai lottando per la vita appeso a una roccia. «Ma credo che ce la faremo» aggiunsi, con il tipico ottimismo alla Kirkpatrick. «Io invece non credo proprio» urlò, ora con un tono autoritario, quasi dittatoriale, come un maestro che spiega qualcosa a un allievo disubbidiente: «Ci vorrà un’ora per scendere, un’ora per arrivare a Inverness e sono quasi le quattro adesso.» «Oh» dissi, guardandoli entrambi attraverso le mie gambe. Mio padre continuava a sorridere. Corremmo alla macchina e lasciammo le corde attaccate ad alcuni nut sul punto più alto, con l’idea di tornare il giorno seguente per terminare la via. Ian si affrettava, le piccozze che penzolavano pericolosamente dal suo zaino, i suoi pantaloni con varie toppe di nastro, i suoi occhiali della mutua che pendevano storti dal naso. Era difficile credere che fosse uno dei migliori alpinisti britannici – o che lo sarebbe diventato presto. Come me, un enorme ottimismo lo mandava avanti, ma il suo era ancora più forte del mio. Dal primo giorno che lo vidi pensai: «Non vivrai a lungo.» Fortunatamente, finora mi sono sbagliato. Avevamo arrampicato assieme solo poche volte, e all’inizio non mi andava a genio, mi sembrava uno snob, o comunque più snob di me, come lo sono quasi tutti del resto. Scoprii solo in seguito che aveva preso lezioni di recitazione, il che giustificava la sua buona dizione. Era anche stato un suonatore di campane, una cosa che trovavo buffa e allo stesso tempo tenera, e spesso dicevo alla gente – Ian è un suonatore di campane – specificando che non si trattava di un eufemismo che alludeva a qualcosa d’altro. Una cosa che ci accumunava era un passato artistico. Ian era un artista a tutti gli effetti, aveva fatto la scuola di Belle Arti. Poi abbandonammo entrambi questa passione per amore dell’arrampicata, il che mi faceva pensare che forse l’arrampicata era anch’essa un’attività artistica. Avevamo arrampicato assieme per la prima volta in Yosemite

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nel 1998. Aveva qualche anno più di me, il che lo rendeva un uomo maturo, ma dimostrò di che pasta era fatto quando scalammo una via chiamata Lost in America, sulla quale, com’ero solito, ero quasi morto, staccando un grosso pezzo di roccia e facendo un gran volo nel pieno della notte. Ian avevo tenuto la mia caduta. Quello che vedevo in Ian era quello che vedevo in me stesso, una spinta inflessibile e quasi intimidatoria. Solo che la mia era compromessa. Ero un marito e un padre, mentre lui non era nessuno dei due. Sotto molti aspetti, Ian era quello che sarei potuto essere io. Era quello che rimaneva mentre io, invece, dovevo andare a casa. Non aveva limiti, né limitazioni. Libero dal fardello dell’amore e della paura, la sua ascesa sarebbe stata fulminea. In quanto a quello che Ian pensava di me, tutto quello che sapevo era che mi descriveva come uno dei più ambiziosi arrampicatori che avesse conosciuto. Dopo Yosemite, Ian era uno dei pochi, insieme a Jules Cartwright, uno dei suoi compagni, a essere così sciocco da arrampicare con me, e avevamo fatto alcuni viaggi in Francia alla ricerca di cascate di ghiaccio. Il nostro rapporto arrivò a un punto di stallo quando provammo qualcosa di difficile, la via Maria Callas Memorial sul versante nord delle Droites. Era pieno inverno, e la nostra sarebbe stata solo la seconda salita. La Maria Callas era una via sopraffina e morivo dalla voglia di provare qualcosa di duro. La maggior parte degli arrampicatori sono consci del loro grado e non si sognerebbero mai di affrontare una via del genere. Non io. Ero diventato uno scalatore quasi per caso – come lo era Ian. Da un certo punto di vista eravamo entrambi degli outsider, visto che non ci eravamo mai istruiti in modo tradizionale, e forse per questo andavamo così d’accordo. Quando ci confrontavamo con dei veri arrampicatori, le nostre lacune balzavano all’occhio. La via che avevamo scelto quell’inverno era stata dettata dalle condizioni terribili in montagna, con una quantità incredibile di neve e vento forte che causavano almeno un morto al giorno. Fummo molto colpiti dalla morte di Jamie Fisher, e la scampata morte di Jamie Andrew, al quale sarebbero poi state amputate entrambe le mani e i piedi, dopo essere sopravvissuto per una

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settimana vicino alla cima delle Droites. Tutto sommato, però, quello che era successo non mi importava molto, non aveva alcun effetto su di me. Non conoscevo Jamie, e nemmeno la montagna lo conosceva. Mentre camminavamo, dal fondo valle, visto che la funivia era chiusa, mi sentivo indifferente. Ignoravo ogni rischio, ed ero unicamente focalizzato sulla conquista della vetta. Attaccammo durante la notte, ma avanzavamo lentamente lungo la parte inferiore della parete. Mi sembrava che Ian andasse veramente piano, continuava a tossire e ansimare. Era troppo debole, e per causa sua sapevo che non ce l’avremmo fatta. Lo odiavo. Lo odiavo perché era uno snob. Lo odiavo perché aveva tutto il tempo che voleva, e per il fatto che fallire non avesse il minimo significato per lui. Sarebbe rimasto un altro mese sulle Alpi dopo la mia partenza. Io, invece, mi giocavo tutto in questo momento. Lo odiavo per la sua debolezza, poiché sapevo quanto fossi debole io, e speravo che mi avrebbe tirato su lui per la parete. Lo raggiunsi dopo che si era fermato, e gli chiesi apertamente che problema c’era. «Non mi sento affatto bene Andy» disse, tossendo. «Ma cazzo, stiamo arrampicando sulle Alpi in inverno» gli urlai, per poi rendermi conto di dov’ero e con chi. Una parete pericolosa, con un amico che non si aspettava niente da me. Scendemmo, ma qualcosa si era incrinato. Avevo molte ambizioni per la nostra cordata, ma dopo questo episodio erano andate in frantumi, almeno per il momento. Mi toccò invece stare a guardare – verde dalla rabbia – mentre Ian apriva il tipo di via che desideravo ardentemente, in Alaska, Groenlandia, e in Himalaya. Era quello che mi meritavo. Scesi in fretta da Fallout Corner, tornammo alla macchina che già stava facendo buio e, visto che avevamo appena il tempo di andare alla serata, buttammo tutto in fretta e furia in macchina, senza nemmeno cambiarci. Fu allora che mi resi conto di aver dimenticato di chiedere informazioni esatte sul luogo della serata, sapevo solo che era da qualche parte a Inverness. Arrivammo a destinazione con solo mezz’ora di ritardo, e feci la prima parte della conferenza indossando tutta l’attrezzatura di arrampicata, per

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poi cambiarmi in jeans per la seconda. Probabilmente qualcuno pensò che il mio vestiario facesse parte della scena, e visto che tutto il ricavato sarebbe andato al gruppo di Mountain Rescue, nessuno ci badò molto. Quella sera tornammo verso i Cairngorms, mangiando fish and chips in macchina, io ero alla guida e mio padre sedeva accanto, mentre Ian, col suo ipod, ascoltava una musica che assomigliava a qualcuno dedito al fai-da-te, i suoi gusti sempre molto eclettici. «Pensi che sia andata bene stasera?» chiese mio padre. «Sì, mi sembra di sì. Secondo te?» Mi chiesi immediatamente se la mia performance fosse stata al di sotto delle aspettative. «Per me sono sempre belle serate. Sei mio figlio» mi rispose. Si stava creando un silenzio che ci avrebbe messi a disagio, fino a che non decisi di buttare sul ridere questi sentimenti. «Quanto pensi sia il massimo che vorresti ricevere per queste serate?» mi domandò, sapendo che al momento chiedevo all’incirca trecento sterline. «Mille sterline?» Risposi. «Sì, mille sterline sarebbe perfetto. Anche se probabilmente sarei contento di parlare anche gratis. Essere pagati è solo un bonus.» «Bé, se mai ti daranno tutti quei soldi, devi essere sicuro di valere mille sterline.» Credo che fosse il suo modo di dirmi di mettermi in riga, di vestirmi in modo adeguato – non in tenuta da arrampicata – e di chiedere dove fosse il luogo della serata. Fu un consiglio che non avrei dimenticato. Puoi dare l’impressione di essere molto disordinato e in uno stato terribile, e la gente lo troverebbe buffo, ma se non puoi cambiare, o almeno nasconderlo, allora nessuno ti prenderà mai sul serio. Essere preso sul serio era quello che volevo più di ogni altra cosa. Sapevo che aveva ragione, ma mi sentivo di stare un po’ sulla difensiva, perché era un relitto tanto quanto me. Qualcuno con il quale mio padre lavorava mi narrò la storia di quando la sua squadra fu chiamata per un jet che si era schiantato. La fusoliera del jet giaceva intatta in un campo e la squadra mise un cordone per tenere lontana la gente dai rottami fino a che gli ispettori non fossero arrivati. Si trattava di un caso importante. Gli investigatori avevano una grossa responsabilità e dovevano

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scoprire il motivo per cui l’aereo era caduto. Quando arrivarono, mio padre, come team leader, li scortò sul posto e poi li lasciò iniziare le indagini. Dopo un po’ si creò un gran trambusto. Chiamarono mio padre, gli esperti si grattavano il mento cercando di capire cosa fosse un cilindro di metallo alto circa dieci centimetri, largo otto, che stava in equilibrio su un pezzo della fusoliera. Non avevano la minima idea di cosa potesse essere, e si domandavano se fosse in qualche modo legato alla caduta dell’aereo. «Sa cos’è questo, sergente?» chiesero a mio padre. «Oh, chiedo scusa» disse. «È il coperchio del mio thermos.» Quella notte, non volendo dormire sotto la pioggia in un parcheggio, dormimmo da un amico di mio padre ai tempi della RAF, un tale che si chiamava Tom Jones. Anche se non era quel Tom Jones, era chiassoso e pieno di vita tanto quanto quello vero – ed era pure del Galles. Ci sedemmo in cucina a bere tè e parlare. Vennero così fuori altre storie su mio padre, inclusa una in cui, in Dolomiti, fu colpito da un sasso e di come il suo compagno, al vedere il suo stato, con una tale quantità di sangue che gli usciva dalla ferita, svenne, e fu mio padre a doversi occupare di lui. Il figlio di Tom aveva avuto un grave incidente in macchina e aveva subìto una emorragia cerebrale che gli aveva paralizzato una parte del corpo. Essendo stato un preparatore atletico come mio padre, Tom aveva deciso di mantenere suo figlio in esercizio e aveva comprato un tandem. Aveva fissato il piede paralizzato del figlio al pedale, e così i due potevano fare belle gite. «Quello di cui ti devi ricordare, quando ti fermi, è di mettere giù il piede dalla parte giusta, altrimenti lui cade come una pera cotta» disse Tom, ridendo. Stando nella calda cucina di Tom, ascoltando quelle storie, mi sentivo davvero il figlio di mio padre, soprattutto visto che la maggior parte di esse lo vedevano combinare qualche guaio, per poi uscirne grazie alla sua determinazione, al non voler accettare di venir dato per spacciato. Il mattino seguente tornammo a Fallout Corner, ma l’aria calda della notte aveva sciolto la nostra via, infatti le nostre corde ora penzolavano flosce e umide. L’unica cosa che potevamo fare era arrampicare fino a prenderle, raccogliere l’attrezzatura e andarcene. Ci dirigemmo a sud quella

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notte – le nostre chance di fare altre arrampicate praticamente nulle – e lasciai mio padre nella zona dei Laghi, dove lavorava. La strada verso Sheffield era tranquilla, e parlammo ininterrottamente, più per tenerci svegli che per altro. «Che programmi hai per l’anno prossimo?» chiesi a Ian, anche se non volevo saperlo per non provare troppa invidia. «Vado in Alaska con Kenton Cool questa primavera, poi in Himalaya in autunno. E tu?» «Mi sono messo in mente di andare a Chamonix e tentare la Via Lafaille al Dru in solitaria» dissi un po’ imbarazzato, pronto a fare retro marcia da quell’affermazione un po’ assurda con un commento sprezzante. Ian annuì, quasi volesse dire che comprendeva l’entità di un tale programma, con l’espressione di uno che pensa che sarei potuto morire facilmente su una via del genere – tentare, in solitaria, la seconda salita della parete più dura d’Europa. Ma sapevo di aver scalato vie ancor più dure in Yosemite, e che tecnicamente ero bravo come Lafaille, il miglior all-rounder al mondo, almeno su quella via. Quello di cui non ero così sicuro, era se avevo le palle per rimanere appeso a una parete ghiacciata per una settimana o due. «Non sono così sicuro della solitaria, però, è solo un’idea» aggiunsi. «Sarebbe molto meglio andare con qualcun altro.» «Io potrei venire con te» disse Ian. E così, tutto ebbe inizio.

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