I ricavi di questo libro saranno donati per la ricostruzione della CittĂ della Scienza
in collaborazione con il Cavacon Comics & Games
Orologi senza Tempo di AA.VV. © degli Autori dei tesi © Tespi srl per questa edizione © degli ave i dirito per le i agi i uilizzate Colla a: Narraiva, Diretore Editoriale: Ni ola Pes e Ordi i e i for azio i: i fo@edizio i pe.it Ui io Sta pa: ui iosta pa@edizio i pe.it el
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Barbara Baraldi - Francesco Falconi Leonardo Patrignani - Cecilia Randall Emma Romero - Licia Troisi - Emilio ZĂ gara
Orologi senza Tempo Sette autori. Sette storie. Una grande antologia fantasy.
Indice
Prefazione, di Francesco Nobile
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Barbara Baraldi - La scogliera dei segreti
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Francesco Falconi - La contessa di sangue
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Leonardo Patrignani - Orologi senza Tempo
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Cecilia Randall - La pietra non dimentica
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Emma Romero - Il killer di sogni
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Licia Troisi - Acqua e Fuoco
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Emilio ZĂ gara - Oltre le ciglia chiuse
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Postfazione, di Luigi Amodio
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Prefazione Ricostruire una città. Si tratta di questo. Della volontà di mettere ordine tra le macerie e trovare la forza di assemblare, pezzo dopo pezzo, quella porzione di mondo che è appena svanita davanti ai nostri occhi. Soiata via dalla stupidità criminale, dalla violenza di pochi, e da un incendio che ha consumato in pochi minuti il lavoro di oltre vent’anni. Adesso bisogna ripartire. Dalle idee, dalle parole, dal loro signiicato. Perché Città della Scienza non è solo il più importante museo scientiico interattivo italiano. Non è solo un frammento della memoria di milioni di ragazzi, che hanno passato lì momenti di studio e svago. Non è solo un incubatore economico, di imprese, un luogo di scambio di buone prassi e innovazione. È un luogo dell’anima. Un luogo in cui potersi ispirare, respirare aria nuova, essere in viaggio. E allo stesso tempo, sentirsi a casa. È così, un po’ laboratorio e un po’ museo, un tempio laico, un miracolo naturale. Come un albero che tanto più svetta in alto, quanto più profonde sono le proprie radici. E in questa doppia veste, da sempre, Città della Scienza guarda al passato e al futuro. Perché ogni museo è archivio, memoria, storia sedimentata. Ma il tempo della scienza è declinato nella sua continua evoluzione. E in un futuro possiamo ancora credere, ma bisogna costruirlo oggi. Oggi, tra quei capannoni bruciacchiati, si avverte la necessità 9
di ascoltare parole nuove, che abbiano la forza evocativa di una formula magica. Che sappiano agitare gli animi, creando il giusto entusiasmo che s’accompagna ad ogni nuova visione. Perché le parole, in dall’alba dei tempi, hanno il potere di creare nuovi mondi. E il mondo dei fumetti, degli anime, e del fantastico nella sua accezione più ampia, riesce ancora a farci sognare. Senza vincoli o limiti di età. Senza tempo. Con quest’antologia di autori fantasy, il Cavacon prova a fare la sua parte. Ogni copia venduta di questo libro servirà a ricostruire un tassello di Città della Scienza. La renderà, più di prima, una proprietà comune, da salvaguardare. Un sentito ringraziamento va agli scrittori, che hanno accettato questa sida con entusiasmo. A Licia Troisi, Francesco Falconi, Barbara Baraldi, Leonardo Patrignani, Cecilia Randall, Emma Romero ed Emilio Zàgara. A Paolo Barbieri, autore della pregevole copertina. E ovviamente un plauso va all’editore Nicola Pesce, che ha sposato l’iniziativa. Francesco Nobile Direttore Generale Cavacon Comics & Games
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Barbara Baraldi
La scogliera dei segreti Aveva piovuto per tutta la notte, e non aveva intenzione di smettere. Le gocce si infrangevano sui vetri dei inestrini delle volanti, sulle cerate degli agenti, sui tetti delle ambulanze, sul mare. Il mare che sembrava osservare la scena come un muto spettatore, forse l’unico a conoscenza della soluzione al mistero che da più di ventiquattro ore stava tenendo col iato sospeso il piccolo borgo di Posillipo. E non solo. Perché la donna di cui era stata denunciata la scomparsa non era una qualunque, bensì la contessa Augusta Riccoboni Ranieri, protagonista di primo piano del jet-set italiano. Gli eventi mondani tra Capri e la costiera amalitana non potevano essere deiniti tali se non prevedevano la presenza della contessa. E sua era la villa arrampicata su una scogliera a strapiombo sul mare. Marmo che si vestiva di rosa quando era colpito dal tramonto: da qui il nome di Villa Pietrarosa. C’erano oleandri dai colori sgargianti e oasi di verde che facevano della dimora uno scorcio da cartolina. La contessa Riccoboni procurava lavoro a molte famiglie della zona tra domestici, giardinieri, il fedele autista Gregorio. Cinque levrieri e un uomo per occuparsene: Ernesto Castillo. Una parrucchiera e un’estetista sempre a disposizione, per prestarle servizio a domicilio. Per non parlare dell’esercito di venditori che le fornivano frutta fresca, carni e pesce di qualità per nutrire 13
barbara baraldi
la cucina della villa, operativa ventiquattrore su ventiquattro. La villa della contessa era popolata da personaggi bizzarri. Un andirivieni variopinto di artisti, leccapiedi, parenti, amici altolocati e latin lover speranzosi di diventare i suoi preferiti, almeno per qualche settimana. Augusta Riccoboni era nota per non farsi vedere a un party mai più di una volta con lo stesso accompagnatore. Il suo divorzio, avvenuto appena un anno prima, aveva a lungo occupato le prime pagine dei settimanali per via dei particolari scabrosi che erano emersi, le continue ripicche tra ex coniugi e l’attribuzione di fantomatici amanti a Vittorio Silvestrini, l’ex marito della contessa. Augusta Riccoboni, avvenente ereditiera di sessantacinque anni portati benissimo, doveva la sua fortuna alla morte prematura del suo primo marito, il conte Edoardo Ranieri, suo mecenate all’epoca in cui lei era un’attricetta in cerca di fortuna a Cinecittà, che l’aveva trasformata in una temibile e rispettabile signora dell’alta società napoletana. Con la sua morte improvvisa, Ranieri aveva lasciato un vuoto. Era amatissimo dai suoi concittadini. Pur essendo spesso in viaggio di afari, non dimenticava mai di parlare della sua terra. E non appena gli impegni lo permettevano era proprio lì che si ritirava, nella villa di Posillipo che aveva fatto costruire sul mare che gli aveva dato i natali e al quale doveva la sua fortuna. Ranieri era infatti un armatore, iglio di armatore. Costruiva ed esportava motoscai e yacht e non era raro trovare ormeggiati davanti alla villa i potenti mezzi di trasporto di qualche sceicco del vicino Oriente. In quelle occasioni, capitava di imbattersi in frotte di curiosi radunati per ammirare lo scintillio delle feste che venivano date a bordo delle lussuose imbarcazioni. Alcuni erano persino armati di cannocchiale per osservare, almeno da lontano, modelle, uomini d’afari e un esercito di camerieri 14
[continua...]
Francesco Falconi
La contessa di sangue In una cella del Čachtice Castle - 21 agosto 1614 Cammino nel buio. Le dita siorano i mattoni di pietra. Le unghie graiano la roccia, scavano nella polvere. Si spezzano. Sorrido nel buio. Poggio la testa contro il muro. La sbatto più volte, inché un rivolo di sangue mi cola dalla fronte e mi bagna le labbra. Bisbiglio nel buio. La voce è l’ultima amica che mi è rimasta. Ammaliante e maligna. Unica compagna nell’eternità di silenzio che mi circonda. Incarcerata tra veli di tenebra, sono rimasta sola. Dimenticata da tutti, schiacciata dai ricordi. Nuoto nel buio. Ho perso la cognizione del tempo. Quel tempo che si è frantumato in un universo di secondi. Quei secondi che hanno distorto l’udito, l’olfatto, la vista. E ogni cellula della mia umanità. Continuo a camminare vicino al perimetro della cella. I piedi nudi inciampano nella veste lorda, brancolano su un tappeto di fango, s’imbrattano dei miei stessi escrementi. Mi fermo. Crollo in ginocchio. Ansimo. Inspiro l’aria meitica e mi blocco. Osservo la sottile fessura che si apre sul muro, vicino al 33
francesco falconi
soitto. È il contrappasso che si ripete ogni giorno. La tortura di godere di un ilo di luce, troppo debole per vincere l’oscurità ma suiciente a incendiare la sete di rivedere il sole. E allora chino la testa. Piango. Ascolto i miei singhiozzi. Poi una risata. Algida come la follia che ha annientato ogni mio pensiero. Arranco carponi ino al materasso. Stringo le gambe al petto, dondolo la testa e canto una ninnananna. Strega! Assassina! Mi volto di scatto. Le tenebre si stanno muovendo. Sbufano, riccioli di buio che si condensano formando delle sagome. Spalanco la bocca, indietreggio spalle al muro. Riconosco quelle persone. Sono le mie serve. «Via! Andate via!» urlo fuori di me. Decine di ombre avanzano. Scivolano nel nero, pronte ad azzannare la mia anima. Perché vogliono farmi del male? Eppure le ho amate tutte. Dalla prima all’ultima. Dovrebbero essere felici, si sono sacriicate per la loro adorata contessa. Poi le forme si dissolvono. Plasmano altri volti. Sono le mie amiche Dorkò e Ilona Joo. Allungano le mani verso di me, le dita sono tranciate. È un istante, poi le ombre si fondono e assumono le fattezze della lavandaia Kata. Mi avvicino furiosa. Kata è l’unica delle mie servitrici che non è stata bruciata viva, eppure non è venuta neppure una volta a trovarmi in cella. Non faccio in tempo. La sagoma cambia di nuovo aspetto. Stento a capire l’identità del nuovo spettro che è venuto a farmi visita. Quando lo riconosco, sofoco un gemito. Un ragazzo di bassa statura, tra le mani sorregge la sua stessa testa. È il servo Fizcko, decapitato e poi bruciato. Scatto in piedi. «Maledetti! So che siete qui. Nascosti nel buio. Fatevi vedere!» Le ombre mi rispondono. Vibrano, si allungano in tentacoli, in34
[continua...]
Leonardo Patrignani
Orologi senza tempo Napoli, Campania, Italia. 4 Marzo 2013. Non erano modellini in scala. Erano vere. Quattro volanti della polizia, due dei carabinieri e un paio di ambulanze, parcheggiate alla buona in mezzo alla strada, di fronte al negozio con l’insegna dai caratteri maiuscoli: orologi senza tempo. Quando il bambino arrivò, alcuni uomini in divisa stavano transennando la zona e chiedevano con cortesia ai passanti di fare il giro largo. Le voci dei curiosi, assiepati sul marciapiede già da un pezzo, sibilavano accanto alle sue orecchie come gelidi aliti di vento, messaggeri inattesi a cui il suo giovane cuore non voleva aprire la porta. Non seppe mai per quanto tempo non avesse mosso un muscolo, impassibile di fronte alla visione che avrebbe popolato i suoi incubi per il resto della vita. Restò congelato mentre mantelli di fumo nero uscivano dall’ingresso del negozio e si disperdevano tutt’attorno. Vide suo nonno Roberto correre verso la vetrina e venire stoppato da due agenti. Lo sentì imprecare mentre si divincolava come in una ripresa al rallenty. Un operatore televisivo si inginocchiò, la camera a spalla puntata sull’ingresso del locale. Ogni gesto, ogni grido, tutto pareva il riverbero di un’eco lontana. Forse il ragazzino aveva già capito. Forse le notizie in dialetto, che i passanti spargevano come tozzi di pane per piccioni 47
leonardo patrignani
afamati, gli avevano già fatto sapere tutto ciò che doveva sapere. Mamma e papà non c’erano più. Inghiottiti dalle iamme mentre facevano il loro lavoro, quello che il nonno chiamava la “nobile fatica”. Carbonizzati insieme agli amati orologi, preziosi compagni di una vita e merce di scambio che garantiva il pane a tutta la famiglia. Amici senza tempo, che ora luttuavano insieme a loro nell’eternità del ricordo, lontano dalle miserie umane. Il bambino aveva solo otto anni quel giorno, ma non pianse. L’avrebbe fatto ogni sera, per un’intera adolescenza e forse più. Si guardò attorno, mentre l’invisibile cupola dell’incredulità rendeva tutto ovattato e distante. Lo capì in un attimo: il ragazzino era rimasto solo, fatta eccezione per quel vecchio di ottantadue anni che urlava rabbioso contro la polizia, determinato a penetrare la cortina di fumo per vedere con i propri occhi cosa restava del negozio che lui stesso aveva tirato su tanto tempo addietro. San Diego, California, USA. 11 dicembre 2075. Lame di luce entravano dalle ampie vetrate dello studio al dodicesimo piano, si rilettevano sul parquet e davano origine a geometrie diseguali, mentre i miei occhi si perdevano a rimirare la copia de La persistenza della memoria di Salvador Dalí, e il mio animo veniva cullato da una musica incantevole, proveniente dalle casse dello stereo: Beethoven, Sonata per pianoforte n.14 in do diesis minore, meglio conosciuta come Sonata al chiaro di luna. La cornice ideale per contemplare quegli stanchi e losci orologi, simboli di una memoria indeinita, allegorie di ricordi distorti, di un passato sempre più frammentario e lontano. Gli occhi ora chiusi, continuai a seguire col capo il dolce movimento delle terzine del compositore tedesco, inché un ronzio mi destò, riportandomi alla realtà. Era la suoneria dell’interfono. 48
[continua...]
Cecilia Randall
La pietra non dimentica Il cafè sotto il portico di piazza Grande era ancora aperto e alcuni clienti si attardavano seduti ai tavolini all’aperto di fronte al duomo, un gioiello romanico che sembrava dipinto su una tela, tanto era perfetto. Ellen giocava con l’ombrellino di carta del suo cocktail e ammirava l’ediicio bianco. Sarebbe bastato da solo a giustiicare il viaggio dalla Facoltà di Storia di Boston a Modena, anche se lei e la sua squadra di ricercatori specializzati in indagini sul passato non fossero stati chiamati per efettuare una perizia su una delle Bibbie più belle del mondo. La brezza di ine estate sottolineava la sensazione di benessere. Nella pace della piazza due sposi novelli stavano facendo le foto di nozze, abbracciati proprio davanti a una loggia del duomo. Dopo molti lash, il fotografo li guidò dietro l’angolo della chiesa. «Secondo te sono sposi veri?» Wayne spense la sigaretta nel posacenere. «Certo. Cos’altro, se no?» rispose Ellen. Il suo compagno si strinse nelle spalle. «Sono quasi le due del mattino». «Be’, la scenograia merita». «Vero». Wayne fermò il cameriere. «Vorremmo pagare». «Sì. Subito». L’uomo controllò la cifra sullo scontrino, ma gettò 57
cecilia randall
anche un’occhiata alle mani di Ellen. Lei nascose un sorriso. Era abituata a essere osservata perché le ragazze di solito non indossavano guanti di raso insieme a jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Se li aggiustò, assicurandosi che coprissero la pelle ino ai polsi. «Guardiamo il duomo da vicino?» propose dopo che Wayne ebbe pagato il conto. «Andiamo a letto. Gli altri stanno dormendo da un pezzo.» Lui provò a supplicarla, ma Ellen si era già incamminata. «Solo un’occhiata veloce, promesso. Fallo perché mi ami». Wayne sospirò e la seguì. Arrivarono ai piedi del duomo, piegando indietro la testa per ammirare la maestosità delle decorazioni. «Magniico» disse Ellen. «E dire che è stato fatto a mano, quasi mille anni fa». «Stupendo davvero. Peccato che sia storto». «Ma che incontentabile! Siamo davanti a uno degli esempi più belli di chiesa romanica e tu protesti perché il terreno ha ceduto». Wayne rise. Proseguirono lungo il ianco del duomo, studiandone bassorilievi, porte e capitelli, ino alla loggia dove poco prima erano fermi i due sposi a scambiarsi baci e farsi fotografare. «Posso approittarne anch’io?» Wayne tirò Ellen a sé. Lei ricambiò il bacio, ma poi si voltò a guardare la chiesa. «Che c’è?» domandò Wayne, sentendola irrigidirsi. «Non lo so». Ellen studiò la loggia e i due leoni stilofori che la custodivano. Si issavano a vicenda in una posa quasi ostile, ritti sulle zampe, dentro una recinzione di ferro. Sembravano ingabbiati perché non potessero avventarsi sulla gente ma solo uno contro l’altro: in particolare il leone sulla destra appariva più aggressivo rispetto a quello, timoroso, a sinistra. Entrambi erano rovinati dal tempo. «Peccato, questo non ha più il muso» disse Wayne. Il leone a sinistra era inquietante, con la testa irriconoscibile e il corpo rin58
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Emma Romero
Il killer di sogni Aveva una voce calda e suadente, con un forte accento russo. A sentirlo parlare così forte, ino al centro dei suoi padiglioni auricolari, se lo immaginava alto e robusto, come un giocatore di pallacanestro, ma vestito bene, elegante come i presentatori della tv. Ma no, non doveva più pensare in questo modo, al mondo di prima. La pallacanestro era scomparsa. I presentatori della tv erano scomparsi. Bisognava dimenticare loro e quelli come loro. Qui c’erano soltanto i reduci, e il mondo dei reduci si componeva di manifesti appesi ai muri, sgargianti, che invitavano ad andare a distrarsi in uno dei vicoli del Quartiere Rosso, quello dove è possibile dimenticare, come dicevano le enormi scritte colorate. Gli avevano detto che il sospettato, in realtà, era alto sì e no un metro e settanta, con le spalle larghe e il resto del corpo piccolo, e indossava ogni giorno una maglietta diversa, con stampato il nome di un gruppo musicale, uno di quelli svaniti come circa tre quarti del mondo-come-lo-avevano-vissuto, e aveva un viso quadrato e i capelli neri, con la chierica. Uno che però aveva il fascino di mille Don Giovanni. Questo il direttore l’aveva detto precisando che lo spiegavano molte donne nei verbali e l’aveva sottolineato più e più volte, molte donne nei verbali. Al sergente delle donne nei verbali non importava nulla. Voleva solo fare il suo lavoro. E 73
emma romero
magari anche farlo bene. Per questo se ne stava da ore con il culo attaccato a uno sgabello scomodo e le orecchie incollate alle cuie: poco a poco lo avrebbero ripulito, il Quartiere Rosso, lui ne era sicuro, e aspettava il momento in cui avrebbero avuto la prova, quella deinitiva, che da giorni stavano cercando. In casa, però, il tipo, che all’anagrafe e nel registro dei guaritori autorizzati rispondeva al nome di Paolo Pellegrino, insomma, il tipo non stava facendo nulla. Forse leggeva. Ogni tanto si sentiva il suono frusciante di pagine girate in fretta. Sì, decise il sergente, il tipo leggeva il giornale. Molti giornali, forse, visto che li leggeva da più di due ore. Ma dove li aveva presi? O forse erano libri? E in tal caso, anche i libri, come era riuscito ad averli? Le poche copie rimaste giacevano tutte in un bunker sotto il municipio, neppure il sindaco le toccava. Se quando gli avevano assegnato questo incarico aveva storto il naso, ora sapeva di sbagliarsi. Forse era davvero questo, l’uomo di cui tutti parlavano, l’uomo che tutti stavano cercando, l’uomo che si stava arricchendo alle spalle dei reduci più disperati. Nella scheda di autorizzazione all’attività di guaritore, c’era il dettaglio del programma di cura; un programma un po’ particolare: insegnava alla gente a liberarsi dei sogni. Non solo i sogni che si fanno di notte, mentre si sta dormendo, ma tutti i sogni in generale, anche quelli a occhi aperti: una notte di divertimento con tre ragazze della Zona Proibita, una vita diversa con i soldi vinti alla grande lotteria del Nuovo Millennio, la testa di un nemico fracassata sotto un vaso che pesa un quintale. Tutti i sogni, dal primo all’ultimo, Paolo Pellegrino diceva di poterli annullare, come si annulla un ordine con il diritto di recesso. L’unica causa di molte delle soferenze degli esseri umani erano i sogni, lo erano sempre stati anche prima della grande epidemia; c’era una causa psicologica chiara e semplice, per la quale lui aveva la cura. Tele74
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Licia Troisi
Acqua e Fuoco Marta se ne stava immobile davanti ai cancelli della Città della Scienza, un senso di devastante impotenza nel cuore. Come molti degli abitanti di Bagnoli, si era svegliata poche ore prima al suono delle sirene, l’aria impestata dall’odore acre del fumo. Erano stati attimi di terrore, era scesa in strada assieme ai suoi, di corsa, il iato mozzo e il cuore che galoppava nel petto. Aveva visto le iamme, là lungo il mare, altissime, rosse; per un istante si era chiesta se il Mostro fosse tornato in attività, come lo raccontava suo zio, che all’Ilva ci aveva lavorato per anni. Poi, come tutti, aveva capito, e le era sfuggito un gemito di dolore. La Città della Scienza. Era quella che bruciava nella notte. L’incendio era durato ore, tra lo sgomento della gente e nonostante gli sforzi dei pompieri; ora tutto quel che restava era l’odore di bruciato che prendeva alla gola e le macerie. Marta teneva le dita strette alle sbarre del cancello, e non riusciva a crederci. C’era stata in visita con la scuola, e le era piaciuto tanto, a lei che la scienza neppure l’amava particolarmente. Ma il planetario l’aveva incantata, e la isica aveva iniziato a trovarla meno antipatica, quando le toccava studiarla. E ora non c’era più. Era bastata una notte di fuoco. Girò la testa, perché aveva sentito qualcuno dietro di lei. Era un 87
licia troisi
ragazzo con un paio di jeans e una maglietta chiara che Marta capì subito non essere di Bagnoli. Percepiva in lui qualcosa di estraneo: da qualsiasi parte del mondo venisse, era certo lontana. Altrove. Era biondo, coi capelli lunghi e lisci stretti in una coda, aveva la pelle chiarissima e gli occhi grigi. Era magro e alto, non dimostrava più di sedici anni. Era piuttosto carino, non fosse stato per uno strano neo, chiarissimo, tra gli occhi, che congiungeva le sopracciglia. Guardava verso le rovine, con espressione assorta. «Che schifo, eh?» disse piano Marta, desiderosa di condividere la tristezza. «È un furto» disse lui. Aveva una bella voce, calma e rassicurante, «e dei peggiori.» «Ne eravamo molto orgogliosi, io sono di qua» continuò Marta. «Tu c’eri stato?» Il ragazzo fece un sorriso indecifrabile. «Oh, sì, molte volte...» disse. Marta tornò a guardare le rovine fumanti. Le mettevano addosso rabbia e angoscia nella stessa misura. «Non la ricostruiranno... non ci stanno i soldi...» disse mesta crollando le spalle. «Tu dici?» Si girò verso lo sconosciuto con aria interrogativa. «Era già un miracolo che l’avessero fatta una volta, igurati se una cosa così si ripete...» Il ragazzo sorrise. «Sai, questo luogo è morto e risorto molte volte, in passato. Hai ragione, è un posto di miracoli, questa baia». Marta pensò per un attimo che la stesse prendendo in giro. Ma c’era qualcosa in lui che le diceva il contrario. «Ti va di sentire una storia?» le chiese. Marta esitò un istante appena, poi annuì e, in barba a tutte le raccomandazioni materne, lo seguì. Quel tipo l’afascinava. 88
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Emilio Zàgara
Oltre le ciglia chiuse
Esplosione. Di luce, di orizzonti, di odori. homas Arden usciva dal carcere. Erano passati anni, e il sole gli premeva sugli occhi. D’improvviso sentiva che la gioia profonda che aveva provato negli ultimi giorni, la frustrante attesa, andavano perdendo ogni signiicato. Heirich Burden. Quel nome tornava ossessivo nella memoria. Heirich – Burden. Il poliziotto grazie al quale era stato arrestato. Purtuttavia il carcere lo aveva cambiato: non sentiva più l’impellente necessità di uccidere, quel dolore stridente che andava spento. Quelle triturazioni della carne, quegli spasmi, l’ordine imperioso, erano scomparsi per lui. Se voleva uccidere H. B. era solo per vendetta, per giustizia. Per quanto si sforzasse di essere calmo e razionale, non gli riusciva di separare dentro sé il fardello delle soferenze patite, le umiliazioni ancora ardenti, la terribile quiete delle ore notturne e, soprattutto, la mancanza dell’afetto di sua moglie, l’indicibile lacerazione di vuotezza, nel non averla sempre accanto, non riusciva a separare i nodi serrati mille volte nella gola da quel nome: Heirich Burden. Sicché era diventato nella sua mente quasi un’entità, un qualcosa di non umano – e a volte gli faceva paura, a volte sognava di quando l’avrebbe abbattuta, ma 99
emilio zàgara
sempre, sempre, in fondo a tutto, la rabbia. Adesso gli sembrava, per quanto sia banale, di essere sotto un sole diverso da quello respirato nel cortile del penitenziario – e come una donna al mattino, tra lenzuola di seta, mentre luce iltra obliqua da una inestra – egli si sentiva infondere per ogni ibra del corpo un’energia nuova, un dolce tepore, quasi un torpore, e tornava vivo nella memoria un altro nome: Agnes. I nomi – solo un accostarsi di lettere per le altre persone – erano stati per lui come gli autori antichi potrebbero essere per un poeta malato, piccolo e solitario: erano stati un qualcosa di più, di più d’un suono – quasi degli amici. Li aveva assaporati come se contenessero signiicati misteriosi, come se ci si potesse parlare, con un nome, e se quando nominava Heirich Burden si sentiva il sangue incandescente, quando invece baciava sillaba per sillaba il nome di sua moglie sentiva una stanchezza, un odore, e non poteva più muoversi, e oltre le ciglia chiuse vedeva lei. Se le tristezze possono essere causa di tumori, l’immagine di lei – e il suo nome – erano state le uniche cose che lo avevano salvato. Vi si era aggrappato in ogni occasione. La notte era felice, dormendo, nella culla calda dei suoi sogni; e quando al mattino la campana lo strappava troppo velocemente al sonno, la igura di lei, la sua pelle, il suono della sua voce erano ancora appiccicati alla sua mente, non separabili dallo stato di veglia. Si ritrovava allora intontito, la testa pesante, nel cuore la tristezza come una mano nera – in quanto era stato solo un sogno – e la felicità come una cascata di luce, come l’Inno alla gioia. Ma lo aspettavano mattine più dolci. Andava da lei. Non l’aveva avvertita, avrebbe voluto farle una sorpresa. Era tutto tremante, non sapeva cosa avrebbe trovato. Non l’aveva vista molto spesso in quegli anni, non era stato consentito. Quelle volte 100
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Postfazione L’idea di Città della Scienza è nata, più di 25 anni orsono, elaborando il concetto di immaginario scientiico e cioè quel “quid” – assai indeinibile – che mette assieme visione e progettualità, fantasia e critica del reale, e provando a farne qualcosa di concreto. Il viaggio tra scienza e fantascienza che si tenne per la prima volta nel 1987 alla Mostra d’Oltremare di Napoli si trasformò pian piano in ediici, contenuti, laboratori, persone e idee, soprattutto persone e idee, che a quel viaggio dettero una casa nell’area un tempo industriale di Bagnoli. Insomma, Città della Scienza deve molto non solo a quei visionari che si chiamano scienziati che ogni giorno, in laboratori spesso oscuri, sempre più spesso precari e mal pagati, danno vita alla società della conoscenza e al progresso collettivo; ma anche a un altro tipo di visionari – artisti, scrittori, disegnatori, semplici appassionati e collezionisti, makers e fab-labers – che nel corso di questi lustri hanno voluto onorarci della loro vista lunga, trasmettendoci idee preziose e capacità di leggere i processi in atto senza pregiudizi. José Mariano Gago, isico, ministro portoghese della ricerca e amico da tempo di Città della Scienza, in un conciso e bellissimo articolo che ha dedicato all’incendio doloso del 4 marzo scorso, ha non casualmente richiamato alla memoria Fahrenheit 451, capola121
voro di Ray Bradbury (di cui, e chiedo perdono per l’annotazione personale, conservo non casualmente, gelosamente e afettuosamente un autografo, debitamente incorniciato…) e tra i principali atti d’accusa nella storia della letteratura contro ogni censura delle idee e del loro libero esprimersi, circolare e fertilizzare altre idee. Noi vogliamo che quel romanzo e quel fuoco rimangano solo un monito e lavoriamo perché nulla di simile possa accadere nella realtà. Noi vogliamo che i fumetti, il cinema e la letteratura di genere, i cartoni animati e i videogame abbiano il positivo efetto di aprirci gli occhi e le menti; così come chiediamo alla scienza e ai suoi ricercatori di farci guardare oltre: l’ininitamente grande, l’ininitamente piccolo oppure – ultima frontiera – i processi che agiscono nel nostro cervello. Noi crediamo insomma che la scienza e la tecnologia possano e debbano migliorare il nostro futuro, ma governandone lo sviluppo, con le dovute precauzioni e mettendo sempre al centro la qualità della vita per un mondo meno disuguale di quello attuale e di quello che abbiamo alle spalle (e che per molti versi non rimpiangiamo). Per questo ringraziamo i tanti giovani, giovanissimi e meno giovani visionari che anche a Cavacon aggiungeranno il proprio pezzo di immaginario – e il loro afettuoso sostegno – al lavoro che si fa a Città della Scienza e che si continua a fare anche dopo il 4 marzo. Sapendo di condividere, con loro, la voglia e il coraggio di non fermarsi e di continuare quel viaggio. Luigi Amodio Direttore di Città della Scienza
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2013 edizioninpe.it