Capitolo 2
Tutto cominciò a fine inverno 2020. La crisi che aveva investito tutto il mondo economico occidentale non accennava a scemare, non dava neanche segnali positivi di ripresa o di innalzamento di qualche punto percentuale del pil. Il continente africano si stava trasferendo in massa in Europa. L’Italia era stremata. Il mondo arabo era in fiamme. Gli attentati di Parigi, di Londra e di Roma avevano istillato il terrore nella vita della gente. Terrore di uscire di casa, di andare al cinema, allo stadio, al ristorante. Terrore di aggregarsi con altre persone. Il terrore di andare in un locale a divertirsi. L’Europa, finalmente, dovette smettere di far finta di non vedere ed intervenì. Si chiusero le frontiere e iniziò il rastrellamento dei profughi. Le navi della guardia costiera non intervenivano più per salvare la gente in mare: quei poveri cristi stanchi e affamati che speravano in una vita migliore nel vecchio continente non impietosivano più. Le vedette intervenivano per mitragliare i barconi in mare aperto. Nessuno osava più obiettare razzismo e assassinio, si erano resi conto che i profughi erano semplicemente troppi. Li rastrellarono in Italia, in Francia, in Germania, in tutta Europa. Li stivarono in capannoni aspettando di decidere cosa farne. Il mondo arabo minacciò di tagliare il petrolio. L’Europa sarebbe rimasta 13
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a secco e allora il vecchio continente rinunciò all’idea iniziale di dare fuoco ai capannoni, optando per il rimpatrio. Decisero che il problema sarebbe stato eliminato operando in Africa. Niente più cupi ayatollah e grotteschi dittatori, niente più guerre e genocidi. Volevano ubriacarsi di democrazia e di stile di vita occidentale? Bene, lo avrebbero fatto. L’Europa gli regalò le fabbriche. Avrebbero lavorato. Non ci sarebbero stati più villaggi sperduti nella savana, ma città industrializzate per tenere il popolo africano in attività, salariato, con tante belle cose inutili e lontano dal vecchio continente. Libertà per tutti, benessere per tutti, vivere come occidentali, consumare come occidentali. Il tutto consumando petrolio. Che grande errore che fu. Fu l’inizio della fine. La fine del mondo come lo conoscevamo, come eravamo abituati a viverlo. Non capirono che il pianeta è fatto di fragili equilibri, che la base della nostra ricchezza e prosperità si basa sulla povertà di altri. Le nostre belle case tecnologiche, calde d’inverno e fresche d’estate, si basano su capanne di fango. L’acqua che esce dal rubinetto si basa su acqua che viene raccolta col secchio in un fiume putrido. Il pianeta con le sue risorse limitate, l’ecosistema, le risorse alimentari, la terra da coltivare, è tutto un equilibrio. Un equilibrio tra chi si abboffa e chi muore di fame. Non c’è pane sufficiente per tutti gli abitanti del pianeta. Il prezzo del petrolio s’impennò immediatamente. L’imperativo categorico delle multinazionali è guadagnare. Sono problemi dell’utilizzatore di benzina e gasolio se li si paga il doppio, il triplo. La multinazionale deve guadagnare, è un impegno concreto preso con i suoi azionisti, senza però considerare che il gasolio serve per i trasporti e il prezzo del trasporto incide anche sulla merce. Triplica il gasolio, raddoppia il prezzo dei beni di prima necessità. 14
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Gli idrocarburi producono energia elettrica e l’energia alimenta le fabbriche, e allora il prezzo triplica. Le civiltà occidentali non si sono mai preoccupate seriamente di risolvere il problema energetico. Le fonti alternative gratuite? Sole e vento, ma chi se ne frega. E poi, la mazzetta dal polo petrolifero non arriva più. No, petrolio è sempre stato e petrolio sarà, tanto ci sono gli sceicchi amici e i colonnelli a tenere buoni i beduini. Figurati se non lo danno a noi il petrolio, loro camminano a dorso di cammello. Il petrolio serve per le nostre belle case, per i nostri sei televisori per famiglia, per le nostre macchine superaccessoriate, per l’idromassaggio, per l’aria condizionata, per i computer, per la lavatrice, l’asciugatrice, la lavastoviglie, per la playstation, per il frigorifero sempre pieno, per lo scaldaletto, per ricaricare il cellulare, l’iPod, il vibratore. Serve alle nostre strade sempre illuminate, alle discoteche, ai casini, le sale da salsa e merengue, i pub e i lounge bar. Loro queste cose non le hanno, hanno solo il petrolio e la fede. Allora a noi il petrolio e Dio per tutti. I primi segnali mi folgorarono. Mi preoccupai ed iniziai a pensare a cosa era veramente necessario per la vita dell’essere umano. Lo spogliai di tutte le sovrastrutture costruitegli addosso dai decenni di benessere che ci separano dall’ultimo grande conflitto mondiale. I vestiti tecnologici costruitici addosso dal lavaggio del cervello operato dai media, dal desiderare gli status symbol, quelle cose che se non hai sei out, fuori dalla società: un uomo, se si può chiamare uomo quel patetico essere che guida un’auto vecchia, che non ha un iPhone o un 56 pollici al plasma, che lava i suoi vestiti vecchi in una vecchia lavatrice, prende il suo cibo da un vecchio frigorifero.
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Un essere così appare polveroso e stanco, un’ameba senza stimoli che non può stare in società. Un outsider. Alla fine capii che eliminando vestiti alla moda, stronzate tecnologiche, ma anche auto, libri, film, andando alla radice, quello che muove l’uomo è la fame. Il cibo, per placare l’istinto di sopravvivenza. La fame atavica. E armi per difenderla. Nei giorni seguenti vidi segnali sempre più preoccupanti. Il mondo non ha risorse sufficienti a soddisfare i desideri di 9 miliardi di ricchi. Non basta il petrolio e non basta l’ambiente già deteriorato. Non basta la terra a produrre per tutti e sfamare gli animali, non bastano gli alberi a dare legna per tutti, non basta il gas, non basta niente per questo stupido globo sovrappopolato. Quando si esaurirà quest’ubriacatura del superfluo tutti si sveglieranno con il mal di testa del doposbronza a pensare ad un’unica sola esigenza reale: riempire lo stomaco. La fame sarà il nuovo governo delle nazioni. Il mio nuovo ordine di pensieri mi allontanò dagli amici, non capirono i miei discorsi, mi liquidavano sempre con un qualunquista: «Ma pensa alla salute». Ci stavo pensando alla mia salute. Anche Elena non capì. Questo è l’unico dispiacere che mi è rimasto. L’amavo, l’amavo molto, troppo. La mia donna, quella che a breve sarebbe diventata mia moglie, la mia speranza che il mio corpo, il mio sangue, sarebbe sopravvissuto alla mia morte, riflettendo la mia immagine, le nostre immagini plasmate insieme, nei nostri figli, la speranza di esistere anche quando l’inutile scatola del nostro essere fosse poi diventata carne per i vermi, esistere nei secoli, nelle generazioni. Elena non mi capì, non capì i miei discorsi, il mio piano la spaventò. «Pazzo», mi disse, «stai diventando pazzo». 16
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Non ce la fece a legare la sua vita alla mia e mi lasciò. Il dolore fu immenso, la perdita della persona che viveva in me, nelle mie vene, nei miei nervi, in tutto. Le nostre menti non avevano un legame forte in modo che i miei pensieri fossero i suoi. Quando chiuse la porta, uscendo per sempre dalla mia vita, mi inginocchiai e urlai come un animale ferito. Fui tentato di desistere dal mio piano, di convincermi di un mio errore di valutazione, di prenderla con la stessa filosofia qualunquistica degli altri. Pensai che fosse un’inutile sopravvivenza senza Elena, senza l’amore, che se dovevamo morire era meglio farlo insieme, sarei stato disposto a sacrificare il mio corpo per sfamarla, per regalarle qualche altro inutile giorno di vita, ma, alla fine, l’istinto animale vinse. La fame trionfò sull’amore. Il mio piano era estremamente semplice: non arrivare impreparato a quando la fame sarebbe diventata la nuova società. Accumulare cibo, scorte di cibo che garantissero la mia vita e armi per difenderle. Dovevo procurarmi del denaro, il mio modesto impiego non mi consentiva di risparmiare granché. Sapevo dove procurarmelo. Passeggiando in giro per la mia città avevo notato, nell’arco di neppure cinque anni, il nascere e moltiplicarsi, come i funghi dalle spore sparse dal vento, di istituti per accedere al credito facile, le finanziarie. Ho sempre detestato questa forma di credito così facilmente accessibile. Una volta la società era divisa in classi a tenuta più stagna: chi aveva il denaro e chi no. Questo portava i ricchi a possedere alcune cose e chi non ne aveva le possibilità materiali a non pensarci proprio.
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Così i ricchi facevano sfoggio delle loro macchine di lusso, dei loro orologi svizzeri, dei vestiti alla moda, facevano le vacanze a Cortina o in Versilia, conducevano le loro vite facili senza problemi più seri di come farsi una bella abbronzatura; i poveri invece si spaccavano la schiena, desideravano quello che potevano permettersi, il resto rimaneva relegato nel regno dei sogni della vita degli altri che leggevano su Grand Hotel, seguendo, però, gli insegnamenti dei padri e dei nonni, dei bisnonni e dei trisavoli: il poco che guadagnavano non lo spendevano tutto, mettevano da parte qualcosa per le emergenze. Insomma risparmiavano, lo mettevano dove gli pareva, sotto la mattonella, nel libretto alla posta, in un fazzoletto nella credenza, ma, al momento, sapevano dov’era e ci potevano fare affidamento. Se poi, nel corso dell’anno, nessuno si era beccato una polmonite, una carie, un tumore, si spaccava il salvadanaio e ci si faceva passare uno sfizio. Adesso no. Con l’accesso facile al credito si vive sul debito. Chi non ha mai avuto molto è pieno di desideri repressi. Esce dalla lampada un genio che ti dice: «Non ti preoccupare, da ora in poi potrai avere tutto ciò che hai sempre visto agli altri, a quelli ricchi che non muovono un dito per guadagnare quello che hanno e che tu, finora, non avresti mai potuto avere. No, non voglio la tua anima, quella non vale niente, neanche Mefistofele la vorrebbe, niente patti siglati col sangue, mi basta solo una bella firmetta sotto un contrattino, sai scrivere, vero? «Tu mi vendi il tuo quinto dello stipendio e io ti do ciò che vuoi, con un piccolissimo interesse». E tu firmi. Vendi anima e corpo al demone della pubblicità. Esci obnubilato dalla finanziaria, le lacrime di gioia che non vogliono saperne di arrestarsi, ipnotizzato entri nel primo negozio di telefonini e compri l’ultimo, l’ultimissimo modello, quello che è 18
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solo per pochi, e non lo compri solo per te, ma per tutta la famiglia. Sì, perché tu hai una famiglia monoreddito a 1.500 euro al mese, se ti va bene, e hai moglie e tre figli a carico di 4, 7 e 9 anni e un affitto da pagare e le bollette. Ma non fa niente, che non si dica che la famiglia Rossi è una famiglia di pezzenti e mi raccomando, bimbi, a scuola il telefono superaccessoriato ultimissimo modello, per molti ma non per tutti, fatelo vedere per bene, tutti devono sapere. E poi la macchina, come posso io, amorevole padre di famiglia, darvi il dolore di farvi vedere dai vostri compagni scendere da un simile catorcio procurandovi le risate di scherno di quei bastardi. No, la compreremo nuova, bella, metallizzata, col navigatore, gli interni in pelle, gli inserti in radica, il lettore dvd nei poggiatesta, come quella dell’ingegnere, dell’avvocato, del notaio. E tu, moglie, guardati come sei ridotta, fila subito in clinica, massaggi anticellulite, fanghi, liposuzione e, visto che ci troviamo, un bel ritocchino alle tette. Ragazzi, quest’estate basta con la solita pensione di Cesenatico, quest’anno andremo a Sharm, nell’albergo di lusso, serviti e riveriti e, mi raccomando, abbronzatevi, che tutti possano vedere, tutti devono sapere chi siamo. Sì, una banda di emeriti cretini, stai ipotecando il futuro dei tuoi figli, ma che fa… tanto c’è la tessera, la infili nella macchinetta ed escono i soldi, senza sapere che quei soldi sono maledetti e li dovrai restituire fino all’ultimo centesimo e con il 17% d’interesse. Idiota. Io non li avrei restituiti, non tutti almeno, fino a quando il mondo e, con esso, il sistema bancario non sarebbero falliti. Mi recai in una finanziaria, quella che mi avrebbe dato più soldi. Sulla vetrina c’era una vetrofania raffigurante un uomo in camicia e cravatta che sorrideva fraterno e tendeva la mano, come a dire vieni da noi, sei tra amici pronti ad aiutarti. Sorrisi ed entrai. 19
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La porta introduceva in una sala d’attesa stipata di gente, tanti, tantissimi illusi persi nel sogno del possesso, oltre la sala c’erano gli uffici degli impiegati, scrivanie separate da un divisorio per la privacy del cliente. La privacy venne però interrotta dalla voce alterata di un uomo: «Come? Non potete concedermi il finanziamento?». A cui rispose la voce istituzionale di un’impiegata: «Mi scusi signore, ma al terminale risulta che lei ha già 8 finanziarie attive, ha raggiunto il limite». «Il limite?». La voce dell’uomo saliva sempre più di tono. «Ma quale limite, non mi avevate detto che c’era un limite, io ho programmato la mia vita sui vostri finanziamenti, mi avete illuso e adesso non volete più darmi soldi, è questo che vuole dire?». L’impiegata, ferma nelle direttive aziendali: «Esatto signore, non possiamo concederle altro credito finché non rientra in almeno due finanziamenti già in corso». L’uomo allora si mise a urlare: «Ma come faccio? I finanziamenti più vecchi scadono solo tra un anno! Come posso stare un anno senza un altro finanziamento, un anno senza cambiare telefonino. Ho promesso a mia figlia che le avrei comprato l’ultimo modello touch screen, lei lo ha già detto alle amiche, adesso come farà, la prenderanno per bugiarda, la esilieranno perché non può permettersi un telefonino nuovo e lei vuole questo? Ho promesso a mio figlio il portatile, a mia moglie la pelliccia. Se non mantengo le mie promesse cosa penseranno di me? Eh, le sue direttive aziendali questo non lo dicono? I miei figli mi odieranno, crederanno che il loro padre è un fallito, mia moglie mi lascerà, ne sono sicuro, si metterà a fare la troia con qualcuno che le può comprare quella cazzo di pelliccia. «La prego, concedetemi un solo finanziamento, poi aspetterò di averli restituiti tutti prima di chiederne altri, la prego mi aiuti, mi aiuti». 20
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L’uomo iniziò a piangere, prese le mani della donna e, baciandole, piagnucolò: «La prego, la prego, lo faccia per i miei figli, per la mia famiglia, la prego». «Mi spiace», disse l’impiegata, «ma le direttive aziendali non prevedono la pietà». Liberò di scatto le mani dalla stretta dell’uomo e con uno schiocco secco timbrò la richiesta di credito con un timbro rosso rettangolare con la parola infamante, a caratteri grandi, maiuscoli: “rifiutato”. L’uomo rimase per un attimo annebbiato, si prese la testa tra le mani e all’improvviso scattò come un animale ferito che tenta un’ultima, disperata sortita: prese l’impiegata per la gola urlando: «Puttana, maledetta puttana, non mi puoi rovinare così, non posso perdere tutto per colpa tua!». La scaraventò a terra tentando di strangolarla mentre la donna si dibatteva freneticamente, affamata d’aria. Entrò di corsa la guardia giurata che stazionava all’esterno della finanziaria, tentò di strappare l’uomo di dosso all’impiegata ma era impossibile, l’uomo era un indemoniato, un piccolo padre di famiglia era ricorso alla forza della disperazione e adesso era un demone rapace assetato di sangue. La guardia prese il taser dalla custodia di pelle che portava alla cintura e lo avvicinò al collo dell’uomo facendo partire una scarica elettrica da 50.000 volt. L’uomo si accasciò, ancora scosso dalle convulsioni provocate dalla pistola elettrica: si era pisciato addosso. Lo guardai un attimo con immensa pietà, poi venne il mio turno allo sportello numero 15. Chiesi ed ottenni 20.000 euro di finanziamento da restituire in dodici anni, già, come se il mondo avesse ancora dodici anni di vita. Dissi che mi servivano per comprare la macchina nuova, per calarmi più nella parte. Assunsi il tono narcotizzato degli ipnotizzati dal possesso e aggiunsi che la mia auto era vecchia, aveva quasi un anno. 21
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Il volto dell’impiegato si rilassò visibilmente e stampò il suo timbro verde con la parola “concesso” sulla mia richiesta. Insomma, mi diedero i soldi in cambio di qualche piccola garanzia: la mia casa, il congelamento del mio stipendio. Forse, se avessi chiesto di più, come garanzia avrei dovuto offrire un rene, l’impiegato mi avrebbe condotto al gabinetto, mi avrebbe chiesto di urinare, per cortesia, davanti a lui ed avrebbe osservato la mia minzione per controllare se non avessi problemi di reni. Comunque avevo i soldi. Uscii contento dalla finanziaria, forse quella era la gioia degli schiavi della società dei consumi quando avevano in mano gli agognati soldi, forse la loro era molto più grande, la mia era una gioia modesta, controllata dal dovermi attenere minuziosamente ad un piano prestabilito, studiato in notti insonni, per il nobile fine di salvare la pelle e forse, non vorrei peccare di modestia, per essere una speranza di far rinascere il mondo, un mondo che ha imparato la lezione. Possibilità a cui miravo ma che vedevo alquanto remota. Appena il denaro mi fu accreditato in banca provai ad immedesimarmi negli sciocchi fruitori dei finanziamenti, volevo cercare di capire quale molla li spingesse a gettare via il denaro in oggetti inutili, senza che la ragione li fermasse in tempo. Mi diressi in un ipermercato, al negozio di elettrodomestici. Guardai la vetrina zeppa di scintillanti cellulari con i cartellini che indicavano il prezzo e ne esaltavano le qualità, la memoria, la fotocamera, l’accesso ad internet, i giochi, l’auricolare bluetooth, il lettore mp3. Mi chiesi se, per puro caso, questi telefonini servissero anche per telefonare. Guardai computer di ogni genere, portatili, fissi, minicomputer e poi stampanti multifunzione, tastiere ergonomiche, playstations, consolles varie, impianti stereo.
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Niente mi comunicò niente, nemmeno la minima emozione, tantomeno la smania di possesso, ma forse perché avevo smania di vivere. Mi diressi in fretta verso il settore elettrodomestici. Comperai 8 congelatori molto capienti e due frigoriferi. Il commesso del negozio rimase sbalordito dalla mia richiesta ma poi, vedendo che i soldi erano buoni, mi preparò la bolla, i miei acquisti mi sarebbero stati consegnati nel pomeriggio e, visto che avevo superato i duemila euro di spesa, mi regalarono un cellulare. «Ancora, ancora con questo maledetto telefono cellulare, ma lo volete capire che non lo voglio, che non sono dei vostri, che non voglio scattare e condividere, non voglio navigare in internet dovunque mi trovi?! Mi avete dato la merce? Vi ho dato i soldi? Che altro volete da me?». Presi il cellulare e lo diedi a un bambino che giocava fuori dal negozio. «Tieni», gli dissi, «a me non serve, vedi di farne buon uso». Lui sussurrò un grazie e corse contento a dare la notizia alla madre. Mi avviai verso casa.
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