Sciare la Powder snow non è divertimento. È vita, vissuta al massimo, vita vissuta in una fiammata di realtà. Dolores LaChapelle Appena sono uscito di prigione, sono andato a sciare. Appena la mia gamba rotta è guarita, sono andato a sciare. È lì che devo andare per far tornare le cose a posto. Il resto del mondo è caos totale. Glen Plake
Prima edizione: Dicembre 2013 Copyright © 2013 VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 20137 Milano ph. +39 02 7490163 www.versantesud.it versantesud@versantesud.it Tutti i diritti riservati Copertina: Xavier de Le Rue, Valdez, Alaska (ph. Tero Repo) Retro: Anne-Flore Marxer (autoscatto), Crans Montana (Svizzera) Stampa: Monotopia Cremonese Contatti: martino.colonna@unibo.it franzpe@tin.it Ringraziamenti: Gli autori desiderano ringraziare tutti gli intervistati per la loro grande disponibilità. Un ringraziamento speciale per quelli che ci hanno anche sfamato e dissetato e a quelli che ci hanno dato il grande onore di sciare con loro. Un ringraziamento ai fotografi per la loro professionalità e disponibilità. Grazie a Leo e Tiziana di The North Face a Sylvain, Gianmarco e Alfonso di Smith Optics, a Betty e Thomas di Red Bull Italia, a Monica di Dalbello, a Schinka e Andrea di Volkl, a Daniel di Swatch, a Jörgen di Amundsen e Chris di Norrona. Grazie a Carlo e Matteo Guardini, Francesco Bertolini, Erica Martling, Valentina Trentini e a Emanuele Gex. Un ultimo ringraziamento alle nostre fidanzate Stefania e Giadina per averci supportato e compreso durante i nostri deliri da scrittori in crisi creativa. Fotografi: Tero Repo, Luca De Antoni, Mark Shapiro, Damiano Levati, Alo Belluscio, Fizza, Christian Pondella, Martino Colonna, Giuseppe Ghedina, Kristoffer Erickson. Cedric Bernardini, Erlend Haugen, Mathieu Crepel, Chris Holter, Sverre Hjornevik, Jonas Bendiksen, Vegard Breie, Nicolò Miana, Kage Photo, Fujio, Yoshiro Higai.
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R A M P I C A N T I
Martino Colonna Francesco Perini
UOMINI & NEVE
18 incontri ravvicinati con i protagonisti del freeride
EDIZIONI VERSANTE SUD
Uomini&Neve
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Bruno Compagnet Emilio Previtali Ane Enderud Glen Plake Markus Eder Paolo Tassi Giulia Monego
Xavier de Le Rue Anne Flore Marxer
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Indice
Chris Davenport Stefano de Benedetti John Falkiner Karina Hollekim Luca Pandolfi Marco Galliano Stian Hagen
158 170 184 196 210 224 238
Tone Valeruz
Taro Tamai
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Diventi un tutt’uno con i tuoi sci e la natura. Ăˆ qualcosa che non sviluppa solo il tuo corpo ma soprattutto la tua mente, con un significato cosĂŹ profondo che molti di noi non sono in grado di comprenderlo. Fridtjof Nansen
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Il più forte snowboarder al mondo, punto Sprizza energia da tutti i pori e sembra che la sua maglietta stia per esplodere come quella dell’incredibile Hulk quando si trasforma nel mostro verde. Xavier ha spaziato tra diverse discipline primeggiando sempre. Da vero combattente quale è ha cominciato a primeggiare nella lotta con il coltello tra i denti in stile rollerball del Boarder Cross dove chi vince è il boarder più determinato e non il più tecnico. Poi si è trasferito al freeride diventando il dominatore incontrastato della scena per diversi anni. Successivamente si è dedicato ai film, raggiungendo con il suo gruppo dei risultati di altissimo livello con la serie Timeline. Sicuramente è aiutato dal suo fisico da supereroe ma ci mette anche tanto allenamento e tanta dedizione. Pochi rider si allenano come Xavier. Lo staff che lo segue (Tero Repo per le foto e Guido Perrini per i video) gli permette di fare filmati e foto unici che uniti alle gare lo pongono un gradino sopra agli altri. La cosa che personalmente mi stupisce è come riesca a passare in poco tempo da una spedizione in Antartide, alle qualificazioni in boarder cross per le prossime olimpiadi, alle gare del freeride world tour. Definitivamente Xavier è un superuomo.
Xavier de Le Rue Uomini & Neve
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(ph. Tero Repo)
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Sei cresciuto nei Pirenei in una famiglia numerosa e anche i tuoi fratelli sono sportivi. In che modo le persone che ti circondavano e le montagne hanno influenzato la tua vita, non solo quella agonistica? Si sono cresciuto in un paesino dei Pirenei con 5 tra fratelli e sorelle, tutti appassionati di sport, nonostante i miei non siano degli sportivi. Forse avrebbero voluto esserlo, ma gestire così tanti
positivo del termine. Quando torno dopo qualche mese di lontananza mi accorgo che tutto è un po’ arretrato rispetto ai posti che frequento abitualmente; come se si tornasse indietro di una decina di anni. Questa mancanza di modernità e la semplicità delle persone che vi abitano non le vedo negativamente, penso anzi che siano quello che mi rende felice quando torno a casa. La gente è sempre alla mano e genuina, che non
figli non gli lasciava tanto tempo libero. Siamo cresciuti in una stazione sciistica ed era quindi naturale che ci appassionassimo alla neve e allo sport. La differenza tra i Pirenei e le altre zone di montagna in Europa è principalmente legata al fatto di essere un posto semplice, nel significato
è una cosa così comune al giorno d’oggi. Sui Pirenei ho cominciato ad andare sulla neve con un gruppo di amici. Ragazzi spettacolari che hanno influenzato tutta la mia vita successiva. Eravamo giovani e scapestrati e per noi era naturale buttarci in questo nuovo sport con la tavola che era agli albori. Abbiamo anche avuto
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la fortuna che una persona speciale ci guidasse. Era il nostro allenatore, la persona che ha fondato il nostro club di snowboard. Anche se era un allenatore, era anche un pazzo appassionato della neve, una gran persona portata al divertimento. Il nostro allenamento era molto particolare: non stavamo fissi tra i pali delle piste battute, ma scorrazzavamo in giro per la montagna a fare salti mortali, gobbe e neve fresca. Imparavamo a fare le curve in conduzione sulla gobbe e non sulle piste battute dal gatto. Ci divertivamo come dei matti. Il mio vecchio allenatore mi ha insegnato i veri valori e fatto capire quali sono le cose fondamentali nella vita. Le cose che sono ancora adesso alla base di quello che faccio, sia come snowboarder che come uomo. Sui Pirenei l’atmosfera era sempre diversa rispetto al resto della scena dello snowboard, non solo perché stavamo in un posto remoto e lontano da tutti, ma anche per via del suo terreno e della neve. Il terreno infatti è molto vario e particolare, e può anche essere difficile. La neve invece è raramente bella e molto spesso è dura e ghiacciata. Il tipo di condizioni migliori per chi deve imparare. Nella vita è bello crescere in un posto dove le cose non sono semplici. È bello conquistarsi le cose. Sono sempre stato convinto che più è difficile raggiungere un risultato più c’è gusto una volta che l’hai ottenuto. La difficoltà insegna e per migliorarsi è fondamentale scontrarsi con le difficoltà e provare a risolverle, anche quando pensi di non riuscire a farcela. Devi stringere i denti e in quel momento ti migliori. Se invece tutto è facile, non riesci a progredire e quando ti trovi in condizioni più difficili non sai come gestirle. Se vuoi raggiungere il massimo e spingere avanti i tuoi limiti è fondamentale come inizi. Per questo motivo penso che i Pirenei abbiano avuto un effetto molto importante sulla mia formazione e sul mio successo come atleta.
g Xavier nei boschetti canadesi (foto Tero Repo) f Nella polvere profonda del giardino di casa, Verbier (foto Tero Repo)
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Hai cominciato direttamente con lo snowboard o sei passato come molti dallo sci? Come molti ho fatto gare di sci fino a 13 anni e poi sono definitivamente passato allo snowboard. Perché? Perché lo sci era super rigido, sia nel modo di allenarsi che in quello di vivere la montagna. Invece lo snowboard era creativo, facendomi scoprire e vivere la vita in un modo completamente diverso e libero. Invece di imparare come gli sciatori attraverso la tecnica, imparavamo attraverso il divertimento. Un approccio molto diverso, che mi ha accompagnato in tutta la mia vita e che anche adesso è alla base del mio modo di pensare e di comportarmi. La prima cosa è divertirsi; se ti diverti tutto è più semplice e arriva di conseguenza. Che stile avevi a quei tempi? Più verso il freestyle, la pista o il freeride? Nei Pirenei abbiamo iniziato tutti con gli scarponi Hard e poi con l’avvento dei Soft ci siamo dati tutti al freestyle. Però la cosa che ci piaceva di più era la polvere e saltare nella neve fresca. Che sport facevi oltre allo snowboard? Facevo un po’ di tutto, dallo skate al surf, come tutti i ragazzi della mia età, anche se lo snowboard era la cosa che mi occupava maggiormente. Ho cominciato ad arrampicare tardi, verso i 18 anni perché in famiglia l’arrampicata non era vista di buon occhio perché un mio cugino, che era un fortissimo arrampicatore, era morto a Chamonix scalando i Dru. Chi erano i tuoi idoli a quei tempi? Alcuni sono gli stessi che ho adesso, anche se ora li conosco di persona e magari sono miei amici. Inizialmente Terje Haakonsen era il mio mito, poi l’ho battuto a Mount Baker nel banked slalom
nella mia prima gara internazionale e subito dopo siamo andati a sciare per una settimana nella polvere. Un grande. Successivamente i miei miti sono stati Jeremy Jones e Johan Oloffson che erano più portati per il big-mountain freeride e il ripido. Raccontaci di questa gara in cui hai battuto Terje, il Legendary Banked Slalom di Mount Baker nello stato di Washington nel 2002. Perché secondo te questa gara è così famosa e cos’ha significato per te quella vittoria? Secondo me è così famosa perché è l’evento di snowboard più vecchio. È una gara atipica, una specie di pista da boarder cross naturale. Tutti i top-rider del mondo ci sono passati e ci passano tutt’ora. È innanzitutto un grande evento, ma anche se ci sono i grandi nomi ed è così famoso, l’atmosfera è molto rilassata. Non c’è una competizione esasperata e soprattutto c’è spesso la polvere leggera di Mount Baker, uno dei posti più nevosi del pianeta. È un po’ un ritorno alle origini di quando il nostro sport stava nascendo, senza troppo marketing e con lo spirito giusto. In più non è un tipo di competizione che c’è da nessun’altra parte per cui non si deve avere un allenamento specifico. Per me è stato l’inizio di tutto, perché a quei tempi ero giovane e sconosciuto. Battere un mito come Terjie Haakonsen mi ha provocato una grande gioia e ha fatto decollare la mia carriera. Ho dei ricordi bellissimi di quella gara e delle sciate in polvere prima e dopo il contest. Ci vorrei tornare prima o poi.
f Nelle
profonde grotte francesi per una particolare discesa di speleo-Snowboard (foto Tero Repo) g Tra le spine e i seracchii di Haines, Alaska (foto Tero Repo)
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La femminilità e l’energia positiva “Sono provocativa e passionale, sono una snowboarder radicale, sorrido e mordo. Più cado e più mi rialzo e ci riprovo. La vita è breve e preziosa, bisogna assaporarne ogni momento”. Sono le stesse parole di Anne-Flore a descriverla nel miglior modo. AFM è probabilmente la snowboarder più completa e radicale che ci sia mai stata. Una rider capace di tutto, di vincere qualsiasi tipo di evento e di scendere le linee più difficili. Ma a conoscerla quello che più colpisce è la sua fantastica purezza e schiettezza uguali proprio alle sue linee in fresca. È riuscita a farsi strada nell’industria senza mai scendere a nessun compromesso ed ha imposto la sua personalità e il suo stile. Un suggerimento se mai avrete la fortuna di poter essere a un party con lei preparatevi a essere trascinati dalla sua energia e dal suo fascino. AFM: splendida, coinvolgente, punk!
Anne-Flore Marxer Uomini & Neve
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(Arch. Swatch)
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Tu sei l’atleta più famosa in svizzera dopo Roger Federer. Perché lui è il numero uno e non tu? Mi fai sorridere! In realtà non è così: la classifica è stata fatta sulla base della popolarità del nome su internet. E Roger è il numero uno 1000 volte sopra a qualsiasi altro atleta svizzero! È un atleta fantastico e chiaramente si merita questa enorme popolarità del tutto.
fatto qualcosa di ancora più stravagante. Io cerco solo di fare le cose che amo di più, e di farle al meglio che posso. Questa è l’unica cosa importante, non essere famosi.
Come ci si sente a essere famosa attraverso lo snowboard? Pensavi di riuscire ad arrivarci nonostante tu non sia una sciatrice? Non mi sento famosa per niente! E sinceramente non mi interessa nemmeno esserlo. Se avessi voluto essere famosa avrei posato nuda ogni secondo giorno della settimana! O magari avrei
montagne. Ma in qualche modo mi sono sempre rifiutata di fare gare di sci, anche quando ero bambina. Il mio spirito ribelle si è manifestato in tutta la sua forza già da ragazzina quando ho deciso che non c’era nessuna possibilità che facessi le stesse cose che facevano tutti i miei cugini e gli altri ragazzini che mi stavano intorno.
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Cosa ti ha spinto verso lo snowboard? Tutti nella mai famiglia facevano gare di sci e quindi non c’è niente di così sorprendente che io fossi brava a scivolare con i miei sci giù per le
E quindi per essere ribelle e diversa da tutti ho deciso di fare snowboard. Era il mio modo di rigettare la mentalità arretrata delle persone che mi circondavano. Invece di stare sulle piste con la tutina da gara della nazionale svizzera, facevo freeride con mio fratello. Usavamo le piste solo per prender velocità per fare i salti e i tricks con i miei amici, nel resort dove abitavamo. Era quello che mi piaceva fare e quello che piaceva ai miei amici. E per questo non potevo non continuare a fare snowboard. Quando sono cresciuta lo snowboard era l’unica cosa che mi facesse sentire realmente viva. I viaggi, le feste, scivolare veloce, vivere ogni singolo momento della comunità degli snowboarders. Tutto questo era quello che mi serviva per sentirmi libera e felice come persona! In quel periodo non ero molto contenta della scuola. Ero una studentessa abbastanza brava ma non mi divertivo e ogni giorno a scuola pensavo solo al weekend quando sarei andata sulla neve: mentre i miei amici andavano a far baldoria in città, io risparmiavo ogni centesimo per comperarmi lo skipass. Facevo autostop per arrivare nei posti dove c’erano le gare di snowboard. Dormivo ovunque potessi trovare un divano libero a casa di qualche persona conosciuta magari per caso. Bastava essere sulle montagne a seguire la mai passione. In qualche modo, il lunedì mattina riuscivo ad arrivare in tempo a scuola quando suonava la campanella. Io sono un tipo abbastanza selvaggio, tutta la mia spinta a divertirmi non è arrivata solo dal cercare di spingere i mie limiti nello snowboard ma anche dal mio modo di viaggiare e di incontrare la gente il più possibile. Anche adesso è così, è il mio stile di vita ed è quello che mi fa sentire viva! Com’era scivolare sulla neve quando eri una bambina? Mia mamma mi ha messo sugli sci quando
avevo solo un anno. Mi ha raccontato che mi piaceva così tanto che mi sono messa a piangere quando ha provato a togliermi gli sci! Gli amici dei miei genitori mi dicono ancora che erano impressionati da quanto fossi precoce nella mia bravura e soprattutto di come andassi dritta e forte tutto il tempo. Penso che mi piacciano le stesse cose di allora! Quindi in una famiglia come la tua lo sci era qualcosa di fondamentale. Come ha inciso questo sulla tua vita? Ha inciso sicuramente molto. Come ti ho detto mio padre era un atleta di sci ed è anche stato uno dei primi a sciare tanto fuoripista; è una persona senza paura. Penso che questa abbia contribuito molto al mio cammino. Portava sempre me e mio fratello a fare quello che nessun altro genitore avrebbe mai fatto: a sciare in neve profonda e ripida. Mi ha insegnato tanto e mi porto dentro questa cosa da allora. Il problema è che però lui è veramente senza paura; il suo coraggio delle volte rasenta la pura follia e questo delle volte lo portava a esagerare con quello che ci faceva fare. Se io o mio fratello ci spaventavamo perché la cosa era troppo pericolosa per noi due, non ci dava il permesso di tornare indietro. A quel punto cominciava a urlare come un matto e mi spaventava così tanto che alla fine saltavo giù da qualsiasi salto o facevo qualsiasi discesa che era ben oltre le mie possibilità, solo perché quello che mi terrorizzava di più in assoluto era lui e le sue urla terribili. Questo purtroppo succedeva in tante cose, non solo nello sci. Succedeva anche nello sci d’acqua
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Anne Flore fa Wall ride sulla diga di Fionnay, Svizzera (archivio Swatch) In maniche corte sulle montagne di Arlberg, Austria (archivio Swatch) g
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ma anche in qualsiasi cosa della nostra vita di tutti i giorni e questo non penso che sia una cosa giusta da parte di un genitore. Alla fine i miei ricordi dello sci in famiglia purtroppo non sono sicuramente ricordi gioiosi, e adesso non frequento più mio padre. Ma penso anche che quello che mi è rimasto di quella situazione è che non mi sento mai di aver la possibilità di essere spaventata o di tornare indietro, in qualsiasi aspetto della mia vita, anzi alla fine mi comporto all’opposto di questo. Mi sfido sempre a fare salti più alti, linee più ripide, a scendere più veloce! Quello che però mi dispiace è che alla fine questa cosa fa si che purtroppo per molto tempo non sia riuscita a godermi una semplice discesa senza dover per forza spingermi oltre i miei limiti. Sia nello snowboard che anche in tutti gli altri sport che faccio. Questa situazione alla lunga ti stanca e ti rende frustrata, perché fondamentalmente le cose possono essere belle anche se sono semplici e divertenti, senza dover per forza essere sempre al limite di quello che sai fare. Adesso penso di essere un po’ cambiata e di riuscire a godermi ogni momento di divertimento in modo semplice. E tua madre invece? Ti ha aiutata nella tua carriera? Si mia madre mi ha aiutata. Portava me e mio fratello alle gare quando eravamo troppo giovani per poter guidare. È anche venuta a vedermi in momenti fondamentali della mia carriera, come ad esempio in California all’Oakley Cinema a Orange County quando hanno fatto la prima proiezione del primo film in cui avevo una parte importante, RoShamBo, e c’erano tutte le persone importanti del settore a guardarmi. È anche venuta a vedermi a Verbier quando ho vinto il Freeride World Tour. È venuta tante volte e mi ha sempre aiutato quando ha potuto e questa è una cosa che apprezzo molto e non mi stancherò mai di ringraziarla per questo. Uomini & Neve
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h Anne-Flore nella polvere profonda delle alpi Svizzere (foto Vanessa Andrieux) f Anne-Flore in volo sui paravalanghe di Anzere, Svizzera (archivio Swatch) Uomini & Neve 39
Haines, Alaska
La linea di Anne-Flore
La linea che mi ha dato sicuramente più soddisfazioni è quella che ho surfato filmando per Standard Film a Haines in Alaska. Ero già stata in Alaska, ma era la prima volta che ero lì per filmare per una delle più grosse produzioni internazionali, era naturale essere sotto pressione. Quella mattina ero nel gruppo di Mathieu Crepel e di Xavier de Le Rue. Avevano già fatto alcune linee ma la neve era trasformata e brutta e quindi erano tutti molto giù di morale. Nel pomeriggio avevamo previsto di fare una linea abbastanza ripida ma nella stessa zona c’era già un altro gruppo che voleva filmare le stesse linee: il cattivo umore aumentava tra di noi, ma non in me, anzi non so perché ma sentivo che era la mia giornata, ero davvero carica e sicura di me. L’altra compagnia era composta dai ragazzi di Yes Snowboards, certo non proprio dei pivellini in Alaska, ma alla fine hanno deciso di non girare perché per loro la discesa era troppo ripida viste anche le condizioni della neve, per non parlare del crepaccio da saltare a tre quarti della linea. Avendo loro rinunciato ero troppo felice di poter avere la mia occasione e così è stato: la linea più bella che abbia mai surfato. Ogni tanto le cose migliori nella vita scaturiscono da situazioni che non vanno come dovevano andare. Bisogna sempre seguire il proprio cuore, sempre! Come arrivare Per arrivare nella zona in cui abbiamo filmato, si vola prima negli Stati Uniti e da qui con un volo interno fino a Juneau in Alaska e da lì con piccoli aerei fino ad Haines che dista 110 km. Periodo migliore Il periodo migliore va da fine marzo a inizio maggio. Ad aprile solitamente si trovano le situazioni di neve e di tempo migliori. Ovvio non ci si può aspettare di andare in Alaska una settimana e sciare sette giorni. Possono esserci finestre di brutto tempo in cui gli elicotteri non volano anche per dieci giorni. La pazienza è un ottima compagna di un viaggio in Alaska. Operatori di Elicotteri Ci sono varie compagnie che offrono dei pacchetti di volo a ore,
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Anne-Flore sulle ripidissime spine polverose di Haines, Alaska (foto di Mathieu Crepel)
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La natura selvaggia di Haines, Alaska (foto di Mathieu Crepel)
sia in elicottero che in aeroplano, oltre ad avere servizi di gatti delle nevi e motoslitte. In questo caso Anne-Flore e la Standard Films si erano appoggiati a Saeba Heli (www.saeba-heli.com) che possono offrire anche servizio di guide e di lodge. Anne-Flore Marxer nata a Preverenges (Svizzera) il 24 gennaio 1984. Competizioni 2012 Vari parti in video del produttore Standard Films, come prima donna europea ad avere una parte nelle più importanti produzioni americane 2011 Campionessa del mondo del Freeride World Tour 2011 1° Xtreme de Verbier 1° Freeride World Tour Chamonix 2° Freeride World Tour Hochfuegen 3°Freeride World Tour Nendaz
2010 Prima come apparizioni su riviste in europa (sia maschile che femminile) Ride O’meter 2° King of the Hill, Valdez Alaska 3°Noboarding World championship Premiata come French Rider of the Year. 2009 Premiata al premio Best international Rider of the Year (sia uomini che donne) ai Mondial du Snowboard 2008 Votata seconda più influente rider femminile di tutti i tempi da Slack Magazine 2007 Premio Rookie of the Year di Transworld Snowboarding Sponsor Apo, Swatch, Sosh, Oakley, Tsg, 32, Etnies, Buff, Blue Tomato, Recco, Keep a Breast, The North Face, Level Gloves.
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Il Diretur In Italia Emilio è il Diretur. Direttore della prima e migliore rivista di Freeride che sia mai stata pubblicata nello stivale. La persona che con i suoi scritti e il suo comportamento ha sdoganato il movimento dello sci fuoripista facendolo passare, nell’immaginario collettivo, da uno sport di nicchia per aspiranti suicidi a un movimento di persone che spesso sanno quello che fanno. Ma non solo per i media, perché se molta gente sa che è meglio girare in neve fresca con ARTVA, pala e sonda, molto del merito è di Emilio e dei suoi editoriali. In poche parole ha creato una cultura, e solo un grande scrittore e comunicatore come Emilio poteva riuscire in un’impresa così difficile. Perché poi alla fine, e senza nulla togliere ai suoi grandi exploit in alta montagna e alle spedizioni, per me Emilio è soprattutto un grandissimo scrittore e comunicatore. Uno scrittore di quelli che in poche righe attira la tua attenzione e ti rapisce fino alla fine del racconto. Magari è una storia semplice, ma che ti resta dentro e ti fa riflettere. I racconti dei suoi viaggi mi hanno fatto sognare e mi hanno spinto a ripeterli.
Ma per riuscire a fare il freerider in un paese di mazzinga come l’Italia, Emilio ha avuto anche bisogno di un’altra qualità, la caparbietà. Emilio, quando si tratta di allenarsi duramente e di ottenere il massimo è una delle persone più caparbie e tenaci che ci siano al mondo. Non è un caso se ha finito l’Iron Man per 27 volte!
Emilio Previtali Uomini & Neve
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Uomini & Neve 67 (ph. Damiano Levati )
Raccontaci della tua infanzia e del tuo rapporto con lo sport e con la montagna quando eri bambino? Com’è nata la tua passione? Casa mia, la casa dove ho vissuto da bambino, era in centro a Bergamo. Dalla via dove abitavo bastava imboccare una traversa e cinquecento metri più avanti cominciavano le prime salite e le montagne. Era naturale immaginare che quelle colline che avevo davanti a casa fossero lì per qualcosa, per giocarci o per salirci sopra. La montagna più vicina a casa mia era il Canto Alto, la montagna che domina – si fa per dire - la città di Bergamo, con mio papà ci sarò andato centinaia di volte in estate, in inverno, in primavera e in autunno. Quella era la mia palestra, il mio campo di gioco, il mio giardino. A mio papà piaceva l’idea di partire da casa a piedi, in ogni stagione, e portarmi in montagna. Capisco che se io fossi nato a Courmayeur o a Cortina o a Canazei tanto per fare un esempio, questo inizio di intervista verrebbe meglio, magari avrei anche una bella fotografia da mostrarti con mio padre a fianco a me davanti alla nostra bella casa in montagna, una di quelle foto che si vedono sempre su Powder o su the Ski Journal . Invece no, io sono nato a Bergamo e sono cresciuto nelle case popolari. A regola avrei dovuto essere appassionato di calcio o un giocatore di biliardo del Bar Pino, come quasi tutti i miei amici e coetanei della via. E invece è venuta fuori un’altra cosa. Per questo, per la passione per la montagna che ho, devo dire grazie ai miei genitori. Cerchi di fare sempre tutto al top? Sei stato così anche da bambino? Nelle scuole medie sono capitato in classe con Simone Moro, che credo sia la persona più competitiva che ho mai conosciuto in vita mia. Poi nelle superiori ci siamo prima persi di Uomini & Neve
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vista per un anno e poi re-incontrati, abbiamo fatto una infinità di cose insieme andando ad arrampicare in falesia insieme tutti i pomeriggi per dieci anni, allora non c’erano le sale indoor. Anche suo papà era appassionato di montagna come il mio. Io e lui in un certo senso siamo diventati partner sportivi perché reciprocamente siamo stati le prime persone con cui avevamo a che fare esclusi i nostri rispettivi genitori. Eravamo anche la persona che rispettivamente dovevamo superare e battere, oltre che essere compagni di cordata nelle nostre uscite pomeridiane infrasettimanali. La competizione era inevitabile, dall’arrampicata al ciclismo, dalle morose alla serie di trazioni al travo. È stata una cosa naturale quella di cercare di dare il massimo, sempre, una scuola di vita. Poi a un certo punto è venuto l’ISEF e contemporaneamente è arrivato un certo metodo di allenamento, la progressione è stata naturale, in ogni cosa che provavo a fare. Allora nell’arrampicata o nello sci alpinismo o nello snowboard erano in pochi che si allenavano con criterio e per me cercare di migliorare e vedere fino a dove si poteva arrivare era una sfida, un esercizio, un motivo di studio. A me personalmente ha sempre attratto l’idea di imparare qualcosa di nuovo, sempre, spingere il mio limite per vedere fino a che punto potevo arrivare. Imparare qualcosa, in fondo, e cercare di farlo alla propria massima capacità, è la forma di esplorazione più pura che posso immaginare. Comunque non è vero che voglio fare tutto al top. Cerco di farlo al mio limite, quello sì. Ti piace lo sport a 360 gradi. Riusciresti a passare una settimana senza muoverti? Lo sport è da sempre parte della mia vita, della mia giornata, del mio lavoro. Ho fatto l’ISEF perché volevo che lo sport diventasse la mia vita, nella meno favorevole delle ipotesi come insegnate di educazione fisica. Anche quando ho
fatto lavori che non mi piacevano e che magari non avevano niente a che fare con lo sport, tipo lo scaricatore o il disgaggiatore, ho sempre interpretato l’orario di lavoro come una pausa di scarico tra un allenamento e l’altro. Preso così il lavoro, come una pausa di recupero tra un allenamento e l’altro, è più facile da sopportare. Poi c’è anche da dire che mi è capitato di
dovermi fare il mazzo qualche volta, per certi periodi, mettendo in secondo piano lo sport e il movimento, ma anche in quelle occasioni in fondo ho sempre tenuto duro. A me allenarmi è la cosa che piace più di tutte.
Burundi, e poi per i cinque o sei anni seguenti il Camel Trophy è diventato il mio lavoro, mi occupavo delle selezioni, dei pre-scouting, della tracciatura dei road book e della guida dei veicoli di supporto. Quattro mesi di lavoro all’anno e otto mesi di sci, snowboard e arrampicata sportiva dove volevo. Le aziende del tabacco pagavano bene, meglio che a scuola, per quello
h Emilio traina la sua pulka durante la taversata delle isole Svalbard (foto Damiano Levati)f Emilio a tallone libero nei boschi di Niseko, Giappone (foto Alo Belluscio)
Sei addirittura andato al Camel Trophy! Com’e stata quell’esperienza? Ho fatto quattro o cinque selezioni quell’inverno, le ho vinte, e poi ci sono andato. Ho partecipato come concorrente nel 1991 in Tanzania – Uomini & Neve 69
ho messo da parte l’idea di fare l’insegnante di educazione fisica. Ci ho provato, ed è andata. Quando ho affrontato la prima preselezione possedevo una Citroen 2CV e l’unico mezzo a 4 ruote motrici che avevo guidato in vita mia era un trattore all’Istituto Tecnico Agrario; alla prova di guida ero passato per un pelo. Poi sono tornato a casa e ho detto “ok, ci voglio andare, devo imparare “ e allora mi sono cominciato ad allenare a preparare in modo specifico, senza nient’altro in testa: andare al Camel Trophy. Ho imparato a guidare fuoristrada, con un auto in prestito, allenandomi con metodo anche lì. Alla fine delle selezioni credo che la cosa che avesse impressionato di più i selezionatori fosse la determinazione con cui mi ero preparato, la progressione, il miglioramento. La prima volta che mi avevano dato in mano un Land Rover Discovery non sapevo nemmeno come mettere le ridotte, mentre alla fine del training alle volte con la macchina facevo delle cose che non lo sapevo nemmeno io, come facevo a farle. Però facevo finta che mi venissero naturali. Da giovane eri una promessa dell’arrampicata: cosa ti piace dell’arrampicata in falesia? Sei mai stato attratto dalle lunghe vie alpinistiche o hai preferito la difficoltà delle vie sportive? L’arrampicata sportiva è stata la prima cosa a cui mi sono dedicato a fondo in vita mia, sportivamente parlando. Non so cosa intendi con promessa, nel senso che nei primi anni ’90 arrampicavo sul 7c a vista e cercavo di scalare su Jedi con stile, che era una via di 8b+ a Cornalba, a quell’epoca non è un livello che avevano in tanti, in Italia. Ecco, a me lo stile è sempre interessato più di tutto, l’armonia del movimento. Il gesto. Poi forse l’unica cosa rispetto a tanti amici che sono rimasti climber e falesisti per tutta la vita, è che io a un certo punto ho cercato di fare anche altre cose sempre allo Uomini & Neve
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stesso livello e quindi la mia progressione con i gradi dell’arrampicata sportiva si è interrotta ovviamente, perché l’intensità non era più quella di prima. Vie di arrampicata pura in montagna non ne ho fatte tantissime, mi piacevano di più le vie di alta montagna o di ghiaccio e misto o i concatenamenti, le “ravanate” dove la tecnica di arrampicata era un presupposto e non più un punto di arrivo. A quell’epoca non mi attraeva andare a fare una via in Dolomiti ad esempio, non ne vedevo il senso, perché pensavo che se potevo arrampicare sul 7c a vista in falesia non era interessante fare delle vie di VI grado su della roccia non bella e con della chiodatura così e così. Allora preferivo andare a correre vicino a casa, piuttosto, o in bici. Era un modo di pensare un po’ strano magari, una visione un po’ distorta dell’alpinismo probabilmente, ma a me sembrava più interessante usare la mia tecnica di
arrampicata per andare a fare delle vie classiche su ghiaccio al Monte Bianco per poi scendere con lo snowboard. Arrampicare sul facile su roccia non mi piaceva, non mi interessava. Però, che pirla, che ero, neh? Adesso ti sei appassionato alle gare di triathlon. Pensi che concludere un Ironman sia più questione di allenamento, di caratteristiche fisiche o di testa?
Concludere un Ironman è grossomodo come concludere una Maratona. La vera differenza la fa la velocità, l’intensità a cui gareggi. Se vai piano, è facile. Per gareggiare vicino soltanto al 90% del tuo potenziale – è una sfida bellissima - ci vogliono degli anni e impegno e dedizione e comunque non a tutti riesce. Serve sapersi fare un po’ male, soffrire in gara, tenere duro. Sapersi gestire e alimentare, la testa da sola non basta, bisogna allenarsi tanto e bene. Nell’Ironman bisogna tenere sotto controllo un sacco di fattori, se vuoi esplorare il tuo limite. Per portare a termine un Ironman per la soddisfazione di finirlo, andando piano e guardandosi in giro, non ci vuole molto, basta un po’ di buona volontà e di costanza nell’allenamento. Farlo andando al tuo limite è davvero difficile, una cosa a cui uno si deve dedicare in modo esclusivo. Io adesso ne faccio uno all’anno di solito, non di più. Ne ho fatti 27 credo, in vita mia. Se rinascessi credo che vorrei fare il triathleta professionista e andare a tutta, dare il massimo. Mi piacerebbe. Anche se sei un freerider ti piace competere nelle gare: lo fai per una competizione contro te stesso o perché ti piace metterti in competizione con gli altri e primeggiare? Onestamente a me a parte il triathlon, non piace particolarmente gareggiare, anzi. Non mi piace la sensazione che avverto in partenza, la tensione emotiva che accompagna il mettersi in linea sulla partenza insieme ad altri. Allo stesso tempo è qualcosa che non rifiuto e con cui mi confronto di tanto in tanto, mi metto in gioco, la competizione è qualcosa che rispetto e che mi piace perché ti obbliga a essere al 110% in un dato momento, in un dato posto, quando ti vedono tutti. L’agonismo è una cosa sana, un ottimo stimolo, il miglior modo per progredire e imparare, sportivamente parlando. Io la cosa che non sopporto veramente è la competizione
sotterranea, quella subdola e ridicola che c’è ad esempio tra certi climber o alpinisti e tra i freestyler e i freerider che danno più importanza al numero di foto che gli pubblicano sui giornali che alle cose che sono capaci di fare, numeri o classifiche alla mano, ecco quel tipo di competizione proprio la odio. Mi da la nausea. L’anno scorso ho gareggiato nelle gare Classic di telemark, tutti dicono che nel telemark non ha senso gareggiare, invece a me piace, è bellissimo, la gara Classic è un mix fantastico di abilità tecniche, organiche, tattiche. Guarda caso c’era anche Paolino Tassi a gareggiare al campionato italiano, lui secondo me è uno dei miti del telemark italiano e di un certo modo di andare in montagna anche, è una persona animata dall’entusiasmo e dalla passione pura e che non ha mai paura di mettersi in gioco, di ripartire da capo, di sperimentare. Non sono mica tutti così come è lui, ad esempio, i freerider di oggi. Hai tanti sponsor di altissimo livello: com’è il tuo rapporto con loro e se ti spingessero a fare qualcosa che tu non vuoi fare, prenderesti dei rischi inutili per farlo? La faccenda che gli sponsor ti costringono a fare le cose che tu non vuoi secondo me è una leggenda che mettono in giro quelli che gli sponsor non ce li hanno e che per quella cosa lì che gli sponsor non riescono ad averli allora sono un po’ frustrati. Avere a che fare con uno sponsor in modo professionale – non uno sponsor che ti regala gli adesivi, gli sci o le giacche a vento,
g Emilio a tallone libero nella polvere della Nuova Zelanda (foto Damiano Levati) f Emilio col padre Ernesto (foto archivio Previtali) Uomini & Neve 71
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