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Valerio Carbone - Flavio Carlini * LODE A MISHIMA E A MAJAKOVSKIJ * capitolo promo *
* Prefazione **
Questo libro fallirebbe il suo proposito laddove si limitasse a una valutazione fredda e tecnica dei personaggi storici di Yukio Mishima e Vladimir Majakovskij. Lode a Mishima e a Majakovskij non vuole esibire delle semplici biografie, piuttosto utilizzare gli spunti ricevuti dalle letture delle opere di questi due autori, così lontani e vicini al contempo, estremamente controversi e affascinanti a loro modo, per analizzare in maniera critica, tramite la letteratura, anzitutto il rapporto tra individuo e società, la frizione del singolo nei confronti del conformismo e dell’emancipazione. Yukio Mishima e Vladimir Maijakovskij: personaggi, in un modo o nell’altro, estranei al proprio contesto storico, rifiutati – in quanto rifiutanti – dalla società in cui si trovarono a vivere. Naturalmente le ragioni di tale rifiuto sono diverse, non sempre facilmente definibili. È piuttosto ragione1
vole riconoscere in Mishima l’incarnazione della Tradizione, una tradizione che prende corpo sotto forma di rimpianto: la nostalgia di un passato nobile e fiero, un’antica “età dell’oro”, che il consumismo della cultura americana imposta nel dopoguerra al Giappone stava demolendo e oltraggiando. Mishima non era certo un alienato, piuttosto un autore importante e affermato, un uomo di successo, diremmo oggi, completamente realizzato. Per quanto riguarda Majakovskij, invece, possiamo ben accettare la definizione canonica di “Poeta della Rivoluzione”: non è un caso infatti che l’autore sia stato tra i più fervidi esponenti del futurismo artistico e per questo, probabilmente, una delle prime vittime delle purghe staliniste. Majakovskij lottava per il rinnovamento ma fu sconfitto dalla stessa società che credeva di costruire. La Russia della Rivoluzione bolscevica come il Giappone del Secondo dopoguerra si presentano come due contesti inconciliabili con la nobiltà d’animo dei due autori: due paesi destinati a un sovvertimento totale di culture millenarie che, irrequiete, sembravano provare vergogna per se stesse. Di fronte all’effimerità del benessere capitalistico comprendiamo perciò come il bisogno di tradizione di Mishima ne uscisse schiacciato e deriso. Allo stesso modo, in un mondo destabilizzato dalla violenta rivoluzione, che stava osservando inerte la nascita di una dittatura feroce, nonché l’impo2
sizione di un forte potere centrale, di un totalitarismo che di fatto ha poi trasformato i cittadini liberati in ingranaggi di un nuovo conformismo assoluto, possiamo ben comprendere come anche lo spirito libertario di Majakovskij non potesse che diventare completamente estraneo a qualsiasi dinamica sociale, costituendo, di contro, un vero e proprio pericolo per il nuovo ordine nascente. Questa “estraneità” è sicuramente il cuore comune dei due celebri autori, ma altro elemento fondamentale è la morte avvenuta tramite il suicidio. Proprio da questo concetto, prende infatti spunto il titolo da cui nasce il nostro libro: Lode a Mishima e a Majakovskij, da un verso di una famosa canzone del gruppo punk italiano CCCP – Fedeli alla linea (“Morire”, 1984). Com’è noto, infatti, entrambi i personaggi si tolsero la vita: se per quanto riguarda Majakovskij il suicidio resta una teoria, di certo la più accreditata tra le molteplici ipotesi costruite sulla sua morte, per quanto concerne Mishima non c’è dubbio che egli abbia invece compiuto il suicidio rituale degli antichi samurai, il Seppuku, all’interno dell’ufficio (occupato per l’occasione) del generale Mashita dell’Esercito di autodifesa giapponese. Scrivere del suicidio di Mishima non può che risolversi per noi in un tentativo, forse sciocco, di ordinare in concetti quello che un’azione tanto carica di significato 3
esprime. L’azione è incommensurabile. Descriverla è un tentativo già perso in partenza. Eppure non si può “assistere” al suicidio di Mishima restando impassibili, immobili: muovere la penna, per chi è solito farlo, diventa un’esigenza. Così abbiamo deciso di prendere parola, ognuno a suo modo, riguardo questo suicidio. Nel racconto La testa di Mishima, è lo stesso Mishima a raccontarci quello che poi sarà il suo gesto definitivo, attraverso un confronto serrato con l’altro lato di sé, Kimitake Hiraoka. L’autore rivendica il suo suicidio, inconcepibile solo perché inspiegabile, come l’estremo tentativo di dare un senso e una dignità profonda alla propria vita, e, al tempo stesso, come la redenzione necessitante per il suo paese avvilito da quel torpore che aveva invaso le coscienze dopo la “colonizzazione” americana. Kamen-kami (letteralmente “lo spirito della maschera”) è forse più critico. Il racconto in questione nega infatti l’esaltazione del gesto di Mishima, rivendicando il valore della vita contro l’ideale della morte, quella morte nichilista e fanatica che il Seppuku dell’autore non poté che paventare. La vita di Kamenkami è una vita che accetta se stessa e le sue regole, una vita che scende a compromessi con il mondo, ma lo fa con la consapevolezza di un’umanità sempre pronta a risorgere, perché la vita di Kamen-kami è fatta anche, e soprattutto, delle piccole cose, come il rapporto dura4
turo di un uomo con una donna o una recita di compleanno. Non è tuttavia un racconto sprovveduto, piuttosto un racconto che sa prendere posizione, rispondendo al superomismo esasperato di Mishima attraverso la famosa massima del più grande spadaccino giapponese della storia, Musashi Miyamoto: “Le persone mediocri dovrebbero conoscere lo spirito delle grandi imprese, mentre le persone importanti dovrebbero conoscere lo spirito delle piccole cose. A qualunque gruppo apparteniate, non indulgete alla debolezza o alla parzialità”. I due racconti su Majakovskij, malgrado i differenti epiloghi, propongono invece una visione delle cose più coerente. Il volto di Majakovskij è la vittoria della passione futurista (che riesce addirittura a riservare al poeta la certezza di una nuova vita nonostante la morte “imposta” dallo Stato), raccontata da una lunga lettera di un Boris Pasternak ossessionato dalla fierezza e dalla passione impresse sul volto della salma di Majakovskij. La morte di L.Ju.B. (titolo ripreso dalla dedica che il poeta era solito apporre alle sue opere in onore della sua amata Lili Brik) è invece la straziante conclusione di un’esistenza annientata da quella stessa società che si è lottato per costruire. Majakovskij è perciò dipinto come un uomo solo e allo sbando, che si trova a che fare con le enormi vicissitudini e la pesantezza di un periodo 5
storico insostenibile. È lo stesso Majakovskij a parlare, riprendendo i suoi versi, le sue sensazioni. Sullo fondo il Cremlino, con le sue direttive, che impone al poeta una sconfitta, dunque una morte prematura: la negazione di qualsivoglia realizzazione artistica passa per il tentativo di fare di Majakovskij uno dei tanti paggetti dello Stato. Eppure la frustrazione più grande dell’autore rimane di tipo esistenziale. Tutto l’universo del Majakovskij di L.Ju.B. obbedisce alla sua passione dirompente e a un amore mai realizzato: con il Cremlino che nega al poeta il visto per Parigi dove lo attendeva l’amata Tat’jana Jakovleva, attrice scappata dalla Russia, che di lì a qualche mese, dopo aver visto terminare il suo amore con il poeta, si concede sposa al visconte Bertrand du Plessix, addetto commerciale dell’ambasciata francese in Polonia. Nel racconto in questione, l’orizzonte di Majakovskij rimane però contornato di tante figure femminili, alcune senza nome, ognuna che porta con sé la traccia più grande di un eterno fallimento sentimentale. L’ingenua lontananza di Lili, l’eterna amante del poeta, e del suo coniuge Osip, entrambi in vacanza in Europa, chiude il cerchio di questa straziante solitudine. Pertanto la morte di Majakovskij in L.Ju.B. rimane senza appello. Essa rappresenta il canto supremo della solitudine e dell’emarginazione, non soltanto la sconfitta di un uomo di fronte alla società. L’unico riscatto – qualora ce ne sia davvero uno – è quello che 6
porta il poeta a concedere alla morte unicamente la sua vita, mai la sua voglia di vivere. Anche l’uomo-Mishima è però presente più del suo personaggio, anzitutto nel racconto La testa di Mishima. Riprendendo le parole dello stesso autore (certamente conoscitore di Freud): “Ciascun individuo cela un impulso alla vita e un istinto di morte. Questa è la dialettica fondamentale dell’essere umano. Vita e Morte, alternandosi, riempiono l’esistenza di ciascuno, costruendo quelle molteplici contraddizioni insite in noi”. Mishima era infatti convinto che questi due impulsi si manifestassero in tutta la loro forza durante la gioventù, nella volontà di resistere contrapposta a quella di arrendersi: libertà e distruzione. La libertà e la vita divengono perciò, per Mishima, un’unica realtà. Mishima scrive – parlando del testo classico Hagakure di Yamamoto Tsunetomo – che la guerra permette all’istinto di morte di scatenarsi, sopprimendo per un po’ l’istinto vitale. Per questo, la prosperità del Giappone postbellico, riducendosi a soddisfare esclusivamente l’anelito alla vita, finisce per segregare e sopprimere il naturale istinto di morte che, in qualche modo, terminerà con l’esplodere, prima o dopo, non sopportando tale repressione. Non troppo lontano da questo modo di pensare (libertà come vita), ancora Vladimir Majakovskij, l’incarnazione della Rivoluzione (intesa propriamente come “spinta alla vita”), viene descritto ne Il volto di Majakovskij dal grande scrittore 7
russo Boris Pasternak, in visita al suo feretro, attraverso una smorfia tesa, sdegnata, imbronciata: “L’espressione con cui si comincia la vita, non quella con cui la si finisce”. La morte di Majakovskij descritta in questo racconto diviene pertanto l’esplosione più autentica del vitalismo futurista che rappresentava lo stesso autore. Così persino il suicidio, paradossalmente, diventa il più grande gesto vitale, uno sforzo di sopravvivenza e non il risultato della stanchezza di vivere. Il modo in cui il regime di Stalin ha pervertito la rivoluzione promossa dal poeta ha di fatto spinto Vladimir Majakovskij a rivoluzionare la sua stessa vita attraverso la morte. *
Il volto di Majakovskij (Lettera a Evgenia Vladimirovna Lourie) Flavio Carlini
Mia dolce Evgenia, ti scrivo solo ora, a un anno dal nostro divorzio, con mostruoso ritardo. Da un poeta si è soliti pretendere versi e parole a profusione, ma è tanto difficile gettare il proprio sangue sulla carta per chi amiamo quanto è semplice spargere quello stesso liquido per dei perfetti sconosciuti. 8
Non so spiegarne la ragione: ai poeti, forse, non è dato indagare la verità quanto cogliere la suggestione. E tu conosci bene la suggestione, l’infatuazione che è stata la mia rovina. La nostra, e di nostro figlio che spero mi permetterai di riabbracciare al più presto. Ti scrivo, Evgenia, perché non vada perso il senso delle mie ricerche, e per conferire senso stesso alle sofferenze cui ti ho sottoposta con la mia totale assenza da quel maledetto 14 aprile che ha visto il principio della nostra fine. Ti scrivo perché è giusto che tu sappia cos’è accaduto all’uomo che ha sconvolto i nostri destini, e condizionerà il mio, temo, ancora a lungo. Ti prego di non gettare la carta nel fuoco nel leggere il suo nome, perché, come hai certamente intuito, voglio parlarti di ciò che è realmente accaduto a Vladimir Vladimirovic Majakovskij. Conosci fin troppo bene, cara Evgenia, quanto il volto della salma di Majakovskij mi abbia turbato: vederlo disteso nella bara, in quella posa, da subito mi fece dubitare della sua morte nonostante il defunto fosse proprio davanti ai miei occhi. Come scrissi altrove: “Era disteso su un fianco, il viso rivolto alla parete, cupo, grande, sotto un lenzuolo tirato fino al mento, con la bocca semiaperta come uno che dorme. Voltando con fierezza le spalle a tutti, egli, anche così disteso, persino in quel sonno si slanciava caparbiamente chissà dove e chissà dove se ne andava. Il volto riportava ai tempi 9
in cui egli si era definito bello, ventiduenne, poiché la morte aveva irrigidito la mimica, che quasi mai riesce ad afferrare nelle sue grinfie. Era l’espressione con cui si comincia la vita, non quella con cui la si finisce. Era imbronciato e sdegnato”. Molte volte mi hai sentito pronunciare queste parole mentre, preso dalla follia, ponevo Majakovskij al centro della mia, della nostra vita. Così ho indossato gli abiti di Amleto, il principe danese di cui ti ho letto traducendo dall’inglese: prima ho vissuto un prepotente lutto per poi cercare vendetta contro un traditore invisibile. Perdonami. Non ha senso tornare ora sull’origine di tante sofferenze, Evgenia, quanto è importante spiegarti che non sono state vane. Ancora una piccola premessa prima di narrarti ciò che è accaduto durante questo lungo anno di silenzio: io, Boris Leonidovič Pasternak, giuro che quanto racconterò è realmente accaduto. L’ossessione per Majakovskij mi divorava e, come sai, per diversi mesi importunai la signora Veronica Vitoldovna Polonskaja che tanto aveva amato, ricambiata, l’oggetto della mia ossessione. – Voi sapete bene che non ero io il grande amore di Vladimir, – usava ripetere ogni volta che mi trovava in sua attesa fuori casa, – cercate Lilja Brik: è lei il suo vero amore, le attenzioni riservate a me erano, a confronto, davvero di poco conto. 10
– Se è così ditemi voi dove posso trovarla e, vi prometto, vi lascerò in pace. – Voi siete la mia maledizione, compagno Pasternak, ma indicandovi dove trovare Lilja mi sentirei davvero in colpa nei suoi confronti. Una sciocca pantomima che si ripeteva più volte al giorno. Nonostante tentassi di mantenere la consueta gentilezza, la rabbia e la frustrazione si insinuavano lentamente e inesorabilmente nel mio cuore. Quando il nostro divorzio fu ufficializzato, Evgenia, il mio presidio davanti l’abitazione di Veronica Polonskaja divenne costante: passavo le lunghe giornate e le gelide notti a spiare (ora certo me ne vergogno) in attesa di un minimo cedimento da parte sua. Finché una notte, mezzo assiderato sotto la neve battente, la mia rabbia esplose e stanco d’un attendere invano sfondai una finestra, introducendomi in casa. Senza preoccuparmi di fare silenzio oltrepassai il corridoio per raggiungere la scala. Percepivo movimento, al piano di sopra, ma non lasciai tempo alla signora di capire cosa le stava capitando. La schiacciai contro il muro, tenendola ferma con il corpo e tappandole la bocca con forza. Nell’oscurità della stanza i suoi occhi terrorizzati le illuminavano la pelle pallida. – Non vi lascerò andare finché non mi direte la verità sulla fine di Majakovskij – sibilai, allentando la presa dalle sue labbra morbide, permettendole di sfogare un 11
balbettio tremante: – Siete pazzo. – Folle, fuori di me, Evgenia mi ha lasciato portando via nostro figlio, ma non potrò recuperare il senno finché non otterrò la verità. Il volto vivo del cadavere Majakovskij è impresso a fuoco nella mia mente, e mi tormenta la veglia quanto il sonno. Ora parlate! – Io… non posso… – Parlate! L’espressione di Veronica mutò dalla paura all’imbarazzo, infine riuscii a piegare la sua ostinazione. – Lasciatemi, – disse con ritrovata calma, ubbidii. Mi condusse nella propria stanza da letto, dove accese due candele piuttosto energiche. Chinandosi recuperò uno scrigno dal fondo di un cassetto, aprendolo con delicatezza; ne estrasse una lettera che dispiegò con cura prima di consegnarmelo. – Davvero non immaginate i motivi per cui Vladimir si è tolto la vita? – Certo non per amore, né per mal di vivere come afferma il governo. – E cosa credete? – Che sia stato assassinato. Sorrise in modo consolatorio. – Leggete ora. – Di che si tratta? – È la lettera di commiato di Vladimir. – Questa non è la sua calligrafia. 12
A tutti. Del fatto che muoio non incolpate nessuno, e, per favore, non spettegolate. Il defunto l’aveva in grande orrore. Mamma, sorelle e compagne, scusatemi: questo non è un modo (non lo consiglio ad altri) ma io non ho scelta, Lilja amami. Compagno governo, la mia famiglia sono Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronica Vitoldovna Polonskaja. Se creerà per loro un’esistenza possibile, grazie. Le poesie incompiute datele ai Brik, loro se la sbroglieranno. Come suol dirsi l’incidente è chiuso La barca dell’amore S’è spezzata contro la vita quotidiana Tra la vita e me i conti tornano Ed è vano elencare guai, dolori, offese reciproche Buone cose, ** Vladimir Majakovskij, 14/IV/30 – Sarebbe convincente, se si trattasse della sua calligrafia, e non di una tanto femminile. La vostra, presumo. – La lettera originale, naturalmente, ce l’ha il governo: questa non è altro che una copia che ho realizzato di mio pugno. – Come? Come avete potuto accedere a un documento di così alto valore, in più sequestrato dal governo? – Vladimir non era solo quando ha scritto quelle parole, quando ha compiuto l’ultimo gesto. 13
– Chi c’era con lui? Voi? Chi altri? – Vi ho già detto troppo. – Parlate! – Lev Elbert. Ammutolii, quel nome era ben noto, tra chi si interessa di cronaca, e degli errori che il governo compie sempre più frequentemente. – Lev Elbert realizzò diverse copie della lettera, per sé, per i Brik, per tutti coloro che vengono citati. – Ho bisogno di sapere dove trovare Lilja Brik, vi prometto che non la importunerò. – Posso solo sperarlo, compagno Pasternak, ma ho rispetto per la vostra follia. Solo vi assicuro, Vladimir Majakovskij non è stato ucciso dal governo. Troverete i Brik nel vecchio appartamento che Lilja ha ereditato da Vladimir, in via della Nomenklatura. Lasciai Veronica Polonskaja pieno di dubbi, ero fermamente convinto che Majakovskij fosse stato assassinato, ma quella lettera e le parole di lei minavano la mia convinzione davvero pericolosamente. D’altra parte la presenza di Lev Elbert sul luogo del suicidio rafforzava il mio sospetto. Lev Elbert è un assassino professionista, il cui nome è molto spesso associato alla NKVD, la polizia politica. Lev Elbert è l’artefice di molti degli omicidi politici di questi anni e il timore che Majakovskij appartenesse alla sua lista era davvero alto. La signora Polonksaja, però, aveva giurato che il go14
verno, questa volta, non aveva ucciso. Chi allora? I coniugi Brik? Lei stessa? Con la testa in fiamme raggiunsi via della Nomenklatura, era mattina inoltrata. ** Lilja Brik mi accolse in casa con grande gentilezza, conosceva la mia opera, e mi confidò che il suo dolce Vladimir era solito pronunciare il mio nome con malcelata ammirazione. Parole estremamente lusinghiere. – Purtroppo non sono qui per parlare di poesia ma di avvenimenti piuttosto gravi. Lilja Brik, dagli occhi grandi e i lunghi capelli corvini, dalla pelle candida e le labbra rosee mi concesse un sorriso. – Di che si tratta? – L’omicidio del compagno Majakovskij. – Che sciocchezza: Vladimir si è tolto la vita, e tutti a Mosca sanno quanto io ne soffra. – Ho fatto visita alla signora Polonskaja e lei mi ha confidato che la vittima non era sola, quando il proiettile gli ha spaccato il cuore. – Cosa le ha detto? – Mi ha permesso di leggere la lettera d’addio, dicendomi di avere assistito alla tragedia… assieme a Lev Elbert. Lilja distolse lo sguardo dal mio, parlando nervosamente, senza guardarmi. – Veronica aveva giurato di mantenere il segreto. – Dunque è stato ucciso. 15
– No. Vladimir si è tolto la vita. – Vi prendete gioco di me. Sono certo che, nonostante il vostro amore, abbiate avuto un ruolo in questa vicenda. – Cosa ve lo fa pensare? – Quello che era scritto nella lettera: Majakovskij vi nomina sua erede, ma voi non eravate che amanti, e senza un documento ufficiale dubito che il governo avrebbe deciso di assegnarvi questa casa in eredità, con tutte le ricchezze artistiche che contiene. – Vladimir non era una persona qualsiasi, diede un grande contributo alla rivoluzione. – Sciocchezze, se avessero tenuto conto di quelle sue ultime volontà fino in fondo anche Veronica Polonskaja avrebbe dovuto ottenere qualcosa in eredità, – mi alzai, iniziando a camminare nervosamente, parlando a voce alta: la rabbia tornava a possedermi. – La rivoluzione, dite? Stalin distingue sempre meno gli eroi dai traditori! – Calmatevi, state esagerando compagno Pasternak. – Non chiamatemi così, - gridai, sbattendo il pugno sul tavolo in legno. – Dove sono le poesie incompiute di cui si parla nella lettera? Non mi risulta alcuna pubblicazione! Cos’è questa “vita quotidiana” che lo opprimeva tanto da ucciderlo? Non è certo l’amore per voi, Lilja, non parlerebbe certo di passione chiamandola “quotidianità”! – Calmatevi, compagno Pasternak, vi prego. Sedete, 16
ammiro il vostro furore: mi ricordate lui. – Non avrò pace finché non coglierò la verità. Lilja trasse un profondo sospiro, invitandomi nuovamente a sedere, allora prese le mie mani nelle sue, guardandomi e parlandomi con tutta la sua dolcezza femminile. – Non è semplice spiegare cosa accadde il 14 aprile dello scorso anno. Non credo di poterlo fare da sola. Inizierò confidandovi che sia io che mio marito Osip siamo parte della NKVD. Avvicinai Vladimir per la prima volta con l’incarico di sorvegliarlo. Ascoltavo in silenzio, con il volto teso, trattenendo la rabbia. – Vladimir era giorno dopo giorno sempre più insofferente al governo, al sistema che reputava ogni giorno più oppressivo. La sua popolarità tra la gente costituiva un pericolo reale, impossibile da ignorare. Scossi la testa, pensai di non aver bisogno di sentire il seguito del racconto. – Mi innamorai di Vladimir tanto perdutamente che il povero Osip dovette consentire alla nostra relazione, come forse saprete. Così i nostri rapporti su di lui furono sempre privi di sospetti, in modo da tenere a debita distanza gli assassini della polizia. – Tranne Lev Elbert. Una voce maschile interruppe la nostra conversazione, introducendosi in sala: 17
– Lev Elbert quella sera non si trovava lì per uccidere. Scattai in piedi, ruotando su me stesso, – Il compagno Osip Brik, suppongo. – Lieto di conoscervi, compagno Pasternak. Sono un vostro ammiratore e, solo per questo, non vi denuncerò come forse dovrei fare. – Anche la polizia politica ha rispetto per chi cerca la verità, dunque. – Affatto. La polizia politica non c’entra nulla con questa storia, o quasi, e state pur certo che se aveste trovato me, invece della mia appassionata consorte, sareste tornato a casa senza alcuna risposta. Non seppi controbattere, la sua autorità era bene espressa dalle parole e dagli atteggiamenti, lasciò il cappotto compostamente sull’appendiabiti, per sedere poi accanto alla moglie. – Siete l’unico, sapete, che continua a cercare Majakovskij dal giorno della sua morte. Gli ingenui credono al governo, come sempre, e chi aguzza l’ingegno non osa nominare la cospirazione. – Majakovskij è stato dunque ucciso. – No, ma nemmeno si è tolto la vita. – Anche voi vi prendete gioco di me, vi divertite a vedermi impazzire cercando di far luce su un mistero di cui voi possedete la chiave! – Calmatevi, e sedete, compagno Pasternak. Ubbidii, la sua figura non era imponente ma i suoi 18
modi incutevano rispetto, se non timore reverenziale. Respirai a fondo, fino a calmarmi. Osip e Lilja Brik mi fissavano con attenzione e serietà, lei si rivolse al marito con sguardo interrogativo, lui annuì per poi sentenziare: – Vi condurrò da Yuri Živago, egli è la chiave. ** Il viaggio in auto non fu molto lungo, la foresta russa ha sempre esercitato su di me il suo fascino, soprattutto sotto il manto candido della neve invernale. Per tutto il tragitto Osip e io non ci scambiammo che convenevoli, nonostante fossi ansioso di sapere chi fosse questo Yuri Živago. Lui citava alcune mie poesie, riempiendomi di complimenti, mentre io minimizzavo il mio presunto talento. La casa di Živago si trovava nel sobborgo di Peredelkino, Osip Brik restò in auto indicandomi la porta alla quale bussare, mi avviai titubante. Yuri Živago rappresentava la soluzione a tutti i miei quesiti e, allo stesso tempo, era lo spettro dell’assenza di soluzioni. Colpii la porta senza particolare enfasi, il padrone di casa venne ad aprire immediatamente. – Eri atteso, Boris Pasternak. Allora mi arresi all’evidenza. Davanti a me, con il nome di Yuri Živago, ritrovari quel volto imbronciato e sdegnato che tanto mi ave19
va offeso. Ti prego di credermi, cara Evgenia, quando affermo che Yuri Živago altri non è che Vladimir Majakovskij. ** Ci incamminammo nel bosco circostante Peredelkino. – Sapevo che il mio volto nella bara avrebbe colpito qualcuno, e confidavo nella tua perspicacia, Boris, ero convinto che, tra molti, proprio tu ne avresti colto il richiamo. Per questo ho detto a Osip di non scacciarti se mai ti fossi fatto vedere in casa sua. – Eppure io vi ho visto morto. – Il 14 aprile dello scorso anno mi trovavo in casa dei Brik, assieme alla dolce Veronica Polonskaja e in compagnia di Lev Elbert. – Di questo ero a conoscenza. – Quello che forse non sai, però, è che Lev Elbert non è solo un assassino, ma un abile imbalsamatore. Camminavo, lo ascoltavo incredulo, era dunque avvenuto un complotto e Majakovskij ne era paradossalmente il responsabile. – Quella notte Elbert mi consegnò il fantoccio cui aveva applicato il calco del mio viso, un lavoro complesso ma che, mi assicurò, aveva già svolto in passato. Ci fermammo, lui fissava un ramo che, ondeggiando, gettava neve dalle radici. – Sparai al mio fantoccio, nel cuore. 20
Mi fissò a lungo, in silenzio, infine mi sollevò dall’incombenza di chiedere “perché?” Stalin si proclama condottiero di rivoluzione finita, non ha più nulla da ribaltare, eccetto se stesso. La rivoluzione ha ceduto il passo (così come è nella sua natura storica) all’istituzione. Il regime che va delineandosi è, come ogni istituzione, finalizzato esclusivamente al proprio mantenimento, alla propria sopravvivenza. L’istituzione non ha altri interessi, se non proteggere se stessa, e in quest’unica direzione rivolge tutti i propri sforzi. Così Majakovskij fu della rivoluzione, così Majakovskij divenne dell’istituzione. Hai letto, Boris, la lettera che scrissi assieme ai miei compagni David Burljuk, Aleksandr Krucënych e Viktor Chlebinikov? In quell’imponente manifesto abbiamo posto l’avvenire, in quelle righe impressa la necessità del nuovo, l’importanza di distruggere tutto ciò che ci incatena all’immobile, al vecchio, all’istituzione. Io non ho mai smesso di credere in quelle parole: “A chi legge il nuovo, il primigenio, l’imprevisto. Soltanto siamo il volto del nostro tempo. Il passato è angusto. L’accademia e Puškin sono più incomprensibili dei geroglifici. Gettare Puškin, Dostoevskij, Tolstoj, ecc., ecc., dalla nave del nostro tempo. Chi non dimenticherà il primo amore non conoscerà mai l’ultimo. Ordiniamo che si rispetti il diritto dei poeti a odiare inesorabilmente la lingua esistita prima di loro; a respingere con orrore 21
dalla propria fronte altera la corona di quella gloria a buon mercato, che vi siete fatta con la spazzola del bagno; a stare saldi sullo scoglio della parola “noi” in un mare di fischi e di indignazione; e, se nelle nostre righe permangono tuttora i sudici marchi del vostro “buon senso” e “buon gusto”, in esse tuttavia già palpitano, per la prima volta, i baleni della nuova bellezza futura della parola autonomia”. Majakovskij divenne il vecchio, l’accademia; Majakovskij doveva sparire, essere ucciso, per permettermi una seconda nascita, una nuova vita in una rinnovata rivoluzione. Majakovskij non era ormai diverso da Puškin, Dostoevksij, Tolstoj, e come loro è morto, è classico, è storia. È vetusto e desueto. Io sono il nuovo, il primigenio, l’imprevisto: Yuri Andrèevic Živago è rivoluzione, vita e giovinezza. Ho letto quanto hai scritto sul volto della mia salma, e davvero hai saputo cogliere la realtà delle cose: realmente cominciavo la vita e quell’espressione segnava la mia seconda nascita. La vita quotidiana ha spazzato via l’ansia, lo slancio e l’inquietudine, degradando Majakovskij da rivoluzione a istituzione. Io, nel pieno rispetto del manifesto, ho dato la morte a tale angusto passato, esercitando il mio diritto a odiare ciò che fui. Nonostante l’odio, ti assicuro, non ho perso il rispetto per quello che Majakovskij 22
è stato ma la sua morte, ormai ti sarà chiaro, è un’esigenza storica. Osservai da spettatore lo spettacolo offerto dal suo ultimo viaggio dalla sala alla fossa. Andavano e sempre camminando cantavano “eterna memoria”, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto. I passanti facevano largo al corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano “chi è il morto?” La risposta era “Majakovskij”. Ora che conosci la verità, Boris Leonidovič Pasternak, ti chiedo di accettare la morte di Vladimir Vladimirovic Majakovskij e riconoscere il diritto alla vita di Yuri Andrèevic Živago. ** Dolce Evgenia ormai non più mia, come ho già detto quanto ho raccontato corrisponde al vero. Sono molte le cose che ho fatto, dilaniato dal morbo diffuso dal volto di Majakovskij di cui ora provo vergogna. Ti dovevo questa spiegazione perché tu sei la persona che più ha sofferto a causa della mia malattia, e verso cui ho le colpe maggiori. Non ho la pretesa di espiare, né chiedo il tuo perdono. Questa lettera non è altro, in fondo, che il banale compimento di un dovere. Quanto a me, l’incontro con Yuri Živago ha fortemente condizionato l’oggetto della mia suggestione poetica: sono in procinto di pubblicare 23
la mia nuova raccolta, ed è inutile che ti spieghi perché abbia deciso di darle titolo “Seconda vita”; ti annuncio, inoltre, di aver scritto l’incipit di quello che sarà, temo tra diversi anni, il mio primo romanzo. Un incipit che riporta fedelmente l’incisiva descrizione che Majakovskij, Živago, fece del proprio funerale. Tuo, Boris Leonidovic Pasternak, 12/I/32 *
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