Capitolo 2
«Enrique! Ma che ci fa qui?» Saverio ne è certo. Non confonderebbe Enrique neppure con addosso un saio tra centro torce nel mezzo di una processione. Poi nebbia. Corto circuito. Infine la corsa disperata, cieca, in apnea. Per Enrique qualsiasi cosa.
Di mattina la gente sembra sparire. Le vie tornano quelle del dopoguerra, sperse e con le ginocchia metaforicamente piegate. Chi spunta sparisce in un battibaleno. I colori dominanti sono gli stessi di allora: il giallo ocra, stinto, e il grigio pietra, freddo anche quando manca l’aria. I silenzi sono sospesi, pronti a rompersi negli orari di punta, come li chiamano i colletti bianchi delle fabbriche. Si tratta di piccole parentesi nelle quali un’intera comunità è come perdesse il controllo perché gli uomini non sono formiche e non progettano direzioni comuni. Nella maggioranza dei casi si tratta di spostamenti strettamente necessari. Dentro l’inevitabile si è più isterici. La realtà di provincia è ridotta così. Chi saluta, prende i bagagli e se ne va cercando fortuna nelle metropoli. E chi rimane, rintanandosi in casa. Non ci sono più le casalinghe di una volta. Saverio non può capirne il senso. Non esiste racconto o testimonianza diretta che potrebbe riuscire nell’impresa. C’è da dire che lui, il figlio del medico dei raffreddori, aveva 16
Uno Zero
raggiunto il padre in trasferta una sola volta. Le sue vacanze estive sono al fiume, una decina di chilometri più a valle, perché ci abita nonna Rita. Il padre in quella circostanza partì per un congresso, si spostò al solito malvolentieri, ma si tenne un giorno libero e un po’ a sorpresa lo volle dedicare a Saverio per raccontargli i luoghi dei suoi studi universitari. Per Saverio era stata un’esperienza intimamente straordinaria. Già soltanto il breve viaggio in treno lo aveva emozionato. Si era trattato di un evento di cui vantarsi e per cui ritenersi baciato dalla grazia, anche se delle spiegazioni e delle indicazioni del padre non gli era rimasto granché. È ormai trascorso un anno e mezzo. Saverio ricorda però che anche in quella occasione papà Carlo era rimasto serio e accigliato. Si era tra l’altro rifiutato di portarlo in visita allo zoo, ma Saverio più che le tigri o i colli delle giraffe aveva cercato inconsciamente un gesto. Sarebbe stata sufficiente una mano poggiata sulla nuca e lo zoo sarebbe svanito in una bolla. Invece avevano cenato in una trattoria senza menù e con lo stesso fiasco di vino che saltava di tavolo in tavolo. Quando ricorda con Enrique quella giornata da capogiro, Saverio la descrive sbarrando gli occhi verso l’orizzonte come se vivesse il dono di poter osservare un pianeta alieno: tra una miriade di aneddoti al limite del credibile, trasalendo, Saverio celebra immancabilmente i discorsi della gente, depositaria di accenti e locuzioni sconosciute, i rumori assordanti dei clacson che diventano una volta violini e l’altra botti di capodanno, gli strani dehors dei bar che neppure in America. Anzi, proprio l’America, per come se l’è figurata intimamente nel corso degli anni. La vita, quella degli altri. Lo slogan calza a pennello all’indole di Saverio e lui, senza studiarci troppo, l’ha fatto suo. Si chiama anche autoironia. Ogni volta che gli torna in mente, gli pare di aver rubato la frase da una pubblicità ascoltata in radio, ma non avrebbe sa17
Luca Fausto Momblano
puto dire quale. O forse era su un giornale, uno di quelli che la mamma pone a fianco del piccolo cumulo di legna pronta per il camino. Da quando l’aveva recitato a Enrique, era diventato il ritornello privo di senso su cui modellare mondi paralleli durante le camminate insieme verso il campo sportivo. Erano le faccende degli altri, spesso personaggi di fantasia che facevano cose impossibili. In pratica Enrique e Saverio si avvicinavano agli allenamenti senza dargli il peso che ne davano l’allenatore e i genitori più accaniti. Saverio li seguiva senza perdersi nessun dettaglio dietro la rete di cinta, Enrique giocava e stupiva. Saverio sentiva di contribuire a suo modo a queste parentesi sul campo dalle quali Enrique non dava la sensazione di trarre energia positiva né prima né dopo. Per Enrique non c’erano traguardi da inseguire. Era un’aspirazione fuori dalla sua portata. Per lui c’era principalmente da capire da dove veniva, se avesse avuto davvero una vita precedente come sentiva nel proprio animo. Cercava indizi che gli si parassero davanti. Segni da decodificare. A Saverio non lo aveva mai rivelato nonostante ritenesse fosse davvero l’unico che l’avrebbe potuto aiutare. Leonardo, al massimo, sarebbe stato utile per interpretarli. Con lui Enrique non aveva mai potuto condividere una vera passeggiata. Avventura. «La parola più bella del mondo!». Papà Carlo la pensava diversamente. Quando gli aveva rivelato la scoperta in qualità di proprio primo pensiero filosofico adolescenziale, Saverio si sentì rispondere così: «Non cercare l’avventura, perché è qualcosa appunto che avviene, quindi viene a te se sarai tra i prescelti. Personalmente, ne dubito». Al tempo aveva nove anni. Così, per processo di autoesclusione, Saverio aveva iniziato ad occuparsi delle avventure degli altri. Un’attitudine che in effetti spiega lo smodato interesse di Saverio per Enrique, del quale si considera amico unico ed esclusivo, e che spiega anche perché in paese il figlio del medico 18
Uno Zero
dei raffreddori è noto e chiacchierato soprattutto per la sua capacità di spuntare dai sottoscala e dagli arbusti delle aiuole al calare del sole. Saverio dispensa sorrisi burleschi e sornioni, mostrando soddisfazione solo quando riesce a strappare una reazione a qualcuno. E non accade soltanto d’estate. Ma mi ha detto che oggi non sarebbe uscito di casa… È una mattina di falsa primavera. Sembra una domenica, invece è festa patronale. Cade di giovedì e i negozi restano aperti. È una consuetudine che permette ai commercianti di incassare qualcosa più che la normale routine. La gente ne approfitta per mettere il naso. Saverio è tra questi. È il solito Saverio. Fischietta, ma il sibilo è aria calda. Un giorno forse imparerà a emetter un qualche suono. È forse l’unica cosa di cui un po’ prova vergogna. Per questo si cimenta quando è solo, con le mani in tasca e l’andatura dinoccolata tipica di chi, giovane e stralunato, vuol mettersi in bella mostra. Si sa mai, nella vita. Cammina tenendo la sinistra lungo la via principale che termina all’altezza dell’unico giardino pubblico. Mentre procede, si china sporgendosi il necessario per studiare il volto di chi guida le vetture che giungono in direzione opposta alla sua. Saverio si muove sul velluto, sembra galleggiare, è talmente sicuro di sé che dà perfino la sensazione di procedere impigrito. Da tempo Saverio non si sente più soltanto il figlio del dottore dei raffreddori e della taciturna ragazzina adottata, la prima e l’unica nel circondario, che terminati gli studi minimi obbligatori aveva iniziato giovanissima ad occuparsi delle pulizie della biblioteca. C’è adesso una vibrazione che gli dà il senso di essere cresciuto nonostante le persone intorno continuino a comportarsi con lui alla stessa maniera. Anche in casa è così. Per il momento la cosa non gli pesa. In effetti i suoi sguardi verso gli automobilisti sono volutamente inespressivi, con la testa lievemente reclinata, ma giocati da posizione favorevole: Saverio sente di avere la situazione sotto controllo, si sente pa19
Luca Fausto Momblano
drone della scena e questo lo fa stare bene. Solo una macchietta può tanto a quindici anni. Saverio è anche un ragazzo trasparente e meticoloso. Sono le precise parole di Michela Baldeschi, l’insegnante di italiano. La sua spensieratezza è invece in parte caratteriale e in parte funzionale a nascondere le piccole delusioni. Lui che a scuola degli occhi furbi e delle mimiche facciali ne fa quasi un mestiere. In seconda superiore sta andando davvero forte. Forse è questo particolare a non averlo ancora reso una vera e propria celebrità tra i banchi. Il buon profitto scolastico genera rispetto, così i più squinternati dell’istituto sono diffidenti per partito preso. L’adolescenza può considerarsi l’età dei grandi paradossi. Primo tra tutti il paradosso per cui non se ne può essere consapevoli e dunque non si è chiamati a risolverli. Saverio, sempre fischiettando, supera intanto la casa dove abitava fino a due anni prima, quando ancora Enrique parlava di Leonardo. Va oltre il ponte della Ghirella, quello che porta alla vecchia stazione, diventata preda dei tossicodipendenti. Si accorge che s’è fatto tardi e, sovrappensiero, di essere ormai oltre il centro abitato. Decide allora di svoltare l’angolo e aumentare il passo. È quasi mezzogiorno. C’è una piccola e nuova zona residenziale da attraversare. Il nuovo percorso glielo impone. In meno di dieci minuti Saverio sarebbe stato comunque pronto per sedersi a tavola prima del sacro momento delle cianfrusaglie. Saverio tiene tutto ciò che di interessante trova in giro. Raccoglie e ordina oggetti e chincaglierie di ogni genere. Anche le ore trascorse in strada aiutano. Non proprio tutto tutto, però. Non è un collezionista in senso stretto. Saverio non rientra nella categoria degli ossessivi, nonostante l’attaccamento a Enrique. È che in Enrique Terni, nel suo incredibile talento, intravede la famosa avventura. In più l’amico gli pare a sua volta genuino soltanto quando 20
Uno Zero
sta con lui. Non dà confidenza a nessuno e dai più viene considerato un ragazzino che vive sulle nuvole. A proposito delle cianfrusaglie. Esiste una selezione alla base che segue criteri del tutto personali, sovente improvvisati, secondo i quali la logica della scelta operata da Saverio ricade dentro schemi che funzionano anche per associazione di idee. Non si limita ai classici francobolli, alle pietre dure e ai minerali, ai legni dalle forme più strane che raccoglie all’interno di contenitori di ogni genere altrettanto improvvisati. Per dire: una sera a mamma Vita, uscendo di casa, era caduta dalle spalle la sciarpa di lana cotta color verde scuro, quella che vestiva sempre d’inverno. A terra, sull’umido del selciato, si era rattrappita. Saverio l’aveva raccolta rincorrendo poi la mamma per ridargliela. Nel farlo, mentre teneva la sciarpa ancora in mano, gli era apparsa l’immagine di una biscia e da questa l’idea di uno slalom. Il dribbling nel calcio, la serpentina. Quella stessa sera avrebbe poi creato una nuova scatola con sopra una scritta in pennarello nero: “Fili”. Aveva iniziato a riempirla con un cavo di un vecchio ferro da stiro e con una sua foto abbracciato a Enrique. L’avevano scattata con la macchina automatica posta fuori dall’ufficio postale. C’era effettivamente un filo che li univa ed Enrique era il re degli slalom palla al piede. In quella immagine Saverio appariva sorridente e impettito con il suo taglio corto che metteva in risalto il nero pece della folta chioma; Enrique teneva i capelli schiacciati fino alle sopracciglia, leggermente divisi in fronte, di quel castano rossiccio che rende il disordine ancora più disordinato. Curiosamente, aveva un’espressione divertita. Oppure ancora: un pomeriggio nello studio del padre si era fermato a osservare il mappamondo di legno appoggiato sul comò a lato della scrivania; aveva notato che la penisola dell’Arabia Saudita somigliava all’ascia che usa il macellaio. Saverio aveva così deciso che avrebbe raccolto lame, oggetti contundenti e tutto ciò che era appuntito e che riteneva pericoloso 21
Luca Fausto Momblano
per se stesso. Erano le cose che facevano male, dal suo punto di vista. Dentro quel cesto ci finirono presto anche scatole di medicinali scaduti e molti degli animaletti di gomma con cui giocava da piccolo. Ovvero tutti quelli che lui associava agli zoo. Enrique! Ma che ci fa qui? Una volta superato il quartiere nuovo, prima di attraversare la strada e infilare l’ultimo vicolo verso casa, Saverio si trova costretto a rallentare. Non crede ai suoi occhi. C’è qualcosa che non quadra. Enrique è di spalle, con una busta nella mano destra e la solita polo rossa, slavata all’altezza dei fianchi. È immobile di fronte al bazar della famiglia Boi. Succede tutto molto velocemente. Lo scatto dalla vetrina verso la bicicletta, il balzo in sella, la pedalata a testa bassa, veemente, a bocca aperta e con la lingua a penzoloni. Enrique sta scappando, è evidente. Oppure anche lui è solo in ritardo? Sembra spaventato. Sta fuggendo da qualcosa o da qualcuno, a giudicare dal viso sfigurato e da un’irruenza che non è sua. Saverio è consapevole di non essere stato visto e sa notare i particolari. Non fa caso però all’autobus alle spalle che accelera per lasciarsi indietro il centro abitato. Saverio può udire il colpo secco. Gli viene istintivamente da chiudere gli occhi. La frenata è lunga, violenta e tardiva. Fa un rumore lancinante. In Saverio ha lo stesso effetto di un bisturi che apre il torace senza anestesia. Il colpo peggiora la situazione, perché è come se quel lungo e profondo bruciore ricominciasse da capo per la seconda volta. Ecco perché Saverio rimane totalmente bloccato. Corto circuito nervoso. Poi la corsa con le braccia protese in avanti. Per Enrique qualsiasi cosa. Anche la peggiore nel momento peggiore. Anche quando non può esser vero e la fame non chiama più.
22