Il professore dell’horror
«He’s sort of the professor of horror»1. Così Tony Timpone, editor di lunga data della celebre rivista statunitense «Fangoria», definisce Wes Craven, sottolineando quanto sia raro trovare all’interno del cinema dell’orrore un regista che possieda una tale cultura e gli stessi titoli accademici. Questo è soltanto uno dei numerosi elementi che caratterizzano un excursus biografico tutt’altro che banale, importante non solo per mera curiosità ma, soprattutto, per il ruolo centrale che l’esperienza di vita dell’uomo ha avuto all’interno della poetica e dello stile del cineasta.
Il fu Wesley Earl Craven, meglio noto con il diminutivo Wes, nasce a Cleveland nell’agosto del 1939 da Paul Eugene Craven e Caroline Miller, proprio alle soglie dell’intervento statunitense all’interno del secondo conflitto mondiale. Certamente non il periodo ideale nel quale trascorrere l’infanzia e a rendere ancora più difficoltosi i primi anni di vita del futuro regista sono i continui dissapori tra i genitori, terminati solamente con la morte del padre, quando il bambino aveva solamente quattro anni, circa un anno di distanza dall’abbandono di Paul Eugene del nucleo familiare2. Un trauma che scuote nel profondo la vedova Craven, costretta, suo malgrado, a fungere da pilastro
9 capitolo
i
1 Wooley John, Wes Craven: The Man and His Nightmares, Wiley, New Jersey 2011, p. 235.
2 Maddrey Joseph, Beyond Fear: Reflections of Stephen King, Wes Craven and George Romero’s Living Dead, BearManor Media, Albany 2015, p. 34.
della famiglia, a dover provvedere da sola al sostentamento della stessa. L’unico sostegno che riesce a scorgere nel buio di questo abisso è quello offerto dalla fede e, in particolare, dalla Chiesa battista3.
Il piccolo Wes cresce dunque all’interno di una compatta comunità cristiana, potendo vedere la madre solamente la sera, dopo un’intera giornata di faticoso lavoro. La congregazione in questione si distingue dalla maggioranza della Chiesa battista americana per una decisa posizione conservatrice, totalmente asservita alla salvezza dell’anima dalle fiamme, tutt’altro che figurate, dell’inferno e di conseguenza alla mortificazione delle attività terrene.
Tra i terrificanti sermoni tutti improntati sulle sanguinolente pene inflitte ai peccatori castigati da Satana e le proibizioni imposte sulla gran parte della produzione cinematografica nazionale, il giovane Wes scopre il cinema solamente attraverso le pellicole Disney (tra le poche a essere considerate moralmente accettabili dalla comunità religiosa4) e i brevi filmati in 8mm girati da Eddie Dalton, padre di uno dei suoi amici d’infanzia che finisce per assumere un ruolo da padre surrogato per il ragazzo5. Un primo, per quanto timido, avvicinamento alla settima arte, che però non lascia presagire alcuna predilezione.
Nonostante in alcune interviste Craven affermi di aver avuto, tutto sommato, un’infanzia felice e di sentirsi grato per essere cresciuto in una famiglia molto unita6, è innegabile che le numerose restrizioni a cui viene costretto hanno un ruolo fondamentale nella sua successiva ribellione giovanile e nel complesso rapporto che lo lega per il resto della sua vita alla fede. Il ragazzo sente di non possedere un legame con Dio forte come quello degli altri componenti della comunità (in particolare suo fratello maggiore) e questa sorta di senso di colpa lo fa sentire sempre più diverso e solo7. Con un tale substrato, sarebbe lecito attendersi un’adolescenza particolarmente turbolenta per quello che sarebbe diventato il professore dell’horror e, infatti, questi trova una valvola di sfogo per la propria diversità nella letteratura. Al liceo scopre una passione inaspettata per una serie di classici dalla forte impronta immaginifica o comunque legati a realtà ben distanti rispetto a quella da lui conosciuta nella sua esperienza personale: dalla poesia di Ovidio ai romanzi
3 Ibidem.
4 Wooley John, cit., p. 9.
5 Ivi, pp. 10-11.
6 Ivi, pp. 11-12.
7 Ivi, pp. 13-14.
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gotici di Edgar Allan Poe, passando per uno dei testi fondamentali per l’antropologia culturale, quale Il ramo d’oro di James Frazer8. Proprio quest’ultima opera suscita l’interesse di Craven per la centralità al suo interno del tema del rapporto tra mitologia e religione, in maniera simile a come accade con The Death of God, testo di Gabriel Vahanian che teorizza una ormai avvenuta trasformazione della fede cristiana statunitense in una sorta di religiosità fine a sé stessa, privata di tutti gli elementi costitutivi del messaggio messianico del Nuovo Testamento9. Dopo essersi distinto per aver provocato la prima storica interruzione della stampa del giornale scolastico, a causa delle storie brevi che vi pubblica, l’ormai maggiorenne Wes abbandona per la prima volta l’ambiente strettamente religioso grazie al suo ex professore Elliott Coleman, che gli permette di iscriversi alla John Hopkins University, dove consegue un master, dopo la laurea in anglistica e psicologia ottenuta all’università evangelica di Wheaton. Lontano dalle rigidità dell’istruzione battista, il futuro director si dedica principalmente a filosofia e letteratura inglese, scoprendo due forti passioni che ne determineranno anche l’avvenire: gli scrittori modernisti (Joyce, Eliot, ecc.) e il sogno10. I primi lo convincono che la sua strada nella vita debba essere la scrittura, sia come accademico che come romanziere; ma il secondo lo coinvolge a un livello così viscerale da passare gran parte del proprio periodo universitario a compiere esperimenti su questo tema. I frutti di tale sperimentazione si riscontrano nelle rare capacità di autocoscienza dei propri sogni e soprattutto in quella di ricordare, in ogni dettaglio, questi ultimi, portandolo a prendere l’abitudine di trascriverli quotidianamente11.
A completamento di questo suggestivo percorso d’istruzione, Craven consegue il suddetto master nel 1964, utilizzando come tesi finale un romanzo scritto di proprio pugno, intitolato Noah’s Ark: The Diary of a Madman. Strutturato in forma epistolare, il breve componimento narra le disavventure di un ragazzo affetto da disturbo dissociativo dell’identità; un input narrativo e tematico che verrà approfondito e riadattato a distanza di quasi cinque decenni con il film My Soul to Take (My Soul to Take – Il cacciatore di anime, Wes Craven, 2010), non a caso definito dallo stesso autore come uno dei suoi lavori più personali12.
8 Ivi, p. 17.
9 Maddrey Joseph, cit., p. 37.
10 Ivi, p. 38.
11 Wooley John, cit., p. 21.
12 Maddrey Joseph, cit., p. 40.
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Dopo aver sposato Bonnie Broecker nello stesso 1964 ed essere stato assunto come professore alla Clarkson University di Potsdam, Craven sembra avviato a quella carriera da letterato che si era prefisso a partire dai giorni del liceo, ma una folgorazione gli cambia per sempre la vita: nei pressi del campus scopre una piccola sala d’essai, nella quale ha l’occasione di assistere a una proiezione di Blow-Up, diretto da Michelangelo Antonioni nel 1966. La pellicola del maestro italiano sconvolge nel profondo le convinzioni intellettuali del giovane insegnante, mostrandogli come la narrativa per immagini possa trattare con estrema eleganza e sagacia gli stessi temi dei quali si occupavano romanzieri e filosofi13. Già durante il periodo scolastico, Craven ha avuto un’importante esperienza filmica con una visione di nascosto de Il buio oltre la siepe (To Kill a Mockingbird, Robert Mulligan, 1962), all’interno di quelle che possiamo considerare tra le tipiche bravate adolescenziali che tutti noi abbiamo vissuto; ma la visione del primo lungometraggio in lingua inglese del regista de L’avventura (Michelangelo Antonioni, 1960) lo convince addirittura a istituire un laboratorio di cinema all’interno dell’università e a girare insieme ad alcuni studenti un piccolo film. La passione per la settima arte lo prende a tal punto da sottrargli gran parte del tempo che avrebbe dovuto dedicare all’attività di ricercatore e così il rettore del campus lo pone dinanzi a un bivio: da una parte la saggistica e dall’altra il cinema. A discapito di una totale ignoranza della teoria cinematografica, di un lavoro sicuro e ben retribuito e di una sostanziale stabilità economica e familiare, Craven scommette tutto su sé stesso e sul suo neonato struggimento creativo14.
Per poter iniziare a muoversi all’interno del mondo della celluloide, l’ormai ex professore universitario si trasferisce a New York, dove si accontenta di eseguire i lavori più umili e variegati pur di poter mantenersi e trovare una casa con cui permettere a moglie e figli di raggiungerlo. Inizialmente Bonnie incoraggia il marito a seguire questa vocazione tutt’altro che a portata di mano, ma alla fine chiede e ottenne il divorzio. In questa difficile situazione economica e affettiva, Craven continua a lavorare senza sosta, principalmente come tassista, senza però trovare grandi connessioni con il tumultuoso ambiente cinematografico della Grande Mela, lo stesso che aveva visto nascere l’astro di John Cassavetes e che, nel corso di quegli stessi anni, avrebbe consacrato nuovi autori della cosiddetta Hollywood Reinassance, quali Martin Scorsese e Woody Allen. Inaspettatamente, il destino decide di aiutare l’aspirante
13 Ivi, p. 42.
14 Wooley John, cit., p. 34.
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cineasta, portando nuovamente nella sua vita Steve Chapin, suo studente dei tempi della Clarkson, con cui Craven aveva suonato all’interno di una rock band. Chapin gli presenta il fratello Harry, anch’egli stabilitosi da qualche anno a New York e che al tempo, prima di abbracciare completamente la carriera musicale, si dedica proprio al cinema, soprattutto quello documentaristico. Harry Chapin prende dunque questo tassista squattrinato e divorziato sotto la sua ala protettrice, insegnandogli i rudimenti del montaggio15 e aprendogli una piccola quanto decisiva porta verso l’ambiente del cinema underground della metropoli.
Quello in cui Wes Craven finalmente riesce ad affacciarsi al mondo del cinema è un periodo di grandi trasformazioni per il panorama statunitense. La crisi delle sale, innescata da numerosi fattori sia artistici che sociali, come il successo della televisione come nuovo mezzo di intrattenimento, insieme al ricambio generazionale, avevano permesso una diffusione crescente di esperienze filmiche alternative, specie all’interno dei cinema di periferia e dei campus universitari. Potremmo distinguere queste esperienze in due filoni principali: quello del cinema d’autore proveniente da Europa e Giappone e quello indipendente americano, dal quale nasce la New Hollywood. Quando si pensa alle pellicole indipendenti prodotte a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, si pensa immediatamente a Easy Rider (Dennis Hopper, 1969) o ai primi capolavori dei vari Coppola, De Palma e Lucas ma, in realtà, una parte molto consistente di tale produzione risiedeva in quello che viene definito exploitation16. Questo tipo di cinema, reso celebre in primo luogo da Roger Corman e dalla sua casa di produzione e distribuzione: la aip (American International Pictures); si distingue per una particolare attenzione posta verso elementi sensazionalistici, in grado di attirare lo spettatore, rispetto alla qualità intrinseca, budget molto contenuti e il ricorso a generi classici come horror e fantascienza, seppur arricchiti con smaccati elementi erotici e grandguignoleschi che mai avrebbero potuto superare la severa censura della Hollywood classica17. Nonostante le evidenti differenze produttive e filmiche esistenti tra exploitation e i lavori di Godard o Federico Fellini, sia gli uni che gli altri vengono distribuiti in maniera analoga negli usa (spesso proprio dalla sopracitata aip) e sempre in maniera analoga rappresentano un’alternativa all’offerta
15 Wooley John, cit., p. 40.
16 King Geoff, New Hollywood Cinema: An Introduction, I. B. Tauris, New York 2002, pp. 12-13.
17 Murri Serafino, Roberti Bruno, Cinema indipendente, http://www.treccani.it/enciclopedia/ cinema-indipendente_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/, consultato il 04/05/2020.
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dei tradizionali studios, così che nell’immaginario collettivo americano del periodo non vi è poi una marcata distinzione tra quello che oggi chiamano arthouse e i film splatter o erotici a basso costo.
Craven, dopo essersi innamorato della settima arte attraverso la visione dei primi, entra nel mondo della produzione tramite i secondi, ricevendo la prima (di una lunga serie) menzione nei titoli di coda di un film come montatore di You’ve Got to Walk It Like You Talk It or You’ll Lose That Beat, coming-of-age scritto, prodotto e diretto da Peter Locke18. Grazie a questo suo primo impiego ufficiale e alla collaborazione, sempre in veste di editor, con altri esponenti della scena indie newyorchese, l’aspirante regista stringe una forte amicizia con il suo coetaneo Sean Cunningham. Questi è al tempo impegnato nel redditizio sottogenere dei white coaters: film contenenti scene di rapporti sessuali espliciti che vengono distribuiti all’interno delle università o delle scuole come strumenti di educazione sessuale. Un tipo di produzione che rispecchia in pieno un periodo di grande rinnovamento nei costumi sessuali, all’interno del quale avrebbe poi avuto origine un periodo aureo della pornografia, che l’avrebbe portata a sfiorare il mainstream con pellicole celeberrime come Gola profonda (Deep Throat, Gerard Damiano, 1972).
I due trentenni stringono un sodalizio che dura per buona parte degli anni Settanta, iniziato con il montaggio dei giornalieri di Together (Sean Cunningham, 1971) da parte di Craven, che figura nei credits anche nelle vesti di produttore. Sebbene non venga ufficialmente accreditato in tale ruolo, è certo che quest’ultimo abbia diretto anche alcune scene della pellicola. Together, come già il precedente The Art of Marriage (Sean Cunningham, 1970) incassa molto bene per le aspettative del suo genere di appartenenza e inoltre sul set l’ormai sempre più ex accademico ha modo di trovare un secondo maestro di tecniche cinematografiche: il montatore Roger Murphy19 .
Gli stessi esercenti di questo white coater, soddisfatti dei numeri fatti registrare dal tandem Craven-Cunningham, chiedono un nuovo film alla coppia, ma questa volta di tutt’altro tipo. Le sale di Boston avevano, infatti, proiettato, con un’ottima risposta di pubblico, un certo Mark of the Devil (Hexen bis aufs Blut gequält, Michael Armstrong, 1970), produzione della Germania dell’ovest di matrice chiaramente orrorifica e dunque ai giovani cineasti viene commissionato per la prima volta un horror20.
18 Wooley John, cit., p. 41.
19 Wooley John, cit., pp. 43-44.
20 Ivi, p. 48.
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1.1 L’ultima casa a sinistra
Sebbene oggi sia universalmente riconosciuto come autore di pellicole dell’orrore, fino agli albori degli anni Settanta Wes Craven ha visto solamente un film riconducibile a quel genere: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, George Andrew Romero, 1968). Il capostipite della saga sugli zombie ideata da Romero colpisce come un fulmine a ciel sereno il panorama cinematografico statunitense, ottenendo un successo commerciale strepitoso, specie per una produzione indipendente a basso costo, e ridefinendo le coordinate dell’orrore sul grande schermo. Oggi questo lungometraggio è, con pieno merito, considerato tra le pietre miliari della New Hollywood per la sua capacità di coniugare aspetti tipici dell’exploitation, con tematiche socio-politiche ben più vicine all’arthouse. Un concetto di sintesi di quei mondi, all’apparenza così distanti, alla base dell’humus del cinema indipendente americano che Craven assimila con notevole intelligenza e sensibilità, senza alcun dubbio coadiuvato dall’esperienza maturata attraverso i suoi primi incarichi professionali nel circuito indie di New York. Secondo quanto dichiarato in più occasioni dal cineasta dell’Illinois, la visione in sala de La notte dei morti viventi gli apre gli occhi su un mondo a lui del tutto sconosciuto fino ad allora: «Il pubblico in sala urlava, rideva, era completamente scatenato»21. La partecipazione estremamente empatica degli spettatori, coinvolti in maniera così viscerale dalla lotta per la sopravvivenza di Ben, Barbra e gli altri, costituisce la scintilla della passione che Craven avrebbe in seguito sviluppato per l’horror, non solo per le numerose incursioni cinematografiche al suo interno, bensì soprattutto a livello teorico e poetico.
Il cult di Romero sconvolge il pubblico in buona dose anche per un apparato stilistico assolutamente innovativo per il proprio genere di riferimento. I classici della Universal, punte di diamante del terrore nella Hollywood classica, evidenziavano una messinscena estremamente elegante, ambientata quasi esclusivamente in interni, resi spettrali e perturbanti da un sapiente uso di ombre e lenti deformanti ispirate all’espressionismo de Il Gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, Robert Wiene, 1920). Un esempio su tutti di questa idea di cinema può essere rintracciato in Frankenstein, diretto dal raffinatissimo James Whale nel 193122 .
21 Wooley John, cit., p. 50.
22 Bellini Emanuele, L’orrore nelle arti. Prospettive estetiche sull’immaginazione del limite, ScriptaWeb, Napoli 2007, p. 224.
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In maniera totalmente opposta, Night of the Living Dead, nonostante la predominanza in unica location chiusa, adopera un’estetica asciutta, essenziale, che riporta alla mente i reportage di guerra più che la fiction, donando in questo modo all’opera un realismo capace di terrorizzare il pubblico. Per uno di quegli strani casi del destino, Craven in quel periodo sta lavorando proprio a stretto contatto con artisti impegnati soprattutto con il filone documentaristico e anche i suoi due maestri, Roger Murphy e Harry Chapin, appartengono al medesimo orizzonte cinematografico. Una convergenza prettamente stilistica, apparentemente dettata in primo luogo da contingenze assolutamente pratiche, che in realtà riveleranno anche importantissime affinità poetiche tra l’esordio al lungometraggio di Romero e quello dell’allora montatore dei white coater diretti da Sean Cunningham. In particolare, proprio quelle immagini trasmesse dalle emittenti televisive statunitensi di un conflitto tanto sanguinoso quanto controverso come quello del Vietnam sono centrali nella nascita de L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972), il battesimo del fuoco per Craven con l’horror23.
Protagonista del film è Mari Collingwood (Sandra Cassel), che in occasione del suo diciassettesimo compleanno, mentre i suoi genitori (interpretati da Gaylor St. James, nel ruolo del dottor John Collingwood, e Cynthia Carr, nei panni di Estelle) le preparano una festa, esce con l’amica e coetanea Phyllis (Lucy Grantham) e finisce per chiedere dell’erba a un coetaneo appena incontrato, Junior (Marc Sheffler). In pochi minuti scoprono che il timido ragazzo è in realtà un membro di un gruppo di fuggitivi, guidati dall’assassino evaso dal carcere Krug (David Hess). La banda sequestra le due giovani e violenta per tutta la notte Phyllis. Il mattino seguente, Krug e i suoi decidono di sfruttare i boschi per scappare dalla polizia locale, ma le due prigioniere tentano, per vie diverse, la fuga: Phyllis approfitta di un momento di distrazione per scappare via correndo, venendo però raggiunta e sventrata; Mari, d’altro canto, prova a far leva sui dubbi morali di Junior, ma viene bloccata da Krug che, in una delle sequenze più atroci della pellicola, la stupra con ferocia inaudita. In seguito alla violenza carnale, in uno stato ormai quasi catatonico, la diciassettenne tenta una disperata manovra evasiva, sfruttando il lago che si trova immerso tra i boschi. Tutto però invano, poiché un colpo di pistola la colpisce mortalmente alla schiena. A causa della pioggia incessante che caratterizza l’ormai sopraggiunta sera, la banda di fuggitivi decide di chiedere ospitalità nella pri23 Maddrey Joseph, cit., p. 51.
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ma casa che incontrano, che, per un’ironica trovata del destino, risulta essere proprio quella in cui vivono i genitori di Mari, ormai alle prese con la ricerca della figlia da decine di ore. Inizialmente Krug riesce a convincere la coppia ad ospitarli per la notte, spacciandosi per una famiglia di assicuratori ma, nel momento in cui tradiscono i propri trascorsi con la loro giovane vittima, i Collingwood abbandonano ogni remora, anche a causa degli scarsi risultati ottenuti dallo sceriffo (Marshall Anker), e decidono di vendicare la loro bambina. Le forze dell’ordine riescono a intervenire solo nel finale, quando ormai i due disperati genitori hanno già giustiziato i carnefici di Mari.
La frase, chiaramente menzognera, riportata nel fotogramma in alto rappresenta una chiara dichiarazione d’intenti: L’ultima casa a sinistra intende puntare, senza quasi alcun compromesso, al realismo, nella messinscena e nella narrazione. Girato interamente tramite camera in spalla e senza alcun dolly, illuminato dalla luce del sole (in netta controtendenza rispetto alle atmosfere notturne e gotiche degli horror classici), il film mostra uno stile ben più vicino al documentario bellico che non alla fiction hollywoodiana, con abbondante ricorso a long take e zoom anticlassici. Un repertorio formale appreso dal regista direttamente dai suoi colleghi newyorchesi, ma che riflettono anche l’onnipresente influenza nella produzione indie del periodo del cosiddetto Cinéma vérité, una corrente d’origine francese che rinnega la fin-
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Titoli di testa di L’ultima casa a sinistra. © Tutti i diritti riservati.
zione all’interno di ogni elemento del fare cinema e che abbina a tali posizioni estetiche anche un forte impegno politico24.
Come raccontato spesso attraverso interviste e making of, il regista viene fortemente influenzato anche nel corso della scrittura del suo esordio al lungometraggio proprio dai reportage sulla guerra in Vietnam e dal conseguente risveglio politico da esso causato, sia in Craven che in quasi tutti i giovani americani, divisi in questo senso tra sostenitori e accaniti oppositori.
Tra questi ultimi vi sono, naturalmente, tutti quei ragazzi che aderiscono al movimento hippie e che innescano la rivoluzione culturale di fine anni Sessanta. Mari e Phyllis vengono, non a caso, presentate come dei prototipi dei ragazzi appartenenti alla generazione dell’amore (termine citato anche all’interno della pellicola), in netta contrapposizione con i valori borghesi ormai antiquati con cui si identificano invece i coniugi Collingwood, che in una delle prime sequenze mostrano il loro disappunto per l’abbigliamento, secondo loro, disinibito della figlia e per le sue frequentazioni. Al medesimo tipo di controcultura sembrano appartenere anche Krug e i suoi compagni,
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Cartello su sfondo nero con cui si apre L’ultima casa a sinistra. © Tutti i diritti riservati.
24 Rondolino Gianni, Storia del cinema, voll. ii-iii, utet, Torino 2008, pp. 416-28 (vol. ii), pp. 24653 (vol. iii).
che vivono in una sorta di comune hippie (probabilmente gli uomini della banda condividono anche carnalmente l’unica donna presente, oltre ai beni materiali e ai crimini) e si vestono come sessantottini, cosa che peraltro contribuisce alla cattura della protagonista e della sua migliore amica. In questo clima di sovvertimento socio-culturale trova origine e prospera anche tutto il sottobosco del cinema indipendente, fautore in tutte le sue variegate forme di quei subbugli dei costumi legati alla famiglia, al patriarcato, al sesso, alle discriminazioni e alle droghe lisergiche. Da studioso dei fenomeni legati al sogno, il cineasta dell’Illinois resta particolarmente colpito, oltre che dalle discussioni sull’intervento militare americano in Asia, proprio dalle teorizzazioni sugli stati di alterazione sensoriale provocati dall’assunzione di LSD, in special modo dagli scritti di Timothy Leary. I viaggi mentali resi possibili dall’assunzione di sostanze dalle proprietà psichedeliche non stimolano solamente la già fervida curiosità dell’autore per l’universo onirico, bensì ne modificano anche il già tormentato rapporto con il divino, che assume ai suoi occhi un aspetto sempre meno legato ai dogmi evangelici e ben più vicino a quelli di una sorta di animismo misto agli insegnamenti cristologici25.
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Riflessi di luce sull’obiettivo in una scena di L’ultima casa a sinistra. Uno dei tanti momenti di trasgressione delle regole del cinema classico. © Tutti i diritti riservati.
25 Maddrey Joseph, cit., p. 41.
In quanto autore anche della sceneggiatura del film, Craven poté girare un’opera completamente personale. © Tutti i diritti riservati.
A questo particolare sincretismo tra riferimenti alla realtà socio-politica e sollecitazioni mistiche, L’ultima casa a sinistra abbina un’ulteriore fusione di mondi apparentemente distanti, già accennata nelle righe precedenti, ossia quello dell’exploitation e quello del cinema d’autore. Senza averlo mai nascosto neanche per un istante, l’ossatura narrativa e narratologica alla base degli eventi della pellicola è tratta dal cineasta da una fonte ben precisa: La fontana della vergine (Jungfrukällan) di Ingmar Bergman26. Il film del 1960, a sua volta ispirato a una leggenda popolare svedese del xiv secolo, era uscito in un periodo in cui quasi certamente Craven non frequentava ancora le sale d’essai ma il suo successo nel Nuovo Mondo, consacrato persino dall’Academy Awards per il miglior film straniero, aveva portato a una lunga serie di repliche, che sicuramente rendono possibile la visione al regista, che trova nell’autore scandinavo degli interrogativi sulla natura di Dio molto vicini al proprio irrequieto rapporto con la religione cristiana. Il finale de La fontana della vergine, con la nascita di una sorgente proprio dal punto in cui è poggiata la testa del cadavere della povera Karin, lascia intravedere una sorta di
26 Ivi, p. 47.
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