ISBN 978-88-971-4147-1
Immagine in copertina: xxxxx 9 788897 141471
EURO 16,90
CON LORENZO DE LUCA
MANGIO ERGO SUM
BUD A CARTESIO: «Ma se io, Maestro, le tirassi un cazzottone, tale cazzottone non pensa e dunque non esiste, ma fa molto male e l’occhio nero sarebbe una prova misurabile, giusto?»
BUD SPENCER
LORENZO DE LUCA
(1966), co-autore di questo libro insieme a Carlo Perdersoli, in arte Bud Spencer. Sceneggiatore e saggista, è noto come pioniere della riscoperta del B-Movie con libri quali C’era una volta il Western Italiano, 1987, e Bruce Lee il Piccolo Drago, 1990, cui seguirono altri volumi seminali nella divulgazione del genere Arti Marziali, essendo De Luca l’unico italiano ad aver intervistato personaggi quali Jackie Chan, Gordon Liu, Brandon Lee, Lau Kar Leung ed altri. Con Bud Spencer ha scritto Altrimenti mi arrabbio, 2010, best-seller in Germania, paese per il quale scrive anche il “sequel” nel 2011. Come sceneggiatore, ha collaborato ai serial con Spencer (Extralarge, Extralarge 2, Noi siamo angeli, I delitti del cuoco) e ai film Jonathan degli Orsi, Aitanic, Merry Christmas, Natale sul Nilo, Natale in India e altri. A un suo soggetto si ispira il romanzo L’impero dei draghi di V. Manfredi. Nel 2010 ha diretto a Hong Kong il documentario L’urlo di Chen terrorizza ancora l’Occidente.
«QUANDO IO DICO MANGIO ERGO SUM, INTENDO SOLO DIRE CHE A PANCIA VUOTA NON SI HA LA FORZA DI PERDERSI IN DILEMMI FILOSOFICI; E DI QUESTO, DOVETE AMMETTERLO, NESSUNO MI HA DATO PROVA DEL CONTRARIO, FRA I PRESENTI.» BUD SPENCER
COSTRETTO DAL MEDICO A UNA FERREA DIETA, BUD RIGIRANDOSI AFFAMATO NEL LETTO PASSA UNA NOTTATA TERRIFICANTE, COSPARSA DI DODICI INCUBI, DURANTE I QUALI LO VENGONO A TROVARE I MAGGIORI FILOSOFI DELLA STORIA, UNO PER OGNI CAPITOLO: PLATONE, ARISTOTELE, CARTESIO, KANT...
BUD SPENCER CON LORENZO DE LUCA MANGIO ERGO SUM PREFAZIONE DI LUCIANO DE CRESCENZO
Questi cominciano a parlargli della loro filosofia e dei loro complessi principi, ma vengono sempre ricondotti da Bud Spencer a una filosofia più semplice, più “pasta e fagioli”, di vita e saggezza quotidiane. Alla fine di ogni incubo, Bud si alza dal letto, va in cucina e violando completamente la dieta prepara qualcosa spiegando la ricetta al filosofo di turno...
PLATONE: «Ancora non capisco a quale scuola filosofica appartieni: sei un sofista? Un pluralista? Un atomista?» BUD: «Sono un futtetennìsta! Mia moglie direbbe menefreghista!»
capitolo 1
Cartesio alla Murgiana
Nota biografica
Cartesio
Nato nel 1596, René Descartes, italianizzato “Cartesio”, studia Lettere e Filosofia presso i gesuiti di La Flèche e consegue un baccellierato in Diritto presso l’Università di Poitiers. Ma i suoi studi gli lasciano un senso d’insoddisfazione: egli sente che deve risalire alle origini di ciò che gli viene insegnato per individuarne la precisa essenza; insomma, un contestatore. Ma non è ancora il momento, per lui: velleità di carriera militare lo inducono ad abbandonare la sua patria, la Francia, per andare in Olanda al seguito dell’esercito di Maurizio di Nassau. Questa esitazione fra menare di sciabola o col pensiero è risolta a favore del secondo, grazie a ben tre sogni ispiratori che nel 1619 lo fanno optare per la ricerca. Bè, in fondo tre è il numero perfetto, no? Si trasferisce in Olanda nel 1629 e vent’anni dopo la regina Cristina di Svezia lo fa convocare a Stoccolma, presso la sua corte. Muore un anno dopo, a soli 54 anni, ma nel frattempo ha influenzato tutto il pensiero europeo contemporaneo e successivo, creando non pochi grattacapi a colleghi invidiosi ed epigoni speranzosi. La sua ossessione era la ricerca di metodi indubitabili per definire il mondo e le sue cose, attraverso strumenti infallibili che superassero la mancanza di rigore degli insegnamenti accademici, i quali erano assorbiti dagli studenti passivamente. Per i suoi docenti, c’è da scommetterlo, era un gran rompiscatole, come ogni genio che si rispetti. Così egli arrivò a teorizzare che si può dubitare di tutto, ma proprio tutto, tranne che d’una sola cosa: di esistere nel momento stesso in cui si pensa. Da qui il suo imperituro cogito ergo sum. Ne consegue il dualismo cartesiano fra res cogitans, la sostanza pensante e soggettiva, e res extensa, il mondo delle cose materiali ed oggettive. In sostanza Cartesio era contro la sclerotizzazione che deriva dal piatto apprendimento. Per lui si doveva capire il perché e il per-come del mondo percepito e del mondo oggettivo, andando oltre la tradizione, rivoluzionandola se necessario, e certamente svecchiandola senza alcun timore reverenziale nell’abbattere schemi obsoleti ed acquisiti, per entrare nella modernità. È questo il contributo più moderno del francese sulla via della conoscenza del pensiero.
Vi sembrerà follia - peculiarità dalla quale non sono per nulla esente, del resto - ma a me che un filosofo morto da un po’ di secoli se ne stesse nella mia cucina, parve meno bizzarro del suo buffo accento francese, tale e quale a quello dell’Ispettore Clouseau ne La Pantera Rosa. Si fece un giro nell’ambiente, constatando le conquiste tecnologiche chiaramente così estranee alla sua epoca, in primis il totemico oggetto delle mie brame: il frigorifero. Gliene spiegai il modo d’uso, che egli, dall’alto del suo genio (bè, stiamo parlando di Cartesio, in fondo, mica di Bambino, il fratello di Trinità), aveva già intuito. Si mise a girare in tondo nella cucina perlustrando con lo sguardo tutto; e tutto con finta aria di contenuta meraviglia. A quel punto ricordai che se lui si era presentato, io non avevo fatto altrettanto. Ma dovevo farlo in francese o in italiano? Qualcosa di francese mastico, così mi avventurai in un cauto: «Jè suìs monsieur Bud Spencer». Cartesio rispose con un risolino sotto i baffi - letterale, perché li portava - e mi dispensò dal proseguire: «Parlate tranquillamente in italiano, che è la lingua dell’Umanesimo europeo sin dai tempi di Dante. Io stesso, del resto, lo parlo discretamente, come avete modo di constatare». Questa era una cosa che avevo letto su qualche libro da giovane ma che avevo scordato: nei secoli andati, l’Italia era considerata faro di cultura; e sfoggiarne la conoscenza della lingua era un’abitudine in voga nei migliori salotti internazionali. Per usare un 23
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termine d’oggi, faceva trendy! Nessun dotto straniero tralasciava di fare un viaggetto qui da noi per studiare il Rinascimento o apprendere qualche vocabolo della nostra lingua, se voleva contare qualcosa nell’elìte intellettuale. In poche parole possiamo dire che, diversamente da oggi, era l’italiano la lingua del mondo, dunque nulla di strano che Cartesio mostrasse di padroneggiarla. «Okay, come vuoi… anzi, come volete!» risposi dandogli anche io del voi. «Occhèi? E che significa codesta espressione?». Sì, era decisamente un uomo del Seicento. Gli spiegai che era una maniera tutta americana di dire che va tutto bene, ma ciò parve confonderlo anche di più: l’America era già stata bella che scoperta prima che lui nascesse e morisse, ma non era ancora un Paese indipendente che dettava legge, usi e costumi al resto del mondo. Optai per non andare a fondo con le spiegazioni o avrei rischiato di confonderlo ancora di più. Del resto ben altro mi girava per la testa. «Non vorrei sembrarvi maleducato, anzi, l’emozione di essere alla presenza del fondatore del pensiero moderno mi fa venire la labirintite, ma… bè… professore, cercate di capire…»; come poteva capirmi se più andavo avanti e più il mio parlare diveniva un balbettio che io stesso faticavo a comprendere? Cartesio mi si fermò proprio davanti fissandomi con due occhietti a spillo, il mento all’insù, come si fissa un fenomeno da baraccone, e parve capire la situazione assai meglio di me, come dimostrò ponendo fine al mio imbarazzo: «Ouì, capisco perfettamente la vostra domanda, monsieùr: che ci faccio io in casa vostra a quest’ora di notte e senza invito?» «Veramente mi chiedevo come fate a essere qui visto che siete schiattato da quasi quattro secoli», pensai senza dirlo. Non volevo offendere, e poi una parte del mio cervello sapeva benissimo che quella era un’allucinazione da fame. E mica ti puoi mettere a offendere un’allucinazione! L’ometto poggiò il cappello sulla spalliera della sedia e mi fissò come aspettandosi da me qualcosa. Poi compresi che, per colpa del 24
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languore di stomaco che mi distraeva, non lo avevo ancora invitato a sedersi, e si sa quanto i francesi tengano all’etichetta: probabilmente quasi quanto io tengo al frigo pieno. Posi rimedio scansando la sedia dal tavolo cosicché potesse depositarvi le sue filosofiche terga. Si sfilò tirando uno ad uno le dita dei guanti in pelle, che poggiò sul pomo d’argento del suo bastone da passeggio, poi sedette, sospirò e venne al dunque: «Orsù, in singolar modo foste voi ad evocarmi quando, pochi minuti fa, motteggiaste il mio cogito ergo sum… e nessuno può dileggiare così la summa del mio pensiero senza avermene a rendicontare. Ignoro se siete un grosso filosofo o soltanto un grosso qualcosa, per cui eccomi qui all’inclito cospetto vostro in fervida attesa di chiarimenti… orsù». «Boh! Io aggio capito solo “orsù”!» ammisi con un sincero tocco di napoletanità. Il mio faccione era un libro aperto per chiunque, figuriamoci per un genio. Con un sospiro di pazienza, come quello di un professore con l’alunno svogliato, ricominciò a parlare con quella prosopopea ammantata di finta umiltà, esigendo una spiegazione o le mie scuse… E ci avevo messo solo dieci minuti a capirlo! «Professore, vedete: non vi stavo mica sfottendo, è solo che secondo me se la gente non ha di che mangiare, non può perdersi a cogitare… quello è un passatempo per chi ha la pancia piena. Insomma, una volta che hai messo benzina nell’automobile puoi decidere di partire, altrimenti…». «L’automobile?» mi interruppe perplesso. Avevo fatto un’altra gàffe: nel Seicento mica c’erano le automobili, così ripiegai su un più banale: «Se non metti i cavalli alla carrozza, la carrozza resta ferma. Mi dovete scusare se senza volerlo vi ho offeso, non mi passava manco pe’ a’ capa… ehm, cioè, manco per la testa… il vostro pensiero è materia di studio in tutto il mondo, ci mancherebbe!». «In tutto il mondo, sul serio? Bè, è d’uopo, direi». Potei quasi vedere che faceva “la ruota” come un pavone mentre mi spiegava che sapere di essere oggetto di studio da secoli, non lo sorprendeva più di tanto, lasciando a sottendere che un tal genio 25
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non poteva avere diverso destino. Ero contento di averlo rimesso di buon umore ma feci l’errore di volerlo compiacere, aggiungendo con finta noncuranza: «Ma è lapalissiano, Maestro: il pensiero è ciò che distingue l’uomo dalle bestie e che fa di lui la massima espressione del... del… bè, la massima espressione insomma». Sigillai la risposta con un sorrisone che diventò un ghigno ebete… perché Cartesio, non sorrise per nulla. Avevo toppato. Forse non conosceva il senso di “lapalissiano”: vuoi vedere che mi ero lasciato andare al citazionismo e che La Palìsse non era manco nato e noto all’epoca di Descartes? Ma non era questo il punto. «Posso avere l’ardire di chiedervi quale mestiere esercitate, messere? Perché di certo avete l’aria di uno che deve lavorare per vivere» domandò con aria altezzosa. «Faccio l’attore, anche se io mi considero più un personaggio, una maschera»; speravo che la mia umiltà, peraltro sincera, lo convincesse a non rifilarmi la stoccata che sentivo in arrivo, anche se non riuscivo a comprendere in cosa lo avevo stizzito. «Ah! L’attore, mon Dieu… un attore che conosce Cartesio è come un ranocchio che, dal suo piccolo stagno, volga gli occhi all’immensità del cielo: lo guarda ma sa comprenderlo? Senz’offesa, siete proprio certo che ero io il Cartesio da voi citato e non un volgare imitatore? Capisco che siete un guitto, un saltimbanco, un giullare rappresentante d’una categoria inferiore che ai miei tempi, quando spirava, non veniva neanche seppellita nell’urbe, bensì fuori le mura, non trovando cittadinanza nei cimiteri consacrati… e tuttavia avevate così ben principiato che non pensavo in un simile inciampo! Va da sé che l’uomo si distingue dalla bestia per la capacità di pensiero, ma non era questo il senso del mio cogito ergo sum. Mi avete frainteso». «E ti pareva!» sbuffai alzando gli occhi al cielo mentre tamburellavo con le dita sul tavolo. Cartesio prese a enumermi i pilastri del suo pensiero, puntualizzando che lui era quello del dubbio metodico, ossia del dubitare 26
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di tutte le cose che si danno scontate per tradizione; che lui era anche quello del dubbio iperbolico: ossia del dubitare anche delle cose universali, quali la matematica per esempio, perché potrebbe esistere un “Dio ingannatore” che si diverte a confonderci; e poi disse che lui era quello del res cogitans: la sostanza pensante contrapposta alla res extensa, cioè la cosa fisica e misurabile, come il corpo umano (ma che potrebbe essere lo stesso falsata, per via del summenzionato Dio che si diverte ad ingannare l’uomo). E mentre parlava infiorettava i suoi argomenti con variopinti, elegantissimi insulti al sottoscritto, tanto che non capivo se era andato in puzza perché avevo frainteso il suo motto o piuttosto perché un “guitto” si era permesso di accostarsi ad un genio. Ma per lo meno non stavo più pensando al frigo vuoto. Quel delirio notturno aveva sortito se non altro l’effetto di farmi scordare che avevo fame: adesso avevo voglia solo di zittire quel saccente con un cazzottone, ma ero soggiogato dal fraseggio di quell’affabulatore tignoso e irresistibile, la cui questione sul dubbio metodico e iperbolico corrispondeva al mio modo di pensare. «…In sostanza, mio largo buffone di corte, se è possibile mettere in discussione qualunque principio, non è certamente dubitabile che si esista nel preciso momento in cui si eserciti l’attività del pensiero… comprìs?» «Embè? Io c’aggio detto? Uno ragiona e perciò esiste!» sbottai in napoletano. «No, no, no e no! Io non intendo il ragionamento discorsivo. Io mi riferisco al pensiero come intuizione immediata con la quale cogliamo la nostra esistenza come inconfutabile… hai capito razza di villoso plantigrado?» «Ah ecco», esclamai mentre stavo per partirgli con un destro, perché intuivo che quel “villoso plantigrado” era un altro insulto. E glielo feci capire: «Ma se io, Maestro, le tirassi un cazzottone, tale cazzottone non pensa dunque non esiste, ma fa molto male e l’occhio nero sarebbe una prova misurabile, giusto?».
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