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Andrea Rastelli * EMATOFAGIA * capitolo promo * La camera chiusa
Aprì gli occhi nel buio, all’improvviso. Tutto ciò che poteva sentire era il ritmo lento delle gocce che alimentavano le pozze sul pavimento, scivolandogli lungo la pelle. Il frinire metallico che riusciva a cogliere in maniera quasi soffusa, dapprima sommesso, divenne una sentenza inappellabile, come urlata da mille acuti all’unisono quando realizzò di non potersi muovere. Catene. Solo la gamba sinistra sembrava godere di una certa libertà, sebbene potesse sentire gli anelli di ferro ancora attorno alla caviglia. Il rumore discreto di ogni suono, il freddo pungente sulla pelle nuda, ogni sensazione che provava gli venivano restituiti gradatamente mentre il torpore lo abbandonava con riluttante lentezza, lasciandolo in balia di una lucida realtà così incomprensibile da rasentare la follia. 1
Era solo, di questo poteva essere abbastanza sicuro. Niente passi, niente voci. Chiunque l’avesse ridotto in quello stato l’aveva lasciato lì, abbandonandolo alla sua agonia. L’odore nel sangue gli diede un fremito di eccitazione, preoccupandolo non poco al contempo, mentre lo assaggiava moderatamente con le narici: era il suo, non c’era dubbio. Lo sentiva sgorgare caldo dalle ferite ancora aperte, benché in maniera piuttosto lenta. Gran parte del flusso doveva già essersi arrestato, le lacerazioni non erano troppo recenti. Di primo acchito, non seppe dedurre se fosse di per sé un bene o un male. Ma ogni volta che cercava di ricordare cosa fosse successo, come fosse finito lì, era come se una miriade di spilli gli penetrassero al contempo nel cervello. La situazione nella sua testa non era differente da ciò che gli occhi potevano vedere: il nulla. Fece oscillare appena il braccio destro, scatenando nuovamente il cupo lamento delle catene che gli mordevano il polso. L’eco era immediata, doveva trovarsi in una stanza, piuttosto piccola e con tutta probabilità altrettanto spoglia. – Kat? – interrogò il buio, che non rispose. Per qualche ragione, quel nome gli era rimasto in testa. Gli affiorava senza sforzo alla mente, ma non era legato ad alcun ricordo. 2
– C’è qualcuno? – tentò ancora, ma l’esito non cambiò. Provò ad appellarsi nuovamente alla memoria che lo respinse indietro, in maniera ancora più dolorosa di quanto non avesse fatto in precedenza. Più cercava di ricordare, più il dolore si faceva acuto. Strinse i pugni digrignando i denti, mentre fece forza con le mani verso il basso, in un tentativo di liberarsi dettato più dalla frustrazione che da un calcolo ragionato. Lui stesso si stupì quando sentì gli anelli delle catene allargarsi e cedere sotto la forza di trazione che stava esercitando. – Ah! – esclamò, tanto per lo sforzo profuso, quanto per il bruciore ai polsi coperti di ecchimosi e abrasioni. Cadde bocconi, urtando con le mani il pavimento avanti a sé, mentre le ginocchia venivano intinte nel suo stesso sangue. Arrancò così quasi sino a trovare la parete davanti a lui, che non distava più di tre metri dal punto in cui era stato incatenato, ma prima di arrivarci inciampò goffamente su qualcosa di piuttosto grosso. Batté ancora le ginocchia per terra, ma si rimise prontamente in piedi. Senza attardarsi a esaminare il resto di quel loculo o cosa potesse averlo fatto incespicare, senza nemmeno realizzare la nuova fitta di dolore alle giunture, continuando invece a insistere nella ricerca dell’uscita. 3
Da lì procedette tastando freneticamente a destra e a sinistra, senza nemmeno curarsi di liberarsi dal ferro che gli rimaneva addosso. Come se la sua mente fosse regredita allo stato primordiale, e la sua unica priorità fosse trovare un modo per fuggire da quel posto, prima di ogni altra cosa. Non ci volle più di qualche secondo per incrociare lo stipite con i polpastrelli. Vi poggiò ambedue i palmi delle mani: si trovò a contatto con una porta in metallo, arrugginita ai bordi, che si fece da parte senza opporre alcuna resistenza. La libertà lo salutò con il cigolio sinistro dei cardini malandati. Era aperta. Era chiaro che una sua fuga non era stata prevista. Stirò le labbra, cercando d’istinto un’espressione trionfale in volto. Ma tutto ciò che riuscì a produrre fu un sorriso sghembo, malato. Si trovò in una stanza priva d’arredamento, dalle pareti spoglie, dipinte con un intonaco bianco scrostato in diversi punti. Una monocromia quasi totale, screziata a tratti da schizzi di un rosso spento. Al centro un tavolino in legno attirava su di sé tutta l’attenzione, dal momento che non era presente altra mobilia. Su di esso c’erano una bottiglia d’acqua senza etichetta, vuotata per metà, tre bicchieri e un piccolo barattolo aperto di compresse dal vetro marrone. 4
L’etichetta recitava “Thorazine”. Il coperchio era sul tavolo, vicino a uno dei bicchieri. Nell’angolo avanti a lui, a sinistra, era confinato uno specchio non più alto di un metro, dalla forma ovale con un supporto ai lati per regolarne l’inclinazione. Era rivolto verso il basso, coperto ai margini da uno strato di polvere, come se qualcuno l’avesse sbrigativamente pulito al centro per darsi una sistemata veloce. Solo quando gli occhi gli caddero sulla sua superficie, che lo rifletteva fino alle ginocchia, realizzò di avere ancora le catene attorno alle caviglie. Una lampada al neon fissata al soffitto sputava sulla stanza una luce alogena, che gettava su ogni cosa una verde ombra marcescente. Si rimise a camminare, confuso, aggirando il tavolo. Ogni passo aveva sulle piastrelle ocra della pavimentazione l’acuta risonanza del metallo. Afferrò il bordo dello specchio con la mano destra, spingendolo all’indietro per portare l’intero riflesso su di sé. Sbarrò gli occhi. Urlò, con tutta la voce che aveva in gola. Non c’era nulla di quel pietoso relitto che gli ricordava una parte di ciò che era nella sua memoria. Gli occhi erano tumefatti, il loro colorito marrone si distingueva appena tra le fessure delle palpebre livide. I capelli lunghi e neri arrivavano a toccargli le spalle, sporchi e disordinati. 5
Sulle guance aveva diversi tagli, ferite dolci, di quelle che sa dare solo un rasoio ben affilato. Il corpo gli sembrava scheletrico, le costole risaltavano sulla pelle eburnea, come se premessero con forza per strapparla e farsi strada verso l’esterno. Si spostò la barba, cresciuta di diversi centimetri durante il periodo di detenzione, per cercare la fonte del dolore pungente nei pressi delle gengive. Attorno alle labbra screpolate, dei piccoli fori avevano ancora dentro i rimasugli deteriorati di un filo. Strappò via con forza quel che ne rimaneva, provando dolore e sollievo al contempo. Gli avevano cucito la bocca. C’era qualcos’altro che non andava. Qualcosa di cui s’era accorto solo di sfuggita, che non aveva calcolato nella confusione del momento. Eppure lo avvertiva bene. Stirò le labbra, avvicinando la faccia allo specchio per esporre i denti. Erano tutti appuntiti, limati in maniera piuttosto grossolana, e gli davano il decadente aspetto di un predatore moribondo e sopraffatto dalla preda. Si girò rapidamente, come se non volesse altro che togliersi quel particolare dagli occhi, ruotando il capo per esaminarsi la schiena. Era scorticata, come se l’avessero frustato per ore. Erano quelle le ferite ancora aperte che sentiva, e da lì 6
proveniva il sangue caldo che continuava a scivolargli lungo natiche nude. Sentì l’impulso di lasciarsi cadere al suolo, ma non ce la fece. Gli mancavano la forza e la convinzione anche per perdere i sensi. O forse era l’adrenalina che aveva in corpo a non permetterglielo. Forse quell’istinto che lo incalzava, incessante, urlandogli di andarsene. Di non rimanere lì. Di trovarsi un rifugio, un posto qualsiasi. Ma non quello. Come in un puzzle nel quale si procede un pezzo alla volta, scoprendone l’immagine solo dopo averne assemblati a sufficienza, gli risaltò agli occhi un altro particolare tutt’altro che rassicurante: quella stanza non aveva porte, eccetto quella dalla quale era entrato. Dovette sopprimere a forza un fremito quando si girò, e la vide ancora lì, sarcasticamente aperta. Lo invitava a entrare. Si liberò lentamente dalle catene alle articolazioni, rimanendo a fronteggiare quel varco da pochi passi di distanza. Era più che confuso, era annichilito. Non riusciva a pensare, non ci provava nemmeno. Lo shock causato dal risveglio in quelle condizioni era troppo fresco per essere abbandonato, per tornare al raziocinio. Comprendeva solo di essere lì, smarrito, senza riuscire a realizzare nulla di ciò che gli stava accadendo intorno. 7
Eppure, paradossalmente, ogni cosa attorno a lui era ferma. Assolutamente immobile. Provò una gelida morsa allo stomaco. Tutto in quella stanza, dallo specchio alle pillole, sembrava aspettare solo lui, un suo movimento, un suo tentativo di fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Come un giocatore di scacchi chiuso in un matto forzato, mentre l’avversario aspetta e sorride. Si prende il suo tempo, lo osserva. Non ha fretta, sa già di avere la partita vinta. Attende solo la mossa dell’altro, per finirlo. Definitivamente. – Fai la tua mossa, – sembrava sussurrargli la camera, – Tocca a te. Avanti. Muovi, sei finito comunque. – No – piagnucolò, in un rantolo così privo di convinzione da sembrargli distanze, lontano. Come partorito da un’altra voce. Si prese la testa tra le mani, stringendosi i capelli e piegandosi sulle ginocchia. Cercò di respirare a fondo. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì, la porta arrugginita era ancora lì, ferma. Aperta per lui. – Vaffanculo cazzo – ringhiò a denti stretti. Tornò in piedi di scatto. – Vaffanculo. Non creperò qui dentro. Riprese a camminare, in maniera più decisa. Quando 8
varcò l’ingresso alla stanza precedente, non osò levare lo sguardo sulla porta. Gli occhi si abbassarono invece sul corpo riverso al suolo, in un lago di sangue. Era inciampato sopra un cadavere nell’uscire. Ora, con la luce che filtrava dallo stipite lasciato aperto, poteva vederlo chiaramente. Era in penombra, o poco più. Ma poteva quasi contargli i peli sul dorso delle mani. Un uomo, sarà stato sulla cinquantina, con lunghi capelli e barba biondi e una corporatura taurina. Indossava dei jeans usurati, e una camicia rossa strappata di netto alla base del collo. Una lacerazione che gli aveva asportato con violenza anche una grossa fetta di carne. Giaceva prono. Vicino a lui si trovavano i resti di un bastone uncinato spezzato a metà, di netto. Impiegò diversi secondi prima di riuscire a volgere lo sguardo altrove. Quella stanza non era più ampia della precedente. Bianca a eccezione del lago di sangue che ristagnava sul pavimento, completamente neutra, priva di personalità. E di finestre. Una camera chiusa è come un occhio cieco sul mondo: non lascia vedere altro oltre a quello che conserva al suo interno, al pari di una prigione di silenzio. In quel continuum che è l’esistenza di ogni cosa in 9
costante interazione, opera un taglio netto. Un’amputazione chirurgica. E costringe chi vi rimane dentro a fare i conti con se stesso. È un perfetto isolante tra la coscienza del mondo e la propria. Chi vive in una camera chiusa non può vedere la luce del sole, non sente il cinguettio degli uccelli nel cielo, li può solo immaginare. Diventa un circuito chiuso, alieno a tutto il resto. Per mantenere quel legame con tutto ciò che non può vedere né sentire, per non interrompere quella comunicazione che lo vede vivo agli occhi della terra, per continuare a esistere, può solo ricrearli nella mente. Per continuare a essere, è obbligato a pensare. Ma una stanza buia lascia spesso spazio solo a cattivi pensieri. E chi è segregato dentro di lei li respira, li assimila, senza realizzare che non sono altro che l’eco confusa della propria stessa inquietudine. A volte è sufficiente sollevarsi da terra e aprire le imposte. Lasciar entrare il sole, per scoprire che quel buio non era altro che il riflesso del vuoto che si aveva dentro. Ma chi rimane in una camera chiusa, e avverte quell’impulso di autoconservazione lontano e confuso, non ha sempre la forza di farlo. Allora rimane lì, a marcire dentro prima che fuori, infettato da quel miasma che egli stesso ha inconscia10
mente prodotto. Così cessa di esistere a poco a poco, mentre l’occhio del mondo si chiude lentamente si di lui. Seppellendolo per sempre, negli anfratti bui di ciò che di sé non è riuscito ad affrontare. Esistono innumerevoli camere chiuse, almeno una per ogni persona al mondo. In quel momento, Louis stava affrontando la propria. Il suo orrore era peggiore di molti altri. **
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