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Patrizia Caiffa * INDIAN EMOTICONS * capitolo promo * Ganesh festival ad Arambol * Arambol, agosto 2009 (Goa) * La statua del dio dell’abbondanza è rosea, panciuta e incoronata d’oro. Sotto la lunga proboscide indossa ghirlande di fiori color zafferano, bianchi o gialli. Ai suoi piedi mazzi di incensi e fuochi sempre accesi per ossequiarlo. In tutta l’India a fine agosto si festeggia Ganesh, il dio con la testa di elefante, e anche le minoranze indù di Arambol, piccolo villaggio a nord dello Stato cattolico del Goa, eredità coloniale dei portoghesi, fanno festa per una intera settimana. Ganesh è seduto sul suo trono regale, e a fianco del piede destro ha un topolino, suo messaggero. Gli indù pregano Ganesh per chiedere fecondità e prosperità nelle loro vite. Lo celebrano con canti, giochi pirotecnici, carri allegorici con la sua immagine gigante, danze sfrenate di uomini, suoni di tamburi e offerte in riva al mare. Fino al culmine finale, quando le tante statue di Ganesh allineate in fila sulla spiaggia, vengono issate in 1
spalla e lasciate al mare, mentre i fedeli mangiano dolci popcorn che sanno di fiori. Ad Arambol, tra palme e monsoni di ritorno, le processioni iniziano nella strada, con i ragazzi seduti in terra a omaggiare il dio-elefante con i tamburi. Poi centinaia di persone, a gruppetti familiari, seguono ciascuno le proprie statue – acquistate da artisti locali – nei viottoli bui che conducono alla spiaggia, cantilenando preghiere, alternate a urli improvvisi, mentre in cielo e tutt’intorno esplodono fuochi d’artificio come nel nostro Capodanno. È una notte gentile, con una mezzaluna gialla crescente, e la gente sulla spiaggia canta e si preoccupa di tenere accesi i fuochi davanti a decine e decine di Ganesh. In alcune zone dove la festa è più sentita, a Mumbai, per esempio, le statue sono addirittura migliaia. Nella magia dei chiaroscuri si intravedono donne in saree sgargianti con bambini elettrizzati. Anziani che reggono torce o sistemano pacchetti nel grembo della divinità. Uomini compassati che spaccano noci di cocco per la puja come fossero palle di burro. Il latte di cocco è versato sul viso e sulle orecchie del dio-elefante, l’ultimo gesto prima di alzarlo sulle spalle degli uomini e prendere il mare, accompagnati dalla folla festante e urlante. Le onde lambiscono i piedi, e le acque si aprono per abbracciare i tanti Ganesh, accogliendo in sé i doni, le offerte e le speranze di questa gente. Le statue, fatte di 2
sabbia, spariranno poi magicamente nei sogni notturni del mare. * Pescatori e matrimoni combinati * Palolem, agosto 2009 (Goa) * È un tramonto pallido e nostalgico sulla spiaggia più bella di Goa, a Palolem, estremo sud di questo minuscolo stato indiano che tanti non riconoscono nemmeno come India, perché molto cattolico e molto occidentalizzato. Qui orde di fricchettoni low cost da Europa, Russia e Israele svernano a colpi di sole e mare da surfisti di giorno; marijuana, birra e rave party di notte. Da queste parti saltare un’onda è come volare in alto liberi e leggeri, con i piedi che frullano nell’acqua allegri e insoliti. L’oceano ti porta con sé, ti attira lontano, verso il suo centro. Ma se resisti e resti puoi godere del bianco spumeggiare sulla pelle. Nella imponente mezzaluna sabbiosa costellata di palme da cocco, i pescatori, nella tregua momentanea del monsone, partono verso il largo o tirano in spiaggia le barche cariche dei frutti marini delle proprie fatiche. Sa di antico e quasi perduto questo rito maschile della pesca, con barconi di legno carichi di reti impalpabili e corpose, di equipaggi un po’ rozzi bruciati dal sole tropicale ma fieri del proprio lavoro. 3
E il tornare a riva non è cosa da pochi e smilzi: servono braccia poderose e gambe forti in aggiunta, a dozzine, con pedane in mare, corde e pali ai lati della barca, a poppa e a prua, al ritmo cantato di un “o-issa” in konkani (la lingua locale), per dare forza unanime al battello panciuto che così tanto pesa con il suo prezioso carico. Terminata l’impresa gli uomini tornano lenti alle rispettive case e cene. Forse da queste parti le loro spose da matrimoni combinati non li aspettano con troppo ardore, ma con il tempo ci si abitua l’un l’altro. Tanto poi, con l’arrivo dei figli e la presenza vigilante della famiglia e dei genitori, come dice con convinzione Laksmi, 16 anni, bel viso gentile valorizzato dal velo rosso del salwar kameez giallo, “si sistema sempre tutto”. Lei, primogenita di cinque fratelli di una famiglia del Gujarat, è stata mandata su queste spiagge a vendere gioielli fasulli a giovani turisti squattrinati. Lavora 11 mesi l’anno per mantenere i familiari e assicurarsi la dote. Non è mai andata a scuola ma ha imparato un buon inglese sulla spiaggia; non conosce la parola dreams e quando le si chiede cosa spera per il futuro la risposta è scontata: “Sposarmi a 21-22 anni con un marito di buon carattere e avere dei figli”. Ne basta uno, di sogno. Del resto, sostiene, “meglio un matrimonio combinato che uno d’amore: nel primo caso se c’è qualche problema intervengono le famiglie, che sanno bene cosa 4
è meglio per noi perché ci amano. E poi non è vero che noi donne non scegliamo: quando ci presentano un aspirante marito possiamo accettare oppure no”. Nemmeno un esercito di psicologi e femministe agguerrite riuscirebbe a sradicare tradizioni e convinzioni così abbarbicate, che garantiscono sicurezze sacrificando l’amore, la libertà e il diritto delle persone a scegliere la vita che vogliono. Forse solo l’inesorabile avanzata della globalizzazione e della modernità, dopo aver macinato e distrutto la parte più vera, genuina e antica dell’India, porterà modelli diversi e altre consapevolezze e aspirazioni. Ma sarà un bene o un male? Chissà. * Monsoon Delhi * Delhi, agosto 2009 (Maharastra) * Osservo stupefatta gli indiani danzare, ridere, giocare, aiutarsi l’un altro, sotto un monsone implacabile che affoga di acqua melmosa, fino alle ginocchia, il main bazar di Delhi, nel quartiere centralissimo, popolare e malfamato di Paharganji. Vedo bambini seminudi approfittare della pioggia per fare la doccia sotto gli scarichi violenti dell’acqua che scendono dai palazzi fatiscenti, ubriachi di risate nella sperimentazione folle di un nuovo gioco: salire 5
sul tetto delle automobili posteggiate davanti alle botteghe di chapati, tessuti o spezie, per godere dell’acqua a scrosci e poi scivolare urlando sul parabrezza fino a terra, come fossero in un vero parco giochi. Vedo taxi impantanati nell’acqua torbida fino ai vetri, con i motori fusi, e tassisti che scendono a spingere, fradici di pioggia, mentre allegri clienti con turbanti si mettono al posto di guida per tentare l’impossibile, ridendo. Frotte di giovani turisti bianchi e fricchettoni li aiutano, con l’acqua quasi alla vita. Curatissime donne in saree colorati e gioielli d’oro tentano inutilmente di ripararsi sotto mozziconi di tettoie di annaspanti risciò a pedali, mentre gli “uomini cavallo” in bicicletta, zuppi fino al più nascosto centimetro del corpo, sfidano incuranti il diluvio. Vedo piedi scalzi, corpi bagnati e la solita, incredibile umanità indiana condividere, sdrammatizzare e accettare l’ineluttabile che cade dall’alto, mentre i negozi si allagano, i motorini e i tuk-tuk (i tipici mezzi a tre ruote da usare come taxi) annaspano nei liquami puzzolenti delle vacche sacre, le automobili si fermano per esalare gli ultimi respiri bagnati. Una festa improvvisa e folle, ebbri dell’acqua del cielo come fosse vino. In Occidente questa stessa scena sarebbe ansia, panico, vigili del fuoco, protezione civile, e poi polemiche in tv e sui giornali, perché “le fogne non funzionano”, 6
perché “il livello delle precipitazioni quest’anno è stato superiore alla norma”, perché “non si è costruito come si doveva” e nessuno, di sicuro, avrebbe sorriso. Rimane nel cuore come una rivelazione preziosa, la gioia profonda di quel momento, e la nostalgia triste di quanto forse abbiamo inesorabilmente perduto, o non voluto – mai – imparare. * Kalighat * Kolkata, agosto 2010 (Bengala) * Kolkata a prima vista non è la temibile “città della gioia” del nostro immaginario letterario. La Calcutta del giornalista benefattore Dominique Lapierre sparisce, o si nasconde, di fronte ai cambiamenti portati dalla modernità. Sarà perché di “uomini cavallo” che trasportano a piedi le persone sui carretti ne sono rimasti pochi. Sarà perché di intoccabili che dormono la notte sui marciapiedi se ne vedono sì molti, ma non troppi come a Mumbai. Uomini, donne, vecchi e bambini che non piangono mai. Le strade a Kolkata sono più ampie e pulite e l’aria più respirabile rispetto alla Delhi polverosa e sventrata dai lavori in corso in vista dei Giochi del Commonwealth, che poi si riveleranno un disastro per disorganizzazione, accuse di corruzione e polemiche varie. La città che più temevamo – per la leggendaria fama 7
di sporca dimora di miserabili e interminabili slums – si rivela sì rumorosa e caotica, ma tutto sommato verde e accogliente. La capitale intellettuale e culturale dell’India, nello Stato del Bengala occidentale, può svelare sorprese a chi le sa apprezzare. Perché Kolkata non è solo Madre Teresa che accoglie i suoi moribondi nella casa madre vicino al tempio di Kalighat. I poveri lo sanno e bivaccano sui gradini. Quest’anno, poi, si festeggia il centenario della nascita della beata – è in corso il processo di santificazione, a furor di popolo – e qui si ergono statue e busti di pietra alla “matita di Dio” (come lei stessa amava definirsi), per far trovare la città degna di colei che ha molto contribuito a renderla famosa nel mondo. Madre Teresa sicuramente conosceva bene i riti del popolo per il quale ha dato la vita, così ben rappresentati e veri nel vicino tempio dedicato a Kali, moglie di Shiva, la dea nera dagli occhi cattivi e dalle molte braccia che distrugge e crea. Si narra che il tempio di Kalighat sia nato dalle dita del piede destro di Sati, sfortunata prima moglie di Shiva, bruciata e tagliata in 50 pezzi poi sparsi per l’India, oggi diventati altrettanti luoghi di culto molto venerati dai fedeli. Kalighat ci accoglie con i suoi venditori di collane di ibisco rossi davanti alla porta del tempio. È come varcare una profumatissima e purpurea porta del mistero. Ma per i turisti è praticamente impossibile inoltrarsi al 8
di là da soli. Una sedicente guida ci affianca per tutto il percorso. Non si può respingere l’accoglienza: siamo in un luogo sacro e dobbiamo rispettare regole a noi sconosciute. Non è facile capire se sia una reale consuetudine o uno dei soliti espedienti per spillare soldi agli occidentali. Sotto un certo punto di vista la sua blanda spiegazione ci aiuta un po’ a orientarci in questo mondo magico e misterioso. Appena entrati, sulla sinistra, c’è un grande tronco con rami secchi, rinchiuso da grate: rappresenta l’albero della vita ed è lì da circa tre secoli. I fedeli appendono ai rami dei sassi rosati che si dice vengano dal Gange, per esaudire desideri di fertilità, salute e benessere per la famiglia e per i bimbi appena nati. Sono soprattutto le donne, infatti, a recarsi a Kalighat per chiedere una gravidanza e buona salute per i neonati. Una giovane mamma con un saree a fiori rosso e avorio, capelli neri raccolti in una coda, mostra con fierezza e orgoglio la sua minuscola bimba di pochi mesi. Il suo sorriso dolce esprime gioia e soddisfazione per la richiesta esaudita. La bimba si presta ignara ai riti della più anziana sacerdotessa, che le versa con un cucchiaio d’argento latte e acqua sulla fronte. Al termine il giovane papà prova a dare dei soldi alla donna, ma lei, stranamente, rifiuta. La guida ci invita a lasciare le scarpe all’ingresso e dà a ognuno una corona di ibisco, bellissima. Più in là 9
alcuni giovani assorti impilano boccioli di fiori, sempre rossi, a formare collane. È un tripudio di colori e odori, si mischiano profumi celestiali e terribili fetori, come ovunque in lndia. La prima tappa è davanti alla temibile Kali. Due occhi cattivi su una pietra nera. Riusciamo a sbirciarli solo per pochi istanti, in mezzo alla folla accalcata davanti. Il rito prevede di prendere un fiore dalla corona, toccarsi la fronte e lanciarlo verso la dea recitando un mantra. Il gesto fulmineo, apparentemente incomprensibile per i nostri codici, lascia trapelare però una sua potenza intrinseca, data dall’enorme fiducia che uomini e donne attribuiscono ai loro idoli. Stesso rituale, con lancio del fiore e parole sussurrate, si ripete davanti alle statue delle divinità Shiva, Brahma, del lingam con la yoni (i simboli del maschile e del femminile riuniti insieme). Arriviamo finalmente alla zona più sacra, ancora sporca di sangue, dove al mattino si sacrificano a Kali capre e montoni, che in parte verranno cucinate per i poveri. Una donna prega con fervore appoggiando la testa tra i due pali dove vengono compiuti i sacrifici. Alcuni uomini puliscono con cura l’area, altri, più in là, macellano le bestie con grossi coltellacci. Nell’aria rimane sospesa tutta la forza feroce del sacrificio, che mi ricorda scene già viste in un altro tempio in Nepal, rosse di sangue come i fiori di ibiscus per omaggiare Kali. 10
Alla fine del percorso la sedicente guida-sacerdote ci rende protagonisti del rito accanto all’albero della vita. Ci invita a recitare mantra, offrire fiori e formulare un desiderio, mentre appendiamo una pietra del Gange a un ramo. In un attimo ci lega al polso un braccialetto rosso e giallo, a sinistra per la donna, a destra per l’uomo. E se il figlio arriva, – avverte allusivo, – bisogna tornare l’anno prossimo a ringraziare Kali. Ci prestiamo al gioco con un misto di serietà e diffidenza. Non è un caso, infatti, che a fine celebrazione il tipo ci faccia firmare un libretto e ci chieda una esosa offerta di 2500 rupie, quasi 50 euro, fingendo che i turisti prima di noi abbiamo accettato di buon grado. Incerti sulla verità della situazione – ma in parte coinvolti perché rispettosi di una sacralità che non conosciamo – sganciamo 500 rupie, poi altre 500, ma si fa subito strada la sensazione di essere stati ingannati. Appena usciti leggiamo sulla guida che la gente di solito non ne offre più di 50. Turista gabbato, turista fortunato? Senza rammaricarci troppo per la nostra ingenuità, ci consoliamo sperando che Kali ci ascolti veramente. Om-Shanti Om-Shanti Shanti Shanti Om. **
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