A spasso per il tondo

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a spasso per il tondo di Don Backy © dell’Autore dei testi 2021 © Edizioni NPE per questa edizione

Questo volume riunisce i seguenti: Io che miro il tondo (prima edizione, 1967) Cascasse il tondo (prima edizione, 1968)

Collana: Narrativa, 37 Direttore Editoriale: Nicola Pesce Ordini e informazioni: info@edizioninpe.it Caporedattore: Stefano Romanini Ufficio Stampa: Gloria Grieco ufficiostampa@edizioninpe.it Service editoriale: Valeria Morelli Progetto grafico copertina fronte e quarta: Nino Cammarata Correzione bozze: Ada Maria De Angelis Stampato presso Rotomail Italia S.p.A. – Vignate (MI) nel mese di agosto 2021

Edizioni NPE è un marchio in esclusiva di Solone srl Via Aversana, 8 – 84025 Eboli (SA)

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Don Backy

A spasso per il tondo


Il Genio è magia, non materia… È una sfida ad andare oltre la lettera, a cui altri si riferiscono.


Io che miro il tondo (1967)



Prefazioni

…A chiunque abbia provato almeno una volta nella vita a leggere l’Ulisse, l’Odissea moderna dello scrittore irlandese, James Joyce… Il racconto informale di Aldo Caponi non può non portargli alla mente le prime pagine di quella che è considerata l’opera capostipite del modernismo letterario. Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Neal Cassady, Lawrence Ferlinghetti, Kerouac. prof. Franco Sumbaraz

Avete presente uno che si siede alla macchina da scrivere? E comin­cia a picchiettare un inarresta­bile flusso di (in)coscienza? Quel tipo è un cantante presta­to alla scrittura (o viceversa). Si chiama Don Backy (Aldo Caponi, il nome vero). Negli anni Sessanta fu un gigante della mu­sica leggera. Dischi a milioni, Sanremo, protagonista di rotocalchi, della poca tv e dei palchi italiani. Nel ’67, suo anno mira­bile, insieme all’Immensità scrisse un romanzo di geniale strampalatezza, Io che miro il tondo, che viene riproposto con i suoi disegni (copertina com­presa) e prefazione apocrifa di Celentano (l’ha scritta lui stesso). Difficile dire di che si tratta. Facile dirlo di Finnegans Wake? Mutate mutande (e pu­re braghe e berretti) anche questo testo oscilla tra veglie e sogni. Bruno Ventavoli, «La Stampa» Un personaggio indecifrabile, insospettabile, inafferrabile, che non finisce mai di meravigliarci (e forse lui stesso si meraviglia delle proprie divagazioni), un artista che, avendone voglia, si potrebbe definire completo, visto che si muove con agilità sul difficile asse d’equilibrio che oscilla fra il cantante, l’autore, l’attore, lo scrittore. 7


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Però è evidente che dev’essere anche nato a buona luna il giovanotto, nella cui testa brilla una gran girandola d’intuizioni, che lo portano quasi sempre a far centro nei bersagli più impensabili, aiutato da una elefantesca forza di volontà. Altrimenti non sarebbero bastevoli quel briciolo di fortuna e quel pizzico di amabile pazzia a classificarlo artisticamente. Questo dunque Don Backy, nato Aldo Caponi in quel di Santa Croce sull’Arno, un toscano che toscanamente si esprime scrivendo fino al momento in cui, alla rotella del suo fraseggiare, salta il dente che lo porta a farneticare traverso simpatici e sconclusionati neologismi di comodo, nomi stravaganti di immaginari personaggi o d’inesistenti città. Un Mark Twain dalla chitarra facile lo potresti definire, e dalle non meno facili, pirotecniche folgorazioni. Lui, le cose, le idee, le situazioni, le ambientazioni, le scenografie, così come le sente, le vede, le prova, d’intuito le scarica sui tasti della macchina per scrivere. Epperò dal suo libro schizzan fuori, non un racconto o una serie di racconti, ma un luna park d’impressioni in progressione dinamica, ora alternata, ora da sorbirsi tutta d’un fiato, tanto da farti giungere in fondo con l’avidità curiosa, con cui si persegue il traguardo di un libro giallo. Però c’è una differenza a mio giudizio positiva, in quest’ùzzolo che t’induce a leggere trafelatamente. Ed è, che mentre là t’incuriosisci, di qua ti diverti e, in fondo, ti senti costretto a ritornare su certi passi per renderti meglio conto di come sia riuscito a concepirli e renderli in prosa. dott. Mario Olivieri, «il Tirreno» molti anni fa…

Per la scrittura di Don Backy sono stati scomodati fior di scrittori: si va da Sanguineti, Capriccio Italiano (L’Espresso), Jerome K. Jerome (forse per Tre uomini in barca?), Calvino (forse per la fantasia stralunata ne Il barone rampante, chissà?), Molnar (I ragazzi della via Pal), Stevenson (L’Isola del tesoro), ma mica è finita qui, si può rilanciare con Bianciardi, Céline, Julio Cortázar, Dino Buzzati, e anche il personaggio della cultura popolare tedesca, Till Eulenspiegel. Mica poco, direte voi. E Don Backy cosa dice? Io gliel’ho chiesto, e lui mi ha risposto che i grandissimi scrittori sopra nominati lui li conosce ben poco, e quel poco di loro che conosce non gli fa assolutamente pensare in nessun modo, a parallelismi di stile con quanto ha scritto nel suo fantasmagorico Io che miro il tondo e pure in questo nuovo libro, che è il seguito naturale del primo, Cascasse il tondo. L’unico con il quale potrebbe sentirsi piuttosto affine (a suo dire), per il modo – a volte, o diverse volte, o parecchie volte, sceglierete voi – irriverente di trattare il vocabolario, è Carlo Emilio Gadda (Eros e Priapo). 8


prefazioni

Entrambi sfrontati, capaci di sovvertire le regole e usare la grammatica, la sintassi, la sintesi, l’antitesi, l’analisi, l’anafora, l’apocope, l’epifonema, la sinestesia, l’asindeto, l’anestesia, l’anafora, l’anfora, l’eresia, la dieresi, la diuresi, l’ipofisi, l’ipotesi e le pinzillacchere, per il verso giusto e per il verso inverso, e solo per il proprio personalissimo divertimento. Si sente affine a Carlo Emilio, continua Don Backy, non per cultura – ovviamente, aggiunge – che non potrebbe esserci paragone possibile tra i due, essendo l’uno dotato di una erudizione vastissima e capace di riversarla sul foglio, e l’altro avendo quel che ha e scrivendo in una sequenza naturale che passa dalla testa al foglio così come arriva, senza mediazioni o meditazioni e senza passare dalla stazione (dio mio, quando scrivo sulla scrittura di Don Backy subisco l’effetto Zelig). Ma voglio riuscire a continuare: tra i due, insomma, pare esserci semplicemente (si fa per dire: provateci voi) quel vezzo di carambolare tra gli argomenti più disparati, con quella naturale leggerezza che rende comunque comprensibile il filo logico del discorso, anche quando lo «strampàlano» a dovere. Ribelli entrambi (mi pare di capire), e insofferenti verso qualsiasi schema convenzionale. Tuttavia (che bella questa parola: tuttavia), se dovessi dare per forza una definizione a questa scrittura donbackyana, direi che è fuori dal tempo e fuori dallo spazio, e aggiungerei che viaggia in una dimensione… S–dimensionata. Marco Vichi (scrittore)

Arbasino su C.E. Gadda La derisoria violenza della sua scrittura esplodeva esasperata, contestando insieme il linguaggio e la parodia, tra il ron–ron rondesco–neoclassico–fascistello e il pio–pio crepuscolare–ermetico–pretino, in schegge di incandescente (espressionistica) espressività… Proprio come per Rabelais e per Joyce, che gli sarebbero poi stati accostati, “a braccio” e “a orecchio” i suoi messaggi fanno a pezzi ogni codice, spiritate e irritate, le sue invenzioni verbali dileggiano significati e significanti; devastano ogni funzione o finalità comunicativa; rappresentano innanzitutto sé stesse, e i propri fantasmi, in un foisonnement inaudito e implacabile di spettacolari idioletti. Alberto Arbasino (scrittore)

Aldo Caponi da Santa Croce, in arte Don Backy, ci offre il suo nuovo romanzo, un testo mediato da nulla che non sia emozione. Cantastorie e menestrello, egli appartiene a una cultura che è raccontata nei libri di Ernesto De Martino. Parole e senso passano così attraverso terra e 9


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acqua, fiumi, torrenti, cespugli di rose e mughetto, rovi di more, aceri, abeti come ne I ragazzi della via Pal di Molnar, a cui questo racconto delle vicende di Arno, può far pensare. Don racconta come sa e come sente. Io che miro il tondo, che Feltrinelli diede alle stampe nel ‘67, nella stagione più fervida della casa editrice milanese, reduce dai successi del Dottor Zivago e de Il Gattopardo, primo romanzo edito in Italia da un cantautore, fu libro importante. Rari sono i casi in cui un romanzo pubblicato da una casa editrice prestigiosa, torni dopo cinquanta anni in libreria, all’attenzione del lettore. Viene alla mente Giuseppe Pontiggia, scrittore dimenticato e colto, maestro del genere noir, che ripubblicò a distanza di molti decenni L’arte della fuga, racconto in cui al lettore, non era dato fino all’ultima pagina sapere chi fosse l’assassino e quale la vittima. Con il ritorno in libreria dell’originale Io che miro il tondo, ecco che Don tornato ai luoghi e al pellegrinare di Arno, riprende il filo di un elaborato complesso. Arno, è viandante della musica, l’amicizia, l’amore, la bellezza ma ancor prima della vita, intesa come esperienza di libertà, alfiere della conoscenza, senza che si rinunzi al sogno. La scrittura, ispirata al primo suo romanzo, non è semplice rifacimento o manipolazione dei vecchi materiali, è scrittura che tesse, su quella intuizione, inedita trama. Non vi è traccia di nostalgia, né senso di abbandono. Appropriato incipit del nuovo romanzo cita: Non ho nostalgia di qualcosa. Ho nostalgia di tutto

Jerry Lewis

Questa prima splendida aporia, spiega senso universale dell’inedito e come la scrittura e il suo «movente» siano rivolti al futuro, futuro perenne, adventus, domanda imprevedibile e sempre attuale, mai caritatevole di speranza. Le vicende di Arno, sono espressione e racconto di un sé, i suoi giorni passano innanzi al lettore, come dal finestrino di un’auto in corsa o più poeticamente da una carrozza di terza classe, coi sedili di legno di un treno che attraversa campagne (come le Langhe descritte da Pavese), per aprire prodigiosamente la visione alla modernità come ai colori vivaci della «striscia» di un fumetto, attitudine felice anche questa dell’autore. Nuovo capitolo del «Tondo» è dunque una storia che ha autonomia di contenuti, non un sequel. Il lettore ritrova onomatopee dei nomi e dei fatti narrati, riscoprendo con Arno: Franz il Guercio, El Garçiano, Nick lo Storto e poi Gim Santippe, 10


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Petronilla, Maria de Sol, Remo La Barca, Charlotte, Tal Caprone, le bulle dei pupi rinfusi qua e là… e gli altri protagonisti, ma qui non vi è saga, né epilogo di questa o quella vicenda. Il paesaggio nei suoi colori, ora giottesco, ora incline alla «pop art» si consegna a giornate di sole e poi si chiude in interni al fumo delle sigarette, dove si pensa al lavoro e mai si scambiano pure confidenze, effusioni e promesse. La pioggia di fuori, oltre un vetro, quando e se mai dovesse apparire, sarebbe certo evocata da una danza. L’autore porta pian piano il lettore a rinunciare alla prospettiva del «tempo che passa» quello di orologi e di pendole, e la narrazione è tutta nella dimensione «del tempo che attende» noi lettori e il protagonista, il tempo che verrà. Dunque mentre lettura e scrittura tacciono, cadendo sulla pagina e accadendo, l’invenzione letteraria di Don Backy edifica, progetto ambizioso, il cercare sé stessi e il senso della propria esistenza. Le parole, usate come in schegge, paiono architetture di vetro. Come nell’originale, che incuriosì sino all’entusiasmo, esponenti autorevoli del Gruppo ’63, l’habitus filologico disorienta ancora una volta il lettore per i molti artifici lessicali. L’autore anche qui si prende gioco della sintassi, attraverso espressioni sgrammaticate, con l’uso della lingua che evitando volgarità e turpiloquio di molto minimalismo contemporaneo, muove il non sense tra gergo e dialetto, nel suggerire neologismi, liberando figure retoriche di suono, ordine e senso, perché assonanze e consonanze siano contrappunto di allitterazioni, ellissi o protesi. E anche stavolta mi ero straccato di guardare la morte in faccia. L’unico modo per riuscire a sottrarmicicici era la macchina del tempo andato, quella che mi ero costruito assemblando favole e che mettevo in moto col carburante ottenuto dai sogni. Del resto, l’interazione tra immaginazione e realtà, è alla base della letteratura. Adesso penserete nuovamente che scrivo strampalerie perché non ho nulla da dire e invece vi accorgerete che non è così […].

Forse è vero come scrive in una citazione / didascalia l’autore, che due idee in testa, l’una contro l’altra sono, “per lo scrittore che riesca a credere contemporaneamente a entrambe, il segreto di un buon libro”: a noi resta impressione che all’origine di questa scrittura, vi siano istanze, che portano sulla pagina una compiutezza. Viene da chiedersi se Arno non sia un eroe, un cavaliere errante e se il suo desiderio che è forza avitica, non sia da ricercare tutta nell’etica, la filosofia morale prima di ogni giudizio.

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Arno senza retorica, incarna infatti senso di giustizia, che è poi altro nome che possiamo attribuire alla verità. «Quasi un giallo, un film di Antonioni, una pensata machiavellica». Il romanzo, questo nuovo, è un rebus, un gioco enigmistico; sotterrato l’ego e il «narciso offeso» la colpa o il peccato sono offerta al cielo prima che agli uomini, canone di armonia che traduca sulla terra «dignità». Ecco la meraviglia e lo stupore del titolo «Cascasse il Tondo»: imprecazione, invettiva, richiesta di aiuto. Non ci si pensava più o almeno ci si pensava meno. Io dormivo lì, su quel divano, con tutti i Beati Angelici che suonavano liuti, e mi guardavano di fianco. Prima di andare a letto però, si andava a cena con una enorme macchina americana acquistata nel Vermont, esattamente a Cincinnati, che s’era ritirato e ora curava l’orticello sdegnato. Solitamente si iva allo Sparatoria. Be’! Non poteva essere altrimenti, si era in Texas e – fino a prova contraria – questo stenterello si trova in Usa.

La scrittura evoca generi e linguaggi diversi andando oltre il naturalismo, allusiva del cinema degli anni cinquanta, il western americano, Mezzogiorno di fuoco di Zinnemann ma anche il nostro Carosello o i magnifici disegni di Jacovitti. Itinere dunque funambolico, il sogno di Don Backy, in cui cogliere più che similitudini e riflessi del mondo reale, vita simbolica e archetipi. Non manca ironia amara del quotidiano, l’idea che la donazione e il senso di amicizia fraterna possano essere offese. L’io narrante ha voce rotta da questo segno / sogno, da una fenditura, una ferita, come uscisse da un «ingranaggio» non un luogo ma una conditio, che sia clan, cerchia di potere oltre che di smisurato consenso, “lobbia”. Lo scritto è il racconto ostinato anche di un restare, e rimanere sé stessi. E l’andare, riporta ai versi di Giorgio Caproni e al suo biglietto «lasciato prima di non andar via» tuttavia l’ultimo alibi che toglie al lettore Don, è il paradigma del luogo con continue sfocature: «A dir proprio la verità, non si era nemmeno tanto in centro, ma situati abbastanza in periferia. Col Cavallo si stava sempre ensemble e si parlava del più a lui e del meno a me, fino a quando non arrivava l’ora di andare a letto […]». Nel primo romanzo vi era costante rovesciamento del senso, ora un più sapiente uso di metafore e metonimie lascia che il luogo sia nella mente, perché dove c’è gioia c’è una canzone: Kiss me each morning for a million years / Hold me each evening by your side / Tell me you’ll love me for a million years / Then if it don’t work out / Then if it

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don’t work out / Then you can tell me goodbye… Sì… baciami ogni giorno per un milione di anni… dimmi che mi ami per un milione di anni… non dirmi mai addio… Feci altrettanto, lanciandomi tra i flutti, iniziando una battaglia di schizzi con lei, che immerse i capelli nell’acqua e li ritrasse di scatto, gettando indietro la testa velocemente, creando un arco che provocò migliaia di goccioline mentre i raggi del sole si rifrangevano in quelle, diventando altrettante perle colorate di un arcobaleno, circondando la nostra felicità […].

E ci si avvia a un finale non «triste e solitario» per ricordare le parole di un grande scrittore quale Osvaldo Soriano e prima di lui, Raymond Chandler, senza rinunciare a una audace espressione sulla chiosa: «Come va a finire?» domandò, impaziente. «Se vuoi ti dico subito il finale, ma credo che sia più bello ascoltare tutto quello che fa parte della favola…» «No… no… però a me piacciono solo le favole che finiscono bene…» si raccomandò, rannicchiandosi ancora di più contro il mio corpo. «Questa finirà bene certamente…» la rassicurai, gettando ancora una volta lo sguardo verso quel forziere stellato che era il cielo in quel momento. Lucciole, lucciolarono nel buio tra i canneti, i palmeti, i bananeti, i serengheti, i salafiti e i maroniti. Di lontano ci arrivarono le note di Go south of the border, suonata dalle tre o quattromila chitarre di Tommy Garretti.

È in ultimo che l’autore evoca nostalgia e malinconia. Don Backy, nell’indicare che il «passato è passato» perché tutti noi «passiamo» traduce la malinconia in uno sguardo che è tutto futuro così nelle parole che ascolta dal figlioletto, egli ripone fiducia nel «passare» delle generazioni. Prof. Ugo De Vita (Roma, 1961)

Autore e attore di prosa, è docente universitario. Ha insegnato presso l’Accademia Nazionale d’arte drammatica «Silvio D’Amico» e presso i tre atenei della capitale.

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Introduzione

Dicono che è il mio luogotenente e invece lo è! Dicono che canta male e invece lo è! (??gusti??) Dicono che è un ottimo autore di canzoni e invece lo è! Dicono che è un buon scrittore e qui mi fermo, perché non so cosa dire. lo di solito ho sempre tanti argomenti per parlare e adesso invece non posso farlo. Quando mi presentò il dattiloscritto di questo libro, io lo aprii e poi mi rifiutai di leggerlo, per via di tutta quella confusione che c’era fin dalle prime pagine. Gli dissi: «Portamelo quando te lo avranno pubblicato» ghignando internamente perché pensavo che non avrebbe mai trovato il pazzo. Lo ha trovato. Ora sono costretto anch’io a leggere questo libro scritto dal mio luogotenente (che tra poco promuoverò generale), e magari facciamolo tutti insieme, così poi potremo scrivergli o dirgli personalmente quello che pensiamo di lui come scrittore. Personalmente ho fiducia in costui: il mio e suo amico Marrano mi ha detto che la “cosa” è buona, e io lo spero per lui. Oltre a cantare, ha sempre avuto il pallino di scrivere e meno male che è l’unico del Clan che lo fa. Comunque, in un Clan, uno scrittore non ci sta male, vero? Su di lui la penso ottimamente sotto tutti gli aspetti: quello dell’amicizia, quello del lavoro, del divertimento. È un buon tipo, strano ma efficace e che rende, col suo lavoro e con la sua produzione. Tutto sommato, conoscendolo bene come lo conosco io, conoscendo la sua fantasia e la sua personalità, sono sicuro che questa “cosa” mi piacerà e spero che piacerà anche a voi. Ciao. Adriano Celentano (ma l’ho scritta io… Don)

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Personaggi

Il gruppo di St. Cruz Arno: sognatore di stelle Franz il Guercio: amico El Garçiano: amico Nick lo Storto: amico El Malas: amico Banchi Baby Face: amico (ma non compare mai) Serpentina e Braun: ragazze Rennie la grassa: proprietaria del bar Altri: rinfusi

Il gruppo di Mamete Maria de Sol (Soledad): Mascherina di Mamete Charlotte, Tina Gre, Bella Dimamma, Valda, Ina Susy, Greta Isolade, Pa’ Della, ragazze merigane, vacanziere a Mamete Fish Less, Sal Amoja, Tommix, ragazzi merigani, vacanzieri a Mamete, Thorne Rewind, Ser Pente, Corbe Lone Rent Car: affitta macchine Nait Portier: portiere di notte al Sgt Pepper’s Lonely Heart Club Band Kaffe Tano: barman al Sgt Pepper Tànguera Fumis: proprietaria della tabaccheria Il Fumaiolo Rock Ballet: proprietario del dancing Hallo Sballo Dabballo Mouis Mitrastrong: cantante/musicista, suggeritore inconsapevole Tommy Garretti (e le sue 50 chitarre): suggeritore inconsapevole Altri: nei sogni

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Il gruppo di Ticago Cielo ’O Connors: sognatore del sogno Pil Hato: barista al Bar Abba Mas Calzone: gangster Bombar Done: boss socio di Mas Calzone Cat Ivone: boss Sar Chiappone: boss Bas Tardone: tirapiedi – fam. Cat Ivone Car Tone: killer (ex pugile) – fam. Cat Ivone Nat Duncan: gangster colombiano – fam. Bombar Done Fillõl Duncan: gangster colombiano – fam. Bombar Done Pamper Focaccia: killer (ex fornaio) – fam. Bombar Done John Saxson: killer (ex comm. strumenti musicali) – fam. Sar Chiappone Bill Pendleton: killer (ex rappresentante di altalene) – fam. Sar Chiappone Bambo Lyna: pin-up Kama Leonte: entraineuse al Bar Abba Gius This: tenente di polizia

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Tutto un po’ confuso

Avete presente uno che si siede alla macchina per scrivere? Sì? Ebbene, io sono – in questo momento – nella stessa posizione di uno di quelli, anche perché sto scrivendo a macchina. Estate. Pomeriggio. Giorno lavorativo. Forse martedì. Non in città, in campagna, sono le quattordici, c’è il sole, una stradina polverosa nessun’altro che passa. Siete soli seduti magari sull’erba, il pacchetto di sigarette è quasi finito, accendete l’ultima. L’afa è pressante, la calura si fa sempre più da presso e vi sentite esausti, anche se non lo siete. Non sudate, ma vi sentite ugualmente appiccicati (non capisco perché sto parlando come se foste voi i miei personaggi. Rimedio subito e parlo, come se fossi io). Mi sento appiccicato, anzi mi sento polveroso. Non ho gli occhiali, il sole sbianca e sforma le cose intorno. Non c’è un alito di vento per ­piccolo che sia, niente, non si muove foglia che Dio non voglia. Qualcuna si muove perché certo è Dio che lo vuole. Il silenzio gigantesco è rotto da qualche muggito che proviene da lontano e da qualche cicala che cicaleggia. Non ho più voglia di stare a guardare la morte, mi alzo di scatto e comincio a camminare. La sigaretta è finita, da un pezzo, meno male perché non mi andava proprio. Non sono un gran fumatore. Cammino per la stradina, con la mia chitarra a tracolla. In mano ho un ramoscello e continuo a battere le pianticelle e l’erbetta, che incontro al mio pas­saggio ai bordi del sentiero. Gran brutto gior­no questo per andare dal vecchio Mac Kannel­lon a chiedere la mano di sua figlia Ciril. Non mi sento in vena, anzi non mi sento in vena nemmeno di sposare Ciril, anche perché non esiste nemmeno un Mac Kannellon, che comunque, anche fosse esistito, non avrebbe avuto nessuna figlia che si chiamasse Ciril, ma solo una nipote (che si chiamava Carmela). È stata un’idea che mi è venuta in testa solo adesso e l’ho espressa. Voi penserete che io non abbia niente da scrivere, ma vi accorgerete quanto vi sbagliate di grosso. 19


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Ho la testa che mi scoppia e scusa­te se fino a ora – per la grande confusione – non mi sono ancora presentato. Vi dirò tutto di me. Per pietà, non mi torturate, non sottopone­temi al terzo grado, tanto parlerò lo stesso. An­che io, come tutti quelli che hanno ventotto anni, sono nato nel millenovecentotrentanove a St. Cruz (da non confondersi con Santa Croce sul­I`Arno, che è tutta un’altra cosa). Mi sento quin­di un po’ messicano e forse lo sono. Prima ero robusto, adesso – con il genere di vitaccia che facciaccio – sono dimagrito, ma con appropriate cure suggeritemi dalla mia mamma, sto rimettendomi. Certo quello che mi manca è il sonno. Se potessi dormire le mie ore giuste, diventerei di nuovo come prima. Il mio amico... Scusatemi, prima di parlare di lui, devo dirvi come mi chiamo io. Mi chia­mo... Arno, chiamatemi pure cosi, non mi offendo. E poi ditemi se il nome vi è piaciuto o no, che io lo cambio subito e mi chiamerò Pasquale. Vi dicevo dunque che i miei amici non sanno se­avere o no fiducia in me. In effetti, io non sono un tipo molto comunicativo (a parole), se sto zitto, lo sono di più. Ho acquisito di recente un amico che si chiama Jimmy Cavallo, un altro che si chiama Peo Caccoli, un altro ancora a nome Catino,­quindi uno che si chiama Dick Marrano, avaro più di Shailok, poi c’è una donna di nome Balena e io li conosco tutti, voi li conoscerete in seguito. Chissà. Sono ragazzi simpaticissimi un po’ tonti e un po’ furbi, insomma proprio come me, che mi chiamo Arno (o Pasquale). In quel tempo mi trovavo a St. Cruz e non facevo proprio nulla di speciale, anzi direi che ero proprio una nullità. Ero stato anche a scuola con non brillanti risultati e adesso mi ero ritirato per poter lavorare. Io pensavo fosse più facile e più divertente, invece mi ero accorto esser noioso, sfibrante e senza alcuna soddisfazione, chissà perché. Ero dunque a St. Cruz e non stavo facendo niente d’importante, quando, arrivò la fine dell’anno di un anno che non ricordo più, ma era il ‘cinquantotto. Facevo allora parte di una banda della quale ero un po’ il capo. Non eravamo Teddy né Boys, eravamo solo strambi ragazzacci e tutti ci evitavano a dire il vero, specie le ragazze, perché ormai avevamo preso la nomea e quando uno ha la nomea non si salva più. Noi avevamo la nomea e non ci salvavamo più, dato che oltre a fare il pirata, avevo espretato di voler rocckeggiare di genere, per la passione che mi aveva contagiato nel vedere il film con il famoso Brill Haly, che ci aveva cantato il Rock dell’orologio, che tutto il mondo aveva detto che quella era la musica della giovanile rivoluzione a tempo perso. E questa era la nomea peggiore, oltre a quella di vestirsi e pettinarsi come Vallonbranzo, come diceva mia nonna, oppure atteggiarsi alla Giamesdin, per chi sapeva l’inglese. 20


io che miro il tondo – tutto un po’ confuso

Decisi così di cambiarmi la nomea, ma più che da solo, per me decise il destino che mi fornì il pretesto per cambiarla. Una sera ero solo fuori del bar Nuevo – dove approdavano i peggiori pirati, barbe lunghe e denti guasti, occhi guerci e uncini. Ero lì fuori che mi godevo il fresco… [veramente non me lo godevo affatto, perché era il trentuno dicem­ bre e faceva un freddo becchino (ne sotterrava tanti)]. Tutti si preparavano ad andare a fare le solite gozzovigliate per festeggiare la fine di un anno di scorribande. Comunque, ero lì fuori che morivo dal freddo, quando passa El Garçiano, un mio compagno di ventura su un galeone a quattro remi dov’era il quarto. Mangiava una mela, correndo come un Mosquito Garelli per la strada che fungeva da corso d’inglese. Lo chiamai a gran voce: «Voilà Garçiano, dove stai portando quella tua vecchia grancassa, arrugginita così in fretta?» chiesi. Lui mi salutò con la solita aria melata e mi disse che quella sua grancassa arrug­ginita, la stava portando a cambiarsi d’abito, perché era stato invitato a un grande gozzoviglia­mento, che si sarebbe svolto la sera stessa, in un altro luogo che non era St. Cruz, ma Ponte d’Ercole (dove gli antichi credevano ci fossero le colonne. La fine del mondo). Io gli dissi che non sapevo dove andare perché gli altri miei compagni erano tutti dei rammolliti, tipo lo stoccafisso dopo tre giorni di bagnomaria, e non si sarebbero mossi dai loro tuguri alla Lattuga, nemmeno quella sera. Mi rispose che quelli dell’altra banda di pirati un po’ più distinti di noi, che pure lui frequentava, lo avevano invitato alla famosa festa e lui ci si recava. Gli ricordai che antipatizzavo con quel­la banda e specie con il loro capo, un certo Franz il Guercio, che – a sua volta – come me, era considerato il più fico del bigoncio. Quasi due fichi. Dissi a El Garçiano che avevo paura di scatenare malcontenti se fossi andato alla festa a Ponte d’Ercole, perché certamente Franz non avrebbe gradito che io razzolassi nel suo pollaio e me l’avreb­be rinfacciato. Io poi che sono un tipo al qua­le non piacciono i rinfacci, lo avrei rimbeccato, anche sapendo che al Guercio non piacevano i rimbecchi. Subito allora, sarebbe nato quello che sarebbe nato (non so bene cosa). Il mio amico El Garçiano tranquillizzommi e dissemi che sarei potuto andare anch’io, che il vecchio Franz non avrebbe avuto niente da dire. Mi lasciai convincere da egli e gli dissi che ci saremmo rivisti un’ora dopo, allo stesso buco piratesco. «Okkey» rispose il mio amico e mi lasciò in asso. Io lo lasciai in fante e mi recai a casa. Mi mutai in fretta e in più che non si dica, ero già pronto per la festa. Recommi nuovamente al Nuevo e non trovai nessuno. 21


a spasso per il tondo

«Hullallà» dissi tra me e te «stai a vedere che il mio vecchio amico El Garçiano mi ha fatto fesso…». Invece non mi aveva fatto fesso, mi stava solamente raggiungendo in quel momento, perché lui non essendo ancora pronto, quando io ero giunto al bar, non era ancora arrivato. Mi raggiunse che era pronto e mi disse, che l’appuntamento con il vecchio Franz e gli altri della sua galera, era in un altro bar di St. Cruz chiamato Rennie la grassa, che era una megera di gran moda in quel tempo. Raggiungemmo la grande piazza e il bar, che io non frequentavo. Alcuni galeoni erano già ancorati lì davanti e io dovetti subito ammettere che la banda del vecchio Franz era molto più fornita della mia, di galeoni. Anzi – a dire il vero – la mia a mala pena e anche a buona pena, non aveva che delle piccole parannanze. Cominciarono ad arrivare gli invitati. In mezzo alla piazza faceva freddo (e anche ai lati), io avevo il cappotto addosso e pure quelli che arrivavano con altri galeoni a vele spiegate, li avevano. Mi sentivo sempre più in imbarazzo, anche perché fino allora, l’unico amico era El Garçiano, solo che lui era amico anche di Franz e della sua ciurmaccia merlata. Arrivò Ravanel, seguitarono ad arrivare gli altri. Approdò Nick lo Storto, col piede che tirava a sinistra. Poi giunse anche Franz col suo galeone, che era ambìto. Mi fu presentato e lui fece finta di guardarmi, io invece lo vidi bene, anche perché dovevo sembrare di essere impressionato a fare la sua conoscenza. Lui invece, che non mi aveva invitato, poteva anche fregarsene alterigiosamente, insieme con gli altri della sua brutta ciurma. Ero un po’ titubante, ma li seguii sui galeoni mentre andavamo a prendere altre pulzelle. In mezzo a queste c’era una pupattola, che io avevo sfilacchiato nei tempi addietro e che ora avevo allentato, perché mi aveva tenuto sulla corda. Io invece, che ero – e sono – un buon marinaio, ero riuscito a saltare la corda e sciogliere quel nodo, mollando l’ormeggio. Quella sera però mi avrebbe fatto comodo tornare un po’ insieme alla mia vecchia fiamma, che si chiamava in realtà, Tegonna. Salimmo proprio in casa sua per bere qualche sorso di buon vecchio rhum di altri paesi che non il nostro, mentre lei terminava di agghirlandarsi come una ghirlanda. Quel rhum faceva un po’ schifo, anche perché lo bevevo in compagnia di altri pirati che non i miei, i quali essendo veramente dei pirati, non erano amanti di feste raffinate come stava per essere quella alla quale stavamo per prendere parte. Osservai i miei amici/nemici. C’era Nick lo Storto, magro come un vecchio chiodo di galeone arrugginito, con la sua gamba sifula, che mandava di sghimbescio. 22


io che miro il tondo – tutto un po’ confuso

Lui aspettava che una cugina di Tegonna fosse pronta anch’essa coi suoi fronzoli, per poterla ammirare. Gli altri erano già con le loro damigelle. Il grintoso Ravanel insieme alla sua pupattolina che si chiamava poi Serpentina, che io avevo guardato sì o no due volte nel tempo precedente davanti a una tivù, ma vedevo che essa sbirciommi. Gli altri avevano con sé roba corteggiabile al momento. Il vecchio Franz aveva, allora, la giovanetta Graçia e il mio amico El Garçiano aveva abbordato la cugina di Graçia, che si chiamava… Boh?... No, non che si chiamasse Boh?… boh, come dire che non mi ricordo più (ma si chiamava Germanica e non era tedesca). S’imbarcorno tutti sui galeoni e quando furono pieni, per me non c’era posto. «Si ritorna a prenderti» disse una voce dalla tolda. Rimanetti solitario sotto un lampione tra la nebbia, maledicendo El Garçiano, che s’era imbarcato. In un tempo immemore di sé, tornò Nick lo Storto con il nero galeone di Franz, proprio mentre terminavo la lunga giaculatoria, giusto nel momento in cui, un pretino passante di lì, mi stava dicendo che alcuni nomi dei santi li avevo inventati. «Monta… se no con questa nebbia s’arriva ar tocco…» disse, con la sua voce annebbiata. Arrivammo poi a Ponte d’Ercole e cominciammo a sballarci. Ognuno sballava con la sua dama del cuore, io sballavo con Tegonna, ma non era del cuore, piuttosto, sullo stomaco. Mi diceva mentre sballavami stretta, che adesso un grande e grosso pirata l’aveva chiesta in sposa e se mi vedeva sballare così con lei, mi faceva diventare come la fiancata di un vascello, dopo una bordata. Approfittai dell’occasione per lasciarla senza più uno sballo per tutto il resto della mia vita e mi diressi a far sballonzolare altre pupattole, che anche ci stavano perché nella zona io ero un pirata conosciuto, e tutte dicevano quello è Arno da St. Cruz e sballavano anche con me e si stringevano. Conquistai una che tutti volevano solo fare sballare e invece sballava con me. Io ero giovane, ma capivo di aver fatto una grossa cosa, perché tutti guardavano dalla mia parte e non da quella degli altri. Non successe nulla, ma alla mezzanotte, fui invitato a brindare con loro nei bicchieri di carta e lo spumante Cinzano. Ci strinsimo le mani e anche Franz mi parve più plausibile e quando fu più tardi, andammo tutti via, ognuno con mezzi di fortuna o mezzi sfortunati. Io salii sul galeone di Franz. Durante la serata, avevo anche guardato due volte Serpentina, che sballava stretta con Ravanel. Ma cosa voleva da me? Fummo a St. Cruz che c’era ancora un nebbione, che non ci si vedeva da qui a qua (quo, aspettava che si alzasse la nebbia per farsi vedere), ma ci arrivammo ugualmente. 23


a spasso per il tondo

Facemmo anche degli scherzi portando dei grossi vasi con delle piante del tesoro su un grande galeone, che era lì in sosta e aspettava di salpare il mattino dopo per Saint Romain. Oltre a questo, cambiammo anche gli orari del salpaggio nella bacheca. Insomma, facemmo i sacripanti, come fanno tutti quanti alla fine di ogni anno e poi più. Franz mi accompagnò col suo galeone alla mia magione e rimasimo a sfumacchiare, dividendoci una caravella di menta, avvertendo l’un l’altro, che, insieme al sole facente capolino a est di St. Rock, stava nascendo anche la nostra amicitia, che dopo sarebbe finita, ma dopo alcuni anni di amichevole vita. Dopo andammo a letto e dormimmo. Solo una parte della ciurmaccia di Franz, mi guardava di sottecchi, i cui nomi nemmeno rammendo più, ma erano il perfido Ravanel, Sodio, Buzzo, Romano (ma non era di Roma), Abramo (ma non era il padre di Isacco), ché volevano restare un cleb escludente del giudizio. Franz non si lasciò smontare dalla resistenza dei suoi pirati e disse che li lasciava al loro destino e costituì una società di pirataggio insieme a me, El Garçiano e Nick lo Storto. Le nostre avventure si sparsero per tutto il reame e quando la nostra fama di gloria cominciò a varcare i confini, tutti parlavano di noi.

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Dormire, sognare, lettere o testamento

Così fu che, una domenica pomeriggio, c’imbattemmo in certi pirati pisesi chiamati “Kissàchì” (già “Goldenboi”), facitori di musica. Stavano tornando dalla razzia effettuata la sera precedente in un luogo privato di Castelvigliacco, dove avevamo precipitato anch’io e Franz e io vi avevo espretato per la prima volta da rockkista con loro e con sorpresevole mia incredulezza, riuscendoci. Adesso stavano trasportando a piedi, armi, bagagli e il bottino, presso la famosa Sirenetta di Amsterdam. Li aiutattimo facendoli penetrare nel galeone di Franz, alleviandogli le sofferenze del trasloco da qui a qua, a quo (che stavolta c’era, perché la nebbia s’era diradata). Così, dopo quel dì, andettimo con costanza (che però non c’era), tutte le domeniche a sballare a Castelvigliacco in modo che potessi seguitare a espretare la mia passionaccia rokkara con i Kissàchì. A sballare per modo di dire perché io e il vecchio Franz non sballavamo quasi mai. Capirete, eravamo i due più belli di due bande un tempo capitanate da entrambi. Adesso avevamo lasciato le ciurme alla deriva e noi ci eravamo messi in amicizia. E il tempo passò. Una domenica tra le tante che capitavano dopo il sabato, eravamo andati a Castelvigliacco e lì accadde quello che non doveva accadere, ma era un po’ di tempo che io lo sospettavo. Accadde, che Franz conobbe Melissa, la quale era però già in amore con Albereto, il chitarriere presso la ciurmetta dei Kissàchì, che spopolava tra il popolo ribelle. Melissa tolse al buon vecchio Franz quell’ultimo barlume di vista che gli restava e lui si prese una tremenda cotta, ma così tremenda, che per descriverla non sarebbe bastato nemmeno scrivere quattromenda e neanche cinquemenda. Fece danzare la soave Melissa tutto il pomeriggio ed era quasi arrivata l’ora della chiusura di quella danzeria e stavamo aspettando il vecchio Nick, che sarebbe dovuto tornare di lì a poco con il galeone, che Franz gli aveva imprestato perché portasse a termine altre 25


a spasso per il tondo

scorrerie in altri lidi, mentre noi ci attraccavamo in quel localaccio, anche frequentato piuttosto malino. Nick non era ancora giunto e Franz continuava a sballarsi con Melissa come se esistessero solo entrambi al mondo. Io ero strabattuto in una sedia e non facevo altro che godermi lo spettacolo di quei due, che si sballottavano di qua e di là nella sala ormai rimasta quasi vuota. Ogni tanto le mie palabre si abbassavano per il fumo pesto che stagnava nell’aere, ma solo pochi istanti, mica dormivo… D’un tratto Albereto, il chitarriere di quella ciurmetta che suonava lì, era sceso dal podio e si era portato con le braccia conserte in mezzo alla pista, per poter meglio rimirare sarcasticamente i due ballerini. Io mi misi sull’avviso di un’imminente discussione. Mi raddrizzai sulle spal­le e mi alzai in piedi standomene però fermo nel mio punto di partenza. Il vecchio Franz non si era accorto di nulla e continuava a smance­riare con la pupattola, la quale si era sì avveduta che il suo spasimante li osservava, ma non faceva niente per smettere di sballare, anzi intensificava il dondolo. Mentre sono lì che guardo, nella penombra appare il vecchio Nick, che trasportava seco El Malas, un altro nostro compagnero di una città vicino a St. Cruz. Mi sentii subito meglio perché di lì a un secondo erano arrivati vicino a me, chiedendomi dove fosse Franz. Con poche parole e un gesto del capocollo, li ragguagliai sulla situazione ed essi si levarono i ponchos che portavano indosso e li appoggiarono su una sedia elettrica che era lì per caso. Albereto si era intanto avvicinato moltissimo ai due che sballavano e d’un tratto toccò su una spalla il vecchio e ormai buon amico Franz. Parlottolarono un po’ tra di loro mentre Franz con­tinuava a dondolare con la Melissa, poi smisero e Melissa si allontanò di un passo. Il primo pu­gno che vidi volare colpì Franz come una maz­zata proprio in mezzo agli occhi. Il poverino stramazzò al suolo e cominciò a scuotere la te­sta come se fosse diventata una palla di gomma piena di sabbia, dicendo: «Di chi è questa palla, di chi è questa palla». Il fatto mi colse di sorpresa. Gli altri due mi guardarono in volto, io guar­dai loro come si guardano due in questi casi specifici e chiesi se fosse loro: «È vostra la palla?» «No!» dissero essi due. Feci per muovere dei passi, ma qual­cosa mi colpì alla testa. Sperai che non fosse un’altra palla. La ciurma del musicante era scesa smettendo di suonare e – accortasi delle mie intenzioni – cercava di dare man forte al loro chitarriere. 26


io che miro il tondo – dormire, sognare, lettere o testamento

Di lì a poco si sca­tenò il finimondo. Fate conto che le battaglie che svolgono adesso tra gli Stomps e i Diggers siano battute di spirito. Sembrava di essere in un saloon di bellezza al tempo dei pionieri. Mi capitò un tale a tiro, gli lasciai an­dare un ginocchio in un posto strambo ed evi­dentemente dovetti fargli male con il mio meni­scaccio rinsecchito, perché lo vidi che si piegava e poi chiamava la sua mamma che a quell’ora non era lì, ma si trovava certo a casa sua a preparare la cena (perché era quasi ora). Poi colpii a destra e a manca e anche su e giù. Ogni tanto mi arrivavano delle castagne, che non sapevo nemmeno da chi erano state spedite, alcune erano arrosto, altre, ballotte. Evidentemente non avevano più palle: «Di chi sono queste castagne?» gridavo, senza avere risposte. Il vecchio Nick ed El Malas li intravedevo ogni tanto e mi sembrava che qualcuno gliele cavasse dal fuoco. Di lì a poco le sirene dello zoo, avvertirono che avevano liberato le pantere e le gazzelle, le quali, infatti, si erano fatte sempre più vicine e così pensai bene di lasciar lì il campo di battaglia e di guadagnare l’uscita a larghe falde. Gli altri evidentemente furono del mio avviso, perché fui travolto da gente che usciva alla svelta, quasi come se avessero avuto tutti nello stesso momento, un affare urgentissimo da sbrigare. Mi ritrovai sveglio sul galeone di Franz e veleggiammo al largo, con a bordo il vecchio Nick ed El Malas, che continuava a la­mentarsi, poiché diceva che una volta tanto che veniva a farci visita, doveva proprio trovare un giorno così pieno di palle e di castagne. Mi chiedetti come diavolo avevo fatto a raggiunger lì. Dormire, sognare, lettere o testamento? Rissemmo insieme. Mi faceva male la testa, evi­dentemente erano state le castagne. Boh? Andettimo, ognuno alle­nostre case ed El Malas andò invitato dal Guercio, il quale era solito fare così quando l’amico pirata veniva a farci visita. Giurammo che ci saremmo visti subito dopo aver finito di cenare, per andare magari in qualche altro po­staccio a sballarvicisi, anche se Franz, sarebbe voluto tornare dalla sua Melissa. Quella lunga sballonzolata però mi aveva messo sull’avviso di pagamento. Il vecchio Franz stava partendo e cominciavo a temere per lui.

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Finalmente riuniti in un unico volume i primi due romanzi del grande cantautore italiano. Una summa dello stile surreale e un po’ “hellzapoppiano” di uno degli ultimi grandi della musica italiana.

ISBN: 978-88-36270-67-5

euro 16,90


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