Vita immobile in questa putrida fogna!

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Vincent Fleur VITA IMMOBILE IN QUESTA PUTRIDA FOGNA capitolo promo

Il distributore di bevande e merendine Ho amato Claudia per dimenticare Maria. Elisabetta è servita per dimenticare Claudia, come Giulia è servita per cancellare dalla mente Elisabetta. Poi ci sono state Antonella e Silvia. Silvia, che ragazza eccezionale! Se non ci fosse stata lei, oggi, ne sono convinto, non sarei l’amante esperto che sono. Se non ci fosse stata Silvia, non avrei mai dimenticato Antonella… Poi Miriam, servita per dimenticare Silvia, per sempre. Per scordare Miriam, sono poi tornato da Elisabetta. Roberta è riuscita a cancellare il ricordo di Elisabetta, e Alessandra, in una sola notte, ha spazzato via qualsiasi nostalgia per Roberta. Federica per Alessandra. Valeria per Federica. Poi un’altra Giulia, per dimenticare Valeria. Il ritorno di Alessandra e una terza Giulia, occorsa per cancellarla, finalmente! Janete per cancellare Giulia. Ancora una Silvia, per dimenticare Janete. Chiara per dimenticare 2


Silvia. Poi Serena. Poi ecco Flavia. Poi di nuovo Serena. Poi Francesca per dimenticare... No no, ma a chi voglio darla a bere?!... non ha mai dimenticato, mai nessuna, nemmeno Maria. Mi sveglio la mattina presto quando ancora il sole fa i capricci per uscire. Mi preparo per andare al lavoro che ancora la luce è fioca e il freddo ti sputa in faccia la sua rabbia. Il freddo te lo fa giustamente pesare: è rimasto fuori tutta la notte! Le strade sono percorse da pochissime autovetture, intrepide, come la mia. Mi sposto di qualche chilometro (dieci, per la precisione) ascoltando musica leggera, finché arrivo nel luogo in cui sono costretto a vendere (in saldo) le mie ore più proficue. Arrivo sempre con un discreto anticipo, quando riesco anche più di un’ora, e non soltanto perché voglio evitare il grande traffico. Mi piace soprattutto sedermi in un locale consueto, farmi portare un cappuccino caldo al tavolo, mentre io sono già intento, con un quadernino e una penna, a buttare giù idee per dei racconti senza lieto fine. – Come ti sembrano i racconti che stai scrivendo? – mi chiede Mimma la cameriera. – Credo che dovrei smettere di far finta di essere uno scrittore. Ecco come mi sembrano! – so di risultarle simpatico anche quando rispondo in maniera acida. Alle volte però, la testa sembra marciare che è una meraviglia e la trama prende corpo in maniera inaspet3


tata sopra il foglio. Nei miei racconti c’è tutto il disprezzo che provo nei confronti di questa vita. Un risentimento che ha nome “voglia di vivere”. Verso le otto e mezza il locale si riempie delle solite signore vocianti che spettegolano su cose quotidiane. Hanno appena accompagnato i loro figli a scuola, ed eccole!, tutte a fare colazione prima di andare al lavoro. Alcune ormai mi salutano: sono sicuro che nel mio volermi nascondere dietro pensieri privati, finisco irremediabilmente per dare nell’occhio. Eh, non posso farci nulla, del resto è questa la parte migliore della mia giornata. Alle nove in punto, infatti, comincio a lavorare e per quattro ore anniento me stesso. Aspetto la pausa pranzo per riscoprirmi, finalmente, davanti al distributore di bevande e merendine. Questo aggeggio meraviglioso che si trova nell’androne del mio ufficio ha un aspetto talmente imponente. M’invita a passarci di fronte, mi convince a lasciargli sempre le monetine. Anche se non accetta i pezzi più piccoli. Ogni tanto mi faccio forza, decido di saltare il turno, ma lui sembra proprio non volerne sapere, mi guarda in silenzio, sospettoso. “Perché non ti fermi?”. I suoi colori sono così rassicuranti. Credo non sia possibile avvicinarsi a un distributore di snack senza desiderare nulla, – diamine questo distributore ha tutto quello che si possa sognare!, – e se 4


una volta capita di riuscire a passargli di fianco senza smucinarsi le saccocce, la seconda volta si è già con le monete in mano magari per concedersi una sbobba bollente che vagamente ricorda l’odore del caffè. A volte bastano pochi centesimi per ottenere ciò che si vuole. Ammiro chi sa darti risposte precise, chi ti concede qualcosa secondo un prezzo prestabilito. Senza tentennamenti, senza inganni, senza poi ritrattare. – Come va con tua moglie, Cristiano? Luca però non riesce proprio a farselo entrare in quella testaccia, che io non sono sposato. Mi si avvicina mentre conto un euro e cinquanta da mettere nella macchinetta, ho voglia di uno snack. – Questa storia mi sta uccidendo – mi fa. Non c’è bisogno di cominciare con un convenevole se poi si ha voglia soltanto di confidarsi, ma vaglielo a spiegare… – Non ne posso più. Non sono mica un ragazzino eh. Non ce la faccio più, più, più. – Non ce la fai a fare cosa? – conosco bene la sua situazione ma lo faccio sfogare. – QUELLA PUTTANA! – grida. – Quella gran puttana! – ripete tra i denti. – Vuole il mio sangue, vuole tutto. TUTTO! Per una scappatella, capisci? Uno stupido invaghimento. Dopo dieci anni può capitare, no? – Certo – lo assecondo. Lo vedo divincolarsi tra le 5


monetine senza arrivare neppure a cinquanta centesimi. Sono costretto a offrirgli una sbobba-odor-di-caffè. – Ha messo in mezzo avvocati, giudici. Soldi, soldi, soldi! Vuole il mio sangue, quella grandissima puttana. Non mi fa nemmeno vedere mia figlia! A te non t’è mai capitato di tradire tua moglie, Cristiano? NON TI È MAI CAPITATO?! – Luca io… – Ho chiesto un aumento – m’interrompe. “Luca io non sono sposato”, ci credo che non riesce a metterselo in testa. – Dunque? – Dunque niente. Che domande fai Cristiano? Voglio mandarlo a cacare ma non me ne lascia il tempo. – Questa maledetta macchinetta, – accenna un calcio, – ci ha pure fregato il resto! Salutami tua moglie – poi se ne va. Premo un pulsante, il distributore mi dà il resto. Lo ammetto, come tutti sono suscettibile a continui sbalzi d’umore, eppure il distributore di bevande e merendine riesce sempre a rimettermi in pace con il mondo. Specie quando si forma la fila. Sì, quando siamo tutti in fila, io mi sento davvero uguale agli altri, un uomo perfettamente realizzato. Come in un piccolo paradiso socialista: ognuno a cacciare fuori le proprie monetine, a muovere le mani nelle tasche dei pantaloni, nel taschino della giacca, con i portafogli tra le dita o a far 6


tintinnare gli spicci nel palmo della mano. Money dei Pink Floyd. La mia vita, a quest’ora, sembra muoversi con il passo leggiadro di un valzer: Un-ta-ta, Un-ta-ta, Un-ta-ta. È il canto della perfezione, un ritmo meraviglioso e regolare, la terzetta dell’abitudine! Com’è bello sentirsi tutti uguali, tutti ugualmente necessari. E muoversi in sincrono, come splendidi ingranaggi di un unico, grande, stupefacente sistema. Un-ta-ta, Un-ta-ta, Un-ta-ta. Eccolo, il ritmo cadenzato del conformismo e dell’omologazione. Sono momenti speciali, in cui riesco a non pensare ad altro. Mi sta bene così, la mia vita, non ho alcun dolore. – Ciao Cristiano. – Ciao Angela. – Quel porco pezzo di merda! Va in scena il secondo atto di Casa Vianello. – Oggi è andato a chiedere un aumento. Ha detto al direttore che io non gli lascio tregua, quel porco schifoso! Sai cosa mi ha fatto? Lo sai cosa mi ha fatto? “So-cosa-ti-ha-fatto”. – La mia vita, tutta la mia vita! Certo che ho chiesto il divorzio eh. Ha rovinato la mia esistenza, – caccia fuori alcuni spicci e senza neppure chiedermelo mi mette in mano un caffè, – ho dato la mia vita per lui. Per quel porco! Guarda come sono ridotta, guarda! In questo schifo di ufficio a svernare. Avevo tutta la vita davanti, e l’ho buttata per quel pezzo di merda. Dove 7


posso andarmene adesso? “All’inferno?”. – Grazie per il caffè, Angela. Prima di tornare in ufficio per l’orario pomeridiano mi dirigo un’ultima volta nella mensa self-service, prendo ancora qualcosa, rimango a osservare le reazioni di ciascun collega dinanzi al distributore di snack. La scelta di ognuno, il modo in cui si sceglie, ha per me un ruolo fondamentale nell’inquadrare il carattere di una persona. Se fossi un Responsabile delle risorse umane probabilmente farei qui i colloqui, dinanzi al distributore di bevande e merendine. Un test perfetto per scegliere i migliori candidati. Sono sicuro: chi si avvicina timidamente, senza sapersi decidere su quale prodotto acquistare è senza dubbio una persona impacciata e insicura, anche nella vita. Ammiro molto di più quelli che si fanno spavaldi, che magari accompagnano con il dito sul vetro il prodotto erogato. Che bello, il mio distributore di bevande e merendine. Ecco!, sono già le quindici e come d’incanto la magia svanisce. Rientro in ufficio, altre quattro ore di oblio, finché non cala finalmente la sera / il buio / il freddo. Esco dal lavoro e m’immergo nel traffico. Rimango a pensare all’amore, sempre così vicino eppure distante, a quella donna che non avrò mai. Una cara amica ripete sempre: “Cristiano sei così poetico”, io invece mi trovo soltanto triste. 8


Il solito cul-de-sac. Prima di andare a dormire, mi guardo allo specchio, mi accorgo di stare perdendo i primi capelli, così, per la prima volta in vita mia, quasi trentenne, mi viene la voglia di concedermi almeno qualche vizio. Mi ripeto che domani, domani mi compro un pacchetto di sigarette e comincerò a fumare. Poi invece non ho altri soldi che per lui, il distributore di bevande e merendine.

Milano Milady Ho smesso di pensare alla Felicità da quando sono un uomo felice, o è successo il contrario? Domattina un treno mi aspetta alla Stazione Centrale per le 8 e 45. Milano – Roma, solo tre ore di viaggio. Nel 1916 Giuseppe Marinetti scriveva il Manifesto della nuova religione-morale fondata, per l’appunto, sulla velocità. Perché ciò che è veloce racchiude in sé ogni forza in movimento, diceva, perché ciò che è veloce è la sintesi perfetta dell’azione. Fanculo alla lentezza quindi!, quel rimugino penitente che è tipico degli infelici, il passo incerto di un qualsiasi peccatore che cerca di nascondersi a se stesso e agli altri. 2012 – Odissea del tempo nello spazio. 9


Un treno. Non ruba di certo ai ricchi per dare ai poveri, semmai è l’esatto contrario. È un tipico Robin Hood all’italiana che scaglia le sue frecce da una faretra di binari: sono rosse, le frecce, come i conti di tutti. Com’è rosso il sangue. Com’è rosso il sapore del Negroni che ho appena bevuto. Corri Frecciarossa, su!, corri più del vento! Domani, – soltanto domani, – non darmi tempo per pensare. Perché i treni dovrebbero servire a questo, a questo soltanto: coprire le distanze in maniera rapida e indolore. Sono vecchi i tempi di quei romanzi d’inizio Novecento, quando la vita era talmente vuota che un vagone riusciva bene a contenere l’eco smisurata di una qualsiasi riflessione. No, la modernità è veloce e ci ha fatto dono di una vita finalmente piena. Di cose assolutamente inutili s’intende, ma comunque piena. Domani, quando tornerò dalla mia famiglia, e quando mia moglie mi accoglierà in casa con un piatto di pasta cucinato troppo velocemente, – eccolo il contrappasso, Marinetti!?, – e magari ciarlerà senza degnarmi di un solo sguardo per dirmi, che so, che Martina ha ancora la febbre e non è potuta andare a scuola o che Luca ha preso un’altra nota sul registro o che sua madre ha ancora problemi per via dell’ernia iatale…, quando domani tornerò a casa, dicevo, chissà se ce la farò a na10


scondere tutti questi pensieri, se potrò negare di averci soltanto pensato, ancora, ancora una volta, dopo tutti questi anni-felici, a quella, di felicità? Passeggio tra le librerie di Corso Buenos Aires. È lunedì, non piove più. Le strade trattengono il ricordo del diluvio appena trascorso sotto forma di umidità. L’asfalto ancora bagnato impesta l’aria invernale di Milano del fetore da smog. È l’odore di questa città, riconoscibile, indimenticabile. Ho avuto una donna di queste parti più di qualche anno fa, Erica Prette. Allora avevo tutti i capelli e non ero ancora un uomo “felice”. L’odore di Milano era esattamente lo stesso di adesso. Aspiro forte dalla sigaretta, quasi a costringermi a tossire, come a voler dire: “Ecco, sono vecchio!”. Mi passo una mano sulla testa. In cerca di capelli. Corso Buenos Aires appare deserto rispetto alle stesse ore di sabato e domenica, nonostante, come detto, sia piovuto per due giorni consecutivi e soltanto oggi abbia smesso. Sembra esanime, Milano, senza il viavai della sua gente rampante, senza le sue famose modelle a calpestare elegantemente l’aria sui marciapiedi, tra le vetrine illuminate del corso, con ai piedi le loro scarpe meno comode che comunque sanno portare. L’anima di Milano è un’anima pulsante, fatta di troppi palazzi e troppi pochi monumenti. Un solo grande cuore. 11


Erica l’ho conosciuta proprio in un bar vicino al Duomo. Faceva la cameriera. Che strano tornarci adesso, dopo tutti questi anni: quel bar è diventato un locale “alla moda” e alle cameriere di adesso non rivolgerei certo la parola se non per... ehm, fare loro presente che il loro abbigliamento è un po’ troppo… diciamo volgare, anzi, diciamolo pure… come si dice, trendy? Milano, Milano come sei fredda, Milano come sei crudele. Milano, ammettiamelo pure: ma quanto sei brutta?, va bene, te lo concedo: mi fai impazzire. Milano sei così perfetta da non riuscire a darmi tregua. Su, dimmi, Milano: tu, – sì proprio tu, – avresti permesso che io mi lasciassi tanto rammollire? Le donne vanno e vengono sui loro trampoli a spillo, oppure si fermano a bere un Cosmopolitan in qualche locale ché fa tanto Sex and The City. Naturalmente non mi guardano: sono un vecchio, romanaccio, imborghesito. Non c’è problema, neppure io guardo loro, questa volta: uno a uno palla al centro. Dopo il gran pranzo di lavoro poi, non ho neanche troppa fame. Prendo un Big Mac ma ne ingoio solo metà, e per inerzia, lungo la via che mi riporta all’albergo. Appena prima di arrivare, incontro una donna che però è un uomo. Si fa chiamare Jenny. – Bevi qualcosa? – mi fa. Devo avere un aspetto terribile per essere agganciato 12


in questo modo da un travestito disperato che se ne sta seduto davanti alla porta del mio albergo, in lacrime e che, a quanto pare, invece di ricevere come da abitudine i suoi ospiti in stanza è rimasto ad accalappiare pedoni sul bordo del marciapiedi per farsi offrire una sbronza. È la prima cosa che mi viene in mente. Un pensiero piuttosto lungo e articolato, per essere anche discriminatorio. – Non m’interessa – taglio corto manco fossi un qualsiasi Ministro dell’Istruzione da vent’anni a questa parte. Faccio per andare. – Che hai capito, sono un geometra. Sì, Geometra Luxuria. – Guarda amico… amica… amico, proprio non sono il tipo io! – annaspo tra espressioni imbarazzate. – E tu assolutamente non sei il mio, di tipo. – Ma che hai capito, questo è per lavoro, sciocchino. Se ti dà fastidio, vado in camera a cambiarmi. È una situazione ridicola, talmente ridicola che quasi penso di starlo a sentire. Poi però rinsavisco, faccio di nuovo per andare. Lui coglie la mia strana incertezza. – Sono ridotto così per una donna. – “Siamo tutti ridotti così per una donna”, penso, – hai mica un accendino amico? – mi offre una sigaretta. – Di dove sei? – un uno-due incalzante che non può che costringermi a restare. 13


– Mm, si sente che non sono di qui? – lo ammetto, ci rimango quasi male per non avergli dato l’impressione di poter essere anch’io milanese. – Aspetta, fammi indovinare. Sarai mica un terrone? – ridacchia per qualche secondo mentre tossisce catarro. Quando però s’accorge che mi sto trattenendo dal mandarlo a cacare, – oltre che mandarmici anch’io, visto che il Big Mac sta sortendo un effetto, come dire, inaspettato, – tenta di rivedere il suo concetto di “ironia”. Corregge il tiro. – Non ti offendere amico, anche i miei erano pugliesi. Si vede, non è mai riuscito a perdonarglielo. – Whisky, señor? – Allora non hai capito… Non mi lascia neanche finire. – Invece di stare qui a prendere freddo, – butta la sigaretta ancora a metà su un tappeto di mozziconi che leggenda vuole un tempo fosse semplicemente un marciapiede, – rimaniamo un po’ nella hall dell’albergo amico! Faccio segnare il conto alla mia camera, tranquillo amico!, sei mio ospite. Quell’espressione, proprio in virtù di quei pensieri precedenti, mi lascia addosso un brivido di terrore. In ogni caso, accetto. – Sei sposato dunque – sottolinea, sorride. Con la mano sollevo il mio bicchiere di whiskey, gli mostro la fede a conferma della sua intuizione. 14


– Vivete a Milano? – A Roma. – E che ci fai qui? – Lavoro. – E che non c’è lavoro a Roma che devi venir fin qua? – sorride nuovamente con quell’accento polentone-culattone-stracoglione che a questo punto mi irrita. Dio!, stavolta lo sto mandando davvero a cacare, sul serio… Forse però dovrei dire “cagare”, con la “g”, e non “cacare”, con la “c”, come invece diciamo noi a Roma… Sta il fatto che mi attardo in quest’inutile riflessione più del dovuto, perdendo l’attimo buono per svignarmela una volta per tutte. – Su scherzo amico. Un altro whiskey! – urla al cameriere. Intanto fanno il loro ingresso nella sala due modelle dall’aria mitteleuropea. Una caschetto biondo; l’altra bruna, un taglio alla maschietta. Quattro gambe-lungheda-non-vederne-la-fine si muovono veloci, verso il bancone verso di me verso di noi. Le due stangone si mettono sedute poco distanti dai nostri sgabelli, salutano divertite il Signor geometra Jenny, poi ci guardano, mi guardano, infine si lanciano un’occhiata l’un l’altra e ridacchiano impertinenti, – eh, ci credo!, sto pur sempre drinkando con un travestito!, – ordinano due cocktail leggeri per i loro stomachini delicati. 15


– Sono Kirsten e Bente. Kirsten è quella bionda, Bente l’altra. – mi spiega Jenny, mentre poggia le sue labbra sottili da uomo rimpinguate di un disgustoso rossetto violaceo su un secondo bicchiere di whiskey. – Sono due modelle danesi, lavorano qui per Versace. – si asciuga la bocca inumidita dal liquore con il polso. – E lei come si chiama? – Lei chi? – Tua moglie. Ah ah, hai visto due belle sgniacchere e già hai nascosto la fede! – ride ancora. Stavolta però gli concedo la battuta, ci sta. Subito mi guarda più severo: – Ascolta, loro non sono quel tipo di donna. – sembra frenarmi. – Però se t’interessa c’è un’olandese alla camera cinque del terzo piano che prima lavorava per Gucci e che adesso “pratica” per buoni clienti. Si chiama Hariëtte. Se dopo ne hai voglia… ci metto una buona parola io… – mi afferra una guancia e me la stringe quasi a farmi male. – No, no, grazie, non ne ho bisogno. – stavolta sono io a interromperlo, togliendogli per giunta le mani di dosso. – Sei fin troppo gentile. Non ho voglia. Grazie. – Certo che non ne hai voglia. Non l’hai ancora vista. La sua malizia non sortisce alcun effetto. Io non rispondo, sorseggio il mio whiskey, Jenny continua a succhiare il suo. Rimaniamo in silenzio per più di qualche istante. È 16


un silenzio imbarazzante e imbarazzato, in cui mi concedo di pensare davvero a tutto. Forse mi spingo troppo oltre con la fantasia, e allora, quasi non avessi alcun’altra scelta, gli rivolgo quella domanda che da mezz’ora, – praticamente da quando mi sono imbattuto in questo strano geometra in gonnella, – sta riecheggiando incessante nella mia mente: – Invece, la tua donna? – Quale donna? – mi fa. – L’hai detto tu prima: “Sono ridotto così per una donna”. Sono curioso di sapere chi è, che ti ha ridotto così. Quale donna può… Jenny scoppia a ridere interrompendo per l’ennesima volta le mie parole: – Ah ah ah! – richiama l’attenzione del cameriere e delle due modelle. – Ma sono io, sciocchino! Guarda che sono un geometra serio eh. Soltanto che la notte… esce fuori questa parte di me, la mia parte più divertente! – calcando quelle ultime due parole con un’enfasi straordinaria. – Vero Andrea? Vero ragazze? Le modelle rispondono di sì senza neanche aver capito di cosa si tratti, il cameriere invece mi guarda commiserevole. È assurdo, penso, è incredibile il modo in cui questo frocio-sciroccato sia riuscito a confondermi. – Guarda che ero sposato anch’io. Si chiamava Veronica. – rincara la dose. – Solo che non è riuscita mai ad accettarlo. 17


– E vi siete lasciati? – Lo sai che ci siamo lasciati, che domande fai!? – non ha tutti i torti ma sono davvero sconvolto da questa contraddizione vivente. – Ed è stato…? – Terribile. Mortificante. Triste. Tremendamente triste! – continua a sganasciarsi in maniera copiosa, irriverente. Quasi non stesse parlando del suo dramma personale. – Fa sempre male amico. – stringe i pugni, si alza di scatto, mi guarda. – Ho scelto di essere io la donna con cui invecchiare, la donna per cui stare male, per cui piangere e soffrire! Si ricompone. – Tu dimmi, amico, quanto sei felice? – punta il suo lunghissimo indice a mezzo centimetro dal mio naso. È la domanda della giornata. Una domanda da centomila euro. Una domanda che non ci si dovrebbe mai porre. – PERCHÉ IO SONO FELICISSIMA! – mi fa. Lo guardo, ci guardiamo. Rido con lui. A dire il vero non so cosa rispondere. La mattina seguente sono alla stazione, puntuale come un campanile meneghino. Ripenso alla mia strana serata e non penso invece al nuovo cliente con cui ho firmato un contratto durante il pomeriggio, il vero motivo del mio viaggio. Mi guardo intorno come non ho smesso di fare da tre 18


giorni a questa parte. Come, in effetti, faccio ogni qual volta mi ritrovo a passare per questa straordinaria città. Lo so, spero di intravedere Erica. Ma è una semplice curiosità? E che effetto mi farebbe? Che poi in fondo neanche so se la riconoscerei… Salgo sul Frecciarossa e mi ritrovo con tre ore di tempo buone per pensare, un po’ a tutto. Nonostante la velocità. Milano, sì, ne vale sempre la pena.

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