ciak... si spara! di Nico Parente © dell’Autore dei testi © Solone srl per questa edizione © degli aventi diritto per le immagini utilizzate Collana: Narrativa, 13 Direttore Editoriale: Nicola Pesce Ordini e informazioni: info@edizioninpe.it Ufficio Stampa e Supervisione: Stefano Romanini ufficiostampa@edizioninpe.it Stampato presso Lampi di Stampa srl - Rotomail (MI) service editoriale tespiedit@gmail.com grafica in copertina Sebastiano Barcaroli Nicola Pesce Editore è un marchio in esclusiva di Solone srl via Aversana, 8 - 84025 Eboli (SA) recapito postale Nicola Pesce Editore c/o MBE via Brodolini, 30-32 z.i. 84091 Battipaglia (SA) edizioninpe.it facebook.com/EdizioniNPE twitter.com/NicolaPesceEdit instagram.com/edizioninpe
Nico Parente
Ciak... Si spara! Il crimine italiano sul piccolo e grande schermo
PREFAZIONE
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INTRODUZIONE
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Capitolo primo
QUELLI DELLA UNO BIANCA
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Capitolo secondo
ROMANZO CRIMINALE
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Capitolo terzo
IL CAPO DEI CAPI
55
Capitolo quattro
ROMANZO CRIMINALE - LA SERIE
69
Capitolo cinque
IL CASO GOMORRA
85
Capitolo sei
VALLANZASCA - GLI ANGELI DEL MALE
97
Capitolo sette
FACCIA D'ANGELO
109
Capitolo otto
GOMORRA - LA SERIE
123
Capitolo nove
SUBURRA
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INTERVISTA A STEFANO SOLLIMA
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BIBLIOGRAFIA
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FILMOGRAFIA
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Prefazione di Fabio Giovannini
Un libro sull’immaginario cinematografico e televisivo può trovare imprevisti riscontri nella cronaca. Quando nell’aprile 2015 Claudio Giardiello spara al Palazzo di Giustizia di Milano provocando tre morti e due feriti. «Il Giornale» pubblica un articolo di Mario Valenza (Claudio Giardiello e la passione per i film violenti, 9 aprile 2015) dove si ricorda che l’assassino: Su Facebook era fan del gruppo "Poliziesco all’italiana". Una fan page che raccoglie tutte le locandine e gli spezzoni dei film, molto popolari tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui i protagonisti si "facevano giustizia da soli". (...) Film violenti in cui le sparatorie per strada o nei luoghi pubblici con inseguimenti sono di fatto la base della trama. Chissà se guardando questi film, Giardiello non abbia deciso di organizzare il gesto folle di questa mattina.
Ritornava insomma la polemica sulla presunta influenza nefasta dell’immaginario sulla realtà, polemica alla quale Nico Parente, nel libro che state per leggere, non si sottrae. Anzi, nonostante l'autore del volume che avete tra le mani dichiari esplicitamente la sua passione per serie tv e film a tema “criminale”, si pone egli stesso il dubbio se certi ritratti troppo indulgenti di criminali e delinquenti possano sollevare dei dubbi morali. Si tratta di una querelle che non avrà mai fine e che personalmente mi trova schierato con chi assolve l’immaginario (il quale sicuramente si nutre, oltre che di realtà, anche di crimini, senza però produrne). All’assassino di Milano si rimprovera la passione per la stagione del “poliziottesco” all’italiana, stagione alla quale le serie tv analizzate da Parente devono molto. Innanzitutto per le ambientazioni. Fino agli anni Settanta era impossibile separare scene d’azione, noir e gangsterismo dalle grandi metropoli americane. Invece il "poliziottesco" dimostrava che anche le città 9
ciak... si spara! italiane potevano egregiamente nutrire il nostro immaginario di situazioni “nere”: Milano, Roma, Genova, Napoli diventavano scenario ideale per inseguimenti in auto e sparatorie, per interrelazioni drammatiche tra malviventi e poliziotti. In qualche misura le serie televisive odierne ribadiscono quel riconoscimento ai luoghi italiani come scenografie urbane adatte al giallo, al thriller, al gangsteristico. Inoltre, dal poliziottesco le serie tv traggono anche l’emancipazione dalla commedia, tara inevitabile per tanto cinema italiano (e anche per la letteratura, costretta ad affrontare spesso i generi solo in chiave demitizzante e umoristica). Il poliziottesco è serio, riduce i momenti leggeri a pochi siparietti. Gomorra o Romanzo criminale, Il Capo dei Capi o Vallanzasca, possono avere momenti ironici (vedi la figura del Terribile in Romanzo criminale), ma prevale la spietatezza e il ritratto crudo delle vicende criminose. Le serie e i film presi in esame da Parente sono però innovativi rispetto alle pellicole anni Settanta che offrivano poliziotti indomiti, pronti a farsi giustizia da sé, perché propongono una interessante galleria di antieroi. A parte Uno Bianca (dove ci sono i poliziotti buoni al centro della vicenda), gli altri titoli presi in esame, Il Capo dei Capi, Romanzo Criminale, Gomorra, Vallanzasca - gli angeli del male, Faccia d’angelo, sono tutti incentrati sui “cattivi”, sui delinquenti. Potremmo dire che siamo di fronte al “vero noir italiano”, a partire dalla considerazione che il noir vero e proprio ha spesso per protagonisti dei delinquenti o degli irregolari (accanto a persone comuni catapultate improvvisamente in situazioni eccezionali), che anche quando operano dalla parte della legge sono ai confini del lecito. Il fenomeno studiato va oltre il poliziottesco, dove i personaggi principali erano commissari, agenti, giudici. Ora prevale il fuorilegge, il gangster come personaggio centrale. Si tratta di un emergere del lato oscuro a ruolo di protagonista che parte da lontano. Da un ventennio, ad esempio, il nostro immaginario ha imparato a conoscere Hannibal Lecter, incarnazione di tutti i crimini in una sola persona, reso celebre dai romanzi di Thomas Harris, dai film hollywoodiani e da una popolare serie televisiva. Hannibal incarna il fascino del male, un fascino ambiguo che non può essere cancellato dall’immaginazione umana. Del resto, simpatizzare per il delinquente che appare su uno schermo è un divertimento che possiamo permetterci, restando al sicuro, senza violare leggi, lasciando solo libera la fantasia. L’attrazione per i criminali non è certo una novità, i precedenti più diretti si possono rintracciare nel cinema gangsteristico americano come il primo 10
prefazione Scarface (1932), con Paul Muni nel ruolo del gangster protagonista e la regia di Howard Hawks. Vale la pena soffermarsi su questo film, un classico, molto violento che ha dovuto affrontare diversi problemi con la censura. Scarface non ebbe vita facile, soprattutto per le polemiche dovute al riferimento troppo diretto alla vera storia di Al Capone. Il gangster italo-americano era ancora in attività durante le riprese del film, girato tra giugno e ottobre 1931, fu poi arrestato (per frode fiscale) nell’ottobre 1931. La sceneggiatura di Scarface subì diversi rimaneggiamenti e il film arrivò nelle sale nell’aprile 1932. Ancora più ardua la vicenda per l’Italia, dove Scarface suscitò perplessità censorie a più di 15 anni dall’uscita americana. È una vicenda molto significativa perché rimanda a dubbi e dilemmi che, a distanza di tanto tempo, hanno investito anche le serie tv di cui si occupa questo libro. Un documento del 14 ottobre 1946, firmato dal Sottosegretariato per la Stampa, lo Spettacolo e il Turismo affermava: Considerate le particolari attuali contingenze dell’Italia, e al fine di evitare al pubblico una rappresentazione, troppo chiara e documentata, delle efferatezze e delle violenze dei fuori legge - vera e propria scuola del delitto - non si ritiene opportuno concedere al film il nulla osta di circolazione.
Dopo il taglio di alcune scene, il nulla osta arrivò nel settembre 1947, quando l’Ufficio Centrale per la Cinematografia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri spiegò in un appunto: La trama ha il difetto, come tutti i film del genere, di esaltare la figura del capo della banda, così che alla fine della vicenda si simpatizza, più che non lo giustifichi la interpretazione del Muni, con il truce eroe del soggetto trattato. La pellicola (...) non contiene elementi che contrastino con la politica. Anche la morale è salvaguardata, poiché la vicenda ha termine con la morte del protagonista, crivellato dai mitra della polizia. Per tali motivi nulla osta che se ne consenta la programmazione.
Nel 1947, dunque, si potevano rappresentare sul grande schermo le avventure di un criminale solo se questo alla fine veniva punito e preferibilmente concludeva l’esistenza “crivellato dai mitra della polizia”. Oggi, nel nuovo secolo, si è meno sensibili a salvaguardare la “politica” e la “morale” dalle rappresentazioni cinematografiche o televisive, mentre resta l’allarme per la possibile imitazione di gesta illegali. 11
ciak... si spara! Quello che dovrebbe preoccuparci di più, forse, è che nel successo anche internazionale di film e telefilm italiani ispirati a cupi fatti di cronaca si riverbera il sentimento di un Paese da tempo in crisi. L’Italia di quei film e telefilm è senz’altro un’Italia in profonda crisi, dove il delitto e l’intreccio tra criminalità, economia, politica e istituzioni è rilevante e caratterizzante. E il Paese si rivela in crisi fino al punto che sullo schermo anche la malavita non ha la solidità e integrità di una volta: in Romanzo Criminale o Gomorra viene evidenziata la crisi delle tradizionali regole della malavita, e alla fine molti dei protagonisti, anche i più efferati, mostrano la propria disperazione. Sul grande e piccolo schermo persino i delinquenti non sono più a proprio agio in un Paese dissestato, dall’economia in declino, dalla politica sempre più corrotta. Le serie tv e i film che ripercorriamo nelle pagine di Parente ci confermano che i “generi”, siano essi cinematografici, televisivi o letterari, possono aiutare a riflettere sulla politica, sulla realtà, sulle condizioni sociali di un’epoca.
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Introduzione
Crime story, oltre ad essere il titolo di una celebre serie televisiva poliziesca statunitense, è anche un modo di definire e catalogare tutti quei lavori cinematografici e televisivi che vedono protagonisti criminali efferati e senza scrupoli. Ispirati o tratti da fatti realmente accaduti, questi titoli sembrano suscitare grande interesse e curiosità tra il pubblico, soprattutto tra quello italiano. Perché? Tutto ciò che viene ritenuto illecito, non convenzionale, fuori dai ranghi, suscita curiosità proprio a causa della costante censura che gli si riversa contro. Le barriere che impediscono di violare determinate regole e codici deontologici non fanno che accrescere lo stimolo alla conoscenza di oscuri meccanismi che, seppur condannati dai più, sono fortemente radicati nel nostro Paese. Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Lazio e Nord Est sono stati e sono - ahìnoi - spesso sinonimo di Mafia, 'Ndrangheta, Sacra Corona Unita, Camorra, Mala del Brenta, tutte associazioni legate da un’unica, assai triste, definizione: malavita. Editori, produttori e mass media abbracciano tutti le vicende criminali e creano prodotti e format capaci di registrare incassi sbalorditivi. Il neo giornalismo ormai è interamente basato sulla politica del dolore, delle tragedie, della cronaca nera. Programmi televisivi quali Blu Notte, Notte Criminale, Quarto Grado e Linea Gialla simboleggiano la conferma del fatto che il male, tutto ciò che è proibito, risveglia nell’uomo un interesse atavico. I mezzi d’informazione non fanno che gettare la disperazione e la tragedia vissuta dalle famiglie delle vittime in pasto allo spettatore. Una vera e propria cultura del dolore si è via via imposta nei quotidiani, nei tg, nelle rubriche d’informazione e nelle redazioni italiane. Le dettagliate e incisive descrizioni dei più cruenti ed efferati fatti di sangue illustratici dalla voce di Carlo Lucarelli hanno accompagnato per anni le lunghe sere infrasettimanali di milioni di italiani, 13
ciak... si spara! dando anche il via a una serie di programmi-imitazione di scarso rilievo e poco successo. Ma l’interesse degli investitori verso l’argomento c’è sempre e si fa sentire. Gli scaffali delle librerie brulicano di titoli di saggistica incentrati sui peggiori fatti di sangue: dagli anni di piombo al sequestro Moro, dalla nascita della Mafia a Gomorra di Roberto Saviano, da volumi dedicati ai pentiti di mala a Vallanzasca, passando per la Banda della Magliana per poi finire alle imprese clamorose di Felice Maniero e alle sue potenti alleanze. La strategia di mercato adottata è consolidata: si parte solitamente da fonti giudiziarie, pagine di cronaca, testimonianze dirette e indirette, autobiografie, per poi passare alla stesura di una storia avvincente, ricca d’azione, di mistero e d’intrighi che finisce per trasformare in spietati assassini volti e nomi protagonisti del piccolo e grande schermo. Fin qui tutto normale. L’Italia vanta un’antica tradizione letteraria ed editoriale, eppure oggi pare siano sempre meno le persone che sfogliano le pagine di un libro. Ci si riversa, quindi, sulle produzioni cinematografiche e televisive, che certamente riscontrano una maggiore presa sul pubblico. L’impatto è immediato, ma spesso il grande schermo o i copioni tendono a distorcere, o meglio a trasmettere un punto di vista che facilmente lascia spazio a interpretazioni non univoche. Il cinema è anche questo, vero, tuttavia non si dovrebbe rimanere sorpresi dinanzi a emulazioni messe in atto da giovanissimi che facilmente si lasciano suggestionare dalle maniere forti dei protagonisti di Romanzo Criminale o dai proventi di una rapina messa a segno nel giro di pochi minuti dal bel René (Vallanzasca). Il 30 Luglio 2010 viene pubblicata sul portale d’informazione Repubblica.it la seguente notizia: «Imitano la banda della Magliana. Sei arresti, il capo era "il Freddo"». Nell’articolo si fa riferimento ai personaggi creati da De Cataldo e alle rispettive trasposizioni cinematografiche e televisive: Si ispiravano alla storia della Banda della Magliana così come è stata raccontata da Romanzo Criminale, a casa avevano coltelli fuori legge, libri e dvd dedicati alle vicende di "Renatino" De Pedis e compagni. Sei giovani tra i 18 e i 21 anni sono stati arrestati dai carabinieri per aver organizzato una banda che per le strade dei quartieri Boccea, Aurelio, Primavalle commetteva violenze verso altri giovani, prendendo esempio proprio dalla Banda della Magliana. […] Tutti i componenti del gruppo si chiamavano per soprannome e il leader era chiamato "il Freddo", un soprannome utilizzato nel libro, nel film e nella serie tv per indicare Maurizio Abbatino, uno dei leader del gruppo degli anni ’70. La foto del capo, venerato da
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introduzione tutti, era lo sfondo degli schermi dei cellulari di tutti gli altri componenti della banda […].
Le vicende criminali, pur in tutta la loro efferatezza e spudorata violenza, risultano intrise di fascino. Si guarda a un gesto criminale come a un qualcosa di straordinario, non appartenente agli standard di vita comuni, qualcosa che desta scalpore, curiosità, interesse: se Ciro "L’immortale" della serie televisiva Gomorra è in grado di togliere la vita a un uomo con una facilità e freddezza a dir poco sconvolgente, in pochi (si spera) ammirerebbero tali doti se, passeggiando per Scampia o Secondigliano, divenissero testimoni oculari di un fatto di sangue. Ma, come racconta Roberto Saviano, autore del noto romanzo, in alcuni luoghi non molto distanti da casa nostra le strade si tingono di sangue, sangue vero, ogni giorno. Il cinema è un mondo fatto di magia, finzione, fantasia, creatività. Lungi da chi scrive voler contestare tali produzioni, essendone un appassionato. L’idea che vorrei esprimere è diversa. Non intendo demonizzare le crime stories e, anzi, ritengo doveroso narrare, possibilmente ricorrendo all’approccio più realistico possibile, quelle che sono brutte pagine della storia della nostra Penisola, per non dimenticarle e per rendere giustizia a tutti coloro che hanno perso la vita in quei contesti. Vorrei soltanto che il pubblico divenisse più consapevole dei messaggi impliciti racchiusi in simili lavori. È stato questo il punto di partenza del presente lavoro. Con una doverosa e attenta selezione di film e serie, qui analizzati, ho voluto ripercorrere la riproposta cinematografica di alcuni spaccati della nostra storia più recente cercando di mettere in evidenza i pericoli di fraintendimento tra divulgazione dei fatti e fiction, tra conoscenza e spettacolo. Di seguito le trame e i titoli sui quali verte l’analisi contenuta nelle prossime pagine:
Uno Bianca (Michele Soavi, Taodue, 2001); Romanzo Criminale – il film (Michele Placido, Sagrera, 2005); Il Capo dei Capi (E. Monteleone, A. Sweet, P. Valsecchi, 2007); Romanzo Criminale – la serie (Stefano Sollima, Cattleya/Sky Cinema, 2008/2010); Gomorra – il film (Matteo Garrone, Fandango, 2008); Vallanzasca, gli angeli del male (Michele Placido, Elide Melli, 2010); Faccia d’angelo (Andrea Porporati, Good Time/Sky Cinema/Svet Filma, 2012); 15
ciak... si spara! Gomorra – la serie (S. Sollima, F. Comencini, C. Cupellini, C. Giovannesi, Sky/Cattleya, Fandango/La7, 2014-2016); Suburra – il film (Stefano Sollima, Cattleya/Rai Cinema/La Chauve Souris/ Cofinova 11/Cinemage 9, 2015).
Tra realtà e fiction Il volume mira ad analizzare film e serie tv ispirate a fatti realmente accaduti e a personaggi realmente esistiti. Al Pacino nel celebre ruolo di Tony Montana in Scarface (1983) o Marlon Brando nei panni dell’ormai leggendario Don Vito Corleone ne Il Padrino sono icone del gangster movie, riflesso della creatività di due grandi registi. Nonostante le due pellicole narrino e denuncino, seppur a grandi linee, tristi realtà (spaccio internazionale, famiglie mafiose in guerra per la supremazia sul territorio ecc.), i volti di Al Pacino e Marlon Brando rimangono nei confini del cinema, senza toccare la realtà. Questi film hanno ottenuto un esorbitante successo, ma le emozioni che comunicano sono diverse da quelle dei titoli sopra elencati e qui analizzati. Nei casi che abbiamo scelto, ciò che realmente appassiona chi sta dinanzi allo schermo non è la crudeltà delle immagini o la bravura degli interpreti, quanto il fatto di poter rivivere un fatto truce realmente accaduto. Quello che suscita interesse è l’opportunità di poter vivere una situazione forte, estrema, fuori da ogni rigido schema in prima persona. Incuriosisce sempre tutto ciò che non è a portata di mano, che non si può sperimentare, che è celato in mondi e contesti che non ci appartengono, come un penitenziario, e che attraverso la fiction ci viene reso tangibile, vivido. Il cinema non sempre aiuta nella ricostruzione di vicende e avvenimenti realmente consumatisi, troppo spesso si lascia spazio alla fantasia, all’azione, magari per l’impossibilità di ricreare davvero quanto accaduto nella realtà, a continuo discapito della fedeltà della narrazione. Spietati criminali ci vengono presentati come duri dal cuore tenero, pronti a usare la violenza solo in caso di pericolo o di necessità, mentre li vediamo anche come dei semplici ragazzi un po’ agitati pronti a passeggiare mano nella mano con la donna che amano dopo aver messo a segno una rapina o aver ucciso un ostaggio. Questo distorce non di poco la realtà e la credibilità delle vicende criminali e dei loro protagonisti, che per decenni hanno seminato terrore, morte e distruzione lungo il nostro Paese. Come 16
introduzione distinguere tra fatti realmente accaduti e fiction? Quanto c’è di vero in questi film? Fino a che punto i personaggi vengono romanzati? Ben poche volte un lavoro destinato al cinema o alla tv si attiene al concreto svolgimento dei fatti. Al contrario, questo accade invece con i documentari e gli speciali, con tutti quei programmi d’approfondimento che fanno della cronaca nera il loro pane quotidiano e che ripercorrono fedelmente gli avvenimenti avvalendosi di fonti giudiziarie, testimonianze, servizi giornalistici o addirittura attori e scene ricostruite. Esigenze narrative, budget limitati, tempi e scelte stilistiche impongono molto spesso una distorsione dei fatti in corso d’opera che non coincidono con la volontà d’inchiesta o di denuncia portata avanti dagli autori dei libri (quasi sempre giornalisti o uomini di legge) a cui le pellicole si rifanno o col senso di pentimento di chi decide di render pubbliche le proprie azioni illecite affinché le nuove generazioni non si ispirino a miti sbagliati. Il cinema e la tv sembrano piuttosto voler seguire la via del sensazionalismo, trasformando molte volte spietati personaggi, bramosi di potere e di denaro, pronti a tutto pur di condurre una vita fatta di eccessi ottenuti senza sforzi, in vittime della società ed emarginati che, afflitti dalla disperazione, si ritrovano a ricorrere alla criminalità. Questo messaggio molto spesso incentiva la nascita di micro bande, soprattutto nei quartieri maggiormente disagiati di grandi città ove la mala opera indisturbata, in assenza dello Stato, bande di ragazzini irresponsabili giustificano il loro modus operandi col senso di disagio e di abbandono che da sempre li accompagna. La morte o l’arresto dei protagonisti di queste efferate vicende non basta a spaventare un pubblico ingenuo come quello dei teenagers. Se determinati quartieri delle grandi città o delle province sono la culla del degrado sociale, sarebbe giusto narrarli senza romanzarli. La crudeltà, l’impatto immediato, il riportare i fatti senza necessariamente distorcerli può infatti ottenere un riscontro positivo da parte dell’audience, senza dar vita a facili emulazioni e modelli del tutto negativi o errati. Di tutto questo, Gomorra - il film è un esempio concreto: tratto dalle vicende vissute e raccontate da Roberto Saviano nell’omonimo libro inchiesta, il film, nei suoi 130 minuti circa, offre allo spettatore una panoramica ampia di quello che a Napoli, Caserta e annesse province accade e si vive ogni giorno. Dove a fare le veci di uno Stato inesistente è la Camorra, dove in pochi possono sperare di poter condurre una vita "normale", fatta cioè di un lavoro onesto, di uno stipendio regolare e di uno stile di vita sano. In questi luoghi si respira un clima differente. La sfrenata corsa verso il potere e i soldi da parte delle famiglie mafiose non conosce ostacoli: anziani, donne, bambini, chiunque è parte di un sistema 17
ciak... si spara! malato, dove a regnare è la malavita, profondamente radicata nel territorio. "La terra dei fuochi", così definita, è analizzata dal film Gomorra di Matteo Garrone, attraverso una perfetta ricostruzione del clima di guerra tra clan, famiglie mafiose e scissionisti, il tutto raccolto in una cornice di spaccio, lavoro nero, sfruttamento minorile, traffico d’armi, bische, cosche mafiose, micro criminalità, sangue, violenza, ma soprattutto fame e disperazione. Gomorra rappresenta, a parere di chi scrive, un esempio perfetto di docufilm che racconta quel che accade quotidianamente in un mondo apparentemente lontano dalla nostra realtà, ma ben radicato nel Paese. È questo il modo migliore di raccontare tragiche facce della nostra Italia: ricorrendo alla verità, ai fatti puri e semplici, a uomini e non a personaggi.
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capitolo 1
Quelli della Uno Bianca
Per anni, sette per l’esattezza, un gruppo criminale operante nell’Emilia Romagna semina terrore, morte e odio razziale. Vengono definiti così “Quelli della Uno Bianca”, poiché si servono per le loro efferate azioni, sempre dello stesso modello d’auto: la Uno Bianca, appunto. Oltre ad essere un’organizzazione criminale, la banda della Uno Bianca è un vero e proprio plotone d’esecuzione: chiunque capiti a tiro durante i loro colpi viene eliminato! Donne, poliziotti, carabinieri, operai, testimoni oculari, nessuno sfugge alla loro furia. La spietata banda opera indisturbata sino all’autunno ’94, mettendo a segno 103 crimini, uccidendo brutalmente 24 persone e ferendone un altro centinaio. Quelli della Uno Bianca si aggirano tranquilli per le strade e si allontanano, dopo aver ucciso dei poveri innocenti, a bordo della loro riconoscibilissima auto, di volta in volta abbandonata. L’utilizzo del modello fiat si deve alla facilità che comporta rubarla e alla sua ampia diffusione in quegli anni. Nessun traffico d’armi o di droga, niente bische, nessun riciclaggio, ma allora quali sono gli obiettivi della banda? Un gruppo anomalo, un commando vero e proprio che, dopo aver messo a segno una rapina, si diverte a sparare a sangue freddo e senza esitazione a chiunque capiti a tiro o intralci in qualche modo il suo sporco operato. La banda della Uno Bianca agisce per soldi, ma ancor più per divertimento, forse. A un ricco bottino ricavato da un colpo in banca, segue una rapina presso una stazione di servizio per poche centinaia di mila lire. Depistaggi? Le prime azioni delittuose della banda consistono in rapine messe a segno presso i caselli dell’autostrada A14. Nell’ottobre dell’ '87, la banda avanza una richiesta d’estorsione a un rivenditore d’auto riminese: le indicazioni per la consegna del denaro vengono fornite tramite una lettera. D’accordo con la Polizia, il rivenditore si reca sul posto indicatogli nascondendo nel portabagagli un agente e venendo seguito, a breve distanza, 21
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Fig. 1 - Fabio Savi, uno dei componenti della banda. Foto: www.ilrestodelcarlino.it. © Tutti i diritti riservati.
da un’altra auto con a bordo dei poliziotti. Ne scaturisce, nei pressi di un cavalcavia poco prima del casello di Cesena, un violento conflitto a fuoco. Il sovrintendente Antonio Mosca, ferito gravemente, morirà dopo un lungo periodo di sofferenza. Con questo efferato delitto si avvia un’intensa carrellata di omicidi. A questa operazione partecipa l’ispettore Baglioni, l’uomo che poi incastrerà la sanguinaria banda. Nel corso degli anni i componenti della Uno Bianca, oltre a commettere rapine a mano armata e omicidi di giovanissimi, anziani, donne, guardie giurate e appartenenti alle forze dell’ordine, svolgono anche diversi raid razzisti. Numerosi arresti, poi rivelatisi errati, precedono il fermo dei veri colpevoli. Ma come mai in sette anni nessuna volante riesce a recarsi in tempo sul luogo delle numerose azioni delittuose, mai un’intercettazione telefonica viene messa a segno, mai un fermo o un controllo a nessun membro? Il motivo, sconvolgente, è più semplice del previsto: quelli della Uno Bianca sono tutti agenti di polizia. Soltanto uno di loro, Fabio Savi (Forlì, 22/04/1960), fratello degli altri due membri fondatori della banda, Alberto e Roberto, non riesce ad arruolarsi a causa di un problema alla vista. Verrà arrestato, qualche giorno dopo la cattura del fratello Roberto, mentre tenta di espatriare insieme alla sua compagna, di nazionalità rumena. 22
quelli della uno bianca Fig. 2 - Roberto Savi, a capo del gruppo armato denominato Uno Bianca. Foto: www.corriereadriatico.it. © Tutti i diritti riservati.
Roberto Savi (Forlì, 19/05/1954), riveste il grado di assistente capo ed è operatore radio presso la Questura di Bologna. Viene arrestato mentre presta servizio. Alberto Savi (Cesena, 19/02/1965), opera presso il Commissariato di Rimini al momento dell’arresto.
Gli altri membri, tutti poliziotti, sono Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Un pool di magistrati viene costituito per cercare di risolvere il misterioso caso, ma dopo numerosi tentativi andati in fumo, sono i due agenti di polizia Baglioni e Costanza, ispettore il primo e sovrintendente l’altro, a continuare ad indagare e a giungere alle conclusioni. Sciolto il pool e ottenuto il consenso dal Procuratore di Rimini, i due studiano attentamente il modus operandi della banda attraverso continui appostamenti, indagini e sopralluoghi. È Fabio Savi il primo a destare sospetto recandosi nei pressi di una banca, situata in una zona già calpestata dalla banda, con una fiat Tipo di colore bianco dalla targa illeggibile perché sporca di fango. Gli investigatori, conoscendo l’abitudine della banda di effettuare dei sopralluoghi presso gli istituti di credito prima di mettere a segno una rapina, confrontano la fisionomia del conducente con quella catturata dai filmati delle banche rapinate e ottengono un primo positivo riscontro. Il primo grande passo che condurrà alla cattura, più avanti, dell’intera banda. Il poter monitorare le volanti, il possedere un distintivo e l’essere muniti di armi senza dover subire controlli da parte delle forze dell’ordine sono tutti fattori che hanno permesso a questo gruppo di criminali efferati di riempire intere pagine di cronaca nera per anni. Una brutta storia italiana che, a distanza di tanti anni ancora fa parlare per via delle richieste di scarcerazione avanzate di tanto in tanto da alcuni membri. Alla banda viene dedicata la miniserie televisiva Uno Bianca (2001), composta da soli 2 episodi, diretta dall’abile Michele Soavi, che vede nel cast: Kim Rossi Stuart, Dino Abbrescia, Dario D’Ambrosi, Claudio Botosso, 23
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Fig. 3 - Alberto Savi, componente della banda della Uno Bianca. Foto: Ansa. © Tutti i diritti riservati.
Bruno Armando, Massimo De Rossi, Giorgio De Safi, Luciano Curreli, Pietro Bontempo, Silvia De Santis e Valeria Milillo. Il soggetto è di Marco Melega e alla sceneggiatura prendono parte il grande attore Luigi Montefiori (Cani arrabbiati, Antropophagus), qui sotto lo pseudonimo di George Eastman, Gabriele Romagnoli, Stefano Rulli e lo stesso Soavi. Le avvincenti musiche sono a cura di Gianni Bella, il montaggio viene affidato ad Anna Rosa Napoli, lo scenografo è Alessandro Dora e la produzione è Taodue. Soavi e Montefiori sono due veri talenti del cinema di casa nostra, scoperti dall’ormai scomparso Aristide Massaccesi, in arte Joe D’Amato. Michele Soavi nasce a Milano il 3 Luglio 1957 e dopo diversi anni di esperienza su importanti set, horror per la maggior parte, nelle vesti di attore o assistente alla regia, esordisce dirigendo il film Deliria, un inquietante slasher (dall'inglese To slash, "ferire profondamente con un'arma affilata" si riferisce a quel gruppo di film horror in cui il protagonista è un maniaco omicida, spesso mascherato, che dà la 24
quelli della uno bianca caccia a un gruppo di persone in uno spazio più o meno delimitato, utilizzando in genere armi da taglio) che gli spiana la strada di Dario Argento. Nelle sue varie esperienze come attore, Soavi compare sia con il suo vero nome che sotto lo pseudonimo di Michael Saroyan. Recita ruoli marginali in: Alien 2 sulla terra (1980) di Ciro Ippolito, Paura nella città dei morti viventi (1980) di Lucio Fulci, Rosso Sangue (1981) di Joe D’Amato, Démoni (1985) di Lamberto Bava. È allievo dietro la macchina da presa di Dario Argento, Lamberto Bava, Ruggero Deodato e Joe D’Amato. Riveste poi ruoli principali in Opera di Argento e per Terry Gilliam. Si dedica alla regia dirigendo il già citato Deliria, La Chiesa, La Setta e Dellamorte Dellamore, rivelando un talento come pochi. Soavi, sempre in ambito horror, realizza due videoclip (uno per Phenomena di Argento e uno per Démoni di Bava) e un documentario dedicato al suo idolo, Dario Argento, girato assieme a Luigi Cozzi. Dopo il passo falso intitolato Dellamorte Dellamore, tratto dal romanzo di Tiziano Sclavi e basato sulla primordiale idea che darà poi vita all’indagatore dell’incubo Dylan Dog, Soavi resta lontano dai set per ben sei anni. Ritorna dietro la macchina da presa nel ’99 dirigendo il film per la tv Ultimo - La sfida, dedicato all’ufficiale dei carabinieri che diresse le operazioni per la cattura del Capo dei Capi Totò Riina. La miniserie per la tv Uno Bianca, del 2001, è il suo serial televisivo più riuscito. Liberamente tratto da Baglioni e Costanza – Il caso della Uno Bianca (Editrice La Mandragola), il copione presenta il gruppo criminale come già noto alle forze dell’ordine introducendo lo spettatore nel vivo della vicenda sin dai primi minuti. Ad un’esplosione di colpi contro una volante, che uccide due carabinieri nella notte, segue una rapina in banca che finisce nel sangue: nessuno rimane ucciso, ma il direttore viene gambizzato per aver opposto resistenza. Con molta probabilità, la sparatoria ai danni dei giovani carabinieri mira a richiamare quella in cui rimangono vittime, il 20 Aprile ’88, gli agenti Cataldo Stasi e Umberto Erriu, in un parcheggio di Castelmaggiore, nei pressi di Bologna. Le sequenze appena descritte si contrappongono alla quiete e all’atmosfera solare che coinvolge tre amici e colleghi, agenti di polizia, che dedicano il loro tempo libero alle riparazioni di un’imbarcazione. Sono Emilio Valli, Valerio Maldesi e Rocco Atria. La bella giornata d’estate in compagnia viene squarciata dalla notizia trasmessa via radio della morte dei due carabinieri, e vede all’orizzonte un’intensa nube di fumo provocata da un’esplosione. Soavi richiama il fenomeno del racket, delle estorsioni, dell’immigrazione e della criminalità balcanica mescolando saggiamente tutti questi elementi. 25
ciak... si spara! Da notare la denuncia verso il fenomeno della xenofobia, in quegli anni largamente diffusa nel nostro Paese, messa in risalto proprio dalla troppo facile attribuzione di un atto intimidatorio (una bomba ai danni di un’attività commerciale) alla malavita albanese. Le bellissime musiche di Gianni Bella sottolineano l’atmosfera di tensione e paura che si respira tra la gente. Un commerciante ricattato è il riflesso del dramma che ha visto nel mirino l’auto rivenditore riminese Grossi. Gli viene richiesta dalla banda un’ingente somma di denaro. Come abbiamo visto, nella realtà l’estorsione ai danni del commerciante era avvenuta con una lettera di precise indicazioni sull’ora e luogo dell’incontro con i malviventi per la consegna del denaro, mentre nel film le minacce e le indicazioni vengono fornite telefonicamente, con un falso accento siciliano. Nella vicenda ricostruita, a seguire l’imprenditore sul luogo dell’incontro troviamo una giovane recluta, l’ispettore Valerio Maldesi (Kim Rossi Stuart), il vice-ispettore Rocco Atria (Dino Abbrescia) e il commissario Emilio Valli (Dario D’Ambrosi). La location buia dell’autostrada, in una serata di pioggia, richiama fortemente il cinema di paura di Soavi. La tensione va crescendo col prolungarsi della vicenda: i malviventi chiedono al commerciante di fermarsi ad ogni cavalcavia e di attendere un loro segnale, che tarda ad arrivare. I criminali, accortisi della presenza della polizia sul luogo e consapevoli d’essere caduti in una trappola, aprono il fuoco contro gli uomini, ferendo gravemente il commissario Valli e la donna. Maldesi, in preda alla rabbia e alla paura, ma contemporaneamente determinato, risponde al fuoco esplodendo numerosi colpi di pistola contro i malviventi e la loro auto: un modello fiat di colore bianco, appunto. Nella sequenza ricostruita nel film, nella quale perde la vita il sovrintendente Mosca, nel film Emilio Valli, i due agenti Baglioni e Costanza per la prima volta si trovano dinnanzi al temutissimo gruppo armato che in quegli anni semina terrore e morte nell’Emilia Romagna. Kim Rossi Stuart è bravo nel ruolo che lo vede, oltre che ottimo poliziotto, marito di una moglie in dolce attesa, uomo dal forte senso del dovere e con un grande obbligo morale nei confronti della giustizia. Impulsivo, rabbioso e dotato di fiuto, Maldesi è il primo a credere veramente che gli uomini che compongono il gruppo di fuoco siano gli stessi della Uno Bianca. Nel frattempo, il suo amico Emilio combatte tra la vita e la morte, ma non si risveglierà più dal coma. Ad inveire contro quelle che sono le ipotesi dell’ispettore vi sono il Procuratore Onofri (Massimo De Rossi) e il Commissario Tanzi (Giorgio Crisafi), che non ritengono imputabile il tragico fatto di sangue alla Uno Bianca, poiché questa banda non ha mai avanzato estorsioni 26
quelli della uno bianca Fig. 4 - Gli agenti Valerio Maldesi (Kim Rossi Stuart) e Rocco Atria (Dino Abbrescia). Uno Bianca (2001, Taodue). © Tutti i diritti riservati.
prima di allora. Per far chiarezza sugli sviluppi della trama, in alcune fasi del tutto distaccata dai fatti reali, per dovere di cronaca, è necessario far presente al lettore meno informato sul caso che, ad onor del vero, né il Procuratore né alcun Commissario o uomo di legge ha mai ostacolato le indagini della coppia Baglioni Costanza. A livello giudiziario, invece, tanti gli errori commessi dagli inquirenti che, più volte, convinti di aver fermato la banda, hanno tratto in arresto uomini estranei ai fatti, sebbene già noti alle forze dell’ordine, come, ad esempio, gli slavi del film. Mosso da un desiderio di vendetta per la tragica morte del collega, Maldesi non si darà pace finché le indagini non inchioderanno i veri responsabili. Come nella realtà, il commando armato, dopo aver commesso i crimini, abbandona le auto. Molto suggestiva la sequenza che propone il ritrovamento della macchina a bordo della quale viaggiavano i feroci individui quella tragica sera dell’estorsione finita nel sangue: Rossi Stuart annuisce in silenzio, confermando quelli che erano i suoi presentimenti, mentre un modello fiat Uno Bianca viene recuperato da una palude e ispezionato dalla Scientifica. Sul luogo del ritrovamento si reca, assieme a Maldesi e Atria, anche il loro collega e vicino di scrivania De Marchi, un tipo strano, spesso assente dal lavoro e dall’atteggiamento un po’ ambiguo. A rafforzare le tesi dell’ispettore, i proiettili conficcati nell’auto e da lui sparati nel buio della notte. Pronto a dar credito alle teorie e ai presentimenti dei due poliziotti è il giudice Soavi, personaggio attraverso il quale il regista "firma" la sua opera. Deciso e pronto a tutto, sempre al fianco del suo collega Rocco, Maldesi studia la banda giorno e notte: si dedica ai fascicoli, ai reati commessi dai malviventi, al loro modus operandi, intuisce che, a distanza di poco tempo l’una dall’altra, i criminali sono soliti mettere a segno una rapina. Rocco invece decide di andare per strada, di indagare sui luoghi dove sono stati commessi i reati, di interrogare i testimoni. Grazie a questo lavoro, i due scarteranno l’ipotesi che a comporre la banda possa essere un nucleo di stranieri, poiché le 27
ciak... si spara! testimonianze parlano di gente che comprende perfettamente il romagnolo. Viene accantonata anche l’ipotesi della criminalità organizzata e ci si concentra su persone del luogo, magari con un passato militare o paramilitare, visto il modo di agire. Maldesi e Atria, guidati dal fiuto e dall’istinto, individueranno la fascia oraria e il prossimo istituto di credito dove la banda con molta probabilità colpirà, ma la vita in Questura per i due non è semplice e, mentre si apprestano ad uno dei loro soliti appostamenti, ricevono l’ordine di dedicarsi all’identificazione e all’accertamento di alcuni clandestini, due dei quali probabilmente implicati nel caso della Uno Bianca. Temendo di poter perdere l’occasione tanto attesa, insistono inutilmente nel richiedere un’ora di tempo. In fretta e con lo sguardo sempre vigile alle lancette dell’orologio, i due eseguono gli ordini. Svincolatisi dall’impegno, si recano presso il probabile bersaglio e, una volta sul luogo, apprendono che da poco si è consumata una rapina. In tutti i colpi della banda si era riscontrata una meticolosa attenzione nell’eliminare le telecamere di sorveglianza, ma questa volta si verifica quello che Maldesi definisce “il loro primo errore”: i malviventi, infatti, non notano un nuovo piccolo modello di telecamera installato all’interno della banca. Quanto appena riportato, poi narrato nel film, è tratto dal reale svolgimento dei fatti: il volto di Fabio Savi, come accennato, viene filmato per un attimo privo di passamontagna nel corso di una rapina, rappresentando la prima pista fondamentale per gli inquirenti. Nel film, però, le indagini risultano più difficili: Atria e Maldesi risalgono infatti ad un primo identikit dell’uomo confrontando il suo volto mascherato con la statura e i tratti del viso di un individuo sospetto recatosi giorni prima presso l’istituto di credito, probabilmente per effettuare un sopralluogo. I due, con particolare dedizione da parte di Maldesi, che nel poco tempo libero si dedica a riparare la barca dell’ormai scomparso Emilio, studiano senza sosta decine e decine di registrazioni video del periodo antecedente all’ultima rapina. I due perseverano, come nella realtà, negli appostamenti e nella loro routine lavorativa: muniti di binocolo per leggere a distanza le targhe delle Uno bianche che passano nei dintorni delle banche, pronti a verificare i numeri di targa con quelli di eventuali auto rubate o sospette, l’ispettore e il suo vice sono sempre più ossessionati dal lavoro. Maldesi e Atria presentano delle forti divergenze: mentre il primo è più determinato, convinto di essere sulla strada giusta e pronto a tutto, anche a trascurare la sfera privata pur di vendicare il suo amico morto, Atria è meno motivato, inizialmente, e meno istintivo, rabbioso e anche meno convinto di riuscire a risolvere il caso. Saranno proprio i dubbi 28
quelli della uno bianca Fig. 5 - Luciano Curreli interpreta Silvio Ferramonti. Foto: www.cinemecum.it. © Tutti i diritti riservati.
di quest’ultimo a condurre Maldesi verso una svolta importante: Rocco avanza l’ipotesi che la banda, per non destare sospetti, possa effettuare i sopralluoghi con un modello d’auto differente e di altro colore. Da quel momento, infatti, tutte le auto che più d’una volta percorrono il perimetro da loro perlustrato, vengono segnalate e controllate. Il lavoro sfiancante e la continua tensione, portano i due colleghi sull’orlo di una crisi finché un giorno, come poi realmente è avvenuto nel corso delle indagini condotte da Baglioni e Costanza, un’auto dalla targa illeggibile non desta il sospetto degli investigatori, che la seguono. Individuata l’abitazione del conducente, Maldesi e Atria si recano presso il Comune di residenza (Torriana, ove Fabio Savi risiede prima della cattura) risalendo così alla sua identità. L’uomo ripreso dalla telecamera di sorveglianza della banca è Fabio Savi, nel film Silvio Ferramonti. Nel frattempo, però, il pool capitanato dall’ostile prefetto Onofri fa scattare le manette ai polsi di alcuni uomini di nazionalità slava dichiarati colpevoli dei reati della Uno Bianca, e il caso viene archiviato. Decisi ad andare avanti, e ormai soli, Atria e Maldesi si appostano in un edificio in costruzione situato di fronte alla casa di Ferramonti, studiando da vicino il loro sospettato. I momenti di tensione non mancano, come quando Rocco è costretto ad intrufolarsi nell’appartamento di Ferramonti per piazzarci una cimice: un registratore ambientale che permette ai nostri di ascoltare tutte le conversazioni che avvengono tra le mura domestiche, anche quelle più intime e piccanti. Silvio Ferramonti, infatti, non vive da solo: con lui in casa vi è anche una ragazza, interpretata dalla brava Silvia De Santis, di nazionalità 29
ciak... si spara! straniera. Soavi è abile nel dirigere una crime story nera, sanguinaria, spietata. Il terrore, tipico elemento del suo percorso formativo, non manca: incastonato in una cornice che unisce realtà e finzione, lo si respira soprattutto nelle azioni commesse dai banditi: la rapina ai danni di un supermercato descrive perfettamente lo stile disumano e senza scrupoli della banda capitanata dai Savi. Dopo aver svuotato le casse, brutalizzato i clienti e gli impiegati e ripetutamente intimato ai presenti (donne, uomini, anziani, bambini, ecc.) di sdraiarsi sul pavimento con la faccia a terra, uno dei rapinatori nota un uomo anziano, in piedi, osservare la scena. Bloccato dalla paura e anche dal suo stato di salute, l’anziano non esegue gli ordini dei rapinatori e per questo motivo una sventagliata di proiettili esplosi da un mitra riducono in brandelli frutta e ortaggi disposti alle sue spalle. Impugnata una pistola al posto del mitra e puntatala a distanza ravvicinata al volto dell’inerme anziano, il rapinatore finalmente nota la stampella che sorregge l’uomo e l’urina, stimolata dal forte spavento, scorrere dai pantaloni del poveretto. Solo a questo punto egli verrà graziato ricevendo, oltre a un ironico complimento, anche un colpetto sul viso per indurlo a tranquillizzarsi. Soavi e gli sceneggiatori ripropongono un terribile spaccato della nostra Italia senza mai portare lo spettatore a immedesimarsi con il bandito. Dei criminali abbiamo una visione oggettiva: non ci è dato conoscere le loro storie personali o le eventuali giustificazioni ai loro terribili reati. Soavi ci presenta la vicenda della Uno Bianca quasi come una rassegna stampa, accodando una serie di terribili fatti, tutti realmente accaduti, e descrivendo minuziosamente la crudeltà dei componenti nel metterli in atto. Il ruolo degli investigatori si discosta dai modelli americani, nei quali il super sbirro tutto azione e violenza mette a ferro e fuoco la città pur di trovare il ricercato numero uno. Qui si vive un’indagine, con tutti i pro e i contro che questa comporta: oltre al rischio, infatti, ci si ritrova a dover abbandonare anche i propri affetti. Non viviamo il criminale come un emarginato costretto a ripiegare nell’illegalità per poter vivere. Assistiamo, anzi, a un vero e proprio piacere da parte dei protagonisti nell’incutere terrore con le loro azioni. Non mancano i riferimenti alle br e agli anni di piombo: il verbo educare, pronunciato più volte dai Ferramonti, richiama alla mente del vice-ispettore Atria il motto dei brigatisti “Ammazzarne uno per educarne cento!”. I Savi, in realtà, erano del tutto estranei al brigatismo. Si trattava piuttosto di razzisti. Una volta sulle tracce di Silvio Ferramonti, Maldesi e il suo collega Rocco avviano un’indagine per ricostruirne il passato e gli eventuali precedenti penali. Scopriranno che a Silvio è stata rigettata la domanda per il conseguimento 30
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Fig. 6 - Pietro Bontempo interpreta Michele Ferramonti. Uno Bianca (2001, Taodue). © Tutti i diritti riservati.
del porto d’armi perché sorpreso a sparare in aperta campagna, assieme al fratello Michele. Di grande effetto la sequenza (fatto realmente accaduto), in un piccolo bar del paese dove Ferramonti risiede, che vede incrociarsi gli sguardi di quest’ultimo con quello dei due agenti. L’avanzare delle indagini porta Maldesi a conoscere le assidue frequentazioni di Silvio Ferramonti, spesso, come anche nella realtà, in compagnia del fratello Michele (Roberto Savi) e di una comitiva di amici. Saranno proprio le persone a lui vicine a confutare l’ipotesi avanzata da Maldesi e Atria, ovvero che si possa trattare di una banda di criminali efferati che odiano la legge e disprezzano le forze dell’ordine. «Michele Ferramonti è un poliziotto!», questa frase, detta all’ispettore Maldesi da una collega della Questura di Bologna, lo lascia di stucco. Sconvolti, increduli, i due comprendono che appostamenti, filmati, inseguimenti, non sono più sufficienti: bisogna infiltrarsi nella banda! Qui il copione si discosta notevolmente dalla realtà. Nessun agente di polizia infatti 31
ciak... si spara! si è mai infiltrato nella banda della Uno Bianca, composta da una ristretta cerchia di colleghi e uomini fidati che, a rotazione, prendevano parte ai colpi. La prima puntata si conclude quindi con l’identificazione di Silvio Ferramonti e la scoperta che il fratello Michele è arruolato in polizia, in qualità di operatore radio. Molto suggestiva la regia, che abbonda di primi piani e campi medi. Le musiche si adattano perfettamente al clima drammatico e triste a cui le indagini conducono, e la sequenza che vede Maldesi, sconcertato, salire i gradini che portano al reparto dove Michele Ferramonti presta servizio, permette allo spettatore di captare un ambiente ostile al protagonista: egli, infatti, incrocia per le scale lo sguardo freddo e di sfida di un collega, probabilmente coinvolto nel conflitto a fuoco nei pressi del cavalcavia, che lo riconosce; un altro agente infligge, involontariamente, una spallata a Maldesi che, nel frattempo, guarda in faccia l’altro probabile assassino, un collega, peraltro, del suo amico Emilio. Di grande effetto e simbolica soprattutto la sequenza che vede un agente voltarsi all’improvviso verso la macchina da presa con il volto coperto dallo stesso passamontagna utilizzato dai criminali della banda. Si conclude con questa sconvolgente rivelazione la prima delle due puntate che compongono la miniserie. Il secondo episodio, come anche il primo, comincia, sui titoli d’inizio, con particolari sui ritagli di schede elettroniche usate per ricreare chiavi utili ai furti d’auto e con il caricamento di un fucile: degno di nota il dettaglio che riprende il colpo caricato in canna. Appreso in Questura che Michele Ferramonti è solito recarsi ad un poligono di zona per sparare, il duo decide di seguire le orme dei sospettati: una volta al Club Mirage, con una scusa Atria distrae il gestore e Maldesi è libero di sfogliare il registro delle presenze: il nome di Michele Ferramonti è contraddistinto, come alcuni altri, da un asterisco. «Sono tutti poliziotti», spiega il gestore ai due agenti, lì in anonimato. Ciò implica che la banda della Uno Bianca potrebbe essere composta da più poliziotti. Le ipotesi si riveleranno poi fondate una volta che Valerio, ottenuto il trasferimento a Bologna grazie all’aiuto del giudice Soavi, avrà agganciato Michele Ferramonti con una scusa banale, guadagnando la sua amicizia. Valerio Maldesi conosce le abitudini dei componenti e finge una sintonia ideologica: si dimostra razzista, senza scrupoli, con poca stima nei confronti del suo lavoro e pronto ad alzare facilmente qualche soldo. Nella seconda puntata i riferimenti al reale svolgimento dei fatti sono davvero pochi: qui gli sceneggiatori e il regista hanno dato ampio spazio alla fantasia. Dal momento in cui Maldesi si infiltra e frequenta la banda, sino alle 32
quelli della uno bianca modalità di cattura dei componenti, Soavi e gli altri hanno tralasciato la verità per rendere giustizia al fattore spettacolo. A questo punto delle indagini infatti, nella realtà, anche in base alle assenze dal lavoro dei membri del nucleo armato nei giorni delle rapine, i malviventi vengono tratti in arresto da Baglioni e Costanza. Nel film invece la pista seguita da Maldesi si sovrappone ai pedinamenti di Atria e alle parallele indagini di Michele Ferramonti, che ci vuol vedere chiaro sul nuovo arrivato in Questura. Invitato a trascorrere pomeriggi insieme, pranzi, serate in discoteca, a Maldesi viene anche offerto il "battesimo", di fuoco s’intende: obiettivo della serata è comprendere quanto l’ispettore Maldesi sia fidato. Valerio viene invitato, pena la sua morte, ad aprire il fuoco contro un musicista nomade che, nel corso di una serata, si diverte assieme ai suoi compagni di roulotte. Salvato in extremis dall’amico e collega Rocco, intervenuto sul luogo per una finta lamentela del vicinato, Valerio è ormai ritenuto uno della banda. Mentre Onofri con l’arresto di alcuni slavi dichiara definitivamente chiuso il caso della Uno Bianca, una nuova rapina scuote l’opinione pubblica e gli organi della giustizia. Soavi decide di lasciare carta bianca ai due agenti. Intercettazioni, filmati, pedinamenti e soprattutto tanta costanza e determinazione, procureranno a Maldesi e Atria le prove determinanti per porre fine a questa tragica vicenda. Ottenuto il materiale necessario per dichiarare i fratelli Ferramonti e soci autori dei feroci crimini a loro imputati, Onofri decide di tenere fuori dall’operazione Maldesi e Atria, colpevoli di essere stati vicini ai sospettati durante le indagini. Ma l’astuzia di Michele Ferramonti porterà Soavi a richiamare in servizio Valerio, che accetterà di trarre in inganno il capo della banda solo in cambio di un mandato di cattura. Come anticipato, il contenuto della seconda puntata è frutto della fantasia degli autori che hanno preferito firmare un copione coinvolgente, ricco di colpi di scena e azione, piuttosto che contribuire ad una ricostruzione realistica dei fatti. Nessun infiltrato, nessuno scontro con le autorità giudiziarie e nessun tranello nella realtà. Anche le fasi dell’arresto, eccetto quella di Silvio Ferramonti, si distanziano molto dal reale svolgimento dei fatti. Di grande impatto emotivo la sequenza che vede Michele, ormai alle strette, con le manette ai polsi nell’atrio della Questura di Bologna, davanti allo sgomento dei colleghi. Un impavido Maldesi non rispetta gli ordini di Onofri, che desidera interrogare Ferramonti, tratto in arresto per l’omicidio Valli (avvenuto nei pressi di Rimini), nel territorio di sua competenza. Certamente la regia di Soavi e l’ottima sceneggiatura hanno contribuito a rendere questa manciata di minuti uno dei momenti maggiormente riusciti, seppur 33
ciak... si spara!
Fig. 7 - La sequenza dell’arresto di Nino De Marchi (Claudio Botosso). Uno Bianca (2001, Taodue). © Tutti i diritti riservati.
lontani dalla dimensione reale. L’arresto dell’ultimo componente, il terzo fratello dei Ferramonti, regala un finale a sorpresa e un duello degno della miglior scuola western di casa nostra: Nino, il membro più spietato della banda della Uno Bianca, si scoprirà essere l’agente De Marchi, un collega del povero Valli, di Maldesi e Atria.
Un lavoro gradevole, se non si tiene conto di quanto siano realmente differenti le due versioni: quella reale e quella televisiva. La narrazione, in gran parte inventata, di una delle vicende più brutali del nostro Paese, giova allo spettatore rammentandogli sette anni di terrore vissuti in Emilia Romagna. Soprattutto i più giovani, infatti, difficilmente verrebbero a conoscenza del caso Uno Bianca. Lo sceneggiato proposto da Taodue e diretto da Soavi, che non manca di disseminare nel corso delle due puntate elementi propri del suo cinema, si rivela invece un’ottima occasione per chi sia interessato ad un primo approccio con un sanguinario spaccato di nera italiana. Ma per una reale conoscenza dei fatti si segnala la necessità di ricorrere a documenti e fonti ufficiali, di gran lunga distanti da quanto racchiuso nella miniserie televisiva.
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