Titolo originale: Kiss or Kill - Confessions of a serial climber Edizione originale: 2001 The Mountaineers Books 2001 © Mark Twight 2004 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Tutte le fotografie, se non diversamente indicato, sono di Mark Twight. L’editore ringrazia: Sarah Caola, Paola Ortenzi, Betta Gobbi (Grivel) 1a edizione Aprile 2004 Ristampe 1 2006 2 2010 3 2013 www.versantesud.it ISBN 88-87890-13-7
I
R A M P I C A N T I
Mark Twight
CONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER Traduzione di Lorenzo Ruggiero
EDIZIONI VERSANTE SUD
A Lisa, la mia donna, e a Zuma, colui che regna.
un’intera Vita, Prima della morte 21 maggio 1993, ore 17.30, rue Paccard, Chamonix, Francia (a un anno dalla morte di Mugs): era scena da incubo cominciata con un commento sprezzante. Io e Cathy Beloil avevamo arrampicato nel sud. Di ritorno sulla strada principale di Chamonix, avevo raccontato a Matty Notlind quanto fosse sicuro arrampicare su roccia in quel periodo. «L’unico rischio è quello di restare fulminati sui bordi delle Gole del Verdon.» «Ehi», si intromise Julian Mills, «faresti meglio a non scherzare sui fulmini, dopo quello che è successo a Fred.» Cathy guardò sconcertata Jules. Capii al volo che Fred Vimal era rimasto ucciso, e chiusi la bocca. Jules andò avanti: «Dédé (Rhem) era appena tornato da un giro di ricognizione con altre due guide e quattro tizi del Soccorso alpino della Polizia. Fred era sul Grand Cap a provare in solitaria Elixir d’Astaroth, ma non era tornato per l’ora stabilita. L’avevano visto affrontare la parete durante la giornata, e si pensa che sia stato colpito da un fulmine. Cioè, non c’è caduta di pietre sul Capucin. È troppo ripido». Cathy non aveva dovuto affrontare da vicino la morte così spesso come noialtri, quindi non aveva ancora provato quel tremendo dolore. Aveva cucinato la cena per Fred a casa nostra solo una settimana prima, la sera prima che partissimo per il sud per andare a trovare i suoi genitori. Con voce implorante chiese: «Fred chi? Non Vimal, vero?» «Sì, proprio Fred. Dédé è più sconvolto di quanto si possa immaginare.» Jules diede un’occhiata di sfuggita all’orologio: «Bhe, io devo tornare al lavoro, ci si vede più tardi». Matty, stordito, disse: «Wow, prima Alain e adesso Fred… e mi aveva promesso che questa estate avrebbe arrampicato con me». «Alain?» domandai, pensando a Ghersen. «Morouni», rispose Matty. «Non lo conoscevi? Era un tipo davvero tosto, parla anche norvegese.» Fece una pausa: «Bhe, parlava norvegese, ovviamente». Su quello scherzo ci separammo, ognuno diretto verso gli affari suoi.
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Mi ero goduto le tre settimane che avevo passato con Fred e Cathy, e mi mancavano già. Mi venne un attacco di nausea. Detestavo il modo in cui ci era arrivata la notizia, buttata lì come un boccale di birra vuoto, casualmente. Avrei preferito saperlo con calma da un amico, di persona o al telefono, con almeno un minimo di preparazione. Alla fine, credo che siamo tutti uguali e che niente abbia importanza. Era ancora presto, quindi telefonai ad alcuni amici che potevano saperne di più. Cominciavo a farmene un’idea. Fred era salito domenica pomeriggio, e dato che non tornava all’ora stabilita era ovviamente scattato l’allarme, ma senza eccessiva urgenza. Ormai era in ritardo di trentasei ore, ma nonostante questo Dédé si era precipitato qui da Parigi. Lui e alcuni amici si erano messi gli sci ed erano andati a cercarlo malgrado il cattivo tempo. Cercai di sapere qualche altro dettaglio dall’ufficio del Soccorso alpino. Fred aveva fatto un volo di oltre venti metri sfondandosi la nuca. Aveva piazzato tre chiodi sulla sosta, ma non aveva messo altro materiale intermedio. Probabilmente l’otto con il quale si assicurava lo aveva fatto ribaltare a testa in giù. Può darsi che sia morto sul colpo, o che abbia perso conoscenza e si sia congelato con l’arrivo del brutto tempo, oppure che sia morto dissanguato. Dédé spiegò che lo avevano visto in parete sull’ottavo tiro, già al di sopra della sezione più difficile dell’arrampicata. Dondolava dalla corda, mezzo coperto di ghiaccio. «L’ho visto dopo che hanno riportato giù il corpo: non era la stessa persona. Cioè, non aveva la faccia conciata, niente del genere, ma non lo riconoscevo più. Ho fatto fatica a riconoscerlo, e ho scalato con lui per otto anni. Non ha proprio avuto fortuna.» Dédé aveva appena preso la botta più forte che avessi mai visto, e se ne andò. La settimana prima, lui e Jerome Ruby avevano realizzato la prima discesa con lo snowboard dalla parete Nord dell’Aiguille du Plan. Avevano visto il loro partner, Alain Morouni, mentre veniva travolto da una valanga. Poi Fred era rimasto ucciso. Dédé era stato il suo migliore amico. Pensai che fosse bello essere vivo e vegeto, e poter fare qualcosa che mi mettesse i nervi allo scoperto. Lo consideravo un modo adeguato di perdere la vita. Arrampicarmi su e giù da cumuli senza senso di ghiaccio e pietra. Sapevo che era una cosa che riguardava tutti coloro che amano la montagna, e
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che non poteva andare diversamente. Ma oggi per me il Grand Capucin ha un valore particolare. Sono stufo di dover stabilire quali fossero i miei migliori amici valutando quanto mi ha colpito la loro morte. La maggior parte dei climber e di coloro che sono loro legati evita di pensarci, di affrontare questi aspetti dell’alpinismo. La morte gioca un ruolo fondamentale nella motivazione all’arrampicata, nel modo in cui si arrampica, e nel perché alcuni uomini finiscono per smettere di scalare in alta montagna. Spesso l’alpinismo implica un elevato rischio e la perdita della vita. I tuoi amici possono morire lassù nella tempesta, travolti dalle valanghe, o schiacciati da una pioggia di pietre. A volte muoiono congelati nel profondo di uno scuro crepaccio, oppure si siedono per riposarsi e non si rialzano più. È una caduta prolungata, dove il cielo è rosa e la montagna non è mai stata così bella. La vita scorre via insieme al sangue che esce da una ferita, e non ci fai nemmeno caso. È una faccenda che riguarda i climber che muoiono facendo ciò che amano, ma anche gli spettatori che valutano e giudicano, e ai quali forse spetta l’ultima parola. L’alpinismo è storia di uomini e dei rischi che si assumono, di quelli che sono alla loro altezza, di quelli che riescono a malapena a farcela, e dei rischi che invece li uccidono. È una mania. Il pericolo e la gloria, la dipendenza da prove sempre più dure, più alte, più lunghe. A volte ce la facciamo, sopravviviamo laddove altri non ce la fanno. La morte in montagna può essere orribile, come lo è una pietra che precipita sorprendendo sul sentiero un innocente escursionista. Può anche essere bella, come lo sono sette uomini che combattono nella tempesta un giorno dopo l’altro, dando tutto quello che hanno da vivere e vivendolo fino in fondo. Ma uno dopo l’altro, di freddo, di consunzione, proprio perché hanno combattuto così fieramente, muoiono. Restano solo in tre. Dico che questo è bello, perché l’atto umano più grandioso è quello di sopravvivere. Affronto a viso aperto la morte, invece di evitarla. Continuo a scalare. Riesco a gestire in qualche modo le situazioni e la perdita dei partner e delle persone che amo. Rendo loro omaggio, ma continuo ad andare avanti. Non so cos’altro si accompagni alla morte. Poco a poco comprendo quello che ha la precedenza su tutto: la vita, quella che noi tutti viviamo qui e ora. Mi rendo conto di quanto sia facile morire in quei bei po-
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sti. Ho perso molti amici tra la bellezza e l’orrore del ghiaccio, e delle pareti di roccia. Continuo a piangerli, e piango anche me stesso. La bellezza dell’alta quota è temperata dalla minaccia e dal pericolo. Ricordo le battaglie vinte e perse lassù. Ogni situazione della vita comporta un lato oscuro. Ogni essere umano su questo pianeta vorrebbe che quel lato scomparisse. Spinti dal desiderio che scompaia, si finisce per ignorare il pericolo e le conseguenze che implica, si finisce per credere che non esistano più. È una scelta che rifiuto. Capisco che il mio stile di vita può finire per uccidermi. Non è diverso dallo stile di vita ad alto rischio dell’agente di polizia o del soldato, del pompiere, dello spacciatore e del boss malavitoso, o del politico rivoluzionario. Non posso saziare la fame che provo. Voglio avere sempre di più, e poi ancora. Ogni scalata coronata dal successo porta con sé il germe dell’insoddisfazione. Puoi anche averne passate troppe, ma non sono mai abbastanza. Alcuni uomini hanno ideali elevati, per i quali sono disposti a morire. Altri sono disposti a tentare di vivere per quegli ideali. La fame che provo mi aiuta a rimanere vivo. C’è sempre qualcosa di più da ottenere. Vivo in una città il cui cimitero è pieno di uomini morti tra i 20 e i 24 anni. Sono stati uccisi dalla montagna. Ho partecipato come loro, ma me ne sono andato con qualcosa in più. Non ho fatto i loro stessi errori. Mi consideravo un essere umano superiore, e spadroneggiavo su tutti. Credevo che fosse naturale morire lassù, perché la mia salute psichica dipendeva dalla delusione. Non potevo lasciare che concetti come morte e morire avvelenassero la mia preziosa ambizione, così mi ero costruito dei muri che mi separassero dai legami troppo stretti. Se non ti conosco e tu muori, per me è più facile. Ho evitato di fare amicizia con quelli come me. Ho volontariamente abbandonato le poche persone al mondo con le quali non avevo bisogno di giustificare il mio stile di vita. Dovevo difendermi dal dolore. Quando sono arrivato a Chamonix, ho scambiato il mio tran-tran di ordinaria banalità americana con sentimenti genuini, e mi sono sentito davvero vivo. Col passare del tempo ho creduto di aver provato tutte le sensazioni che potevo, così le ho barattate con la superficialità e il vuoto provocato da esperienze non condivise. Io e Fred ci eravamo conosciuti un anno prima della sua morte, ma ho respinto la sua amicizia perché ero certo che sarebbe morto arrampicando. Tre settimane prima
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che morisse, avevamo cominciato a uscire insieme. Mi piaceva più della maggior parte degli altri uomini. Adesso rimpiango l’anno che avremmo potuto passare insieme. Mi chiedo cosa avremmo potuto fare insieme, se non avessi avuto paura di provare ulteriore dolore. Quella notte non riuscii a dormire. Non volevo uscire. Non volevo bere con gli amici per combattere l’insonnia, così stappai una bottiglia e me la scolai da solo, battendo senza ispirazione sulla tastiera del computer. Morto dentro di me, fin troppo vivo dentro di me, l’ultima cosa che volevo era che qualcuno mi desse una pacca sulla spalla o mi dicesse che mi capiva. Strisciai tra le lenzuola, ma continuai ad agitarmi senza trovare pace. Non potevo fare l’amore con Cathy. Fare l’amore? Ma quale amore?! Mancavano totalmente gli elementi necessari per assemblare un’espressione fisica di amore. Un puro atto di rilascio fisico che abbia la pretesa di passare per amore, ti ripaga col nulla. Forse domani mattina, o magari dopodomani. Steso ascoltai e riascoltai l’ultimo brano del Cd, nella speranza che prima o poi squillasse il telefono. Pensavo: «Forse si tratta di un errore. Non è mai successo prima, e magari non è così neanche stavolta…». Vorrei aver risposto al telefono venerdì scorso, quando Fred aveva chiamato. Almeno avrei potuto richiamarlo subito dopo, e convincerlo a venire al sud. Sabato sera avevo lasciato uno stupidissimo messaggio sulla sua segreteria telefonica: «J’espere que tu as la forme e tu fais les belles choses… a bientot» («Spero tu sia in forma e faccia delle belle cose… arrivederci»). Ovvio che stesse facendo qualcosa di bello. Ma non lo rivedrò mai più; non presto, comunque. Nella mia testa ho una lista, e ogni anno ci aggiungo degli altri nomi. La mia non è una lista speciale, altri uomini ne hanno di più lunghe. Ma la maggior parte degli uomini non ha una lista come la mia perché vivono in isolamento, dalla vita come dalla morte. Il loro atto di coraggio consiste nel tirarsi fuori dal letto la mattina, essere in disaccordo con il loro capo, o utilizzare i trasporti pubblici nel centro città. Magari sperimentano l’ignoto mangiando in un ristorante vietnamita, oppure viaggiano all’estero. Non hanno niente a che fare con me, oltre a fornire uno sfondo. Non fanno parte della mia isolata comunità di climber, pronta ad arroccarsi per difendersi dal giudizio altrui. Per quanto possa essere stretta la fratellanza tra i climber,
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provo ancora paura. Stiamo andando alla deriva, senza alcun controllo sulla situazione? Il futuro dei senza-futuro non prevede che si invecchi. Aggiungo un altro nome. Steven Strang, Paul Holmes, Chris Stefanich, Becky Davis, Sue Lowe, Ian Kraabel, Dave Kahn, Mugs Stump, Roger Baxter-Jones, Mark Miller, Catherine Freer, Dave Cheesmond, Mark Bebie, Wolfgang Güllich, Alexis Long, Wanda Rutkewicz, Slavko Sveticic, Pierre Beghin, Bruno Cormier, Vincent Fine, Xaver Bongard, Francois Rickard, Philippe Mohr, Benoit Grison, Bruno Gouvy, Jean-Marc Boivin, Patrick Vallecant, Jean-Francois Causse, Bruno Pratt, Jef Lemoine, Gian Carlo Grassi, Eric Mariaud, Fred Vimal, Tahoe Rowland, Richard Ouairy, Mark Sinclair, Benoit Chamoux, Alison Heargraves, Trevor Peterson, Scott Fisher, Steve Mascioli, Mike Vanderbeek, Eric Escoffier, Alex Lowe, Seth Shaw. Questi uomini e donne, vivi nei nostri ricordi, non devono essere dimenticati. Dobbiamo imparare la loro lezione, invece di ignorarli, introiettando il dolore che ci hanno procurato per renderlo parte di noi, invece che scacciarlo via. A volte è difficile credere in un ideale quando così tanti sono morti a causa sua. Non c’è vergogna nell’andarsene, passare la fiaccola, finché chi resta continua a ricordare. Il mondo che abbiamo conosciuto sta per finire. Ma un altro sta avanzando con forza. Il panorama è completamente cambiato, e che sia felice o triste, noi siamo qui per vivere e raccontarlo. La vita non è facile per quelli di noi che sopravvivono, specie durante le primissime settimane. Dopo che Fred è rimasto ucciso, ci sono stati momenti nei quali ho pensato di potergli telefonare, e forse anche di arrampicare insieme. Non mi dispiace per me. Ho scelto questa vita, o comunque l’ho accettata. L’ho trangugiata d’un fiato. Mi sono sparato la dose. Vorrei aver avuto il coraggio di dire agli uomini e alle donne della lista che gli volevo bene, prima che morissero. Dentro di me sono pieno di parole non pronunciate, perché non posso più dirle alle persone che le meritavano. Fanculo i tuoi sogni, bello, questo è il paradiso. Epilogo: Dédé e il fratello di Fred sono saliti lassù per recuperare il materiale di Fred e tentare di capire com’era andata rifacendo la scalata. L’ottavo tiro era il più facile della via, forse era un VI, quindi era logico che Fred (che era salito in solitaria sullo Sperone Walker in quattro ore e mezza concatenandolo
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alla Peuterey Integrale) non ci avesse piazzato alcun ferro. Se era nuvoloso, potrebbe non aver visto i grandi ghiaccioli sospesi sotto lo strapiombo della vetta. Dédé ha commentato: «Ne sono caduti alcuni mentre ero sul decimo tiro, sull’ottavo era una caduta continua… forse è così che è successo». Già, forse. nota dell’autore, anno 2000 Dal 1993 ho passato molte ore a ripensare a quell’evento. Ho raccontato questa storia a un numero smisurato di persone nel corso delle proiezioni di diapositive, tentando di imparare io stesso la lezione. Avevo conosciuto Fred al Festival cinematografico di Autrans, e insieme ci eravamo trovati bene. Gli avevo dato un passaggio a casa, e avevamo parlato senza sosta durante le tre ore di strada, arrivando a scambiarci la promessa di arrampicare insieme, ma poi non lo avevo chiamato. Avevo scelto di privarmi della possibilità di arrampicare con lui per preservarmi dal dolore che la sua morte avrebbe potuto causarmi. Il suo talento e la sua ambizione erano evidenti, e in lui vidi anche un pizzico di com’ero io quando avevo venticinque anni. Però la mia paranoia mi aveva permesso di sopravvivere alla curva di apprendimento, mentre lui non sembrava essere frenato dalla paura. Sapevo che sarebbe morto giovane in montagna, e non volevo averci a che fare. Gli dissi «Ciao» in strada, e tutto finì lì. Un anno dopo ci incontrammo per caso su una falesia della zona. Ci ero andato per arrampicare con Cathy, e tra loro due era scoccata all’istante una scintilla. Cominciammo a fare arrampicata sportiva insieme, tentando di rafforzarci in attesa della stagione. Fred voleva tornare in Yosemite, io volevo scalare e basta, non m’importava dove. Ma in primavera il tempo era variabile, così io e Cathy avevamo pensato di arrampicare a sud, dove il tempo era più promettente. Fred disse che aveva delle cose da fare a Chamonix: ci avrebbe raggiunti entro qualche giorno. Promise di telefonare a casa dei genitori di Cathy a Le Cannet, per organizzare di incontrarci in Verdon. La cosa successiva che seppi fu quand’ero là in rue Paccard con Jules che raccontava cos’era successo. Seguirono molti giorni di camminate senza meta e di rimpianti.
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Sono stato a fin troppi funerali in vita mia, così ho smesso di andarci. Alcuni sono filati via lisci, altri sono stati tremendi. Quando vanno bene è perché la gente ci va per ricordare la vita dei deceduti. Le funzioni assurde sono quelle centrate sulla morte, dove i vivi si lamentano per il proprio destino invece di onorare coloro che sono andati incontro al loro. Dopo che Fred è rimasto ucciso sul Grand Cap, il suo funerale si è tenuto nella vecchia chiesa di pietra nel centro di Chamonix. È stata la cerimonia funebre più potente che ho visto. Come di consueto, è cominciata con un membro della famiglia che diceva belle parole accompagnato da bella musica. Me ne stavo là in piedi nella fredda navata, annoiato, in attesa di qualcos’altro, e Fred mi mancava. Era tutto dannatamente banale, e tutti i presenti erano a disagio per il dolore che provavano. Alcuni giocherellavano con qualcosa, altri guardavano in alto, verso le vetrate istoriate. Detestavo la superficialità che avvertivo intorno a me. Volevo un’esperienza spirituale, capace di trasformarmi. Quando ebbe finito la famiglia, parlò il prete. Pensai che si trattasse di un discorso troppo studiato per essere sincero. La musica finì. Il breve silenzio venne rotto dal trapestìo dei piedi che si muovevano e dai sussurri. Poi Dédé Rhem, Jerome Ruby e David Ravanel, tutti amici d’infanzia di Fred, si alzarono e scandirono una lista di vie che Fred aveva scalato con loro o da solo. Parlavano in controcanto, alternandosi, con rapide esplosioni vocali. Ne lessero alcune da un foglio di carta, mentre altre le recitarono a memoria. Il numero di scalate, di quelle difficili, era stupefacente per un ventiseienne. Chiusi gli occhi e lasciai che quella litania mi entrasse dentro. Quando ebbero finito, uno dei tre andò dietro il palchetto e schiacciò il tasto “play” del registratore. Il suono su nastro delle acclamazioni riempì la chiesa. Il pubblico in tripudio non era certo quello di un’opera lirica. Un familiare suono di campane rintoccò sopra il ruggito della folla e una chitarra struggente irruppe col suo riff tra gli applausi. La versione live di Hells Bells degli AC/DC non era suonata a volume abbastanza forte, per i miei gusti. E neanche per quelli di David, che provvide subito ad alzarlo. Poi, accompagnati da un quarto che non riconobbi, Dédé, Jerome e David presero in spalla la bara di Fred e la portarono fuori dalla chiesa. Piazzarono la cassa in un carro funebre in attesa, saltarono sulle loro auto, e se ne andarono di gran carriera con un passo tutt’altro che solenne.
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Era un fresco giorno di primavera, con le nuvole che lambivano le montagne sopra di noi. Restammo là fuori, impietriti. Nessuno sapeva cosa fare. Gli amici di Fred e il suo corpo se n’erano andati. La cerimonia era stata una perfetta imitazione della vita. Alla fine, sono i climber a prendersi cura di sÊ stessi.
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Mark Twight
ALPINISMO ESTREMO
un resoconto dal confine dell'immaginabile
indice Prefazione introduzione in solitaria sui Grands charmoz Bacia o uccidi sPlendore e disPerazione BaGno di realtà ascesa e caduta dell’alPinista americano soffro, quindi esisto l’aBattoir niente scherzi sul Paradiso a modo mio. una chiaccherata con tomo cesen in taPPeto Volante sulla Perestrojka controVoGlia Valle di lacrime un’intera Vita, Prima della morte aVViso a distanza il Punto di riferimento. interVista a j.c. lafaille non è ora di PianGere l’hai Voluto, lo aVrai uno straPPo con twiGht chamonix: oltre il limite o sottoterra il dottor destino disserta dei Valori tradizionali fumo neGli occhi la comPetizione scomPiGlia la mischia il dono che oGni Volta si rinnoVa sPieGazione di un atteGGiamento elitario da doVe VenGono i titoli? rinGraziamenti
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Finito di stampare nel mese di novembre 2013 da Monotipia Cremonese - Cremona per conto di Versante Sud s.r.l. - Milano