Le Cose come stanno

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Le cose come stanno

di Nicola Pesce © 2019, Edizioni NPE © Nicola Pesce Tutti i diritti riservati. Collana Himself, 1

Ordini o informazioni: info@edizioninpe.it Caporedattore e Ufficio Stampa: Stefano Romanini ufficiostampa@edizioninpe.it Stampato presso MIG srl – Bologna nel mese di novembre 2019 Edizioni NPE – Nicola Pesce Editore è un marchio in esclusiva di Solone srl Via Aversana, 8 – 84025 Eboli (SA) edizioninpe.it facebook.com/EdizioniNPE twitter.com/EdizioniNPE instagram.com/EdizioniNPE #edizioninpe Da questo libro è stato tratto il film Things as they are per hydrafilm.it Script – 10 agosto 2008 Novelization – marzo 2018


Le cose come stanno di Nicola Pesce


Parte Prima


A vederla dall’esterno, si sarebbe detto che nessuno ci vivesse. La recinzione di pietra era coperta di muschio e in alcuni punti la pietra era franata, mostrando dei ferri arrugginiti al suo interno. Lungo il viale alberato di castagni ormai spogli che costeggiava la villa, i passanti volgevano sempre meno spesso lo sguardo verso quel giardino non curato, verso quell’enorme cancello in legno eroso dal tempo. Eppure, la villa che si poteva intravvedere all’interno conservava un aspetto nobile ed austero. Un bosco di alberi secolari stendeva i suoi rami a toccare il tetto di tegole scure, mentre un’edera prepotente si era impossessata della cimasa che faceva da tettoia all’ingresso. Sembrava che un profondo sonno gravasse su tutto quanto, insieme a quell’atmosfera solenne che pesa su tutte le cose belle quando – per una forte delusione – si lasciano morire. 9


Se quella sera un ladro avesse scavalcato il recinto e si fosse introdotto nel palazzo, vincendo la vecchia serratura del portone, al pian terreno avrebbe trovato un enorme sala da pranzo, con un tavolo di legno interminabile e, in fondo, un grande camino che emergeva da una parete di mattoni rossi. Salendo poi le scale a chiocciola, tutte foderate di moquette azzurro-oltremare sbiadito, avrebbe potuto vedere attaccate alle pareti bordeaux una infinità di locandine anni ’80 e ’90, e avrebbe capito che quella era la casa di un attore. In una c’era quest’uomo con le braccia incrociate e lo sguardo magnetico. Quegli occhi così glaciali avevano un fascino tale che persino un uomo sarebbe rimasto a guardarli incantato, in un misto di invidia, ammirazione e desiderio, chiedendosi chissà cosa avessero visto, quali donne avessero incatenato a sé, quali viaggi, quale vita lussuosa e quale incanto. In un’altra una donna dalle gambe chilometriche e i lunghi capelli biondi, in un tubino nero troppo corto si struggeva di amore per questo dio inaccessibile. Il suo vestito era un elegante spigato, il viso senza un accenno di pietà. Ed il suo nome si ripeteva ovunque: Reinard. In un’altra ancora, dalla grafica poco elegante, c’era ancora lui, che tentava ancora quello sguardo, ma con 10


minore successo, minore convinzione, troppo avanti negli anni e troppo basso il budget. Quel volto ormai stanco mostrava una crepa, come certe maschere di scena troppo usate, che sono passate dai grandi teatri a quelli di quartiere, vendute a poco prezzo. Dietro quel volto sembrava di non vedere più il personaggio di successo di un film, ma l’uomo stanco. Reinard, al primo piano, era seduto in un salotto più piccolo e curato. Davanti a lui aveva il suo computer portatile e, pochi metri più in là, il fuoco di un secondo camino era acceso. Il tavolo lucido su cui sta lavorando era cosparso di fogli e fotografie di giovani donne. Il respiro ritmico della fiamma inondava le pareti scure della sua luce calda, mentre sul divano una gatta rossastra si leccava una zampa con poca convinzione. *** Monika si stava preparando un caffè. Non ne aveva davvero bisogno, come quegli studenti che ne fanno argomento di conversazione e si vantano sempre di quanti caffè prendano al giorno, quasi fosse una sfida. Lei adorava il rito di pulire la moka sotto la fontana scrosciante che le scaldava le mani, estrarre il filtro e 11


sbattere via i fondi usati contro il bordo del cestino dei rifiuti, con due colpi secchi, sempre quelli. Poi riempirlo con cura maniacale, senza che cadesse fuori nemmeno un granello di miscela, stringere forte la moka e metterla sul fornello a una fiammella molto lenta. Adorava quel momento. Quella fiamma accesa aveva un valore quasi sacrale, come quel silenzio interrotto soltanto dalle rade auto che passavano in lontananza. A quell’ora non c’era nessuna delle sue coinquiline e perciò tutto le sembrava più bello. Dopo un rito così appagante, pensava, avrebbe potuto anche non berlo, il caffè. Eppure, era bello anche sedersi al tavolo della cucina, col librone aperto davanti, poggiare la tazza e berne un sorso ogni tanto, con la mano che reggeva la sigaretta. Nell’altra mano un evidenziatore, la testa un po’ inclinata e giù a studiare. Non le piaceva studiare, ma le piaceva quel momento, quei piccoli vizi che sentiva di meritare. Sentiva di meritarli perché stava facendo la cosa giusta. Dopo anni di grilli per la testa, dopo anni di prove, provini e tentativi, Monika aveva appeso le scarpe da ballerina classica al chiodo e aveva sofferto quel dolore che conosce solo chi abbandona una grande passione. La cucina era molto fredda, e Monika indossava un pigiamone dal colore discutibile, con sopra una vestaglia 12


ancora peggiore. Ma anche sforzandosi, non sarebbe riuscita a sembrare una ragazza brutta o trasandata, era semplicemente troppo perfetta in ogni suo aspetto. Dai capelli nerissimi e sempre lisci, a quegli occhi tutti neri, quasi senza iride, dove la luce amava fermarsi a giocare. La pelle bianca, da cui si intravvedeva talvolta qualche venuzza viola, creava un contrasto dal quale era difficile distogliere lo sguardo, e le sue labbra erano sempre un po’ socchiuse, quasi come se vi indugiasse costantemente un pensiero, un enigma o un dolore. Monika Fredella aveva ormai ventotto anni, sebbene ne dimostrasse soltanto venti, forse meno. Sul tavolo dove studiava, una formica molesta sbucò da dietro la tazzina, indugiò con le sue antennine su una briciola bianca, e Monika si incantò a guardarla. Stava per schiacciarla con un dito, ma quell’infinitamente piccolo la affascinava: quella cosina aveva un suo progetto ed un suo obiettivo, aveva afferrato quella briciolina e cominciato la sua traversata in diagonale attraverso il tavolo. Persa nei suoi pensieri Monika seguiva meccanicamente quel movimento, e dall’infinitamente piccolo le venne per un istante in mente l’infinitamente grande, l’universo, e tante altre cose che avrebbe trovato stupido dire a voce alta. 13


La formichina, pazientemente, arrivò dall’altro lato del tavolo, su un mucchio di fotografie che Monika aveva lasciato lì prima, alla rinfusa, dopo averle trovate per caso o per nostalgia. Abbondonò l’evidenziatore al centro del libro e prese una foto tra le mani, attenta a non disturbare la piccola lavoratrice. Com’erano belle le foto di tanto tempo fa, pensò. Quando erano di carta, e prima di stamparle ci pensavi due volte, e dopo averle stampate le conservavi per tutta la vita. Avrebbe voluto perdersi ancora in qualche pensiero inutile pur di non guardare quella foto che comunque aveva preso tra le mani, ma alla fine la guardò. Lì aveva sedici anni. Dio santo, era dodici anni prima. Dodici. Una eternità. Quella foto le parve così lontana nel tempo, assurda e distante che per la prima volta in vita sua non si riconobbe. Quanti sogni aveva quella bambina. Sì, bambina, perché solo ora si rendeva conto che a sedici anni era ancora una bambina e non sapeva niente della vita. Odiava quello sguardo concentrato e sereno. La foto sembrava un dipinto di Degas: una bella signorina vestita per la danza, fotografata a tradimento mentre era distratta, di profilo, con le sue labbra socchiuse dove ora le pareva indugiasse un pensiero, un enigma, ma non ancora un dolore. 14


Cosa pensi?, avrebbe voluto chiederle. Sono anni che danzi e cosa te ne è venuto? Che sogni confusi e bellissimi si agitano su quelle labbra, tra quelle ciglia? Lei conosceva la risposta, e ricordava di quando “non aveva un piano B”. Quando il suo unico pensiero era fare la ballerina alla Scala oppure l’attrice, e si esercitava tutti i giorni con una dedizione folle, e distrutta dalla fatica dopo la scuola di ballo andava a scuola di recitazione. E poi le attese interminabili dei provini, e i provini così veloci, quasi come quando accendi un fiammifero e la fiammella è così lenta a raggiungerti le dita che pare ci voglia una eternità. Poi quando succede dura un istante e lo butti via. In un’altra foto, a ventidue anni, la sua vita non era altro che un posacenere pieno di quei cerini spenti. A quell’età era ancora più bella, ed affioravano le prime insicurezze. Aveva smesso di fare danza ormai da diverso tempo. Qualche volta accennava ancora qualche passo, ma era per prendersi crudelmente in giro. Per dirsi: «Guarda quanto fai schifo, danzavi, sognavi, e ora non danzi più, stai perdendo elasticità, il piede non si inarca più come una volta, e forse è tardi per riprendere». È tardi, è tardi. Quante volte se lo era ripetuta a ventidue anni? Non poteva sapere quanto più tardi sarebbe stato a ventotto, quando non avrebbe accennato un passo 15


di danza né per gioire né per prendersi in giro, perché prendersi in giro ora l’avrebbe fatta soffrire troppo. Nell’ultima foto che ebbe il coraggio di prendere tra le mani quel giorno, c’era lei sul set dell’unico video musicale in cui fosse mai apparsa, in un impermeabile giallo vernice, cortissimo, con le sue bellissime gambe in mostra, a ballare sotto la pioggia da sola, come una dea, con le telecamere su di sé. Che settimana quella settimana di riprese! Come una droga e, poi, una infinita astinenza. A ventotto anni ce l’aveva un piano B. Studiare come i suoi genitori le avevano sempre detto. E adesso, con il suo pensiero volato da una formichina all’universo intero, e dal passato al presente, si ritrovava seduta a quel tavolo, a quella età, mantenuta dai suoi genitori e in quel pigiama. La vita si era insinuata dentro di lei, subdolamente, e adesso lei sapeva che per vivere avrebbe dovuto lavorare. Sapeva che non aveva sfondato e non c’era più tempo. Fu in quel momento che Monika decise, decise che non avrebbe più mandato il suo curriculum e le sue foto in giro, che non si sarebbe più umiliata, sì, umiliata, che non avrebbe più fatto ore interminabili di fila in attesa di farsi giudicare trenta secondi da una commissione di facce annoiate. La formichina era sparita all’orizzonte, lei riprese 16


l’evidenziatore, sospirò, inclinò il capo poggiando una tempia sull’altra mano e riprese a leggere. *** Il computer portatile poggiato sul tavolo nero e lucido, il camino scoppiettante pochi metri più in là. Reinard stava sfogliando numerosi curricula di aspiranti attrici sul proprio desktop. «Eh, tu sei un uomo… perché dovrei farti un provino?» disse ad alta voce. A furia di essere detto di essere bravo ed essere bello, Reinard aveva sviluppato un certo piacere nell’udire la propria voce e nel vedere la propria immagine, anche adesso che erano passati così tanti anni, anche adesso che le donne non si giravano più a guardarlo per strada, o non lo riconoscevano, anche adesso che per portarsi a letto qualche ragazza doveva stendere una infinita tela di ragno su internet. Aveva diffuso sui soliti piccoli siti la notizia di un casting molto riservato e sapeva di poter contare sull’alleata più fedele per gli uomini come lui: la statistica. Statisticamente, ad ogni suo “casting” aderivano dalle cento alle duecento aspiranti attrici. Statisticamente ne avrebbe scartato la metà borbottando frasi in cui la più gentile sarebbe stata: «Dio, quanto sei brutta!». 17


La sua gatta rossastra si affacciò timidamente sbucando con la testolina da dietro l’angolo di un muretto e lo guardò con aria interrogativa. «Kira,» le disse lui, «Guarda un po’ questa qui… niente male… sette anni di danza…» e qui rise, «Vale a dire che non ha fatto mai niente nella vita». La gatta lo osservò qualche secondo socchiudendo gli occhi, senza capire cosa stesse dicendo quell’umano, soppesò attentamente la possibilità di avvicinarsi a prendere qualche carezza. Lui la chiamò, distrattamente, gli avrebbe fatto piacere poterla accarezzare, ma Kira era irremovibilmente persa nelle sue valutazioni feline. Certo non pensava alla statistica Reinard, mentre scorrendo la rotellina del mouse continuava a borbottare: «Tu sì… tu noo… no, sì». Infine, con un teatrale «Ok!» ed un gesto ancora più teatrale, mandò in stampa le foto di tre ragazze. Al primo rantolo della vecchia stampante poggiata lì vicino, la gatta tirò indietro la testa e sparì dietro al muretto senza emettere un suono. Man mano che uscivano le stampe, Reinard vi annotava sotto i numeri di telefono ed i nomi. Non era un uomo all’antica – e queste nuove tecnologie gli facevano tanto comodo – ma era un uomo antico, e non era in grado di evitare di stampare le foto, non era in grado 18


di annotare i numeri di telefono altrimenti che a penna. Lui aveva bisogno della carta tra le mani. In una foto c’era una biondina dagli occhi chiari e lo sguardo tagliente, in un’altra una tipica donna mediterranea, abbondante sotto ogni punto di vista, nell’ultima – che la stampante affaticata stava cercando di tirar fuori – una donna dai capelli neri e lucenti, e dagli occhi nerissimi, quasi che tra la pupilla e l’iride non vi fosse differenza. Reinard si alzò con fatica, e mentre lo faceva ebbe per l’ennesima volta quel pensiero. Un pensiero che un tempo era stato più discorsivo dentro di lui, aveva richiesto meditazione, aveva sollevato dubbi. Adesso, a furia di tornare una, dieci, cento volte al giorno, era diventato familiare e privo di parole come un lampo di dolore, e se avesse dovuto riassumerlo senza aver tempo di pensare avrebbe detto: «Ma chi me lo fa fare di andare avanti?». Ma poi la bellezza. La bellezza ancora una volta lo aveva salvato o condannato. Aveva preso tra le mani la foto della biondina, e si abbeverava alla sua bellezza come un’automobile che faccia rifornimento. Il colore chiaro di quegli occhi stranieri, il taglio del viso, lo spaventava e lo attraeva, gli faceva pensare ad un lupo, a un animale pericoloso. E lui voleva dominare quel lupo, voleva addomesticarlo, voleva che fosse suo. 19


Non gli piaceva averne paura. Se quel lupo fosse stato suo, allora lui forse non si sarebbe sentito così vecchio. Quella bellezza in passato gli aveva rovinato la vita e poi gliela aveva resa meno orribile. Come una droga poteva spingerlo a qualsiasi cosa, a rinnegare le promesse, a camminare sui morti e ridere di loro, l’avrebbe reso vile o audace, e avrebbe reso le sere come quella meno grevi. Prese le prime due foto che erano uscite mentre la vecchia stampante continuava il suo lavoro con sempre minore energia. «Ma ce li hai davvero diciott’anni, con questa faccia da stronzetta?» disse, mentre con l’altra mano dietro la schiena cercava di stiracchiarsi dopo essere stato troppo tempo seduto. Facendo “no” con la testa prese a passeggiare nel piccolo salone appartato del suo primo piano, intanto che la gatta gli passava tra le gambe. Nemmeno la ragazza mediterranea soddisfaceva a pieno i suoi gusti. «Tu mi causerai problemi, lo so già. Hai una faccia… troppo intellettuale, troppo convinta…» disse rivolgendosi alla foto, poi la gettò sul tavolo. «Convinta di che, vorrei sapere». Si chinò ad accarezzare la gatta, che non aspettava 20


altro, e continuava a seguire le sue mani ogni volta che lui faceva per allontanarle. «Eh, Kira?» le chiese, «Quelle due sono proprio a rischio, no?». Ormai le fusa della gatta avevano vinto del tutto il suo animo arrendevole e si abbassò fino a sedersi sui talloni per poterla accarezzare meglio. Ma non smetteva di commentare. «La stronzetta, lì,» disse indicando il tavolo come se la gatta fosse davvero un interlocutore credibile, «rischia di mandarmi in galera… e l’altra…». Reinard si tirò su, con ancora maggiore fatica che prima e un altro lampo di dolore lo percorse. Si avvicinò alla stampante trascinando i passi e vide l’ultima fotografia appena fuoriuscita, l’ultima attrice. «Guarda qua!» gridò. «Questa!» Aveva degli occhi neri profondi e meravigliosi, dove la luce amava giocare. Sarebbe stato facile annegarci dentro, avrebbe detto un poeta da strapazzo, e difficile tirarsene fuori, ma Reinard non era uomo da badare a questo genere di cose. «Dov’è il mio telefono!» gridò. A furia di essere detto di essere bravo ed essere bello, aveva sviluppato un certo piacere nell’udire la propria voce. *** 21


La tazzina del caffè era ormai vuota, ed era stata degradata a posacenere. Pur avendo quello ufficiale a meno di mezzo metro da sé, Monika provava un benessere particolare a ciccare nella tazza. Era una di quelle cose che aveva visto fare alle coinquiline che, nel corso del tempo, si erano alternate nelle altre stanze di quella casa come le ombre di una lanterna magica sui muri. Era una di quelle cose che aveva visto fare ad altre persone, con naturalezza, e farlo la faceva sentire per un attimo simile a loro. Anche questo, le sembrò un piccolo enigma, ma poi le squillò il cellulare ripescandola dal lago opaco che erano i suoi pensieri. Sbuffò e si guardò intorno, non lo vedeva. Allora poggiò a metà la sigaretta sull’orlo della tazzina. Era tanto il silenzio in quella casa, il silenzio di una persona sola e insicura, che ci si sarebbe potuti incantare a guardare la sigaretta che, lì abbandonata, si fumava da sé. Monika si alzò e sparì in un’altra stanza, per poi riemergere in cucina impugnando il telefono e rispondendo. Evidentemente la comunicazione era disturbata, non riusciva a capire tutto. «Ma dove sei!?» imprecò, «Pronto?». Poi alcuni passi nervosi. «Sì, e io sono Nicole Kidman…». Portò una mano alla spalliera della sedia e la lasciò lì. 22


Si sentiva come paralizzata. La sigaretta ormai si era fumata per metà e restava ancora sugli orli della tazzina per puro miracolo. «Ma dai, forza, chi sei? Sei un amico di Luca?». Dall’altro capo del telefono, Reinard sorrise, comodamente seduto. Sapeva che il miglior cacciatore è quello che si fa inseguire dalla preda e non quello che la insegue, e così si prese il suo tempo, e parlò con lentezza, scandendo le parole: «Signorina Fredella, ho capito. Guardi, io non ho tempo da perdere. Facciamo che le lascio il numero della mia assistente…» «Facciamo che le credo,» lo interruppe Monika, «fissiamo un appuntamento». Reinard si alzò lentamente dalla sedia: «Domani alle cinque in viale San Donato, 17». «Così lontano?», gli rispose, «Veramente domani alle cinque io…» «Domani alle cinque andrà benissimo,» tagliò corto lui. «Rimaniamo così?» «D’accordo,» disse lei con la voce che le tremava, «ci sarò». Rimase in piedi qualche secondo, immobile, poi si rese conto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo e riprese a respirare con affanno. 23


Prese l’evidenziatore e sottolineò una intera frase, senza nemmeno averla letta. La sigaretta aveva fatto nevicare un po’ di cenere intorno ed era caduta nella tazzina, arrendendosi. Credeva a quella telefonata. Credeva che fosse stato proprio Reinard a telefonarle, quell’attore un po’ anziano ma ancora così bello, di cui aveva visto decine di film con la madre, incantandosi in quegli occhi, in quelle storie. Era come se l’intera Hollywood avesse bussato alla sua porta in quel momento. E questo la offendeva. Non era quello il momento. Quella telefonata sarebbe dovuta arrivare dieci anni prima. Adesso aveva abbandonato i suoi sogni, o almeno ci stava provando. Adesso si era dedicata a quel famoso “piano B” che tanto avevano promosso i suoi genitori in passato. Adesso aveva chiuso le speranze in un cassetto e ce la stava facendo, ad essere una qualunque. Adesso semplicemente non era giusto. Da tempo aveva smesso di andare ai provini, aveva smesso di mandare i curricula in giro. Aveva smesso di mandarli perché non voleva sperare. Perché quel segno divino arrivava quando la speranza era finita? Arrivava senza bussare e senza gioia, senza l’attesa, senza l’aura, senza la paura e la trepidazione. Arrivava come un bacio non richiesto, quasi una 24


violenza. Il suo primo impulso fu di chiamare sua madre ma si trattenne. Erano finiti i tempi in cui la madre gioiva con lei per una parte ottenuta, per un ciak andato bene. Erano finiti i tempi in cui il padre ostentava orgoglioso la sua ragazza prodigio. Adesso la madre avrebbe preso questo nuovo elemento come un segno dell’incostanza della figlia. Adesso la madre avrebbe taciuto per qualche secondo, e avrebbe detto qualcosa di buono e di generico, senza convinzione. Accese un’altra sigaretta e sentì la sua testa troppo leggera o troppo pesante. I suoi occhi poggiati nel vuoto guardavano il fumo danzare nell’aria come un dragone cinese e si perdevano a fissarlo senza davvero vederlo. Quando era piccola e giocava alle palle di neve, le si ghiacciavano le mani e, subito dopo, diventavano roventi come se le avesse messe sulla brace. Allo stesso modo si sentì avvampare in viso quando realizzò cosa fosse appena successo. Allora non ci fu più da pensare, saltò in piedi facendo stridere la sedia e cominciò a danzare per la cucina. Improvvisamente quei mobili scadenti e dai colori pacchiani non erano più la sua prigione, ma la sua gioventù. Non erano più la beffa finale dopo la delusione di dover rinunciare a recitare, ma erano un pezzo della 25


sua vita che un giorno sarebbe stato bello ricordare. Non erano più l’approdo di trent’anni di fallimenti, ma uno degli ultimi di trent’anni di sacrifici. Quella vestaglia orribile non le sembrò più l’abbrutimento di chi ha rinunciato ai propri sogni, ma le temporanee vesti di una principessa in incognito. Le sue coinquiline non furono più facce che vedeva parlare in playback di cose che non le interessavano, non furono più elementi di una umanità balorda di cui lei non sentiva di far parte, ma divennero persone che lei aveva studiato con affetto, e da una aveva imparato un certo sorriso, da un’altra un accento del sud, da un’altra ancora il modo di ciccare la sigaretta nella tazzina. Improvvisamente si rese conto che, in tutti quegli anni di oblio, non aveva mai smesso di studiare da attrice. Magari si era sbagliata, magari era stato tutto giusto così, magari ogni cosa inspiegabile nella sua vita avrebbe trovato ora una spiegazione chiara ed esaustiva. Alzò il telefono, compose un numero e, come quando era ancora una bambina e tutto era possibile, gridò: «Mamma!» e la mamma le rispose come quando era ancora una bambina. *** 26


Reinard si alzò dalla sedia, prese tra le mani la foto della ragazza, si versò ancora da bere e chiamando la sua gatta brindò col calice al cielo: «Kira… a Monika Fredella!». Kira alzò pigramente il capo con gli occhi socchiusi, lo guardò con disinteresse e tornò a riposare. Ormai era brillo e le gambe non lo reggevano, ma il buonumore era sceso dentro di lui goccia a goccia. Avanzò verso il camino col liquore in mano e si incantò a fissarne la brace. Quando si riprese, si accorse di aver finito un altro bicchiere e salì al piano superiore dove c’erano numerose camere da letto e, tra queste, la sua. Ogni volta che si svestiva sentiva quel piacevole odore di tessuti, che nel corso del tempo era arrivato a somigliare all’odore che aveva avuto suo padre. Indossò un bellissimo pigiama di seta, e mentre lo abbottonava si guardò la pancia. Una volta aveva degli addominali scolpiti, e le camicie non facevano difetto quando stringeva la cintura. Adesso il suo fisico era cambiato, ma non vi pensò troppo. Accese la lampada del comodino e spense la luce principale. Rimase un po’ seduto al lato del letto fissando il vuoto. Nel muro vi era una crepa sottile. L’aveva vista quasi tutte le sere da tanti anni. Certo, pensò, ricordava 27


quando quel muro era perfetto, eppure per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare il primo giorno in cui l’aveva vista. Guardò le sue mani, che erano poggiate sulle gambe. Aveva sempre avuto delle belle mani; adesso su di esse c’era qualche macchia. Sospirò e si distese, spense la lampada, e il sonno fu clemente e giunse subito. *** La mattina seguente, Monika accese la luce del suo bagno. Indossava soltanto un intimo nero di pizzo che faceva un grande contrasto con la sua pelle bianca. Solitamente si sarebbe vestita prima di truccarsi, ma quel giorno voleva vedersi e sentirsi bella. Lo specchio del bagno era stato attaccato alla parete troppo in basso da chissà chi, e lei doveva sporgersi in avanti per vedere bene le proprie labbra intanto che metteva il rossetto. Nei film, l’attrice di turno lo tirava fuori dalla borsetta e appoggiandolo alle labbra, come per un veloce bacio, riusciva in un attimo a stenderlo alla perfezione con un solo movimento. Lei invece ci metteva un po’ a stenderlo bene, e aveva sempre paura di sbagliare qualcosa. Però quel giorno si piaceva, voleva piacersi. Immaginò 28


un qualche film neorealista in cui un bimbo o un ragazzo la sbirciasse dalla stanza accanto, attraverso la fenditura di una porta socchiusa, mentre si truccava, mentre si aggiustava il seno nella coppa, mentre si riavviava i capelli. Avrebbe voluto vivere più intensamente quel momento, per poterlo ricordare meglio un giorno futuro, eppure sembrava che nemmeno un pensiero le passasse per la testa. *** Quando scese dalla macchina fu diverso. A ogni passo le sembrava di perdere l’equilibrio su quei tacchi che non trovava più comodi come una volta. Di fronte a una villa così solennemente ricca provò prima una invidia mista ad odio, e poi un senso di inadeguatezza per la sua auto piccola e vecchia, per i suoi vestiti e per tutta la sua persona. Che vita aveva fatto quell’uomo? Di che materia era fatta la sua vita e quanto differiva da quella di Monika in ogni singolo aspetto? Era giusto tutto questo? Era giusto che lei studiasse affittando una camera in un appartamentino di periferia, mentre altrove esisteva una villa così sconfinata, una casa dalla facciata così imponente da essere quasi tetra? 29


Si sentiva offesa. Era giusto che lei dovesse condividere l’intimità delle sue giornate dividendo il tetto con delle persone che non conosceva – e che cambiavano quasi ogni anno – dividendo i ripiani del frigorifero, il bagno e la spesa della carta igienica? Pensò a una sua coinquilina che per fortuna era durata poco, tanti anni prima. Quanto l’aveva odiata. Una volta era tornata a casa prima del previsto e l’aveva trovata ad indossare i suoi vestiti. A quel ricordo si sentì accapponare la pelle come percorsa da un’ondata di calore che le avvampò fino in viso. Sì, sentiva che era giusto. Reinard era nato povero e si era fatto strada nel tempo: da bambino aveva avuto a malapena di che mangiare e dopo, alla sua età, era già una star di Hollywood, mentre lei non soltanto non aveva raggiunto quella mèta, ma non aveva raggiunto alcuna mèta. Lei non era a nessun punto, lei non era niente. Capì che si sentiva offesa da sé stessa, dal suo non aver concluso nulla di buono. Nulla fino a quel giorno. Era tutta vestita di nero. Indossava una gonna che le scendeva fino alle ginocchia, con un piccolissimo spacco su una gamba, delle calze scure ed una maglia con una cerniera al centro e un po’ di paillettes. Le sembrava di camminare su di una fune tesa tra due grattacieli – quello del successo e quello del fallimento – pronta a cadere da un momento all’altro in un vuoto 30


indefinito che era anche peggio, fatto di comparsate in tv locali via via più piccole, di piaceri chiesti, di mille progetti nati morti, e di un lento planare chiamato ‘accontentarsi’, graduale, dal riprendere gli studi e sforzarsi di sognare una carriera professionale, al perdere anche quella speranza per colpa della crisi e scendere sempre più giù, verso lavori più umili e più precari, fino a trovarsi a rinunciare a tutto, a una certa età, e tornare dai suoi, al sud, e vivere in casa con loro, o con quello che di loro sarebbe rimasto, aspettando che morissero per fare l’ereditiera povera, e girare tra le mura di casa loro in pigiami simili a quello che aveva già, facendo la spesa al discount, sparando fuori qualche figlio. Si era già dipinta ogni cosa senza alcuna clemenza, intanto che i suoi passi avanzavano verso il portone della casa. Al suono dei propri tacchi si sentì ancora più piccola, più inopportuna, le sembrò quasi di disturbare il silenzio della villa, lei, piccola cafona di periferia. Eppure, pensava, quel giorno potevano cambiare le cose. In quell’abisso in cui stava precipitando il suo pensiero, spiegò improvvisamente le ali della sua fantasia e riprese quota cominciando a sognare, intanto che il rumore dei suoi tacchi scolpiva l’aria. Erano i tacchi di una grande attrice, e lei era orgogliosa di sentirne il suono, di immaginarsi alla prima di un film, o su di un red carpet tra mille flash. 31


Così, col cuore in subbuglio, funambolo tra “la mia vita è un successo” e “tutto è finito”, suonò il campanello e sentì l’ansia montarle dentro. Quel giorno si decideva. Avrebbe dato chissà cosa in quel momento per ritrovarsi di nuovo nella cucina a studiare per l’esame, con la tazzina di caffè accanto, per assaporare ancora un giorno della sua vita insipida, per crogiolarsi ancora un’ora in quello che adesso le pareva un lusso irraggiungibile: una vita senza grandi speranze. Ma, quel giorno, si decideva.

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