L'Uomo più piccolo del mondo

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L’uomo più piccolo del mondo

di Nicola Pesce © 2022, Edizioni NPE © Nicola Pesce Tutti i diritti riservati. Collana Himself, 5

Ordini o informazioni: info@edizioninpe.it Caporedattore: Stefano Romanini Ufficio Stampa: Gloria Grieco –ufficiostampa@edizioninpe.it Progetto grafico: Nicola Pesce Stampato nel mese di gennaio 2022 tramite Tespi srl –Eboli (SA) Edizioni NPE – Nicola Pesce Editore è un marchio in esclusiva di Solone srl Via Aversana, 8 – 84025 Eboli (SA) Sceneggiatura del 2007 Romanzo cominciato a Battipaglia il 23/01/2019 Finito il 12/02/2021 nicolapesce.com instagram.com/NicolaPesceHimself #nicolapescehimself


L’uomo più piccolo del mondo di Nicola Pesce



Parte Prima


I.

M

ina Valenti era ancora una bella donna. Seduta davanti a un grande specchio nel suo abito da sera, stava chiudendo il gancio della sua collana di perle. Era una bella collana, ma aveva perso gran parte del suo valore da quando suo marito non aveva più il tempo di agganciarla per lei, rimanendo alto ed elegante alle sue spalle, mentre lei vedeva il suo riflesso nello specchio e, portando una mano alla propria spalla, vi incontrava la sua. C’era stato un tempo in cui quella mano era stata solita accarezzarle il collo e la guancia, in cui loro si sarebbero alzati, ci sarebbe stato un bacio e poi sarebbero andati a vivere. 6


Adesso invece la guancia era fredda, e le perle difficili da agganciare. Avrebbe voluto gettarle a terra con un gesto di stizza, ma era una donna che si teneva tutto dentro, senza sapere se ciò facesse di lei una donna forte o una donna stupida. Le poggiò su di un settimino poco distante. Il lungo vestito da sera le lasciava scoperta una gamba poco sotto il ginocchio, un piede affusolato e una scarpa dal tacco alto. Sistemò anche quella e le sue dita involontariamente accarezzarono quel piccolo tatuaggio di cattivo gusto che aveva sul dorso del piede. C’era stato un periodo in cui ne andava pazza, appena lo aveva fatto, a vent’anni, e poi per lungo tempo se ne era pentita e vergognata. Aveva pensato mille volte di cancellarlo tra i trenta e i quaranta. Adesso che aveva cinquant’anni le faceva compagnia, insieme con il ricordo di quei giorni pazzi di gioventù, quando c’era ancora tempo e modo di fare una follia, quando si poteva partire lanciando una moneta e il domani era una cosa troppo lontana per pensarci. 7


Quanti pensieri ci sono nel cuore di una moglie? Quando è ora e suo marito ancora non si è visto, quando non è la prima volta e non è nemmeno raro che accada. Quando, come dice la canzone, non si sa più il sapore che ha una carezza nella sera, quando non c’è più un gioco d’amore, quando non si sa più se si piace ancora al proprio uomo. Quando il tempo è passato più inclemente per lei che per lui. Ora Carlo era ancora più bello di quando lo aveva conosciuto. I sessant’anni lo avevano trovato alto, bello, magro, con dei capelli lisci e fluenti e una barba brizzolata curatissima, sempre vestito in modo elegante, ricco abbastanza da apparire su copertine di riviste e prime pagine di giornali. Quanti pensieri ci sono nel cuore di una donna? Che ha avuto molte case, ma nessuna era la sua, che mette i vestiti e le perle che ha comprato con i soldi di un uomo che forse non la ama più. Avrebbe avuto voglia di togliersi quel vestito e andarsene nuda per strada, lei e il suo tatuaggio. Immaginò la scena. Alla fine era ancora una bella donna. Riprese in mano le perle. 8


Entrò nella stanza suo figlio e ogni pensiero fu sbalzato via alla vista di quel faccino, quei capelli corti, il frac e il papillon. Il suo bimbo quella sera avrebbe suonato il pianoforte difronte a un teatro intero. Era bello ed era buffo. Era buffo ed era malinconico. Un mix irresistibile che lei avrebbe voluto abbracciare e stringere fino a scompigliarlo tutto, più tenero di un gattino. Ma le parole che si dicono ai figli sono il più puro distillato di un milione di pensieri. Da un mare intero se ne ricava una goccia soltanto, sperando sia quella giusta. Ed anche i gesti passano attraverso un setaccio rotto, questo sì, questo no, rimane un sassolino e si perde una pagliuzza d’oro. «Come sei bello questa sera» gli aveva detto, e Luca le si era avvicinato con lo sguardo basso e l’aveva abbracciata. Poi le aveva tolto le perle di mano e, sulle punte dei piedi mentre lei era seduta, gliele aveva agganciate dietro al collo con quelle manine da pianista. Lei lo aveva guardato riflesso nello specchio, poi si era voltata e gli aveva dato un bacio sulla fronte, 9


scompigliandogli un po’ i capelli. Lui l’aveva rimproverata con lo sguardo, si era sistemato con serietà ed era uscito fuori dalla stanza. Mina sorrise e si alzò, aggiustandosi il vestito.

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II.

L

a sala dove si sarebbe svolta la conferenza stampa del commendator Carlo Valenti era gremita di giornalisti. Le sedie sembravano non bastare e un vociare confuso si diffondeva attraverso la sala. L’aria era impregnata di un odore di vecchie sedie da cinema e a uno studio attento si sarebbero potuti individuare i vari tipi di fauna e i loro comportamenti. Il giornalista di un quotidiano nazionale aveva la compostezza di quei vecchi che ne hanno viste tante, che hanno sentito parlare tante persone, che le hanno sentite dire cose che poi non hanno fatto e negare cose che invece avrebbero fatto in seguito. Il vestito avrebbe potuto essere impeccabile ma le spalline 11


imbottite ne tradivano l’era geologica, così come una macchiolina sulla cravatta appena percettibile tradiva una certa stanchezza nei confronti della vita e dell’andare a comprare nuove cose da quando era morta sua moglie. Una certa peluria scura fuoriusciva dalle sue orecchie anziane e qualunque bambino annusandolo avrebbe riconosciuto il mix di odori del proprio nonno: dopobarba all’antica, amari da tavola e medicinali acidi. Aveva intervistato dittatori e sante, e ciò nonostante era ancora là a doversi guadagnare il pane, a spartire la sala con blogger, youtuber e tutte le altre diavolerie del mondo contemporaneo. A volte si scopriva a pensare a sé stesso come a un vecchio dinosauro, senza rendersi conto che quell’internet che si ostinava a disprezzare era proprio il meteorite che lo stava spazzando via. Poco distante da lui un ragazzotto sulla trentina, paffuto e con una barbetta molto folta e i capelli un po’ scompigliati si aggiustava gli occhiali rubando una tartina prima che il buffet aprisse. Aveva un maglioncino di un colore indefinibile che ricordava il manto di certi cavalli roani, e una cravatta stranamente 12


nera sotto la quale si intravvedeva il collo della camicia non bene abbottonato. Estraeva continuamente dalla tasca uno smartphone e in meno di dieci secondi controllava il feedback di ciò che scriveva, giocava a qualche app in voga in quel momento e cercava di entrare in contatto con giovani donne con le quali uscire, mentre sarebbe stato molto più semplice udire il rumore di tacchi che si aggirava per la sala e alzare lo sguardo. Le instagrammer che si mescolavano alle vere giornaliste e rendevano la sala un terreno di caccia per tutti quei giornalisti maschi ben vestiti, sparpagliati ai vari livelli dello spettro della mediocrità umana. Un post di una di loro poteva disinformare in pochi secondi più persone di quante cento approfondimenti di una grande giornalista potessero informarne le metà della metà. I social influencer erano potenti e lo sapevano, e anche a loro dispiaceva di essere confusi gli uni con gli altri, quelli intelligenti e preparati e quelli stupidi come capre, misurati con l’unico metro indistinguibile del numero dei follower e dell’engagement. 13


Questo pensava il commendator Valenti studiando la folla da un punto in cui non potevano vederlo. Li vedeva in proporzione alla loro audience, moltiplicata per il coefficiente variabile della loro credibilità. E pensava all’albergo presso cui si svolgeva il tutto, a quanto si erano presi per l’affitto della sala, a come modulare la voce ed essere al contempo misurato e spontaneo. Quando entrò nella sala fu chiaro che era entrato un rapace e che avrebbe potuto distruggerli uno per uno, e anche il giornalista più anziano deglutì e si sedette. Estrasse dal taschino un taccuino e una penna e si preparò a scrivere, mentre dietro di lui con i cellulari alzati decine di suoi colleghi registravano o mandavano in diretta sui propri profili le immagini della conferenza. La conferenza fu veloce. Il commendator Valenti, nel suo impeccabile vestito blu, in piedi dietro a una sorta di leggio che non gli occorreva, aveva il polso dell’umore generale. Alternava una battuta a un pensiero profondo. La folla rideva o si faceva attenta a seconda di come egli 14


piegava la voce. Aveva frasi brevi e concise, che potessero penetrare la scarsa attenzione del mondo contemporaneo risultando il minimo comun denominatore tra i vecchi giornali e i nuovi mezzi. I capelli brizzolati e fluenti, la barba corta e curatissima e gli occhi scintillanti. Era l’immagine perfetta dell’uomo di successo, che si è fatto da sé, che ottiene quello che vuole e a forza di ottenerlo ha gradualmente perso la modestia e la pazienza di aspettare. «…Ed è per questo che la Mirex – che ho l’onore di guidare – e la Gondor hanno deciso ieri sera la loro fusione in un unico grande colosso che diventerà il leader mondiale del settore». Detto questo, Valenti aspettò un secondo i flash. Tutti scattarono la loro foto. Il vociare crebbe e un applauso isolato trascinò con sé molti altri. «Ci sono domande?» chiese. Era il momento che detestava. Ogni imbecille poteva fargli una domanda e lui avrebbe dovuto rispondergli come se appartenessero alla stessa specie di esseri umani. Il vecchio giornalista, nell’euforia che lo circondava, 15


rilesse alcuni passaggi, batté la penna sui fogli e si alzò. Gli altri potevano anche applaudire al pensiero che nella propria nazione tornasse il primato su un settore merceologico all’avanguardia grazie a quella fusione, ma lui in quelle dichiarazioni leggeva tutt’altro. I suoi giovani colleghi erano come degli atleti di velocità capaci di coprire cento metri in meno di dieci secondi, tutti concentrati in sé stessi e nel proprio sforzo, concentrati su quanto una notizia potesse tornare loro utile, far arrivare visite sui loro profili, su come avrebbero potuto annunciarla nel modo più accattivante e conveniente, con meno parole possibile. Lui invece era un maratoneta che sapeva controllare il fiato e l’euforia e si concentrava sulle cose, sul mondo che lo circondava. Era passato il tempo in cui si concentrava su sé stesso, gli anni e le delusioni gli avevano tolto questo vizio. Lui si concentrava sugli altri, sulle cose intorno a sé. Gli fu data la parola. Quello che disse fu secco e asciutto: «Commendator Valenti, questo vuol dire che ci saranno dei licenziamenti?». Lo sguardo di Valenti tradì un momento di stizza. 16


Aveva celato tutto così bene dentro quei numeri e adesso un vecchio dinosauro con la prima domanda infilava il dito nella piaga. «Tutti i dettagli dell’operazione» rispose senza scomporre il suo sorriso sicuro, «sono nel prospetto che i miei collaboratori vi stanno consegnando». Uno stuolo di giovani hostess stava distribuendo proprio in quel momento sorrisi e cartelline con sopra il grande logo della Mirex. Alcuni giornalisti più giovani stavano già osservando parole e numeri prima che il giornalista più anziano parlasse e numerose parole li avevano colpiti positivamente: “espansione”, “economia di scala”, “esternalizzazione”, “maggiori profitti”. Ma appena quella domanda era stata posta fu subito loro chiaro che invece c’era scritto “licenziamenti”. Dentro di sé molti di loro ammirarono il vecchio e in seguito sarebbero andati a stringergli la mano. Quel dinosauro aveva ancora tutto da insegnare e loro tutto da imparare. Anche loro avrebbero avuto cose da insegnare a lui ma per lui era tardi e andava bene così. Una bella giornalista, che sembrava scoppiare fuori 17


dal vestito formale che si era imposta, si era alzata per porre un’altra domanda. Valenti aveva subito spalancato il suo sorriso, e indicandola con la sua penna Montegrappa le diede la parola: «La signorina là in fondo, prego». «Commendator Valenti, mi scusi. Questo prospetto è molto interessante e mostra che la somma dei fatturati della Mirex e della Gondor sarà pressoché uguale al fatturato della società nata dalla fusione». «Sì, esatto, non perderemo nemmeno un cliente. Anzi, più esattamente vedrà un incremento previsto di quasi il 3%. Per società così grandi questa percentuale in un solo anno è un vero e proprio miracolo». «Certo, vedo anche però che la previsione di utili è aumentata notevolmente…». «Certo» la interruppe Valenti, «perché potremo mettere in campo una notevole economia di scala…». «Ecco, questo volevo capire: dalla redazione mi hanno fatto un rapido calcolo e ci sembra di capire che i licenziamenti supereranno le diecimila unità». Detto questo la giornalista tacque, perché era sicura 18


di aver avuto un effetto dirompente. Infatti un brusio sempre più forte si era levato nella sala. «Non ha paura dell’impatto sociale di questa decisione?». La frase era stata in parte coperta dalle voci dei suoi colleghi, e rimase appesa pochi istanti nel vuoto. «Non ci sarà nessun impatto sociale. Tutte le persone che per un motivo o per un altro dovessero venire licenziate avranno una buonuscita che…» ma la voce di Valenti era ormai coperta dalle altre. «I sindacati vi daranno addosso!» disse qualcuno. «Vi metteranno in ginocchio, e i competitor potrebbero approfittare della situazione per crescere riducendo la vostra fetta di…». «Nessuno è più alto dell’ultimo uomo che rimane in piedi» concluse Valenti con un grande sorriso, ormai tutta quella sala gli era estranea, «Buona giornata a tutti!». Ormai nella sala c’era aria di rivoluzione ma Valenti la stava abbandonando. Prima erano stati tanto timidi ed ora tutti volevano porre domande. Il commendatore aggiustandosi la cravatta pensava 19


che facevano come i cani. Quando qualcuno è in piedi e senza paura un branco di cani randagi non ha il coraggio nemmeno di guardarlo negli occhi. Ma se per un motivo o per un altro un ginocchio si piega e l’uomo si abbassa, ecco che tutti quanti gli corrono contro e vogliono strapparne un morso. Era andato in una sala piena di cani a farsi mordere. Che ne volevano capire loro? Con i loro stipendi da impiegatucci o peggio ancora le loro prestazioni occasionali da freelance? Con i loro vestitini di marche famose che non valevano niente. Che dovevano lavorare un anno per poter sperperare tutto in una vacanza estiva di dieci giorni? E venivano a giudicare lui? Lui che quando guardava fuori dalla finestra vedeva i palazzi sotto di sé e ne immaginava gli architetti e gli ingegneri, i mutui delle banche, che sapeva il costo di ogni cosa e sapeva dirigere l’opinione di un milione di persone. Avrebbe diretto anche la loro. Ci voleva giusto un po’ più di tempo. «Ancora una domanda!» gridava un giovane con un maglione da uno strano colore e dei grandi occhiali, ma si era svegliato troppo tardi. Aveva corso i cento metri in otto secondi ma 20


non si era reso conto che quella era una partita a scacchi. Un giovane impiegato in cravatta nera e camicia bianca, con un orecchio curiosamente piegato in avanti, si faceva strada tra la folla sgomitando. «Fatemi passare! Fatemi passare!» gridava. Gli occhialini sembrano tenuti fermi da un pezzetto di scotch al centro. Al suo passaggio le persone si scostavano infastidite, o altrimenti le scansava lui spingendo. «Valenti! Non puoi fare questo! E cosa dovranno fare le nostre famiglie?!» urlò. Valenti restò interdetto per un secondo. Quel ragazzino lo stava chiamando senza il suo titolo onorifico e gli dava del “tu”. Poi rifletté che più una persona è importante e più gli si dà del “tu”, perché ci si parla nei propri pensieri giorno e notte, ci si raggiunge una certa intimità unilaterale, ignota all’altro. A Dio infatti si dà del tu, perché è radicato nel punto più profondo del cuore. Questo pensiero lo fece sorridere, si voltò e se ne andò senza degnare l’impiegato di un secondo sguardo. 21


Questi, irritato forse più da quell’atteggiamento sardonico che dal proprio licenziamento, non riusciva più a contenersi: «Questa te la faccio pagare, Valenti! Te la faccio pagare!». Ma Valenti era già lontano, era già fuori, e due guardie tenevano fermi lui e i suoi occhialini attaccati con lo scotch.

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III.

C

osa provava il giovane impiegato tornando a casa quel pomeriggio? Era difficile a dirsi. Sapeva di non aver concluso niente. Sapeva che la sua vita sarebbe stata ancora più difficile. Passeggiava con le mani nelle tasche in quella giornata primaverile. Un leggero puzzo di sudore gli ricordava di non essere al meglio delle sue possibilità in quel momento. Guardò una vetrina e vi vide dentro dei bellissimi abiti nei quali sua moglie sarebbe stata una favola. Uno era lungo e viola, e il manichino reggeva una piccola borsetta. Ne guardò i prezzi ed ebbe una stretta al cuore. 23


Erano un anno del suo lavoro. Non era interessato ai soldi per sé stesso, ma per sua moglie, per quel piccolo fiorellino che aveva deciso un giorno di sposarlo. E avrebbe voluto coprirla di regali e farla sorridere ogni giorno, ma non era possibile. Era sempre più arrabbiato, la vita gli andava sempre peggio. Magari in conferenza stampa tutti avevano scoperto per la prima volta dei licenziamenti ma lui questo l’aveva sentito d’istinto già da mesi, come certi animali subodorano quando sta per arrivare una pioggia o un terremoto. Aveva notato degli spostamenti in ufficio. Un dirigente che fino a pochi mesi prima aveva parlato di scalare la vetta della compagnia aveva cambiato atteggiamento ed aveva deciso di andare in pensione. Un paio di volte in quegli uffici dalle pareti a vetri del primo piano avevano chiuso le porte prima di parlare. Ma forse non erano bastati quei dati a farglielo capire: forse era stato il fatto che la gente ai piani alti aveva cominciato a sorridere di meno, e con loro a cascata gradualmente avevano sorriso di meno tutti quanti. 24


Qualcosa stava per succedere, era chiaro. Stava per arrivare il temporale. Lui lo aveva sentito. Per questo era andato a quella conferenza. Era riuscito a intrufolarsi con il badge della società. Non poteva aspettare. Voleva sapere subito. E aveva saputo. Ora passeggiava con le mani nelle tasche. Diecimila licenziamenti. Anche se avevano fatto di tutto per celarlo, presto quel numero sarebbe stato stampato su dei fogli. Un numeretto così piccolo, che occupava uno spazio minuscolo. E in quel numeretto c’era lui, sua moglie, la sua vita, il suo appartamentino, e altri diecimila come lui. In quel numeretto c’era il suo orgoglio personale, il portare i soldi a casa o doverli chiedere ai genitori di sua moglie. Doverli invitare una volta in più a pranzo, o a cena, con quegli occhi gentili di sua suocera che gli toglievano il piatto da mano e dicevano «lascia, faccio io» e lo portavano in cucina allo stesso modo in cui dicevano «lascia, faccio io» e staccavano un assegno che avrebbe loro dato da mangiare, per poi un minuto dopo dare un consiglio, e poi un altro, e piano piano avrebbero acquisito spazio nella sua vita, e voce in capitolo. E lui voleva 25


apparire un uomo agli occhi di sua moglie, portarle dei regali, portarla a cena fuori. Non voleva venire degradato al livello di un bambino. Non voleva chiedere e peggio ancora non voleva che sua moglie dovesse chiedere. Sì, erano i genitori, ma era sempre chiedere, era sempre elemosina, era sempre «hai visto?», era sempre la prova che lui non sapeva provvedere anche per lei. E così pensava che anche lei in effetti avrebbe dovuto andare a lavorare. Figli non ne avevano. E se lei fosse andata a lavorare ci sarebbero stati ancora meno tempo e meno voglia di avere figli. Non gli sembrava normale che lei – con la sua laurea in un millennio in cui tutti hanno la laurea – dovesse andare a vendere il suo tempo a meno euro all’ora di quanti ne avrebbe presi la donna delle pulizie o la babysitter. E così in quel numeretto tondo tondo e chiaro, “10.000”, c’era anche l’assenza di un figlio. “Diecimila” diventava un killer silenzioso che uccideva suo figlio nel grembo di sua moglie, o persino prima, nelle loro teste. Lo cancellava dai loro cuori come un cassino tenuto in mano da un bimbo cancella una scritta 26


importante alla lavagna, e poi è dimenticata per sempre. La sua vita veniva spazzata via leggera come la polvere di gesso. Intanto era giunto sotto casa. Di fronte c’era un giardino con una rete metallica malandata da cui sporgeva qualche melograno troppo alto per essere colto e un paio di boccioli di rosa. Estrasse un coltellino dalla tasca, era il suo portachiavi, lo aprì e tagliò il gambo della rosa pungendosi con una spina. Succhiò il sangue dal proprio pollice e ripiegò il coltellino. Aprì il portone del palazzo e scese le scale che lo portavano al piano seminterrato. Girò la chiave mentre nascondeva la rosa dietro la schiena, mettendo sul viso il sorriso migliore che aveva in quel momento, si aggiustò gli occhiali con la mano e cercò la moglie dentro casa seguendone il profumo. Gli era sempre dispiaciuto che quando lei sentiva sbattere il portone non gli corresse incontro, ma di certo un giorno avrebbe imparato.

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EDIZIONI N

15,75 €

978-88-362 7-063-7

PE


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