N° 5 - Febbraio 2021 - Supplemento del periodico Valsugana News
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In controluce di Patrizia Rapposelli
Covid e Sport
Privati di un diritto è sfida psicologica per i giovani
L
a scelta di fermare le attività sportive contravviene al diritto di “fare sport”. Un diritto violato per necessità. La pandemia globale non ha risparmiato questo settore; infatti, come per ogni altra istituzione si è reso necessario un programma per prevenire e contrastare la diffusione del virus. C’è stato uno stop delle attività, una graduale ripresa e di nuovo “un ferma tutti” delle associazioni sportive e delle competizioni. Confusione e alternarsi di decisioni, rimane certo che nulla sarà come prima: nel prossimo futuro anche lo sport dovrà riorganizzarsi con nuove modalità di allenamenti, competizioni e fruizione da parte del pubblico. Lo sport italiano deve oggi affrontare una serie di emergenze. Prima di tutto quella economica che potrebbe avere importanti ricadute sulla vita dei numerosi lavoratori del settore. Il così detto ecosistema dello sport, difatti coinvolge più di 14 milioni di persone e oltre 800 mila collaboratori sportivi; come tutti gli altri comparti anche lo stop forzato delle attività sportive sta danneggiando il Paese. Segue quella del benessere psico-fisico della persona. Al di là dell’urto economico, si deve fronteggiare un danno sullo stare bene generale: fisico,
psicologico, sociale. La pandemia ha modificato drasticamente gli stili di vita e le sfere quotidiane di ognuno e in questo rientra anche la pratica sportiva. L’assenza di sport sta influendo negativamente sulla forma fisica e sulla salute mentale, le persone sperimentano un ulteriore isolamento dalla normale vita sociale. A soffrire maggiormente di questa condizione sono i giovani, i quali trovano nell’attività fuori casa una forma di socialità e condivisione tra coetanei. Lo sport è un elemento fondamentale per lo sviluppo sano del bambino e dell’adolescente, tanto da essere riconosciuto dalle Nazioni Unite come un diritto fondamentale. La pratica sportiva promuove salute fisica, psicologica e relazionale. Insegna valori importanti: la solidarietà, la fiducia in sé e negli altri, il rispetto, la comunicazione. Accresce una serie di principi che stanno alla base della crescita personale. Per tale motivo la mancanza dell’attività in un gruppo ha sul ragazzo degli effetti ancora più importanti rispetto ad un adulto; un’associazione rappresenta un ambiente di apprendimento che può influire sull’autostima e nella relazione con l’altro, là dove nel bambino e nell’adolescente ciò è in via di sviluppo. Ne risulta che lo
sport rappresenta un diritto, ma anche un dovere necessario per tutelare la crescita cognitiva-emotiva e di relazione sociale per il giovane, in quanto al pari dell’istituzione scolastica ha una funzione socializzante. È stato lanciato un allarme dal primario dell’unità operativa complessa di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza del nosocomio pediatrico romano:” È anche causa del Covid che sono aumentati gli atti autolesionistici e suicidari negli adolescenti, crescita di disturbi mentali sia nei ragazzi che nei bambini. Dalla prima ondata a oggi si è registrato, nei giovani, un aumento Covid del 30% circa.” La carenza della normale routine sportiva è uno tra molti fattori che ha incrementato questo fenomeno. Una grande fetta di giovani si chiude in casa. Trascorrono ore davanti ai videogiochi o ai social senza nessun interesse sociale; vivono una sorta di inutilità della relazione e confinano sempre più il loro mondo negli strumenti tecnologici. Questa è la situazione e difficile è tamponare gli impatti che la pandemia sta avendo sui ragazzi. Il giovane Werther di Goethe avrebbe detto “io esco senza speranza e senza uno scopo e torno a casa come ne ero uscito”. Lo stop allo sport per i più giovani non è solo una rinuncia e un danno fisico, ma una vera sfida psicologica.
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Sommario DIRETTORE RESPONSABILE Prof. Armando Munaò - 333 2815103 Email: direttore@valsugananews.com CONDIRETTORE dott. Walter Waimer Perinelli - 335 128 9186 email: wperinelli@virgilio.it REDAZIONE E COLLABORATORI dott.ssa Katia Cont (Cultura, arte, cinema e teatro) dott.ssa Elisa Corni (Turismo, storia e tradizioni). dott. Maurizio Cristini (Enologo ed esperto in giochi ed enigmistica) Laura Paleari (moda e costume) - dott.ssa Laura Fratini (Psicologa) Veronica Gianello (Storia, arte,cultura e tradizioni) dott.ssa Francesca Gottardi (Esteri- USA) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, tradizioni,attualità) dott. Nicola Maschio (attualità, politica, inchieste) Paolo Rossetti (Attualità, inchieste) - Patrizia Rapposelli (attualità, cronaca) dott.ssa Alice Rovati (Responsabile Altroconsumo) dott. ssa Chiara Paoli (storica dell’arte - ed. museale -cultura e tradizioni) Francesco Zadra (Attualità) - dott. Zeno Perinelli (Avvocato) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, attualità) dott. Franco Zadra (politica, attualità) dott.ssa Erica Zanghellini (Psicologa) dott. Casna Andrea (Storia, cultura, tradizioni) CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA dott. Francesco D’Onghia - dott. Alfonso Piazza dott. Marco Rigo . dott. Giovanni D’Onghia RESPONSABILE PUBBLICITÀ: Gianni Bertelle Cell. 340 302 0423 - email: gianni.bertelle@gmail.com IMPAGINAZIONE E GRAFICA : Punto e Linea di Alessandro Paleari - Fonzaso (BL) Cell. 347 277 0162 - email: alexpl@libero.it EDITORE E STAMPA GRAFICHE FUTURA SRL- Via Della Cooperazione, 33- MATTARELLO (TN) FELTRINO NEWS Supplemento al numero di febbraio di VALSUGANA NEWS Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 4 del 16/04/2015. COPYRIGHT -Tutti i diritti riservati Tutti i testi, articoli, intervista, fotografie, disegni, pubblicità e quant’altro pubblicato su FELTRINO NEWS, sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore Responsabile o dell’Editore, è vietata la riproduzione e la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni pubblicitarie, per altri giornali o pubblicazioni, posso farlo richiedendo l’autorizzazione al Direttore Responsabile o all’editore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio le loro grafiche e quindi fatto pervenire alla redazione o all’ufficio grafico di FELTRINO NEWS, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
Febbraio 2021
L’editoriale
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Sanremo Story:
Sommario
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La preistoria
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A parere mio: uno non vale uno
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Dal 1951 a oggi
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I vincitori
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Società oggi: figli e presunzione
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I miei primi trentuno anni
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Madre Teresa di Calcutta
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Il personaggio: Anna Magnani
56
La Prima della Scala
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Josè Mourinho, Special One
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In controluce: salviamo la democrazia
Parlando di vocazioni
18
Enzo Celli e il Life Coaching
60
In filigrana: meno Stato e più Privato
20
Società oggi: vittime del bullismo
62
Le donne nella storia: Chiara Lubich
22
I duelli aerei nel feltrino
64
La chirurgia estetica e il pentimento
25
Società Sociale Sportiva Invalidi
66
Qui USA: Biden ha giurato
27
Milano si tinge di rosa
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Il Sole Invictus e il Carnevale
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Il personaggio: Martina Meneghini
70
Ieri avvenne: Albert Einstein
30
Pietro Verdini, il Re del bosco
72
Società oggi: S.F.C.S , uomini e cani
33
Popoli, cultura e tradizioni: la Geisha
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In controluce: c’è un virus nella sanità
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Società e moda: l’Armocromia nella moda
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Società oggi: gli Elfi e Babbo Natale
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I nostri piccoli amici
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Il personaggio: Panfilo Castaldi
40
Che tempo che fa: la nebbia
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Tra passato e presente: l’uomo che vola con le ali
42
Quando si credeva nei vampiri
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Il cippato
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In collaborazione con….la patente
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Giocherellando
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Le donne nella storia Chiara Lubich Pagina 22
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A parere mio di Cesare Scotoni
UNO non VALE UNO: manifesto “Per una politica attiva” La cartina tornasole del ritardo del Paese lo troviamo nella genesi del libro “La Casta”, uscito nel 2007. Un libro di denuncia e di costume, uscito però con 20 anni di ritardo sulla Storia. In cui per comodità si scambiavano i Sintomi con le Cause in omaggio ad antichi Usi Nazionali ed in cui l’individuazione del “Capro Espiatorio” era la via scelta per fuggire da ogni ipotesi Riformista. Il successo avuti da quel libercolo e da quel titolo hanno rappresentato il massimo che lo Spirito Rivoluzionario Nazionale riuscisse ad esprimere dal comodo dei Talk Shows visti in TV.
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artiamo quindi da lì per dirci che “quella roba” non era e non è Politica. Era la denuncia di un Degrado, forse era Parodia o forse Pantomima, ma certamente una fuga dal ruolo della Politica in Democrazia. Ed ha fornito “legna” al fuoco dell’Antipolitica, facendo leva sullo sdegno anziché sulla sfida di un’alternativa. Gli orfani della Prima Repubblica, frastornati dallo scoprire che al di fuori delle comode rigidità dei ruoli voluti da un Occidente diviso in due Blocchi, la Politica deve essere fatta di Elaborazione e Pensiero, Scelte ed Azioni, di Progetti di Progresso Sociale, si son dispersi e riaggregati più volte, mettendosi al centro delle proprie riflessioni con il loro destino anziché con il loro agire. Cosa si vuole dalla Politica? Si vuole innanzi tutto una lettura convincente della Realtà che viviamo, di ciò che accade a noi ed attorno a noi, si vogliono delle scelte ben motivate e possibilmente giuste, si vogliono risposte concrete e si vogliono prospettive. Si vuole uno
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Spazio in cui selezionare Classe Dirigente. Chi non crede che la Politica sia fatta di quei “mattoni” e si riduca a comunicazione e belle parole è stato misurato in questi 30 anni di chiacchiere e di grida, in cui il nostro Paese ha proseguito nel suo arretramento verso la marginalità. Cosa si deve dare alla Politica? Si debbono offrire Persone, Competenze, Sentimento, Intelligenza. Coerenza. Visione. Che ciascuno con la sua esperienza avrà costruito. Ed il valore dell’Esperienza ed il suo limite son proprio lì. Che le Esperienze che si incontrano son diverse, per fortuna. Una Politica ha il Dovere della Sintesi ed ora il Paese purtroppo sa che significa scegliere e saper scegliere. Che le scelte sbagliate
feriscono il Paese ed il suo Futuro mentre i sussidi ed i bonus dati come elemosina a tacitare gli animi ed a comprare il consenso sono solo il sintomo dell’incapacità di scegliere. Il chiedere alle Energie di un Paese di dedicarvisi è chiedere tanto. A pochi. L’Antipolitica, l’uno vale uno, l’egualitarismo sostituito all’Eguaglianza di fronte alla Legge, sono la negazione del Valore che l’Individuo può dare alla propria Comunità. L’impegno individuale ha un Costo e chi lo nega è in malafede. Chi ancora ci racconta di una Politica fatta senza riconoscere un Valore a quell’Impegno è un “pataccaro”, uno che fa il gioco delle 3 carte fuori dall’Autogrill ed il Paese, che a quello ha già creduto, ora lo sa fin troppo bene. L’idea che un partito si raccolga attorno ai problemi che si presentano, elabori sul comune sentire delle decisioni da prendere nell’interesse del Paese e scelga di proporre i migliori al servizio della Comunità ha però già perso il primo ed il secondo round contro chi proponeva
A parere mio uno Stato inteso come un semplice Ente “erogatore di servizi” in concorrenza sul libero mercato anziché come il tutore degli interessi generali di una comunità che INSIEME individua quegli interessi. La Politica esprime quindi la capacità di riconoscere ed ordinare le priorità e di guidare le scelte e supporto e scudo per chi da solo certi Diritti non può tutelare. Le vicende tristissime del decennio appena trascorso hanno svelato il bluff, l’abitudine ad interpretare per gli amici ed applicare per gli altri delle norme volutamente costruite in modo contraddittorio e confuso, l’uso strumentale di un Concetto di Interesse Nazionale che, ancora una volta viene calibrato sulla contingenza, senza la capacità di quel confronto democratico che invece ne legittima l’individuazione. Gli ultimi 12 mesi ci hanno mostrato in modo chiaro come quel gioco non valesse la candela. L’abuso semantico ha sostituito ogni
elaborazione del Pensiero e con l’elemosina si è fatta politica sociale ed ora che “clade factum est”, a latte versato, si può solo prenderne atto. Delegando alla Parodia abbiamo affidato il Futuro dei figli di questo Paese a chi, annegato in un’ideologia debole, ha mostrato l’incapacità di passare dalla Protesta al Progetto. Dunque è il momento di ambire ad una partecipazione alla vita democratica più qualificata, larga, massiccia e determinata. Pretendendo e Costruendo Qualità, senza fingere di credere che il fango si faccia spontaneamente mattone. Ripensando la nostra
dalla riva
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Paola Antoniol
Comunità fuori da degli schemi esausti e tornando ai fondamentali del Confronto Democratico e di quelle geometrie costituzionali fatte di ruoli che troppi protagonisti sembrano aver scordato. L’Ingegnere Cesare Scotoni è Consigliere di Amministrazione della Patrimonio Trentino spa.
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In controluce di Waimer Perinelli
Salviamo la DEMOCRAZIA Ringrazio Cesare Scotoni per l’ammirevole volontà di interpretare la decadenza o mancanza della politica, riportata nell’articolo “Uno non vale uno”. Ci vuole tenacia per non arrendersi all’evidente scadimento della democrazia.
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el manifesto “Per una politica attiva” esordisce con l’attacco al libro “La Casta” di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, edito nel 2007, accusandolo a ragione di essere stato in ritardo di vent’anni. E’ vero ma era in anticipo di una decina di anni sull’ antipolitica proclamata dai Cinque Stelle del Vaffa del comico Grillo e dell’imprenditore piattaformista Casaleggio. La Casta è un libro ed una denuncia che è in anticipo anche sulle tesi del rottamatore Matteo Renzi al quale va riconosciuto il merito di avere tentato nel 2017/18,e in questo 2021 una risposta politica al degrado del nostro sistema democratico. Se lo stesso Salvini, avesse colto la novità del referendum del 4 dicembre 2016, approvando la riforma elettorale, ora sarebbe al governo da almeno tre anni. E invece si logora nella trebbiatrice, nella rete a strascico, dei cacciatori di poltrone, conservatori della propria, nel modo che nessuna democrazia matura può sopportare. Caro ingegnere, ottima ed intrigante la tua premessa: Cosa si deve dare alla Politica? La risposta: Persone, Competenze, Sentimento, Intelligenza. Coerenza. Visione. Aggiungerei Mediazione e Sintesi, che
anche tu citi. Come diceva Churchill: La democrazia altro non è che la dittatura di una maggioranza su di una minoranza. Una cinica interpretazione che tutti gli eletti allontanano con la dichiarazione: sarò il presidente di tutti, ben sapendo che prima di tutto vengono i desideri dei propri eletti e protettori riuniti attorno al partito che, per definizione rappresenta una parte. Ma il particolare non esclude il generale come hanno in passato dimostrato alcuni importanti leader . Togliatti, che pochi citano, seppe muoversi pur avendo il suo partito interessi e ideologie particolari, nell’interesse generale e non fu inferiore a Degasperi che muoveva da un’idea opposta e amministrava con sentimento, intelligenza, coerenza, visione: da persona competente. Ciò non lo sottrasse alla mortificazione dei poltronisti, delle tre carte, bianco e nero, la briscola e rosso perde. Il bianco diventerà in breve tempo fuligginoso e, cacciato Degasperi, riuscirà a portarci alle stragi di Milano, Brescia, Bologna.....alla P2, alla trattativa con la mafia. Poveri noi, che vuoi che sia la misera denuncia di Rizzo-Stella sulla meschinità individuale davanti
alla delinquenza di tanti piccoli uomini prestati all’interesse di pochi. Il ponte dei Frati neri a Londra, la finestra del Monte dei Paschi di Siena, il caffè amaro di Sindona, sono tentativi di . demolizioni della democrazia che venne salvata dalla parte onesta della società fortunatamente sempre presente. Anche Bettino Craxi, socialista riformista, che Francesco Cossiga classificava fra gli statisti italiani, fece parte dei salvatori. Pur travolto dall’accusa di corruzione non mortificò mai il Parlamento. Eccoci allora tornati alla tua domanda: cosa si deve dare alla politica? Sicuramente persone non comuni come speciali sono questi tempi. La politica chiede leader carismatici ovvero dotati delle qualità da te elencate; capaci di comunicarle e di applicarle nel modo giusto con il comportamento non solo con le parole. In una Paese dove politica e democrazia sono a infimi livelli corre la tentazione dell’uomo della provvidenza solo al comando ma non lasciamoci travolgere da leader che riconosciamo nell’ironica figura descritta da Beppe Fenoglio: “ Io sono il capo se avanzano li seguo”. Il Transatlantico galleggia, l’Europa ha impedito diventasse un Titanic, la Pandemia ci ossessiona , se non recuperiamo in fretta una democrazia parlamentare ordinata e credibile non ci saranno scialuppe per tutti e cominciano a scarseggiare anche i salvagente individuali.
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Arte, musica e spettacolo di Katia Cont
La PRIMA della scala virtuale: un’opportunità?
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esterà sicuramente nella storia “La Prima della Scala 2020”. Una Prima come quella scaligera, è già di per sé un avvenimento particolare, carico di tensioni, aspettative, critiche e gossip. In questa occasione, però non c’è stata solo una rappresentazione virtuale trasmessa in diretta dalla prima rete nazionale, ma per la prima volta in assoluto la Scala di Milano ha inaugurato la Stagione non con un’opera Lirica, ma con uno spettacolo di musica e danza in diretta televisiva. Bruno Vespa e Milly Carlucci hanno accompagnato il pubblico in un viaggio musicale trasmesso dalle 5 alle 8 del pomeriggio del 7 dicembre con quasi il 15% di share . Lo spettacolo per la regia di Davide Livermore, diretto dal Maestro Riccardo Chailly con la partecipazione di ventiquattro cantanti, ha portato “A riveder le stelle” in casa di tutti gli Italiani, offrendo un momento di rinascita sia culturale che spirituale. Certo non è la prima volta che la Rai trasmette la “Prima Scaligera”. Nel suo ruolo di servizio pubblico propone l’evento dal 2016 con sempre ottimi risultati
di auditel, ma si può pensare che questa “Prima” ha un significato diverso per chi l’ha vissuta dal palcoscenico e per chi l’ha seguita dal divano di casa. L’evento non è stato trasmesso live, ma registrato e questo ha permesso di moltiplicare le scenografie, ampliare il cast musicale e di inserire infinite sezioni recitate. Il risultato è stato la messa in scena di uno spettacolo sontuoso, elaborato e completo dal punto di vista di un evento culturale. La pandemia ha obbligato i teatri a chiudere al pubblico, ma non a smettere di lavorare al loro interno. Ciò ha permesso, sempre con l’adozione di tutte le attenzioni del caso, di portare in scena uno spettacolo dal grande impatto emotivo e significativo. Non mi addentrerò nella recensione dell’Opera e della sua esecuzione, quel tipo di analisi la lascio ai melomani deputati a farlo, la mia vuole essere una riflessione sull’effettiva possibilità di proporre questo genere di spettacolo anche tramite i canali web social e tv. Sicuramente però un’analisi va fatta, anche volta all’ampliamento della fruizione culturale. Per un popolo così segnato da evoluzioni televisive di dubbio gusto e
con una collettività ormai lontana da una coscienza culturale e critica, forse questa può essere una possibilità. Sì, perché non tutti possono permettersi di andare alla “Prima della Scala” o semplicemente di assistere ad un’Opera. Non solo per questioni economiche, ma per dinamiche famigliari e impegni che non lo permettono, per problemi di salute, o semplicemente perché non si ha voglia di andare da soli. Ci possono essere infiniti motivi per i quali una persona non può essere fisicamente in teatro a respirare l’odore del palcoscenico, percepire sulla pelle la tensione di un cantante, di un attore o di un ballerino prima di un debutto. Non sarà mai la stessa cosa certo, il pubblico ha bisogno di particolari sensazioni che solo il teatro dal vivo riesce a trasmettere, e l’attore, il cantante o il ballerino ha bisogno di sentire il pubblico, di scrutare le se espressioni di soddisfazione o di dissenso. Sono momenti fondamentali che dovranno ritornare. Ma ciò non vieta che ci possa essere sempre l’uno e anche l’altro, con i giusti equilibri e le giuste accortezze. Trasformiamo questa unica possibile alternativa in questo periodo come un’opportunità per il prossimo futuro.
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Una piccola “Grande” donna di Armando Munaò
Madre Teresa di Calcutta Fu d’esempio per tutto il mondo
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i conformazione minuta, ma di fede salda quanto la roccia, a Madre Teresa di Calcutta fu affidata la missione di proclamare l’amore assetato di Gesù per l’umanità, specialmente per i più poveri tra i poveri. Era un’anima piena della luce di Cristo, infiammata di amore per Lui e con un solo, ardente desiderio: “saziare la Sua sete di amore e per le anime”. Di lei diceva: “ Sono albanese di sangue, indiana di cittadinanza. Per quel che attiene alla mia fede, sono una suora cattolica. Secondo la mia vocazione, appartengo al mondo. Ma per quanto riguarda il mio cuore, appartengo interamente al Cuore di Gesù”. Madre Teresa nacque il 26 agosto 1910 a Skopje, città situata al punto d’incrocio della storia dei Balcani. La più piccola dei
cinque figli di Nikola e Drane Bojaxhiu, fu battezzata Gonxha Agnes, ricevette la Prima Comunione all’età di cinque anni e mezzo e fu cresimata nel novembre 1916. Dal giorno della Prima Comunione l’amore per le anime entrò nel suo cuore. L’improvvisa morte del padre, avvenuta quando Agnes aveva circa otto anni, lasciò la famiglia in difficoltà finanziarie. Drane allevò i figli con fermezza e amore, influenzando notevolmente il carattere e la vocazione della figlia. La formazione religiosa di Gonxha fu rafforzata ulteriormente dalla vivace parrocchia gesuita del Sacro Cuore, in cui era attivamente impegnata. All’età di diciotto anni, mossa dal desiderio di diventare missionaria, Gonxha lasciò la sua casa nel settembre 1928, per entrare nell’Istituto della Beata Vergine Maria, conosciuto come “le
Suore di Loreto”, in Irlanda. Lì ricevette il nome di suor Mary Teresa, come Santa Teresa di Lisieux. In dicembre partì per l’India, arrivando a Calcutta il 6 gennaio 1929. Dopo la Professione dei voti temporanei nel maggio 1931, Suor Teresa venne mandata presso la comunità di Loreto a Entally e insegnò nella scuola per ragazze, St. Mary. Il 24 maggio 1937 suor Teresa fece la Professione dei voti perpetui, divenendo, come lei stessa disse: “la sposa di Gesù” per “tutta l’eternità”. Da quel giorno fu sempre chiamata Madre Teresa. Continuò a insegnare a St. Mary e nel 1944 divenne la direttrice della scuola. Persona di profonda preghiera e amore intenso per le consorelle e per le sue allieve, Madre Teresa trascorse i venti anni della sua vita a “Loreto” con 13
Una piccola “Grande” donna
grande felicità. Conosciuta per la sua carità, per la generosità e il coraggio, per la propensione al duro lavoro e per l’attitudine naturale all’organizzazione, visse la sua consacrazione a Gesù, tra le consorelle, con fedeltà e gioia. Il 10 settembre 1946, durante il viaggio in treno da Calcutta a Darjeeling per il ritiro annuale, Madre Teresa ricevette l’“ispirazione”, la sua “chiamata nella chiamata” e da quel giorno la sete di Gesù per amore e per le anime si impossessò del suo cuore. Nel corso delle settimane e dei mesi successivi, per mezzo di locuzioni e visioni interiori, Gesù le rivelò il desiderio del suo Cuore per “vittime d’amore” che avrebbero “irradiato il suo amore sulle anime.” ”Vieni, sii la mia luce”, la pregò. “Non posso andare da solo” Le rivelò la sua sofferenza nel vedere l’incuria verso i poveri, il suo dolore per non essere
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conosciuto da loro e il suo ardente desiderio per il loro amore. Gesù chiese a Madre Teresa di fondare una comunità religiosa, le Missionarie della Carità, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri. Circa due anni di discernimento e verifiche trascorsero prima che Madre Teresa ottenesse il permesso di cominciare la sua nuova missione. Il 17 agosto 1948, a 37 anni, Suor Teresa indossa per la prima volta un “sari” (veste tradizionale delle donne indiane) bianco di un cotonato grezzo, ornato con un bordino azzurro, i colori della Vergine Maria e comincia la sua “grande” missione. Dopo un breve corso con le Suore Mediche Missionarie a Patna, Madre Teresa rientrò a Calcutta e trovò un alloggio temporaneo presso le Piccole Sorelle dei Poveri. Il 21 dicembre andò per la prima volta nei sobborghi: visitò famiglie, lavò le ferite di alcuni bambini, si prese cura di un uomo anziano che giaceva ammalato sulla strada e di una donna che stava morendo di fame e di tubercolosi. Iniziava ogni giornata con Gesù nell’Eucaristia e usciva con la corona del Rosario tra le mani, per cercare e servire Lui in coloro che sono “non voluti, non amati, non curati”. Durante l’inverno del 1952, un giorno in cui va cercando poveri, trova una donna che agonizza per la strada, troppo debole per lottare contro i topi che le stavano rodendo le dita dei piedi. La prende e
la porta all’ospedale più vicino, dove, dopo molte difficoltà, la moribonda viene accettata. A Suor Teresa viene allora l’idea di chiedere all’amministrazione comunale l’attribuzione di un locale per accogliervi gli agonizzanti abbandonati. Oltre alla vita che si spegne la fondatrice guarda anche alla vita nascente con l’apertura della Casa dei bambini, Shishu bhavan, dove accoglie i bambini abbandonati, trovati spesso nei bidoni della spazzatura. Molti progetti della Madre si vanno realizzando ma manca forse quello più ambizioso: togliere i lebbrosi, i suoi figli prediletti come li definisce, dagli slum. Va ogni giorno a trovarli e curarli nelle loro misere baracche ma spera di costruire per loro una città.
Sa già che la costruirà sul terreno di Asansol donatole dal governo, che dovranno abitarci 400 famiglie di lebbrosi e che la chiamerà “Città della Pace”, Chantinabal ma le manca il danaro. Grazie ad aiuti e premi, il villaggio della pace viene. All’interno della città ci sono i negozi, i giardini, l’ufficio postale e le scuole. Alcuni mesi più tardi si unirono a lei, l’una dopo l’altra, alcune sue ex allieve. Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione delle Missionarie della Carità veniva riconosciuta ufficialmente nell’Arcidiocesi di Calcutta. Agli inizi del 1960 Madre Teresa iniziò a inviare le sue sorelle in altre parti dell’India. Il Diritto Pontificio concesso alla Congregazione dal Papa Paolo VI nel febbraio 1965 la incoraggiò ad aprire una casa di missione in Venezuela. Ad essa seguirono subito altre fondazioni a Roma e in Tanzania e, successivamente, in tutti i continenti. A cominciare dal
Una piccola “Grande” donna
1980 fino al 1990, Madre Teresa aprì case di missione in quasi tutti i paesi comunisti, inclusa l’ex Unione Sovietica, l’Albania e Cuba. Per rispondere meglio alle necessità dei poveri, sia fisiche, sia spirituali, Madre Teresa fondò nel 1963 i Fratelli Missionari della Carità; nel 1976 il ramo contemplativo delle sorelle, nel 1979 i Fratelli contemplativi, e nel 1984 i Padri Missionari della Carità. Tuttavia la sua ispirazione non si limitò soltanto alle vocazioni religiose. Formò i Collaboratori di Madre Teresa e i Collaboratori Ammalati e Sofferenti, persone di diverse confessioni di fede e nazionalità con cui condivise il suo spirito di preghiera, semplicità, sacrificio e il suo apostolato di umili opere d’amore. Questo spirito successivamente portò alla fondazione dei Missionari della Carità Laici. In risposta alla richiesta di molti sacerdoti, nel 1991 Madre Teresa dette vita anche al Movimento Corpus Christi per Sacerdoti come una “piccola via per la santità” per coloro che desideravano condividere il suo carisma e spirito. In questi anni di rapida espansione della sua missione, il mondo cominciò a rivolgere l’attenzione verso Madre Teresa e l’opera che aveva avviato. Numerose onorificenze, a cominciare dal Premio indiano Padmashri nel 1962, del premio Balzan(1979) e dal rilevante Premio Nobel per la Pace nel 1979, dettero onore alla sua opera, mentre i media cominciarono a seguire le sue attività con interesse sempre più crescente. Tutto ricevette, sia i riconoscimenti sia le attenzioni, “per la gloria di Dio e in nome dei poveri”. Nel 1989 viene proclamata donna dell’anno. L’intera vita e l’opera
di Madre Teresa offrirono testimonianza della gioia di amare, della grandezza e della dignità di ogni essere umano, del valore delle piccole cose fatte fedelmente e con amore, e dell’incomparabile valore dell’amicizia con Dio. Ma vi fu un altro aspetto eroico di questa grande donna di cui si venne a conoscenza solo dopo la sua morte. Nascosta agli occhi di tutti, nascosta persino a coloro che le stettero più vicino, la sua vita interiore fu contrassegnata dall’esperienza di una profonda, dolorosa e permanente sensazione di essere separata da Dio, addirittura rifiutata da Lui, assieme a un crescente desiderio di Lui. Chiamò la sua prova interiore: “l’oscurità”. La “dolorosa notte” della sua anima, che ebbe inizio intorno al periodo in cui aveva cominciato il suo apostolato con i poveri e perdurò tutta la vita, condusse Madre Teresa a un’unione ancora più profonda con Dio. Attraverso l’oscurità partecipò misticamente alla sete di Gesù, al suo desiderio, doloroso e ardente, di amore, e condivise la desolazione interiore dei poveri. Durante gli ultimi anni della sua vita, nonostante i crescenti seri problemi di salute, Madre Teresa continuò a guidare la sua Congregazione e a rispondere alle necessità dei poveri e della Chiesa. Il profumo della carità di Madre Teresa ha raggiunto ormai i cinque continenti dove sono presenti più di 4000 dei suoi religiosi e religiose: in India le case sono 150, in altri paesi dell’Asia 30, in Oceania 10, in Europa 45, nelle Americhe 52 e in Africa 30. Nel marzo 1997 benedisse la neo-eletta nuova Superiora Generale delle Missionarie della Carità e fece ancora un viaggio all’estero. Dopo avere incontrato il Papa Giovanni Paolo II per l’ultima volta, rientrò a Calcutta e trascorse le ultime settimane di vita ricevendo visitatori e istruendo le consorelle. Il 5 settembre 1997 la vita terrena di Madre Teresa giunse al termine. Le fu dato l’onore dei funerali di Stato da parte del Governo indiano
e il suo corpo fu seppellito nella Casa Madre delle Missionarie della Carità. La sua tomba divenne ben presto luogo di pellegrinaggi e di preghiera per gente di ogni credo, poveri e ricchi, senza distinzione alcuna. Madre Teresa ci lascia un testamento di fede incrollabile, speranza invincibile e straordinaria carità. La sua risposta alla richiesta di Gesù: “Vieni, sii la mia luce”, la rese Missionaria della Carità, “Madre per i poveri”, simbolo di compassione per il mondo e testimone vivente dell’amore assetato di Dio. Meno di due anni dopo la sua morte, a causa della diffusa fama di santità e delle grazie ottenute per sua intercessione, il Papa Giovanni Paolo II permise l’apertura della Causa di Canonizzazione. Il 20 dicembre 2002 approvò i decreti sulle sue virtù eroiche e sui miracoli della “Santa dei Poveri”, iniziando di fatto il processo di beatificazione più rapido nella storia delle “cause” dei santi. Il 19 ottobre 2003, Papa Giovanni Paolo II ha presieduto la beatificazione di madre Teresa davanti a un’emozionata folla di oltre trecentomila fedeli. La sua canonizzazione avviene il 4 settembre 2016 sotto il pontificato di Papa Francesco.
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Società oggi di Erica Zanghellini
VITTIME del BULLISMO
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li episodi di bullismo ormai sono all’ordine del giorno e possono capitare a chiunque. I dati ci stanno indicare che, una buona parte di questi atti sia realizzato da ragazze. Anzi questo tipo di violenza, al femminile, è in costante crescita e i comportamenti che mettono in atto stanno diventando sempre più simili, se non uguali, ai comportamenti tipicamente dei bulli maschi. L’unica differenza è che spesso e volentieri, il bullismo al femminile è più subdolo. Si espongono le “amiche”, mentre la capo-bulla frequentemente resta in disparte. Alcuni genitori, in passato, mi hanno chiesto quali sono dei possibili campanelli di allarme che possono spingere ad approfondire se il proprio figlio si trova a subire atti di bullismo. Devo dire che non ci sono dei segnali specifici ma, sono due le cose a cui dobbiamo far attenzione: un calo del rendimento scolastico e il fatto che in un determinato momento cominci a lamentarsi di non voler andare più a scuola, o anche se frequenta normalmente, si lamenti assiduamente della classe o degli insegnanti. Infine, anche “strani” malesseri fisici che si ripetono nel tempo ma, che nel fine settima scompaiono, soprattutto nei più piccoli devono farci allertare. Logicamente questi due segni di disagio non si verificano solo nei ragazzi che subiscono questa forma di prevaricazione, ma sicuramente succedono anche a loro. Ma cosa fare se invece ci ritrovassimo nella situazione in cui sicuramente nostro figlio è stato preso di mira da un bullo? Si può facilmente ipotizzare che un ge-
nitore possa entrare in confusione e non sapere nemmeno lui cosa fare, come affrontare questa situazione delicata, fonte di estremo dolore e che spesso lascia delle cicatrici indelebili che accompagneranno il ragazzo per tutta la vita se non affrontate tempestivamente. Il primo consiglio che vi do è attenzione a non minimizzare, cercando di dare il giusto peso a quanto successo. L’obiettivo è far sentire il ragazzo compreso e passargli l’idea che noi siamo lì per ascoltarlo. Cerchiamo di rinforzare il comportamento di nostro figlio, il fatto che si sia fidato di noi e ci abbia confessato quanto subito, è importante. E’ fondamentale per lui, il poter condividere l’episodio traumatico ed è rilevante per noi in quanto ci permetterà di essere informati anche di ulteriori episodi. Tentiamo quindi di essere estremamente accoglienti e anche se dentro di noi crescono emozioni di rabbia oppure vendetta, cerchiamo di controllarci. Reazioni impulsive o rabbiose possono farlo chiudere in sé stesso e quindi rompere l’abitudine di riuscire a parlare di quanto gli succede. Adesso che ci siamo connessi con nostro figlio in modo funzionale, cerchiamo di
capire bene la situazione. Quante volte è avvenuto, in che termini, con che modalità, queste sono le domande a cui dobbiamo trovare le risposte. Tentiamo di non tralasciare niente, nemmeno quello che può a primo acchito, sembrare un dettaglio superfluo. Quello da capire è se c’è una ripetitività e che conseguenze ha su nostro figlio. Nel momento in cui abbiamo raccolto tutte le informazioni necessarie, rechiamoci a scuola per parlare e decidere come affrontare questa situazione. Il ragazzo deve essere a conoscenza delle nostre intenzioni. E’ importante riuscire a fargli capire che è necessario questo passaggio. Rassicuriamolo sul fatto che non passerà per spione e che si cercheranno i modi opportuni per affrontare quanto successo. Mi raccomando cerchiamo di resistere all’idea di andare in prima persona a risolvere la situazione, affrontando i ragazzi “carnefici” o a parlare con i genitori del bullo. Litigare con loro non farà altro che passare l’idea che vince il più forte e che i problemi si risolvono con le urla. Ed infine se la situazione risulta essere di difficile risoluzione, oppure se il ragazzo ha una sofferenza tale che inficia la sua qualità di vita, non abbiate paura e rivolgetevi a un professionista. Insieme troverete la strada migliore per elaborare e supportare vostro figlio.
Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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Uomo, società e religione di Franco Zadra
Parlando di vocazione… Siamo partiti, ci siamo rimessi in corsa cercando di massimizzare l’ottimismo a inizio di questo 2021 nel quale però ci ritroviamo già sfiniti, carichi di paure e con un calo impressionante di fiducia nelle voci rassicuranti che erano convogliate nello slogan di primo soccorso ideale «Andrà tutto bene!» “... e se non sarà bene lo faremo andare comunque”; poi è arrivata la seconda ondata che ci ha colti ancora impreparati (qualcuno dice che non abbiamo imparato nulla dalla prima, non è bastata quella a educarci…), e la paura per la terza sembra corrodere già ogni speranza, alla velocità del fulmicotone.
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n genio del ‘900 riconosciuto a livello globale nel campo dell’educazione, don Luigi Giussani, era solito definire la speranza come «una certezza nel futuro in forza di una realtà presente», definizione che forse dovremmo imparare a memoria e ripetere di continuo per abituarci a collegare parole
e concetti alla nostra esperienza di vita. Senza certezze non c’è futuro, e la realtà è innanzi tutto una Presenza che possiamo cogliere, anzi, dobbiamo cogliere per avere forza di vivere. Questa premessa “ambientale” serve a mio avviso per guardare con realismo a quella che viene definita in gergo giornalistico “crisi delle vocazioni”, cioè, il nome che viene dato a l’impressionante calo di spinta ideale che pensiamo di poter misurare per cui, per esempio, dai tanti aspiranti al sacerdozio di un tempo, si è finiti nel corso dell’ultimo mezzo secolo con conventi e seminari svuotati, oltre che registrare una partecipazione ai sacramenti (nessuno escluso, l’eucaristia, come anche il matrimonio) al minimo storico, così come sembra essere dissolto il riguardo che comunemente si aveva alla cura per una spiritualità di qualche genere, e
non si intravvedono avvisaglie di possibili riprese. Vorrei evitare i numeri perché in questo ambito non sono in grado di cogliere nella sua verità la portata del fenomeno che intendo affrontare. Non c’è nulla di più impattante nell’esistenza personale di ciascuno di noi che la propria vocazione. Una questione di vita o di morte tra le più gravi, ma anche solitamente la meno considerata. Non ha molta importanza sapere che siamo in Italia ormai sotto la soglia del 7% come partecipazione alla vita ecclesiale; importa piuttosto sapere che c’è una possibilità per me di salvare la mia vita, qualunque sia la mia condizione esistenziale o la mia condotta morale. È il Dio della vita che dobbiamo riconoscere come Padre Nostro (e la statistica della vita si risolve sempre in un sì o un no, presente o assente, 0 o 100), un Dio che
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Le aziende (industriali, commerciali e artigianali) che desiderassero pubblicare su FELTRINO NEWS un pubbliredazionale o un’intervista specifica mirata all’attività aziendale, possono farlo contattando il ns. responsabile dell’Ufficio pubblicitario, Sig. Gianni Bertelle (340 302 0423 – email: gianni.bertelle@gmail.com) oppure inviando una email a: direttore.feltrinonews@gmail.com. Un giornalista di FELTRINO NEWS avrà il piacere di contattare il titolare - o chi per esso - per la realizzazione del servizio richiesto, secondo le modalità e le esigenze d’azienda.
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Uomo, società e religione chiama e sceglie te in particolare per realizzare il suo progetto di vita. L’immagine poetica che incontriamo nel libro di Isaia (11,1) “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici”, descrive un avvenimento di vita inaspettato, insperato, statisticamente improbabile, eppure reale. Qualche cosa che i nostri calcoli, le nostre previsioni, i numeri, ci confermano come impossibile. Quindi perché perderci del tempo o farsi suggestionare da prospettive nefaste, a che serve dire “non c’è più religione”? Piuttosto serve mettersi nella prospettiva che fu di Gesù e del detto evangelico che sempre si ricorda quando si parla di vocazioni, «la messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!». Per la brevità di questo scritto, mi soffermo solo sulla parola “operai” che in sé manifesta un ribaltamento radicale rispetto al
pensiero comune. Quando mai si parla di operai per dire di una penuria? Sono gli operai a chiedere il lavoro che di solito manca, piuttosto che l’abbondante lavoro che necessita di operai… Questo termine dice anche quanto siamo fuori strada quando pensiamo alla vocazione come a qualche cosa di specialistico, riservato a professionisti. Dice poi che per rispondere alla propria vocazione non è detto si debba avviarsi al sacerdozio o farsi suora; basta (nel senso che è sufficiente a completare la propria risposta a una chiamata) impegnarsi in quello che si sta facendo con la coscienza, la dedizione, e la responsabilità di chi sa che è ciò che gli viene chiesto dal Creatore; che le persone che incontriamo e vivono intorno a noi, sono sempre “la carne” di Dio che possiamo toccare e vedere, secondo la logica del Natale, del Dio fatto uomo, “Verbum caro factum est”. Per concludere, è andato in onda su Rai
uno il film Tv, “Chiara Lubich – L’amore vince tutto”, arrivato quasi al 25% di share. Circa 6 milioni di italiani hanno seguito la storia della fondatrice del Movimento dei Focolari che, negli anni della Seconda guerra mondiale, si sente chiamata a costruire un mondo migliore, più unito, diventando testimone e fautrice convinta della fratellanza universale come presupposto di dialogo e pace tra gli uomini. Penso che testimonianze come quella di Chiara Lubich dicano bene, al di là di tante chiacchere, che cosa sia la vocazione e come funziona.
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In filigrana di Nicola Maccagnan
“Meno Stato e più Privato”… … fino a prova contraria.
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l periodo che stiamo attraversando, quello difficilissimo legato all’epidemia mondiale da Covid-19, porta con sé molte riflessioni. Una di queste riguarda, alla luce dei fatti che si sono succeduti in questi mesi, il ruolo dello Stato, o meglio del “Pubblico”, nella gestione dei processi economici, e quindi sociali, su scala nazionale. Guardandoci appena alle spalle, vediamo come l’ultimo trentennio sia stato caratterizzato da una spinta che potremmo riassumere nello slogan “Meno Stato, più Privato”. Soprattutto nelle democrazie occidentali, ma non solo, abbiamo assistito ad un progressivo ridimensionamento del ruolo del “Pubblico” appunto, a vantaggio dell’iniziativa e dell’impresa privata. E questo
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in molti ambiti un tempo appannaggio quasi esclusivo degli organismi e delle istituzioni pubbliche. Per quali motivi? Come spesso accade spiegazioni semplicistiche rischierebbero di essere riduttive e fuorvianti. Certo la necessità dei governi di fare cassa, mettendo sul mercato partecipazioni a volte rilevanti di società un tempo strategiche per gli stati nazionali ha avuto la sua influenza, così come l’incapacità degli stessi governi di garantire un approccio moderno e al passo con i tempi nella gestione di numerosi servizi, assegnati progressivamente in outsourcing (ovvero in appalto esterno). Tanto per restare a casa nostra gli esempi potrebbero essere innumerevoli e basterà citare i casi della gestione delle reti telefoniche o di quelle stradali
e autostradali, senza parlare – lo fanno ahinoi anche le cronache di questi giorni – della travagliatissima storia della compagnia aerea di bandiera, alle prese con l’ennesimo tentativo di salvataggio. E che dire della sanità, o meglio della salute, un tempo terra di esclusiva competenza pubblica e progressivamente demandata, soprattutto in alcune regioni, all’intervento dei privati? Fatto sta che il mantra secondo cui il “Privato” risponde a criteri di economicità ed efficienza molto meglio del Pubblico è diventato negli ultimi decenni patrimonio condiviso dall’opinione pubblica; anche perché, sempre fermandoci alle vicende italiche, il Pubblico - pur con le dovute distinzioni - non ha certo lesinato gli esempi di cattiva, se non pessima gestione. Che qualcosa in questo ragionamento non fosse però così lineare e indiscutibile si era capito già da un po’ di tempo. Per lo meno dalla gravissima crisi economica del 2008-2009, generatasi proprio in quel comparto finanziario che rappresenta uno degli esempi massimi della (grande) impresa privata. Comparto per il cui salvataggio scesero
In filigrana massicciamente in campo con l’immissione di montagne di denari i governi di mezzo mondo e le autorità sovranazionali (toh, il Pubblico!). Che qualcosa, ancora, non funzioni lo ha però sottolineato, in maniera addirittura più drammatica, la pandemia del 2020, che ha mostrato come molti Paesi, anche e soprattutto proprio quelli delle economie occidentali, si siano fatti trovare impreparati, sguarniti sia sul piano organizzativo, che, in maniera quasi grottesca, sul fronte delle dotazioni strumentali, degli impianti, delle strutture. Non vale neanche la pena ricordare qui le tristi vicende legate all’approvvigionamento frettoloso di mascherine, ventilatori polmonari, letti per la rianimazione, acquisiti spesso in fretta e furia, con procedure d’urgenza, in barba a criteri di economicità ed efficienza (e non senza gli inevitabili scandali giudiziari). Il Pubblico non si è fatto trovare pronto, e forse perché non è più abituato a farlo, verrebbe da dire. Anche su questi temi riflette Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’Innovazione e del Valore Pubblico presso l’University College of London, consulente di vari governi e della Commissione Europea. Scrive Mazzucato nel suo ultimo libro
dal titolo “Non sprechiamo questa crisi” (Ed. Laterza): “Anni di cronica mancanza di investimenti pubblici si manifestano oggi con la massima evidenza nell’inadeguatezza delle scorte di dispositivi medici in molti dei paesi più ricchi del mondo. Ciò ha fatto emergere anche la scarsità di lavoratori essenziali in settori chiave dell’economia, come l’assistenza sanitaria, dovuta a una persistente sottovalutazione delle potenzialità del settore pubblico di migliorare il benessere aggregato”. E ancora: “Si rende ora necessaria una nuova era di investimenti pubblici per riorganizzare il nostro
panorama tecnologico, produttivo e sociale, fondata sulla consapevolezza che le nostre economie si evolvono sempre in una direzione. Ci siamo lasciati ossessionare dalla velocità della crescita anziché guardare alla direzione che prendeva. Se lasciate libere di agire, le economie di mercato tendono a prendere direzioni che privilegiano il breve termine o l’estrazione di valore, come la finanziarizzazione e la deindustrializzazione a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni”. “Non è una questione di più Stato o meno Stato, ma di uno Stato di tipo diverso: uno Stato che sia in grado di agire come investitore di prima istanza”, scrive ancora Mariana Mazzucato. E non solo come prestatore estremo nel salvataggio di imprese (private) già compromesse o catastrofiche. Nessuna demonizzazione dell’iniziativa privata, sia ben inteso. Sarebbe antistorico e controproducente per il nostro sistema economico e sociale, ovvero per la qualità stessa delle nostre vite. Ma, questo sì, che ognuno torni a fare il proprio mestiere, e il Pubblico torni a fare il pubblico, ovvero a decidere “in proprio” nei settori strategici di maggiore interesse generale, assumendosi le responsabilità nel dare...una direzione.
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Le donne nella storia di Chiara Paoli
Chiara Lubich, ponte fra culture
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l film TV “Chiara Lubich – L’Amore vince su tutto”, per la regia di Giacomo Campiotti, è stato recentemente messo in onda e visto da moltissimi trentini e italiani. Il film è stato apprezzato ma in molti si sono chiesti se non sarebbe stato meglio proporre una miniserie in 2 puntate per approfondire ulteriormente la sua storia. Nella versione cinematografica, la protagonista viene sempre chiamata Chiara, ma il suo nome all’anagrafe era Silvia, nata a Trento il 22 gennaio 1920. Silvia sceglie di divenire Chiara, seguendo le orme dell’omonima Santa di Assisi, nell’autunno del ‘42, quando entra a far parte del Terz’Ordine francescano. Come appare dalla trasposizione televisiva, la vita per la sua famiglia non è stata semplice. Il 7 dicembre 1943 Chiara pronuncia il voto di castità, segue la parte di storia narrata attraverso il film TV; l’orrore della guerra, Chiara che assieme
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ad altre giovani, in primis Natalia Dallapiccola legge il Vangelo e vi trova tutto l’amore di Dio per il prossimo, dando avvio al movimento dei focolari, nella convinzione che «è l’Amore la salvezza del XX secolo» 1. Chiara e le sue compagne si attivano per aiutare i più poveri, mettendo a disposizione quel poco che hanno e chiedendo a chi le circonda di fare altrettanto. Il vescovo di Trento Carlo De Ferrari, ascolta Chiara e sostiene il suo operato, vedendoci “il dito di Dio”. Questa esperienza viene ufficialmente riconosciuta il 1º maggio del 1947, con l’approvazione dello “Statuto dei Focolari della Carità – Apostoli dell’unità”. Nell’estate del “Paradiso ‘49”, come verrà ribattezzato questo periodo che Chiara passa con le sue compagne in Primiero, sulla fondatrice del movimento si concentrano molteplici «comprensioni
spirituali». Nell’autunno del 1948 aveva intanto preso avvio il primo focolare maschile, grazie a Marco Tecilla e Livio Fauri. Dal 1950 per 9 anni sui monti trentini, si radunano ogni estate moltissime persone, provenienti da diversi paesi, dando forma al primo gruppo multiculturale rinnovato nel Vangelo, che verrà definito “Mariapoli” (città di Maria). Nel 1953 a Fiera di Primiero, c’era anche Alcide De Gasperi e nel ‘59, sono oltre 10.000 le persone giungono lassù da 27 Paesi. Nel 1953 entrano a far parte del focolare anche persone sposate, il primo è Igino Giordani, pioniere dell’ecumenismo che diverrà un valido aiuto, tanto da essere individuato quale co-fondatore del Movimento insieme al pistoiese Pasquale Foresi. Ma Dio Amore spaventa e si affacciano accuse di fanatismo, comunismo e protestantesimo. Chiara viene allontanata dal Movimento su richiesta del Sant’Uffizio nel febbraio del ‘52 per provare se l’opera da lei fondata fosse veramente opera di Dio. Solo dopo 12 anni viene riconosciuta la volontà divina di questo progetto e nel ‘65 Paolo VI riconosce pubblicamente Chiara quale fondatrice e presidente del Movimento. 1956 rivoluzione ungherese, Chiara incontra a Vienna un combattente, in queste tragedie vede l’assenza di Dio e
Le donne nella storia
mentre papa Pio XII invia un radiomessaggio, lei stessa invia un suo messaggio, invitando a “edificare una società nuova, rinnovata dalla Buona Novella, sempre antica e sempre nuova, dove splendano con l’amore la giustizia e la verità. Una società che testimoni un solo nome: Dio” 2. A rispondere sono molte persone comuni che per primi vanno a costituire i ranghi dei “volontari di Dio”, che si suddivideranno successivamente in centri specifici, dedicati alla politica, all’economia, alla medicina e all’arte, fino a divenire nel 1968 il movimento “Per una Società Nuova”, definito poi “Umanità Nuova”. Chiara nelle pagine del periodico “GEN”
invita i giovani di tutto il mondo ad unirsi, per divenire un tutt’uno come dice il Vangelo, nasce il movimento Gen (Generazione nuova). Nel ’72 prevede l’irreversibilità dell’incontro tra i popoli e al V congresso internazionale del movimento Gen presenta il nuovo modello di Uomo-mondo, cui seguiranno i movimenti Giovani per un mondo unito (1985) e Ragazzi per l’unità (1984). Il 19 luglio 1967 Chiara fonda il movimento Famiglie Nuove, affidando alle famiglie che la seguono, quelle smembrate o in difficoltà. Chiara chiama all’unità nel nome dell’amore di Dio, anche tutti coloro che operano nella chiesa. Già nel 1967 il Movimento dei focolari è diffuso nei 5 continenti, Chiara si reca personalmente e invia focolarini ove vi sia bisogno, a partire dalla Cecoslovacchia, dove la chiesa era perseguitata; ma anche in Africa a Fontem in Camerun, dove gli abitanti erano a rischio estinzione. Nel 1991 è a San Paolo in Brasile, dove si confronta con la miseria delle favelas e promuove un Economia di comunione per la lotta alla povertà. Chiara intesse rapporti con la comunità luterana, riformata e anglicana; si reca più volte a Istanbul, dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora, con cui instaura un profondo legame spirituale. Rapporti fraterni la legano ai membri del Consiglio Ecumenico delle Chiese e grande
amicizia con Frère Roger Schutz, fondatore della comunità ecumenica di Taizé. Nel 1977, a Londra, riceve il Premio Templeton per il progresso della religione. L’eco suscitata in personalità di varie religioni le aveva fatto intuire di dover dare concreto sviluppo al dialogo interreligioso e così si trova a raccontare la sua esperienza di Dio a buddisti, musulmani, ebrei e indù. Chiara dedica la sua opera a perseguire l’unità tra i popoli e la fraternità universale, figura di spicco per quanto concerne il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale. Sempre pronta a trovare l’unità tra le persone, ha ricevuto nella sua vita molteplici riconoscimenti, cittadinanze onorarie e lauree Honoris Causa. Ci lascia molteplici scritti che testimoniano la sua grande spiritualità, che la vede entrare a pieno diritto tra i mistici della modernità; molte le meditazioni e i testi su argomenti vari. Chiara Lubich muore a Rocca di Papa il 14 marzo 2008. Il 27 gennaio 2015, nella cattedrale di Frascati, è stata aperta la sua causa di beatificazione e canonizzazione, motivata da papa Francesco con queste parole: «far conoscere la vita e le opere di colei che, accogliendo l’invito del Signore, ha acceso per la Chiesa una nuova luce sul cammino verso l’unità».3
1) C. Lubich, Lettera a Duccia Calderari, Avvento 1944, in Lettere dei primi tempi. Alle origini di una nuova spiritualità, Città Nuova, Roma 2010, p. 53. 2) C. Lubich, I volontari di Dio, in «Città Nuova» (1957), n. 1/, in C. Lubich, Attualità – Leggere il proprio tempo, a cura di M. Zanzucchi, Città Nuova, Roma 2013, pp. 11-13. 3) https://www.repubblica.it/esteri/2015/01/28/news/chiara_lubich_beatificazione_focolarini_papa_francesco-105966232/
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La società dell’immagine di Patrizia Rapposelli
La chirurgia estetica incontra il pentimento “Tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini sono soltanto degli attori che hanno le loro uscite e le loro entrate. E ognuno, nel tempo che gli è dato recita molte parti”. (William Shakespeare)
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ella nostra società esistere vuol dire essere percepiti e per farlo l’immagine di sé deve adattarsi alla figura voluta dalla stessa. La chirurgia estetica diviene quindi la via più gettonata, in particolare tra i vip, per la rielaborazione del proprio aspetto. La dimensione dell’apparenza è parte di questa realtà occidentale che a partire dal mondo mediale detta mode e modelli stigmatizzati di donne dalla bellezza costruita. Così l’industria del gossip si presenta come regno e pollaio di una discussione collettiva incentrata sulla “fiera delle vanità”, dove la figura femminile denaturalizzata, a patto con una maschera, ricerca prestigio e fama nel teatro della “società dell’immagine”. I media impongono un determinato immaginario estetico che diventa assoluto e nel tempo annulla il punto di vista individuale per modellare i desideri a sua volontà. Un’esplosione di addominali e silicone, come dice Lorella Zanardo, ci sorride ammiccante dagli schermi televisivi e dalle pagine internet, offrendo corpi idealizzati e poco reali di donne che per emergere o per
nascondere il loro reale io si sono velate dietro ad un’apparenza. L’intervento maggiormente richiesto risulta essere la mastoplastica additiva, ossia l’aumento del volume del seno, con il conseguente pentimento dell’operazione; infatti in particolare in questo ultimo anno osserviamo un vertiginoso aumento di mastoplastiche riduttive, oltre testimonianze che vedono nel ricorso alla chirurgia estetica un grave errore. Significativa è l’età delle giovani donne che non accettandosi sono pronte a ricorrere alle pratiche chirurgiche per adempiere ad una ricerca di bellezza finta imposta dall’esterno; l’insicurezza di non essere come gli altri vorrebbero sembra scontrarsi con un carattere vulnerabile e poco personale della generazione degli anni novanta ad oggi. La rielaborazione della propria immagine nella società dell’apparire incide efficacemente sull’aspetto interazionale e sociale, vediamo la propria forma divenire mezzo comunicativo rapido e diretto, consapevoli che “il bello” è veicolo di successo. Così le over cinquanta richiedono sempre più ritocchini contro l’invecchiamento e le primissime adulte cambiano se stesse per compiacere; in realtà la chirurgia estetica e spettacolo vanno di pari passo, sono due mondi che nel corso del tempo hanno avuto modo di procedere congiunti e spediti: il voler apparire secondo canoni di bellezza condivisi ha indotto molti vip a sottoporsi a correzioni che nei casi maggiori hanno snaturato la reale femminilità della
persona. Ad oggi invece la pratica chirurgica viene associata al pentimento, rilegando il voler essere qualcun altro all’insicurezza e ad un ideale irraggiungibile, il quale cancella l’unicità di ognuno. In materia antropologica il corpo, nella sua versione naturale, appare come una pagina bianca su cui poter scrivere; il corpo “culturale”, elaborato, dipinto, segnato dal tempo, diventa un testo, scritto in una lingua particolare, che solo la rispettiva cultura è in grado di decifrare e che rende la persona “tale in quanto tale”; mi soffermerei a riflettere su questo pensiero. Nella società odierna, dove il mascherare se stessi inizia ad incontrare un pentimento generale, non abbiamo nulla da decifrare, se non un immagine finta che cancella ogni traccia di unicità.
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è nostra corrispondente USA
Biden ha giurato:
è il 46esimo Presidente USA
I
l 20 gennaio scorso, il candidato democratico Joe Biden ha prestato giuramento, diventando il 46mo presidente degli Stati Uniti. Biden era stato ufficialmente dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali USA il 3 novembre scorso, aggiudicandosi 306 dei 270 grandi elettori necessari per battere Donald Trump. A seguito dei vittoriosi ballottaggi tenutosi il 5 gennaio in Georgia, il partito democratico ora controlla sia il potere esecutivo, che quello legislativo (camera e senato). Il neoeletto presidente USA si trova pertanto in una situazione di vantaggio nella realizzazione del suo programma elettorale. L’insediamento In occasione di ogni insediamento si tiene una cerimonia ufficiale conosciuta come Inauguration Day. Il presidente-eletto presta giuramento e quello uscente dà il benvenuto al presidente entrante. Rompendo dalla tradizione, l’ex Presidente Trump e la first lady Melania hanno lasciato la Casa Bianca prima dell’insediamento del nuovo presidente. La Costituzione USA prevede l’inizio
ufficiale del mandato presidenziale a mezzogiorno del 20 gennaio successivo alle elezioni e che il Presidente eletto presti giuramento prima di entrare in carica. Biden ha giurato fedeltà agli Stati Uniti sulla Bibbia di famiglia del 1893, sorretta dalla moglie Jill e con lui ha prestato giuramento anche la prima vicepresidente donna e afroamericana, Kamala Harris. Nel discorso d’insediamento il Presidente USA ha puntato sull’unità degli americani, sulla verità opposta alle fake news, e sulla necessità di ricostruire la nazione dopo i danni della pandemia e delle divisioni politiche. “La democrazia è preziosa e fragile, ma qui negli USA ha prevalso,” ha detto Biden in riferimento agli ultimi avvenimenti, aggiungendo “c’è tanto da riparare e da guarire.” Le critiche A seguito della cerimonia di insediamento, sono immediatamente partite le prime critiche: in molti si
sono indignati per l’extravaganza delle celebrazioni, con tanto di fuochi d’artificio, in un momento dove il Paese è in ginocchio a causa della pandemia e per aver bloccato l’intera città di Washington DC il giorno dell’inaugurazione, per favorire la sicurezza del Presidente e delle celebrities che sono accorse per la cerimonia. L’amministrazione Biden è stata inoltre criticata per aver dato indicazioni alla guardia nazionale di dormire in un parcheggio nei giorni della cerimonia. I primi provvedimenti E il neo Presidente non ha perso tempo. Una volta prestato giuramento, Biden ha firmato 15 ordini esecutivi per fare retromarcia sulle posizioni prese da Trump. Tra i provvedimenti l’obbligo di indossare la mascherina all’interno degli edifici federali e quello per mettere fine alla situazione di emergenza dichiarata da Trump per reperire i fondi necessari alla costruzione del muro al confine col Messico. Ha inoltre emanato un provvedimento per rientrare a far parte degli Accordi di Parigi sul clima e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a seguito dell’uscita degli USA su ordine dell’ex presidente Trump. Il neopresidente Joe Biden sta lanciando un forte messaggio: basta isolazionismo, l’America è tornata.
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Feste e ricorrenze di casa nostra di Waimer Perinelli
Il SOLE INVICTUS e il CARNEVALE È il 21 dicembre quando il sole solleva il cupo mantello dell’autunno e fa capolino fra le foschie annunciando l’avvio di una nuova stagione. Sol invictus, il sole vittorioso, dicevano i romani, il nostro astro che sconfigge le nebbie autunnali e torna a prevalere sulle tenebre. Si prepara la primavera. I nostri avi nel tardo romano impero celebravano questo giorno con una grande festa rinnovata e sovrapposta dal cristianesimo al Natale, ovvero la nascita del Redentore, da cui ogni celebrazione pagana è stata definitivamente cancellata.
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a la tradizione e la tenacia della cultura popolare riprendono il sopravvento già a gennaio con la festa dell’Epifania. Hai voglia a raccontare che si tratta del giorno della manifestazione del Bambino Santo al popolo con l’arrivo dei Re Magi alla capanna: appena usciti dal portone della chiesa, l’epifania è il giorno della Befana, la strega con la scopa volante, preludio alle festività del Carnevale. La Befana il sei gennaio vola sopra le vallate, salutata dai falò, o fuochi propiziatori, che nell’Agordino si chiamano Pavarui; nella val di Zoldo sono i Paaruoi; a Rocca Pietore i Pagaruoi. Un tempo nell’alto Agordino e
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nel Cadore era diffuso il rito della Donaza o Redodesa assimilabile proprio alla Befana, la vecchia che fa dispetti ai bimbi cattivi e porta dolcetti ai buoni. I fuochi accesi all’imbrunire e alimentati tutta la notte pronosticano con il loro fumo l’ andamento dell’anno. Nella valle dei Mocheni, del Trentino orientale, abitata da una comunità germanofona, a questo rito
s’accompagna quello della Stern o Stella, di Natale, presente in Carinzia come nel sud Tirolo. I coscritti portano un’ insegna a forma di stella a sei punte, di casa in casa per annunciare la nascita di Gesù e l’arrivo dell’Epifania. Martin Lutero riteneva il rito poco aderente al Vangelo ma la Chiesa della Controriforma grazie ai gesuiti lo rafforzò proprio per ribadire il proprio primato. Tuttavia, vuoi perché fuori faceva freddo e le case di montagna avevano sempre un bel fuoco e molta grappa, l’annuncio si tramutava spesso in baldoria e bagordi. Per questo la Chiesa pensò di raffreddare gli animi con un po’ di cenere come si fa con il fuoco e la tradizione venne lentamente sopita per tornare più viva che mai ai nostri giorni. L’ antico proverbio recita: l’Epifania tutte le feste si porta via. E’ vero, ma solo fino al Carnevale ovvero alla festa più trasgressiva dell’anno
Feste e ricorrenze di casa nostra quella che precede la Quaresima il periodo in cui, aspettando degnamente la Pasqua con la morte e risurrezione del Salvatore, si toglie la carne dalla tavola . Il Carnevale(Carne-Levare) è una festa che non ha una data fissa ma si basa sul ciclo lunare. Nella Chiesa Cattolica corrisponde alla domenica di Settuagesima ed è celebrata circa settanta giorni prima della Domenica di Pasqua segnando l’inizio del cosiddetto Tempo di Settuagesima o Tempo di Carnevale, un periodo di preparazione alla Quaresima, in cui si inizia, come detto, l’astinenza dalle carni nei giorni feriali. Quest’anno l’inizio di questa festività è avvenuto il 31 dicembre. Poiché tutto ciò ch’è bello prima o poi finisce anche per la festa di Carnevale arriva un termine che per
quest’anno è il 16 febbraio. Come vuole la tradizione il periodo è segnato da banchetti a base di frittelle, grostoi, frappe, bugie, strauben, gnocchi e sfilate di carri, manifestazioni folcloristiche, scherzi, mascherate con i costumi che un tempo erano ricavati da abiti dimessi o comunque confezionati in casa con nastri e fiori colorati e le maschere erano rigorosamente realizzate in legno da artisti locali secondo una tradizione tramandata da padre a figlio. In valle di Fassa i Matoci ed il Bufon aprono le sfilate per i paesi ladini; Matoci e facere di legno in
Valfloriana e Valle di Non; nel Comelico ci sono i Lachè e il Matazin, il matto sopravvissuto alle proibizioni del Concilio di Trento, che a Venezia lanciava uova “profumate” ai passanti. Il caratteristico Carnevale del Comelico culmina con la Mascherata di Santä Ploniä a Dosoledo, una colorata e allegra sfilata aperta dalle maschere. Ancora oggi in quasi tutti i paesi della provincia di Belluno è tradizione festeggiare il Carnevale con varie iniziative: fiaccolate mascherate, balli. Negli ultimi anni anche Canale d’Agordo ha recuperato l’antica tradizione del Carnevale con la festa della Zinghenesta, una sfilata di maschere e personaggi caratteristici aperta dalla ragazza più bella del paese, la Zinghenesta appunto, con un abito colorato e ornato di fiori e nastri che guida il corteo fino alla piazza principale dove continuano i balli. A Fornesighe di Forno di Zoldo, invece, la Gnaga non è solo la maschera tradizionale di una vecchia che porta nella gerla un giovane a simboleggiare l’anno vecchio che porta la primavera, ma anche un apprezzato concorso di scultura dei volti lignei dei Carnevali di montagna. A Grauno, un
paesino di 150 abitanti in valle di Cembra, l’ultimo giorno di Carnevale, detto anche martedì grasso, da qualche tempo si rinnova il rito del pino bruciato. I coscritti del paese e di quelli vicini trascinano un grosso pino fino ad una collinetta fuori dall’abitato, lo rivestono di paglia ed altro materiale infiammabile e lo incendiano. E qui termina il periodo di carnevale dove si dice “ogni scherzo vale”, per lasciare il posto al mercoledì delle ceneri con le quali si cosparge il capo per ricordare la brevità della vita. Inizia con questo rito la Quaresima, quaranta giorni precedenti la Pasqua, durante il quale si è invitati a riflettere sulla caducità della vita. Nel frattempo il sole invitto continua a raddrizzare i suoi raggi sulla terra e con l’equinozio del 20 marzo, quando la notte è lunga quanto il giorno, arriva la primavera ed a rinascere è tutta la natura.
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Ieri avvenne... di Franco Zadra
Albert Einstein compie 142 anni
Il 14 marzo 1879, nasceva a Ulm, nella dispotica Germania di Bismarck, Albert Einstein, da genitori ebrei non praticanti che un anno dopo la sua nascita si trasferirono a Monaco di Baviera dove il padre Herman apre, con il fratello Jacob, una piccola officina elettrotecnica. Introverso e solitario, impara a parlare molto tardi ma il suo contributo alla scienza fisica e alla filosofia ha prodotto una rivoluzione con nuove idee e un nuovo modo di pensare che sono ancora oggetto di studio e approfondimento, se non di accettazione e applicazione, alla base delle credenze comuni e condivise dagli scienziati. Disse di sé: «Per essermi ribellato contro ogni forma d’autorità il fato mi ha punito facendo di me un’autorità».
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adre della fisica moderna, prima di lui gli scienziati pensavano che l’universo fosse infinito, Einstein propose l’idea di uno spazio tridimensionale curvo e chiuso, all’interno del quale, se immaginassimo di volare seguendo una linea retta, così come accade in un volo attorno al pianeta, non incontreremmo mai un confine fisico, e lo dimostra nella sua teoria della relatività generale, e cioè che lo spazio tridimensionale del nostro universo può
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essere curvo e finito proprio come lo è la superficie curva della Terra. Albert Einstein è una grande figura di transizione nella storia della fisica. Come Isaac Newton completò la transizione, iniziata da Galileo, dalla fisica scolastica medievale a quella classica, egli guidò la transizione dalla fisica newtoniana, che considerava l’universo oggettivo come qualche cosa di predeterminato, immodificabile, dove gli ingranaggi del grande orologio cosmico girano indifferenti alle
vicende umane come le stelle nel loro moto silenzioso, per cui si poteva affermare, in un certo senso, che l’eternità era già trascorsa, alla teoria quantistica degli atomi e della radiazione, e cioè a una nuova fisica non newtoniana che però non riconobbe mai poiché gli ripugnava ammettere che alla base della realtà fisica regnasse il caso. Diceva, infatti, «Dio non gioca a dadi con l’universo». In uno studio psicoanalitico dedicato all’infanzia di Einstein, il famoso psi-
Ieri avvenne cologo Erik Erikson lo descrisse come «Albert, il bambino vittorioso», nel quale, per carattere e per l’educazione ricevuta, era presente un senso di profonda fiducia nell’universo e nella vita, elementi fondamentali di ogni autonoma ricerca alle frontiere della conoscenza umana. Pur non essendo propriamente degli intellettuali, i suoi genitori erano rispettosi della cultura e amanti della musica. Non essendo ebrei osservanti, lo avevano iscritto a una scuola cattolica, dove fu preso da una temporanea ma intensa infatuazione per i riti e il simbolismo religiosi. All’età di 67 anni, nella sua “Autobiografia scientifica”, Einstein scrive: «... la vanità delle speranze e degli sforzi che travolgono incessantemente la maggior parte degli uomini in una corsa affannosa attraverso la vita, mi aveva colpito profondamente. Per il solo fatto di possedere uno stomaco, tutti erano condannati a partecipare a questa corsa; ma tale partecipazione poteva forse soddisfare lo stomaco, non già l’uomo come essere pensante e dotato di sentimenti. La prima via d’uscita era offerta dalla religione, così divenni religiosissimo, ma cessai improvvisamente di esserlo all’età di 12 anni». Infatti conclude: «La contemplazione del mondo, che esiste indipendentemente da noi, esseri umani, e che
ci sta di fronte come un grande eterno enigma, accessibile solo parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero, mi attirò come una liberazione, e il
possesso intellettuale di questo mondo mi apparve come la meta più alta fra quelle concesse all’uomo». Moltissimi sono gli aneddoti riferibili a quello che è universalmente considerato «il genio dell’umanità» per antonomasia, come quello che lo vedrebbe come studente non proprio brillante e bocciato in matematica; in realtà, nel primo tentativo di iscriversi al Politecnico
di Zurigo, nel 1895 affronta un esame di ammissione che non supera per insufficienza nelle materie letterarie. Nel corso degli studi superiori matura la scelta di dedicarsi alla fisica piuttosto che alla matematica; si laurea nel 1900 e prende la cittadinanza svizzera per assumere un impiego all’Ufficio Brevetti di Berna, lavoro che gli consente di dedicare gran parte del suo tempo allo studio della fisica. Nel 1905 pubblica tre studi, uno dei quali, “Elettrodinamica dei corpi in movimento”, gli vale, nel 1921, il premio Nobel per la Fisica. Un meno conosciuto contributo “post mortem” di Einstein è nel campo delle neuroscienze. Thomas Stoltz Harvey, il patologo che effettuò l’autopsia, di propria iniziativa rimosse il cervello e lo
conservò a casa propria in un barattolo sottovuoto per circa 30 anni. Un sorta di furto che ha però permesso di analizzare quel mitico cerebro con strumenti e tecniche impensabili al momento della morte, sopraggiunta all’età di 76 anni negli Stati Uniti, a Princeton, il 18 aprile 1955, circondato dai più grandi onori.
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Società oggi di Armando Munaò
UOMINI e CANI S.F.C.S.: Squadra Feltrina Cinofili da Soccorso Era il 2 gennaio del 2011 quando Albino, Arturo, Enrico, Ruggero, Luigi si incontrarono per dare vita alla Squadra Feltrina Cinofili da Soccorso meglio conosciuta con l’acronimo S.F.C.S. Dieci anni e sembra ieri. Lo chiediamo a Luigi Centa presidente dell’associazione.
“
Si è vero, sono passati dieci anni ma lo ricordo come fosse oggi. Una ridda di pensieri affollava le nostre menti in primis il timore di non farcela e vedere miseramente naufragare questo
nostro tentativo di dar vita nella città di Feltre a un’associazione cinofila di cani da soccorso realtà che mancava nel variegato mondo del volontariato.” Ci siete riusciti bene “ Si, ma non è stato facile. Non è mai stato facile e la partenza si dimostrò davvero difficile e scoraggiante. Molti i problemi da risolvere: contatti con l’ amministrazione, con altre associazioni, reperimento fondi e tanta tanta burocrazia.” Problemi anche di logistica e organizzativi. “Come primo campo d’addestramento utilizzammo e attrezzammo un mio podere alla periferia di Feltre. Nei primi tempi ogni occasione era buona per farci conoscere e far conoscere l’abilità dei nostri amici a quattro zampe, feste ,sagre e d’estate qualche GREST. Piano piano si avvicinarono proprietari di cani incuriositi dalla novità, alcuni di loro fanno
ancora parte attiva nell’associazione.” Ma poi arrivarono i contatti giusti, i primi riconoscimenti. “ Dopo un anno come da regolamento arrivò la conferma dell’inserimento nel Registro Regionale delle organizzazioni di volontariato OdV e potemmo cosi 33
Società oggi
chiedere di essere ammessi al periodo di prova come associazione di Protezione Civile prima di poter essere inseriti in questa struttura, cosa avvenuta l’anno successivo. Siamo quindi entrati a far parte del Coordinamento tra le Associazioni di Protezione Civile della Comunità Montana Feltrina.” Cresce l’Associazione ma crescono anche i problemi, le esigenze tecniche. “Certo, non eravamo mai fermi. Continuavamo a guardarci attorno alla ricerca di uno spazio più consono alla nostra attività e grazie all’interessamento dell’ amministrazione comunale ce ne venne assegnato uno adiacente alla zona industriale sud. Va precisato che già dal nostro nascere abbiamo avuto sempre il massimo supporto alle nostre attività da parte delle amministrazioni comunali che si sono succedute. All’inizio del 2015 AICS BELLUNO, di cui facciamo da sempre parte, decise di aprire una sede a Feltre in via Borgonuovo a Vellai e grazie alla disponibilità del Presidente Davide Capponi potemmo e possiamo tuttora disporre dello spazio interno come sede sociale e magazzino.” 34
Veniamo alla vostra attività in primo luogo all’addestramento. “Nel corso dell’anno l’attività è sempre intensa in primis naturalmente con l’addestramento dei cani che deve essere continuo e costante e poi con le attività di Protezione Civile e attività promozionali che si svolgono nel territorio: GREST, scuole, ecc. che servono non solo per farci conoscere ma anche e soprattutto per acquisire nuove risorse umane per il proseguo della nostra associazione. La nostra attività con i cani è rivolta principalmente alla ricerca di persone disperse in superficie anche se quando possibile, in ambienti atti allo scopo o nel Campo Macerie di Caerano San Marco, addestriamo i nostri cani e noi alla ricerca su macerie.” Oltre ai cani è indispensabile formare gli addestratori ed i conduttori, il personale umano. “ Organizziamo per i nostri volontari dei corsi che a volte sono aperti anche ad esterni: Primo Soccorso, uso della Radio, uso
del GPS, Primo soccorso cinofilo. Proprio per la preparazione di uno di questi corsi abbiamo collaborato con l’associazione SAN FRANCESCO e a seguito di questa collaborazione siamo entrati nel PROGETTO MOLLY che ha visto nostri volontari assieme a quelli di SAN FRANCESCO. Non compiamo però solo operazioni di salvataggio, ma anche attività sociali come quella di portare i cani in cinque case di riposo del Feltrino e in quella di Canal San Bovoi n Trentino, ricevendo commenti lusinghieri dai responsabili di queste strutture dove i nostri appuntamenti erano molto attesi dagli ospiti.” Ha influito in qualche modo sulla vostra attività la pandemia da Covid che ha massacrato l’anno appena concluso. “Purtroppo il 2020 anche per noi come per il resto del mondo è stato un anno nefasto abbiamo dovuto limitare le attività sia al campo che fuori ,ma non per
Società oggi
questo possiamo dire sia stato un anno riposante anzi, fin dalla primavera siamo stati impegnati come P.C. con l’emergenza COVID19 consegnando spese
,medicinali, o nel trasporto di persone che non potevano muoversi, poi è arrivata la distribuzione delle mascherine e successivamente il presidio per il vaccino antinfluenzale in casa di cura Bellati. Va detto che, anche a causa dell’emergenza COVID19, diversi giovani si sono avvicinati alla nostra realtà, forse unico lato positivo di COVID, prima per la distribuzione di mascherine poi hanno proseguito venendo alle nostre sedute di allenamento e addestramento e questo fa ben sperare per il futuro” Pur nell’emergenza non avete trascurato la vostra attività primaria “Certo, grazie ad un allentamento delle restrizioni domenica 4 ottobre scorso,
assieme ai volontari di A.I.B. Quero, abbiamo potuto simulare la ricerca di persona dispersa nell’area di San Valentino ed è stato positivo sia per noi, per vedere il grado di preparazione delle nostre u.c., ma anche per i volontari di A.I.B. che hanno potuto vedere e interagire nella simulazione di una ricerca. Oltre a questo è stato possibile testare il nuovo sistema radio di cui si è fornito il CooPC della CMF.” Insomma tutto è pronto per una ripresa dell’attività vostra e dei cani che addestrate. “Quando sarà passata questa pandemia e siamo sicuri, anche grazie al vaccino, che passerà, riprenderemo la nostra consueta attività nella convinzione che quel che stiamo facendo è senz’altro positivo. Noi siamo ottimisti e proiettati al ventennale del 2031 che è ormai alle porte”.
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In controluce di Cesare Scotoni
C’è un VIRUS nella SANITÀ
Siamo ad un anno dall’Emergenza Sanitaria proclamata in Italia nel gennaio 2020 e non sussiste in alcuno un dubbio su quel grave deficit di competenza e capacità che, pur contrabbandato per un “Modello Operativo” vincente, ha umiliato il nostro Paese in Europa, nelle Statistiche e nei Fatti. Una pressione mediatica inusitata ed un uso estremamente disinvolto delle pieghe della norma hanno restituito ai Cittadini l’idea di un Paese in cui i Valori di una Costituzione che, a differenza della Magna Charta introdotta nel 1215, ha solo 73 anni ed è stata profondamente rimaneggiata in chiave para federalista nell’ottobre 2001, restano sempre delle dichiarazioni di intenti più che essere le fondamenta del Diritto. Per quanto inerente alle Cause della Crisi Pandemica ad ora vi è ancora poca chiarezza e quindi poco se ne può trarre, ma volendo riassumere per punti le poche cose note: 1-In Cina dove, in precisi contesti, le norme consentivano attività con elevato azzardo biologico altrove non permesse, sono state localizzate delle ricerche “di frontiera” per conto anche di committenti occidentali; 2-Lì,a quanto noto ad oggi, si è sviluppato un focolaio piuttosto aggressivo di una variante meno letale della SARS-2 che, in quello specifico contesto e dopo una ini36
ziale sottovalutazione, è stato confinato con energia. Ciò mentre l’obbligo di trasparenza e tempestività nel comunicare l’anomalia, cui sono tenuti tutti i membri dell’WHO (OMS) veniva violato in nome della urgenza di una messa in sicurezza ed il virus “usciva” dalla Cina; Questo ha comportato il ritardo di un paio di mesi nell’elaborazione di una credibile risposta al rischio e, nel contempo, a trascurare l’esigenza di un coordinamento a livello sovranazionale tra i Paesi dell’Unione Europea; La stessa WHO (OMS) veniva pesante-
mente e ripetutamente interferita nei suoi obblighi e nelle sue funzioni sia lì che successivamente altrove e, forse per quello, si rivelava ai più come un Comitato di Interessi piuttosto che uno strumento di Monitoraggio e Coordinamento. In Italia fattori compresenti come uno Stato Centrale debole e preda dei più diversi interessi e delle diverse lobbies, competenze tra Stato e Regioni confuse fin dal 2001, un Servizio Sanitario Nazionale più focalizzato alla gestione amministrativa che nel coordinare l’erogazione di Servizi e Cure su base Territoriale, si sono sommati ai deleteri
In controluce esiti di un percorso iniziato nel 2012 con il taglio lineare dei costi ed una riorganizzazione mai passata dal voto del Parlamento e basata sulla riduzione dell’offerta pubblica di servizi sanitari, con un’indiscriminata esternalizzazione di parte di quei servizi in un’ottica di solo contenimento della spesa in investimenti. La contingenza nazionale è stata poi esaltata nella caduta del P.I.L. su base continentale da quel deficit di competenze e credibilità che segna fin dal principio il Governo di questa Legislatura e la conseguente capacità di quello di “leggere e interpretare” la Realtà del Paese. Le scelte operative hanno pagato inoltre un prezzo altissimo alla propensione tipicamente italiana di fuggire le responsabilità ed il dovere del decidere per cercare comunque un vantaggio contingente al proprio personale tornaconto anche nel mezzo di un naufragio. Il Governo non ha risparmiato al Paese tanti errori e continue contraddizioni, con un ricorso sconsiderato al panico collettivo come strumento di pressione e controllo sul Parlamento ed all’elemosina di Governo ed al Debito per allentare le tensioni sociali. Qualcosa di più rilevante si può invece dire invece sugli effetti: se molti dei fenomeni macroeconomici cui stiamo assistendo erano già nelle cose, le cattive scelte del Governo hanno solo accelerato delle dinamiche già in atto e finora frenate da
quella pulviscolare diffusione di attività economiche deboli, tipicamente italiana e nata storicamente come risposta all’assenza di prospettive strategiche nazionali e politiche infrastrutturali a quelle conseguenti, si è assistito ad un risoluto “scontro globale” tra delle opzioni tecnologiche nel campo della Ricerca Medica e delle Biotecnologie il cui costo di Sviluppo viene in gran parte ripagato dalla Spesa Sanitaria Pubblica. Il Mercato più interessante per chi ha investito nel campo della Ricerca Medica e delle Biotecnologie è quello dove il Public Welfare ha più risorse, ovvero l’Europa, che è stata dunque il “campo di battaglia” tra chi ha investito nella produzione di una o dell’altra tecnologia. Qui il Public Health System, par-
te essenziale del Welfare State post bellico, ha mostrato tutti i suoi limiti venendo sconfitto. In Italia però, una percezione ideologica della Realtà Economica del Paese e della Funzione della Politica nelle dinamiche che la governano ha esaltato i danni e profondamente penalizzato un Paese che già ha perso almeno 30 anni di crescita economica in cui la Tecnologia ha impattato in modo dirompente sull’organizzazione della Catena del Valore più tradizionalmente fordista. La distonia che è nel Governo, ma non solo, nel comprendere “cosa costituisce” l’ossatura del Paese ed il come salvaguardare quell’ossatura ed in funzione di quale prospettiva, è la causa di quello che appare oggi come il peggiore risultato complessivo in Europa e, se per conseguire l’insuccesso si è costruito un impianto normativo in cui, nel silenzio dell’informazione mainstream, meno del 3% degli oltre 430 provvedimenti connessi alla dichiarata pandemia sono passati dal Parlamento, ciò significa anche che i contrappesi costituzionali non hanno funzionato e che la Nostra Democrazia Repubblicana merita più di una Riflessione. Se ancora vogliamo bene alla Repubblica.
L’ingegner Cesare Scotoni è Consigliere di Amministrazione della Patrimonio Trentino spa.
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Società oggi di Waimer Perinelli
Gli ELFI di BABBO NATALE
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arole Cadwalladr è una giornalista britannica che lavora per il Guardian. È una signora bionda di 52 anni appassionata delle inchieste. Nel 2018 una sua intervista-indagine ad un dirigente della Canbridge Analitycal, coinvolgente Faceboock, le ha dato la nomina per il premio Pulitzer, il più prestigioso riconoscimento giornalistico al mondo. Non l’ha vinto ma nell’arco degli ultimi due anni si è dovuta accontentare, si fa per dire, di altri cinque premi mondiali per servizi con cui ha denunciato, fra l’altro, la pericolosità dei social per la democrazia in quanto capaci di influenzare gli elettori. Lo scorso dicembre è scesa in campo con tablet, carta e penna, per indagare su Amazon uno dei più importanti fenomeni sociali ed economici della nostra epoca. Conosco un giovane della mia valle che a quasi trent’anni di età, con diploma professionale, non è riuscito ad avere un lavoro a tempo indeterminato. E sono centinaia di
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migliaia i giovani come lui. Oggi molte aziende, piccole e grandi, preferiscono contratti interinali (ovvero di prestazioni di lavoro temporaneo) poco più che occasionali, diciamo elastici, attraverso i quali sfruttano ogni energia nei tempi di intensa produzione o vendita e poi, non avendo vincoli, licenziano senza tanti formalismi. Ahi poveri sindacati, da tempo alla ricerca di un nuovo ruolo sociale ed economico. Ma questa è un’altra storia. La storia che ci racconta la nostra Carole, pubblicata sul numero 1031 di Internazionale, è veramente impressionante. La giornalista si è fatta assumere presso un magazzino di Amazon nel Regno Unito. Un complesso di 74 mila metri quadrati, circa undici campi di calcio, dal quale si smistano una grande parte parte dei cento milioni di articoli riportati sul sito britannico della grande azienda di vendite online. Un vero regno di Babbo Natale. Scrive Carole,” …. tutto ciò che si può comprare con il denaro: braccialetti della fortuna degli One Direction, tutine per cani, grattiere per gatti a forma di console , affetta-banane, rami finti... Qualsiasi cosa possiate immaginare, Amazon la vende. E se c’è qualcosa che non riuscite a immaginare, Amazon vende anche quella”. E questo onestamente non mi
sembra preoccupante, se non per quella categoria di piccoli e medi negozianti che lavorano sul contatto umano con il dialogo, i consigli e l’assistenza. Amazon si ferma alla vendita diventando il punto più alto dell’usa e getta anche per colpa di chi, per riparare un piccolo elettrodomestico, chiede un compenso quasi uguale al costo dello stesso. Carole non si ferma all’economia di mercato ma indaga in modo approfondito sull’usa e getta della “merce umana”. “Se Babbo Natale pagasse i suoi elfi temporanei il minimo salariale, scrive la giornalista, li spremesse ai limiti della direttiva europea sull’orario di lavoro e li licenziasse se prendono tre permessi per malattia in tre mesi, sarebbe un paragone calzante.” L’inchiesta evidenzia la precarietà del lavoro. E per fortuna che c’è, di questi tempi. Un uomo di sessant’anni, da lei intervistato, racconta di avere lavorato in miniera e di avere perso il posto con la crisi. Anche lo scorso anno, racconta, ha lavorato per Amazon e “Subito dopo mi hanno mandato via senza preavviso. Eppure ho lavorato sodo”. La prova sta nel fatto che anche in questo Natale 2020 è stato riassunto. La precarietà non può essere tuttavia la risposta alla crisi. La maggior parte di chi è assunto da Amazon spera in un posto fisso, un sogno, una dono degno di Babbo Natale. Invece la realtà è crudele. Sembra di vivere,
Società oggi racconta Carole, all’inizio del XX secolo, ai tempi della grande depressione quando i disoccupati di buona volontà si mettevano davanti alle fabbriche sperando di essere assunti anche per poche ore di lavoro. In Italia abbiamo conosciuto e riscoperto recentemente il caporalato, quello che seleziona e licenzia lavoratori come al mercato delle vacche. A fine turno un “caporale” indica con il dito e scandisce: tu torni domani, tu, no,tu si, tu no.... Una cosa brutale, in questo modo, dice un intervistato “Ti fanno sentire che non vali niente”. Per una settimana Carole è stata full immersion in questo mondo di Amazon dove si percorrono a piedi almeno 24 chilometri, dove si spediscono giornalmente 155 mila articoli, dove ogni lavoratore esterno ne consegna mediamente, nello stesso tempo, dai 130 ai 160. Noi scrive Carole “Abbiamo prelevato
e imballato i prodotti giusti e li abbiamo mandati ai clienti giusti. “Non abbiamo bucato un solo ordine”, ci dice con comprensibile orgoglio il caporeparto. A fine giornata entro nel mio account su Amazon. Sono uscita da casa di mia madre, vicino a Cardiff, alle 6.45 e sono tornata alle 19.30: mi serve una confezione di cerotti per le vesciche che mi sono venute ai piedi e non ho tempo di comprarla né prima di uscire né la sera quando torno”. E’ tentata di ordinarli su Amazon. Poi rinuncia. I suoi pochi centesimi non faranno certo impallidire la grande azienda che nel 2018 ha guadagnato 232,887 miliardi di dollari, saliti nel 2019 a 280, 552 miliardi con un aumento del 20,45 per cento. Non a caso il suo patron (CEO) Jeff Bezos con un patrimonio di circa 200 miliardi di dollari è l’uomo più ricco al mondo. Lui e la sua azienda sono perfino immuni al Corona, anzi il pestilenziale
virus, costringendo la gente ad ordinare prodotti per posta, ha fatto perfino un piacere. Gli affari sono aumentati e anche gli elfi italiani di Amazon sperano che Babbo Natale faccia loro un dono: il posto fisso.
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Il personaggio di Franco Zadra
Panfilo Castaldi,
primo tipografo italiano
Pànfilo Castaldi, dotto insegnante, poeta e medico, nato a Feltre nel 1430, viene descritto come primo stampatore (la data di nascita non è certa visto che molti documenti lo indicano nato nello stesso anno del Gutenberg, cioè il 1398). Moltissimi testi dell’ epoca Panfilo Castaldi viene indicato come il vero ideatore dei caratteri mobili. Documenti storici e gli scritti di cronisti dell’epoca affermerebbero che “l’invenzione sull’uso” dei caratteri mobili in Italia sia stata fatta 16 anni prima che venisse “importata” dalla Germania.
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ille anni or sono in Cina si usavano caratteri mobili per riprodurre gli ideogrammi di quella elaboratissima scrittura, scolpiti su blocchi di creta, poi cotti e incollati su un pannello a comporre un testo da riprodurre, inchiostrati e premuti contro un foglio. Da allora la riproduzione a stampa progredì lentamente e, dopo che nel 1377
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in Corea furono inventati i primi caratteri mobili in metallo, si dovette attendere Johann Gutenberg, o meglio, la riforma protestante di Lutero con l’esigenza di far accedere il popolo alle sacre scritture, perché tra il 1448 e il 1454 venisse stampato a Magonza il primo libro, la Bibbia a 42 linee, poi venduto in Francoforte sul Meno nel 1455, e si cominciasse a riprodurre libri in modo veloce ed economico. Per questo a scuola si insegna che il 1455 è l’anno dell’invenzione della stampa, ma se vogliamo essere precisi le cose sono un po’ più complicate. Per i feltrini c’è un motivo in più che li chiama ad approfondire la storia della stampa poiché proprio in piazza Maggiore è eretto fin dal 3 giugno 1866 a cura degli operai tipografi di Milano un monumento dedicato a un loro illustre concittadino, Panfilo Castaldi, ricordato nelle targhe là poste come «il creatore dell’arte tipografica» e «scopritore generoso dei caratteri mobili per la stampa».
Una citazione tanto autorevole che ci sentiamo di prenderla sul serio, così come fece il deputato Fabio Calzavara che il 30 maggio 1997 presentò una proposta di legge 3791, però mai votata, che intendeva istituire un comitato per le celebrazioni del sesto centenario della nascita di Panfilo Castaldi, mentre gli storici lo riconoscono ormai tuttalpiù (ma già un grande onore) come il primo tipografo e stampatore di libri italiano. Infatti, fin dalla metà del XV secolo si stava sperimentando in Italia, come nel resto d’Europa, l’utilizzo dei caratteri mobili in tipografia, e il nostro Castaldi, nato a Feltre nel 1398, ebbe l’opportunità di venire in contatto con quelle nuovissime tecniche di stampa in quanto cittadino della Serenissima Repubblica di Venezia. Ricordiamo al proposito che il 3 settembre 1402 muore il primo duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, il quale tra le trenta e più signorie che dominava, aveva anche quella di Feltre che a quel punto si vide costretta a cercare protezione nella Serenissima Repubblica di Venezia alla quale si sottomise volontariamente, prendendo esempio da Vicenza, sentendosi minacciata da certe mire dei Carraresi. Panfilo, rampollo di una famiglia della piccola nobiltà feltrina, i cui membri tuttavia esercitarono spesso professioni
Il personaggio
liberali, nel 1449 è studente a Padova, nella stessa università che quasi 150 anni più tardi ebbe Galileo come docente di meccanica, dove ricevette il dottorato in arti nel 1451 per proseguire poi negli studi in medicina. Ancora studente, il 6 giugno 1454 sposa Caterina Gallinetta, figlia del grammatico Damiano da Pola, dalla quale ebbe almeno due figli che gli sopravvissero. Ottenne la laurea in medicina prima del 1457 e cominciò la sua attività professionale il 21 settembre 1461 come medico stipendiato a Capodistria, ritornando di quando in quando a Feltre dove viveva il fratello Daniele, intrattenendo certi affari di famiglia. Nell’agosto del 1469 a Venezia apprese l’arte della stampa da Giovanni da Spira. Intuisce certo le possibilità economiche di quella nuovissima tecnologia, ma comprende che a Venezia avrebbe avuto una concorrenza
agguerrita. Nel 1471 si spostò quindi a Milano, dove impiantò il primo torchio tipografico, riproducendo quello stesso anno il primo libro stampato da un tipografo italiano, “De verborum significatu” di Sesto Pompeo Festo, e poi la “Cosmographia, sive de situ orbis” di Pomponio Mela. Era certo il business del momento, si pensi solo che le “cinquecentine” che si trovano
oggi sul mercato, cioè un libro del XVI secolo che mostrava già quegli elementi paratestuali che rendono il libro moderno, come frontespizio, indici, note tipografiche, paginazione e titoli correnti, marche editoriali, punteggiatura, ecc., possono costare tra i 300 e i 400 euro a copia, mentre le prime edizioni a stampa dell’800 e del ‘900 hanno stime molto superiori. Capitò al nostro Panfilo che gli rubarono i caratteri tipografici usati per stampare 300 copie del suo terzo libro, “Epistulae ad familiares” di Cicerone, in 300 copie, che uscì poi a firma di un impostore, Filippo Lavagna. Forse per questo Castaldi nel 1472 se ne tornò a Venezia dove riprese a esercitare la professione medica. Morì a Zara nel novembre o nei primissimi giorni del dicembre 1487. Da alcune cronache che gli storici trattano “con le pinze”, sembra che «l’invenzione sull’uso» dei caratteri mobili in Italia sia stata fatta 16 anni prima che venisse «importata» dalla Germania, così come altre fonti dichiarano che la moglie di Castaldi fosse nipote di Marco Polo il quale portò a Venezia dalla Cina alcuni caratteri mobili arrivati così nella disponibilità del primo tipografo italiano.
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Tra passato e presente di Waimer Perinelli
L’uomo che vola con le ali, il turbo e il vento
Vincent (Vince) Reffet 36 anni, morto lo scorso novembre a Dubai, è l’uomo che volava. Vince e aereo erano una cosa sola; attorno al suo corpo, avvolto da una speciale tuta, c’era un’ala al carbonio e agganciati due turbo reattori che gli consentivano di volare, sino a 400 chilometri l’ora, a fianco di un Airbus A380 il più grande aereo passeggeri esistente. Vincent ha portato all’estremo il millenario sogno umano di volare.
La mitologia ci racconta di Icaro e del padre Dedalo decollati con ali di piume, attaccate al corpo con la cera dall’isola di Creta, per sfuggire a Minosse. La storia centenaria descrive le macchine che Leonardo da Vinci progettava per imitare il volo degli uccelli. La storia più recente narra i voli in mongolfiera e del primo volo con aeromobile a motore più pesante dell’aria. Era il 17 dicembre del 1903, quando i fratelli statunitensi Wilbur e Orville Wrigth fecero decollare il loro Kitty Hawk. Pensate, solo due anni dopo, il signor Lutalto Galetto , nato a Sanguinetto in provincia di Verona, ottiene il brevetto di volo. La sua storia e quella della sua 42
famiglia è una storia del volo fra Veneto e Trentino. Il volo: andata e ritorno. Lutalto con il brevetto conquistato in Francia si trova a pilotare aerei di guerra nel Primo conflitto mondiale e viene decorato con la medaglia d’argento al valore militare e con quella d’oro al valore aeronautico civile consegnatagli al teatro La Scala di Milano. Dopo il conflitto svolse alcune attività in Francia ed Italia e trovò casa e lavoro a Caldonazzo in Alta Valsugana dove impiantò una segheria. Il lavoro non lo distraeva dalla passione di volare che coltivò a lungo contagiando anche il figlio Luciano, oggi 97 anni, che vive nell’area
dell’antica segheria dismessa. Luciano affascinato dall’entusiasmo del padre, prende il brevetto di volo nel 1949, a soli 24 anni, esercitandosi presso l’aeroporto di Gardolo a nord di Trento. La sua passione lo ha portato a volare con molti tipi di aereo da turismo, ma il suo compagno fedele è stato sempre l’ FL.3, un monomotore da turismo ad ala bassa, costruito dopo la seconda guerra mondiale dalla ditta Lombardi. E’ all’aeroporto di Gardolo e successivamente a quello di Mattarello, che Luciano incontra questo aereo. La sua passione non gli fa trascurare l’attività di famiglia ma dedica al volo ogni momento libero. Giunto a 94 anni rinuncia prudentemente ad ogni brevetto di volo, ma non a volare e decide di
Tra passato e presente
praticare a Bolzano il volo a vela con l’aliante. L’ultimo volo lo ha compiuto su questo mezzo leggero con le grandi ali la scorsa primavera decollando dalla pista di Belluno. “ E tornerò a volare la primavera prossima, dice Luciano, perché nell’aria sto bene”. E nell’aria la famiglia Galetto ha trovato il proprio elemento naturale. Giorgio Galetto, pilota della terza generazione, seguendo giovanissimo il padre nei diversi aeroporti, è stato fulminato dall’aliante, un aeromobile più pesante dell’aria, normalmente senza motore, che si sostiene in volo grazie alla reazione dinamica dell’aria contro le superfici alari. La passione dell’aria ha dato a Giorgio grandi soddisfazioni e la conquista di due titoli mondiali nel
1999 e nel 2011. Grazie ai successi mondiali Giorgio ha rinnovato l’impresa del nonno con la decorazione, al Teatro La Scala di Milano, con la medaglia d’oro al valore aeronautico civile. Dalla Francia dove il nonno Lutalto decollava nel 1905 a Belluno dove decolla oggi il padre a Tiene dove Giorgio ha trovato una valida squadra pur portando nel cuore il Trentino e in particolare Caldonazzo dove è nato nel 1957. Oggi a 63 anni, appare soddisfatto ma preoccupato per le alte velocità raggiunte anche dagli alianti apparentemente delicati e leggeri come farfalle. “Un aliante oggi può raggiungere i 300 chilometri all’ora, dice Giorgio, solo 50 anni fa volavano a 150. A renderli così veloci sono i nuovi profili al carbonio e la possibilità di sfruttare all’inverosimile favorevoli condizioni termiche. Si può passare velocemente da una termica all’altra e la reazione dell’aria sembra a volte un vero e proprio calcio al fondoschiena”. La velocità sembra essere il mito del futuro. In formula uno si corre a 320 chilometri all’ora e perfino sull’acqua le barche di nuova concezione, con grandi vele e carena planante, capaci di sollevarsi dallo specchio liquido e, perciò prive di attrito, raggiungono anche i 50 nodi.
La velocità è tuttavia il pericolo più grande in terra, acqua e cielo. Ne è la prova proprio l’incidente mortale occorso a Vincet Reffet. Non è ancora chiara la causa dell’incidente, certo è che l’uomo alato, nato ad Annecy in Francia, volava grazie a quattro propulsori in grado di farlo viaggiare per 50 chilometri alla velocità di 400 chilometri/ora. Per chi ama le statistiche sarà bene sottolineare che il carburante necessario per un’ora di volo varia fra 35 e 60 litri e che dunque il problema oltre alla velocità è quello di trasportare combustibile necessario per almeno una decina di minuti di volo. Poi il pilota deve aprire il paracadute per atterrare sui propri piedi. Vincent ricordava in una recente inter-
vista di essersi lanciato con il paracadute a soli 15 anni poi nel novembre del 2015 a trent’anni, si era lanciato da un elicottero a 1220 metri di altezza affiancando con l’ala al carbonio, tuta e turbo razzi l’airbus A380. Il suo impegno nel deserto degli Emirati Arabi rientrava in un progetto più ampio, per uomini razzo, voluto e coordinato da Hamdan Bin Mohammed Bin Rashidal Maktoum 37 anni,, erede al trono di Dubai e suo estimatore.. “Far volare il mio corpo è ciò che amo, aveva dichiarato Vincent Reffet poco prima di morire, con quest’ala posso volare come un uccello”. 43
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La nascita del Festival di Armando Munaò
Sanremo, la preistoria
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ocumenti d’annata ci dicono che un prototipo del Festival di Sanremo risale al 1931, quando nel comune rivierasco si tenne una manifestazione analoga con canzoni napoletane, ma anche il 15 agosto 1936, invece a Rimini, ci fu un Festival della canzone italiana trasmesso alla radio e replicato nel 1937. Altra manifestazione antesignana del Festival si tenne a Viareggio nel 1948 e nel 1949, ma non ebbe alcun seguito. Alberto Sargentini, presidente del Comitato Festeggiamenti, che organizzava il Carnevale cittadino, intendeva vivacizzare la stagione e decise così di rivolgersi ad Aldo Valleroni, autore di canzoni e giornalista, e a Sergio Bernardini, poi divenuto celebre per essere stato l’animatore della “Bussola”. Tra tutti misero insieme 150mila lire e organizzarono un festival della canzone italiana, prendendo subito in considerazione l’ipotesi di trasmettere la manifestazione alla radio, e contattando la sede Rai di Firenze. Fu così che la sera del 25 agosto 1948 presso il dancing “La Capannina” di Viareggio, con l’accompagnamento dell’orche-
stra diretta dal maestro Francesco Ferrari e dei suoi cantanti Narciso Parigi, Brenda Gjoi, e Silvano Lalli, presentati da Amerigo Gomez, si tenne la prima edizione del Festival, e Radio Firenze (la sede Rai toscana), mandò le dieci canzoni giunte in finale, selezionate fra le numerose pervenute alla giuria; vinse Serenata al primo amore, di Giannantonio Moschini. La seconda edizione del 25 agosto 1949 vide la partecipazione di cantanti di discreta fama e vinse Gastone Parigi con Il topo di campagna, una samba dal ritmo molto acceso. Nel 1950 la manifestazione non si tenne più a causa delle avverse condizioni meteorologiche che avevano penalizzato il
Carnevale di Viareggio, che costrinsero il Comune a tagliare alcune spese, tra cui quelle per il festival della canzone. Così, nonostante gli sforzi di Sergio Bernardini, che non poteva sostenere da solo i costi della manifestazione, la terza edizione della rassegna canora saltò definitivamente, ma l’idea di un festival della canzone italiana si sarebbe concretizzata, l’anno dopo, a Sanremo.
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Sanremo Story di Franco Zadra
Sanremo 1951,
vince “Grazie dei fiori” Cercando un’idea per incrementare il turismo nella stagione morta, l’allora direttore delle manifestazioni e delle pubbliche relazioni del casinò di Sanremo, Angelo Nicola Amato, e Angelo Nizza, conduttore della trasmissione radiofonica “I tre moschettieri” e assiduo frequentatore del casinò municipale, si accordarono con l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche (EIAR), l’ente che funzionava come editore e operatore radiofonico in regime di monopolio, e chiesero alle case discografiche di inviare dei cantanti per una particolare manifestazione canora.
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u così che il 29 gennaio 1951, dal salone delle feste del Casinò di Sanremo, con il saluto in diretta radiofonica dello storico conduttore Nunzio Filogamo agli «amici vicini e lontani», iniziò la prima edizione del festival. Nilla Pizzi, Achille Togliani, e il Duo Fasano, gli unici interpreti partecipanti, si alternarono nell’esibizione di venti canzoni che il previdente regolamento sanciva dover essere composte da autori italiani con
testi in lingua italiana, o nei vari dialetti regionali, mai eseguiti pubblicamente in precedenza. Da notare quindi che non si era ancora in presenza di un culto della personalità dell’artista, piuttosto il focus era tutto concentrato sulla canzone. Da vendere c’era infatti Sanremo, vetrina nella quale venivano esposti prodotti di qualità, le canzoni, dei quali gli artisti erano semplicemente degli esecutori più o meno
capaci. A vincere fu Grazie dei fiori, interpretata da Adionilla “Nilla” Pizzi; il 16 aprile prossimo compirebbe 103 anni e proprio tra non molto, il 12 marzo, ricorre la memoria della morte avvenuta a Milano nel 2011. L’anno seguente, cantate sempre dalla Pizzi, conquistarono, unico caso mai più replicato da un’artista del Festival, l’intero podio, nell’ordine, Vola colomba, Papaveri e papere, e Una donna prega. Fino al 1954 il festival si 47
Sanremo Story
poteva solamente ascoltare via radio, poi vi fu l’avvento della televisione, dal 1955. Da quell’anno il Festival si trasformò in vero show televisivo con una richiesta particolare per il pubblico femminile in studio: non indossare scollature troppo evidenti per non scandalizzare le famiglie che avrebbero guardato il Festival. E a proposito di memoria, pare impossibile confrontare Grazie dei fiori con la canzone di Mahmood vincitrice nel 2019, Soldi, ma la prima ce la ricordiamo, la seconda, come faceva? Bho! È vero! Una nipotina di 5 anni ha imparato a memoria e canta in continuazione Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani, vincitore del Festival di Sanremo del 2017, ma diciamoci la verità, oppure abbiamo il coraggio di chiederci «che cosa significa?», che senso porta al nostro oggi? Quale riferimento cultu-
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rale vi troviamo al quale agganciare una qualche ricordo, una emozione? Forse i «Budda in fila indiana»?
Una società che si racconta cantando
La classifica del 1953, , vedrà sul podio quattro coppie di interpreti. Vincitrici Carla Boni e Flo Sandon’s, pseudonimo di Mammola Sandon, con la canzone Viale d’autunno. Se mai qualcuno ha detto che «non è tanto aver vissuto che conta, ma saperlo ricordare e raccontare», questo è forse tra i pochi elementi che valorizzano costantemente il Festival di Sanremo e che possiamo riconoscere nelle canzoni di ieri e di oggi. Sanremo racconta l’Italia agli italiani e moltissimi passaggi della sua storia, della società, si possono associare a qualche canzone di Sanremo. Una costante, un ingrediente che non è mai mancato nella proposta musicale di ogni anno, e senza sforzo riconosciamo in messaggi come quelli cantati da Loredana Bertè nel suo,
sembra sarà, ultimo Festival, «che cosa vuoi da me...», allo stesso modo come in «Erano tre fratelli pescatori, con una mamma bianca, e una barca nera e con tre cuori ancora da creatura...» del brano ...e la barca tornò sola composto da Mario Ruccione, piazzatosi al 3º posto, con 77 voti, al Festival di Sanremo 1954 (vinto dalla canzone “Tutte le mamme”) nell’interpretazione di Gino Latilla con il Duo Fasano e di Franco Ricci. Nel corso delle prime edizioni si assiste, insomma, a una vera trasformazione nei testi e dei contenuti delle canzoni, come anche della presenza “scenica” dei cantanti. Nel 1958 Modugno con la sua “nel blu dipinto di blu” e con “ciao ciao bambina”, trasforma il genere musicale tradizionalista in un qualcosa
di concettualmente diverso. Non più solo amore, rapporto, sentimento di coppia, e melodia, ma nuove parole che hanno a che fare con un diverso modo di vedere e concepire il quotidiano. E cosa dire di Celentano che nel 1961 cantando “24mila baci” mostrò la schiena al pubblico con un comportamento che a quei tempi fu considerato una vera provocazione? E Gino Paoli che fu il primo, creando un vero scandalo, a esibirsi senza il tradizionale smoking, e addirittura con la cravatta slacciata? Per la cronaca non mancò una sonora critica
Sanremo Story da parte del Vaticano tramite l’Osservatore Romano che titolò «Un festival che vorremmo dimenticare al più presto», in riferimento alle nuove tendenze canore emerse durante la rassegna. Da segnalare poi, per la prima volta a Sanremo, una massiccia presenza dei cantautori: oltre ai suddetti Celentano e Paoli, anche Bindi, Giorgio Gaber, Bruno Martino, Pino Donaggio, Joe Sentieri, Edoardo Vianello, e Gianni Meccia. Un caso emblematico di questa “nuova” corrispondenza tra canzoni e società è la vincitrice dell’edizione del 1970, “Chi non lavora non fa l’amore”, interpretata da Celentano e Claudia Mori; a pochi deve essere sfuggito il riferimento all’ondata di scioperi dell’anno precedente a cominciare dallo sciopero generale dell’industria privata
contro le gabbie salariali del 12 febbraio, o i fatti tragici del 9 aprile, quando durante una giornata di sciopero contro la chiusura del tabacchificio, nel corso di una manifestazione a Battipaglia, la polizia spara e uccide due persone. Ma la cronaca riporta almeno altri 8 scioperi generali quell’anno, tra edili, metalmeccanici, autoferrotranvieri, sindacati uniti, o contro il “caro affitti”. L’Italia scendeva in piazza e Sanremo la raccontava.
Sanremo e il ‘68
La cronaca giudiziaria, come ha evidenziato in un tweet un attento giornalista del Trentino, Paolo Morando, cita il Festival di Sanremo nella sua diciottesima edizione come la prima apparizione
pubblica di Pietro Valpreda, l’anarchico noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto dopo 4 anni di carcere e un iter processuale di quasi 20. Il 28 gennaio 1968, a Sanremo, Valpreda viene fotografato e intervistato da Giacomo Alexis per “Lo Specchio”, tra i principali settimanali nazionali degli anni sessanta nel campo conservatore, mentre se ne sta accampato in una piazza della Sanremo vecchia, sotto una tenda, e prepara una contestazione del Festival, poi non attuata. Intanto, nel salone delle feste del casinò di Sanremo, con Pippo Baudo nella prima delle sue 13 conduzioni della manifestazione, affiancato da Luisa Rivelli, vince l’accoppiata Sergio Endrigo e Roberto Carlos Braga con Canzone per te, e Adriano Celentano lascia la sala in polemica con la giuria, perché «non era giusto che vincesse Endrigo - come ebbe a dichiarare in seguito Celentano -. C’erano canzoni più belle della mia ma anche tante migliori della sua».
mente le trasmissioni a colori, e Sanremo va in onda a colori nella 27esima edizione per la prima volta al Teatro Ariston dal 3 al 5 marzo 1977, presentata da Mike Bongiorno e Maria Giovanna Elmi. Non furono comunque molti gli italiani che videro lo spettacolo a colori poiché il mercato del bianco e nero ancora teneva per ragioni di costi. Da subito però il colore sembra vivacizzare la manifestazione e i cantanti in gara sono chiamati anche a eseguire dei piccoli sketch. Con il colore il focus sulla canzone, assolutamente centrale fin dalle prime battute del Festival, comincia a spostarsi sulla personalità del cantante, e non necessariamente sulle sue qualità canore. Se si guarda per esempio al guardaroba esibito dai vari cantanti, possiamo seguire una sorta di iperbole nella ricerca di costumi sempre più provocatori, grintosi e non di rado accattivanti. Lo show di Sanremo sembra sostenersi poco sulla bravura degli artisti, la profondità dei testi, le genialità musicali, tanto
Sanremo, colore e play back
Tra il 1976 e il 1977 l’Italia avviò ufficial49
Sanremo Story che si era pensato persino di utilizzare il Play back. La prima canzone cantata utilizzando una base musicale registrata fu Una lacrima sul viso eseguita da Bobby Solo, colpito da un’improvvisa raucedine che gli impedì di esibirsi dal vivo, ma fu, per regolamento, escluso dalla gara, per vincere invece l’edizione successiva con la canzone Se piangi se ridi. È con gli anni 80 che la linea artistica del Festival aprirà al playback in maniera massiccia, costringendo gli artisti a esibirsi per finta. Così nel 1983 Vasco Rossi fa finta di cantare Vita spericolata, un brano che farà la storia della musica italiana, ma, schifato dal play back, abbandona il palco prima che la canzone finisca, raggiungendo comunque il 25° posto in classifica. Da alcuni anni, per regolamento, i cantanti si esibiscono rigorosamente dal vivo, anche se il dubbio su qualche “aggiustamento” con basi musicali registrate è ormai radicato nel popolo degli appassionati.
del leone, ma già nel ‘54 abbiamo Tutte le mamme nell’interpretazione di Giorgio Consolini in coppia con Gino Latilla, a ribadire lo stereotipo dell’italiano “mammone”. Un piccolo ripiegamento introspettivo si ha tre anni dopo con Corde della mia chitarra cantata da Nunzio Gallo e Claudio Villa. Nel ‘61, Betty Curtis e Luciano Tajoli vincono con Al di là, un titolo che oggi potrebbe odorare di riferimenti teologici ma, a conferma
di tutti i giorni, dal gusto vagamente qualunquista e certamente meno impegnato del già citato Chi non lavora non fa l’amore, dove il rapporto di coppia rimane sullo sfondo di una vita che
I titoli e le «storie di tutti i giorni»
Qualche ritornello delle canzoni sentite a Sanremo lo sappiamo canticchiare di certo, ma che titolo aveva? Soldi di Mahmood è facile, ma vi ricordate il titolo arrivato secondo? Quello cantato da Ultimo? Ve lo diciamo noi, prima che lo cerchiate in Google, I tuoi particolari. A scorrere i titoli delle canzoni vincitrici del Festival, in questi sessant’anni, non sembra di poter cogliere grandi variazioni tematiche. Il rapporto di coppia, rigorosamente uomo-donna, fa la parte
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aggiunge solo «un giorno in più...». Impegno ritrovato nell ‘87 con Si può dare di più, cantata da Gianni Morandi, Enrico Ruggeri, e Umberto Tozzi. Nel 1990 i Pooh vincono con il tema della solitudine, cantando Uomini soli. Mistero cantata da Enrico Ruggeri si classifica al 1° posto nella sezione Camdel fatto che non sempre il titolo ci azzecca, e comunque l’interpretazione di un testo cambia con la cultura corrente, si inquadra totalmente nel tema romantico e della relazione di coppia poiché «Al di là di tutto… ci sei tu!». Ragazza del sud, cantata da Gilda (Rosangela Scalabrino), nel ‘75 propone anch’essa uno stereotipo variante, cantando di una «ragazza che ti affretti perché suona la messa… con una treccia che non ti tagli ancora...». Riccardo Fogli, nell ‘82, vince con Storie
Sanremo Story di Emma Marrone nel 2012. Nelle ultime quattro edizioni il cambiamento di tema sembra costante con Occidentali’s Karma di France-
sco Gabbani, Non mi avete fatto niente di Ermal Meta e Fabrizio Moro, Soldi di Mahmood, per chiudere con Diodato e la sua Fai rumore. E in questa edizione 2012 che vedrà i cantanti, big e non big, contendersi la palma della migliore canzone? Chi vivrà vedrà!
pioni del ‘93. Un titolo d’impatto, ma la canzone rimane nel solco sicuro del rapporto di coppia, anche se “lei” è solo accennata, una volta soltanto, nella domanda «sarai sincera?...», ripresa subito al maschile dal coro, «sarai sincero?...». E potremmo proseguire con Fiumi di parole dei Jalisse nel ‘97, o Luce (tramonti a Nord Est) di Elisa nel 2001, e non possiamo non citare L’uomo volante di Marco Masini nel 2004, e Vorrei avere il becco, cantata da Povia nel 2006, oppure l’impegnatissima Non è l’inferno
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Sanremo Story
TUTTI I VINCITORI DI SANREMO
1951 Nilla Pizzi – “Grazie dei fiori” 1952 Nilla Pizzi – “Vola colomba” 1953 Carla Boni, Flo Sandon’s – “Viale d’autunno” 1954 Giorgio Consolini, Gino Latilla – “Tutte le mamme” 1955 Claudio Villa, Tullio Pane – “Buongiorno tristezza” 1956 Franca Raimondi – “Aprite le finestre” 1957 Claudio Villa, Nunzio Gallo – “Corde della mia chitarra” 1958 Domenico Modugno, Johnny Dorelli – “Nel blu dipinto di blu” 1959 Domenico Modugno, Johnny Dorelli – “Piove (Ciao ciao bambina)” 1960 Tony Dallara, Renato Rascel – “Romantica” 1961 Betty Curtis, Luciano Tajoli – “Al di là” 1962 Domenico Modugno, Claudio Villa – “Addio… addio” 1963 Tony Renis, Emilio Pericoli – “Uno per tutte” 1964 Gigliola Cinquetti, Patricia Carli – “Non ho l’età (Per amarti)” 1965 Bobby Solo, New Christy Minstrels – “Se piangi se ridi” 1966 Domenico Modugno, Gigliola Cinquetti – “Dio come ti amo” 1967 Claudio Villa, Iva Zanicchi – “Non pensare a me” 1968 Sergio Endrigo, Roberto Carlos Braga – “Canzone per te” 1969 Bobby Solo, Iva Zanicchi – “Zingara” 1970 Adriano Celentano, Claudia Mori – “Chi non lavora non fa l’amore” 1971 Nada, Nicola Di Bari – “Il cuore è uno zingaro” 1972 Nicola Di Bari – “I giorni dell’arcobaleno” 1973 Peppino Di Capri – “Un grande amore e niente più” 1974 Iva Zanicchi – “Ciao cara come stai?” 1975 Gilda – “Ragazza del Sud” 1976 Peppino Di Capri – “Non lo faccio più” 1977 Homo Sapiens – “Bella da morire” 1978 Matia Bazar – “…e dirsi ciao!” 1979 Mino Vergnaghi – “Amare” 1980 Toto Cutugno – “Solo noi” 1981 Alice – “Per Elisa” 1982 Riccardo Fogli – “Storie di tutti i giorni” 1983 Tiziana Rivale – “Sarà quel che sarà” 1984 Al Bano, Romina Power – “Ci sarà” 1985 Ricchi e Poveri – “Se m’innamoro”
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1986 Eros Ramazzotti – “Adesso tu” 1987 Gianni Morandi, Enrico Ruggeri, Umberto Tozzi – “Si può dare di più” 1988 Massimo Ranieri – “Perdere l’amore” 1989 Anna Oxa, Fausto Leali – “Ti lascerò” 1990 Pooh – “Uomini soli” 1991 Riccardo Cocciante – “Se stiamo insieme” 1992 Luca Barbarossa – “Portami a ballare” 1993 Enrico Ruggeri – “Mistero” 1994 Aleandro Baldi – “Passerà” 1995 Giorgia – “Come saprei” 1996 Ron, Tosca – “Vorrei incontrarti fra cent’anni” 1997 Jalisse – “Fiumi di parole” 1998 Annalisa Minetti – “Senza te o con te” 1999 Anna Oxa – “Senza pietà” 2000 Avion Travel – “Sentimento” 2001 Elisa – “Luce (Tramonti a nord est)” 2002 Matia Bazar – “Messaggio d’amore” 2003 Alexia – “Per dire di no” 2004 Marco Masini – “L’uomo volante” 2005 Francesco Renga – “Angelo” 2006 Povia – “Vorrei avere il becco” 2007 Simone Cristicchi – “Ti regalerò una rosa” 2008 Giò Di Tonno, Lola Ponce – “Colpo di fulmine” 2009 Marco Carta – “La forza mia” 2010 Valerio Scanu – “Per tutte le volte che…” 2011 Roberto Vecchioni – “Chiamami ancora amore” 2012 Emma – “Non è l’inferno” 2013 Marco Mengoni – “L’Essenziale” 2014 Arisa – “Controvento” 2015 Il Volo – “Grande amore” 2016 Stadio – “Un giorno mi dirai” 2017 Francesco Gabbani – “Occidentali’s Karma” 2018 Ermal Meta e Fabrizio Moro “Non mi avete fatto niente” 2019 Mahmood “Soldi” 2020 Diodato “Fai rumore”
Sanremo story di Gabriele Biancardi
SANREMO: i miei primi trentuno anni. Ci sono avvenimenti in Italia che non si possono toccare, la mamma, il calcio, il caffè ed insieme ad altri, il Festival della Canzone di Sanremo. Ne ho vissuti sul posto esattamente 31, quest’anno purtroppo salterà, gli artisti non usciranno dagli alberghi, per cui niente interviste. Sarà strano, lo ammetto, ma sarà interessante avere una percezione diversa. Quando sei lì, si parla, si respira, si litiga e si discute, solo del festival, come se il mondo fuori si fermasse. Nel 1990, primo anno di presenza, sono stato fortunato, ho avuto al microfono gente come Ray Charles, Nikka Costa e tanti artisti di calibro. Ma se vuoi fare un lavoro professionale, non neghi a nessuno dei minuti dove possono raccontare i loro sogni, le loro aspettative.
LA SANREMO CHE VERRÀ La proposta, il format, del Festival non cambierà per me perché le serate le vedrò in TV, per scelta, come ho sempre fatto; un po’ perché la sala del teatro Ariston è un inferno e molto per lavoro assieme a colleghi radiofonici, nell’albergo cittadino, a commentare e lavorare per trasmissioni che arricchiamo sempre di interviste stellari. Può sembrare strano, ma la parte divertente è proprio questa. Una decina di “radiofonici di vecchio pelo”, che analizzano come gli anziani al bar, i cantanti, le canzoni, il look..e poi fuori fra la gente, nella mischia dei fans, a “toccare” i divi. Quest’anno gli organizzatori hanno scelto una compilation di artisti che possa “coprire” tutte le età ed i gusti. Si va dai giovani, attratti da nomi come Maneskin, i miei preferiti, Fulminacci e altri, per poi fare felici le mezze stagioni dell’età. Malika Ayane, Noemi, Renga, per finire con i miei genitori, che attendono Orietta Berti, dato che in Italia, siamo tutti virologi, politologi, allenatori, vuoi esimerti nel fare una classifica al buio? Ecco la mia. Il podio lo immagino così: Francesca Michielin/Fedez, Malika e Renga. L’ordine non importa. Per tanti alcuni Big, potrebbero risultare perfetti sconosciuti, Random, Madame, Willy Peyote, ma non dobbiamo dimenticare che i giovani seguono altri mezzi per seguire la loro musica, da altre piattaforme quelle attraverso cui Amadeus ha invitato questi “egregi” sconosciuti, che in effetti non lo sono. Dai giovani ci si aspetta sempre qualcosa di altrettanto valido. Davide Shorty è il mio cavallo vincente. 54
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anremo in fondo è una mega vetrina e come tale va sfruttata. Sanremo è stata protagonista di drammi e gioie, è l’effimero che diventa lavoro. In tre minuti di palco ci si gioca alle volte una carriera. Al successo alle volte, non basta una buona canzone, ma tutto un lavoro dietro le quinte. Si deve creare un personaggio. Si deve vendere un artista. Negli anni 90, l’atmosfera era molto diversa. Potevi trovare nei locali notturni, performance musicali di rilievo, Jam sassions con Tullio
De Piscopo alla batteria, Andrea Braido alla chitarra (notissimo chitarrista valsuganotto) e tanti altri, non avevano paura di fare le ore piccole, suonavano per il gusto di farlo. Andavamo negli alberghi durante il giorno, spostandoci come una transumanza umana, valigette con registratori e tempo per aspettare questo o quel artista che scendessero nelle hall. Tutto improvvisato, tutto genuino. Oggi, devo dire, funziona molto meglio, hai uno studio fisso dove loro vengono per essere incontrati. Certo, si è perso il gusto dello
Sanremo story
scoop, ora il tempo dei saluti, domande e ciao. La città di Sanremo pare sospesa nel tempo, non certo nell’approfittarsi di questa occasione. Fino ad una settimana prima e subito quella dopo, i prezzi sono normali se non bassi. Quei 7 giorni si monetizza il più possibile. Quest’anno nemmeno questo. Gli hotel saranno vuoti, i ristoranti pure. Una volta mi sono fermato due giorni dopo la finale. Sanremo diventa una specie di ghost
town, le strade tornano affollate il giusto, il tempo si allunga, diventa liquido. Se chiedi ad un sanremese doc cosa pensa del festival, ti dirà che senza di quello, pochi conoscerebbero la cittadina. Amo osservare la gente in quella settimana noti le differenze sociali più che in altri posti. Se sei nella hall dell’hotel Londra, verso le 19.30, vedrai scendere coppie leggermente agè, lei rigorosamente in pelliccia e gioielli, lui smoking e orologio d’oro. Arrivano da tutta Italia per poter sedersi a teatro. Il quale tra l’altro è molto più piccolo di quello che appare. Poi nelle strade del centro, musicisti di strada, costellano il tragitto come una parata militare. Di coloro che chiedono oboli nemmeno l’ombra, l’amministrazione locale non vuole far trasparire nulla di triste. La famosa polvere sotto il tappeto. Poi arrivi all’Ariston è un cinema, eppure su quel palco sono saliti nomi PESI, Louis Armstrong, Bruce Springsteen, Madonna, non voglio fare elenchi, ma davvero non è mancato nessuno. Eppure ai cittadini, la maggior parte almeno, il festiva interessa, criticano al mattino al bar mentre prendi un caffè, basta allungare le orecchie per poter capire da che parte gira il vento. Molti mi chiedono come si fa a sapere prima il nome del vincitore. Ci sono stati anni in cui era facile, avevi il nome grosso, magari per la prima volta e sapevi che avrebbe vinto.
Poi ci sono le case discografiche, io ti porto questo se ti mi fai vincere quell’altro. Nulla di scandaloso eh, anche perché non esiste nessun accordo che possa creare il successo di un brano. Ci sono le radio che scelgono cosa trasmettere, anche in base alle richieste. Qui di solito si citano due artisti. Vasco Rossi che arrivò ultimo e i Jalisse che vinsero. Non occorre aggiungere nulla vero? Le due carriere sono sotto gli occhi di tutti. Mi fanno un pochino sorridere coloro che “snobbano” il festival come se fosse una volgarità, poi gli indici di share ti fanno capire che metà Italia, alle volte anche di più, era incollata davanti allo schermo. Ma perché? Beh, da una parte c’è il “lo vedevano i miei genitori”, dall’altro con il supporto dei social, siamo diventati tutti esperti e critici di musica, immagine e dio sa cos’altro ancora. Poi, perché è un momento di stacco, di pausa. Ecco perché credo che quest’anno raggiungerà picchi mai visti. Gli artisti selezionati hanno un’occasione d’oro. Sinceramente sono contento che venga fatto, dietro ad un cantante, ci sono attrezzisti, operai, scenografi, tecnici una filiera di lavoratori che avranno modo, finalmente, di poter lavorare, dopo essere stati praticamente fermi un anno. Sanremo non grava sulle nostre tasche, con la pubblicità che raccoglie, addirittura fa incassare alle Rai diversi milioni (16 in uscita, 37 in entrata nel 2020), per cui possiamo vederlo sereni. Guardiamolo, ascoltiamolo, critichiamolo, ma vogliamogli bene.
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Il personaggio di di Chiara Paoli
Anna Magnani, la prima attrice italiana da Oscar 21 marzo 1956, Anna Magnani vince il Premio Oscar come migliore attrice protagonista per la sua interpretazione di Serafina Delle Rose nel film “La rosa tatuata”. È la prima volta che un’artista italiana viene premiata agli Academy Awards, il premio cinematografico più antico e ambito, assegnato a partire dal 1929.
In realtà l’attrice non partecipò alla cerimonia di premiazione e la statuetta venne consegnata da Jerry Lewis a Marisa Pavan, candidata per la medesima pellicola nel ruolo di migliore attrice non protagonista. Lo stesso ruolo gli valse anche il Golden Globe come migliore attrice di film drammatico e un BAFTA, premio annuale inglese (British Academy of Film and Television Arts) che la decreta migliore attrice internazionale dell’anno. Anna Magnani, nata a Roma il 7 marzo 1908, è annoverata tra le migliori attrici della storia del cinema, ma la sua vita è stata tutt’altro che semplice. La madre Marina, da cui ha preso il cognome, era una sarta nella città di Ravenna, ma abbandonata dal padre, la donna decise di affidare la piccola alla nonna per emigrare verso Alessandria d’Egitto, dove sposa un austriaco benestante. Anna cresce nella casa della nonna
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assieme a cinque zie e a un’unica presenza maschile, ha modo di studiare e dedicarsi allo studio del pianoforte. Effettuerà un viaggio ad Alessandria d’Egitto per andare a trovare la madre, ma l’esperienza è decisamente negativa, perché non riesce a sentirsi amata. Rientrata a Roma, abbandona la musica per la recitazione, nel 1927 inizia a frequentare la scuola di arte drammatica Eleonora Duse, a quel tempo diretta da Silvio D’Amico. Con il compagno di studi Paolo Stoppa si ritrova nella compagnia di Antonio Gandusio che si innamora di lei e la spinge a cimentarsi nel cinema. Nel 1934, la troviamo impegnata nel varietà con il duo comico dei fratelli De Rege; dello stesso anno è il primo film intitolato “La cieca di Sorrento”, diretto da Nunzio Malasomma. Il 3 ottobre 1935 convola a nozze con il regista Goffredo Alessandrini, con cui l’anno successivo gira il film “Cavalleria”. Il matrimonio finisce nel 1940, con la loro separazione,
mentre il divorzio giungerà solo nel 1972. Interpreta vari ruoli, ma il primo a costruire un personaggio che possa dare visibilità alle sue doti d’attrice drammatica è Vittorio De Sica, nel 1941 con “Teresa Venerdì”. In quello stesso periodo è al fianco di Totò in una fortunata serie di spettacoli e partecipa alla pellicola “Campo de’ Fiori” con Aldo Fabrizi. Il 23 ottobre 1942 nasce il figlio Luca dalla relazione con il più giovane attore Massimo Serato che la lascia appena scoperta la gravidanza. Il figlio viene registrato, come avvenne per lei, con il cognome materno. La fama mondiale giunge nel 1945 con il primo Nastro d’Argento ottenuto grazie all’interpretazione in “Roma città aperta”, film manifesto del Neorealismo firmato da Roberto Rossellini con il quale avrà una relazione. A distanza di due anni ottiene il 2° Nastro
Il personaggio
d’Argento e il premio come miglior attrice alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, per il film “L’onorevole Angelina” di Luigi Zampa. Il 3° premio è nuovamente frutto della collaborazione con Rossellini, nella pellicola “L’amore”, ma segna anche la fine della loro relazione. L’anno seguente, mentre lei gira “Vulcano”, Rossellini si dedica a “Stromboli terra di Dio” con
Ingrid Bergman, sua nuova fiamma; le riprese dei due film sono rammentate come la guerra dei vulcani nella storia del cinema italiano. Con “Bellissima” di Luchino Visconti, nel 1951 colleziona il 4° Nastro d’Argento, e il 5° lo ottiene con il film “Suor Letizia - Il più grande amore”. Ma i riconoscimenti non finiscono qui. Nel 1958 viene premiata come migliore attrice con il David di Donatello e al Festival di Berlino, per l’interpretazione in “Selvaggio è il vento” di George Cukor. Un ulteriore David di Donatello giunge l’anno successivo con il film “Nella città l’inferno” del regista Renato Castellani. Nel 1962 è protagonista nella pellicola “Mamma
Roma” di Pier Paolo Pasolini, regista con cui instaura un rapporto conflittuale. Nel 1971 si cimenta con la televisione, e l’ultima apparizione cinematografica avviene nel 1972, in un cammeo fortemente voluto da Federico Fellini. Muore a Roma il 26 settembre 1973, per un tumore al pancreas, circondata dall’affetto del figlio e di Rossellini, cui si era riavvicinata.
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Il calcio in evidenza di Alessandro Caldera
JOSÈ MOURINHO “Special One” “I think I am a Special One”. Letteralmente, “penso di essere speciale”. Queste sono alcune delle parole che riassumono alla perfezione uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio o, meglio, con queste stesse, lui si definisce. L’autore della frase in questione è un uomo prossimo ai 58 anni, originario di Setùbal in Portogallo, all’anagrafe José Mário dos Santos Mourinho Félix: per tutti, più semplicemente, Josè Mourinho.
C
hi era quindi questo signore prima di diventare “speciale” e quali tappe della sua carriera hanno contribuito a consacrarlo come tale? Innanzitutto, la passione per questo sport va attribuita al padre Felix, scomparso nel 2017 all’età di 79 anni, portiere con più di 250 partite in carriera e con svariate esperienze da allenatore, anche se con esiti neanche lontanamente paragonabili a quelli del figlio. Per quanto riguarda Josè, di ruolo difensore, possiamo parlare di un trascorso più che modesto all’interno del rettangolo di gioco con all’incirca un centinaio di partite disputate tra il 1981 e il 1987, prima di un prematuro ritiro, all’età di 24 anni, per dedicarsi poi all’attività che lo avrebbe proiettato nell’Olimpo del calcio. Nella stagione 1992-1993, Mourinho viene finalmente nominato assistente di Bobby Robson, suo mentore, all’epoca allenatore dello Sporting Lisbona. Tra i due nasce un vero e proprio sodalizio che porta il tecnico inglese a nominare Josè suo vice anche nelle successive esperienze, prima al Porto e poi al Barcellona. Il lusitano rimarrà in Catalo-
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gna fino alla stagione 1999-2000 e qui, grazie a mister Louis van Gaal (nome da tenere a mente perché ritornerà nella notte più importante della sua vita), avrà anche la fortuna di alzare il primo trofeo in carriera. Con l’avvento del nuovo millennio, assistiamo alla consacrazione definitiva del genio portoghese; ecco perché parlare esclusivamente dei singoli risultati, senza analizzare come siano stati raggiunti, sarebbe un errore imperdonabile. Riassumere il tutto in modo cinico, impedirebbe di comprendere la vera essenza di Josè, il suo essere leader e la sua grandissima capacità oratoria. Prove inequivocabili di tutto ciò possiamo trovarle durante la sua prima militanza al Chelsea tra il 2004 e il 2007 quando, reduce dalla vittoria della Champions League della stagione 2003 con il Porto, si presenta alla stampa con l’indimenticabile frase riportata in apertura di articolo. Parole dirette e taglienti grazie alle quali, da quel momento in
avanti, sarà appunto noto con l’epiteto di “Special One”. Testimonianza invece della sua straordinaria capacità di plasmare e scovare giocatori emergenti, si ha durante la sessione estiva di mercato quando, incalzato dal presidente dei londinesi Roman Abramovich disposto a dargli carta bianca pur di vincere, Mourinho pretende un giocatore allora sconosciuto di nome Didier Drogba. Il patron, di fronte alla richiesta, scoppia a ridere perché si sarebbe aspettato giocatori più blasonati e pronti, non certamente uno ancora in rampa di lancio. Il risultato? Josè viene accontentato, il club vince nel 2004 il campionato dopo 50 anni e il calciatore ivoriano ne diventa il miglior marcatore straniero della storia. Non è però all’ombra del Big Bang che Mourinho scrive le pagine più indelebili della sua carriera: ciò avviene infatti in
Il calcio in evidenza Italia, al termine di un percorso iniziato un pomeriggio di tarda primavera del 2008. È il 2 giugno, quando il presidente nerazzurro di allora, Massimo Moratti, individua nel portoghese il successore di Roberto Mancini. Le motivazioni della scelta sono attribuibili al fatto che lo stesso Moratti non si accontenta più di primeggiare solamente in patria, ma vuole ora imporsi anche all’estero, così come 43 anni prima aveva fatto il padre Angelo. Il calcio che Mourinho esprime nel campionato italiano, non è dei più spettacolari; la squadra però ha una coralità ed una tenacia mai viste prima, che rispecchia in parte anche la sfrontatezza e l’irriverenza del proprio allenatore, capace di gesti come quello delle “eloquenti manette”, per descrivere un arbitraggio non propriamente di suo gradimento.
All’Inter il tecnico ha dimostrato perché è speciale: lo ha fatto una sera di maggio a Madrid nel 2010 quando, riportando i nerazzurri sul tetto d’Europa dopo 45 anni, ha ottenuto anche il “Triplete” (Campionato, Coppa Italia e Champions League), divenendo il primo allenatore in Italia a riuscire nell’impresa. Quella notte il portoghese ci ha voluto dare
anche un insegnamento di vita: con il successo in terra spagnola ha dimostrato infatti che l’allievo può superare il maestro. O almeno, questo è quanto riportato dal tabellino al termine di quel magico incontro. Lo “Special One” si impose infatti per due reti a zero contro Louis van Gaal, suo mentore, entrando così di diritto nella leggenda.
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Società oggi di Veronica Gianello
ENZO CELLI e il LIFE COACHING
Tutto quello che ci serve è già dentro di noi:
L
’abbiamo aspettato tanto questo nuovo anno. Talmente tanto che ora che si sta facendo strada, giorno dopo giorno, ci sentiamo bloccati dal suo passo veloce e deciso. Abbiamo avuto così tanta voglia di correre, di uscire, di fare, di andare che tutto questo accumulo di desiderio, questa dispensa di energia pronta ad esplodere, sembra svanire di colpo quando finalmente davanti a noi si apre quella porta troppo a lungo chiusa. Non ci sentiamo pronti. Questo salto nel vuoto, zavorrati delle aspettative che ci siamo creati per il nuovo anno, ci spaventa. Restiamo sulla soglia, e se non riusciamo a saltare iniziamo a porci delle domande, a dubitare, spesso addirittura a darci colpe, a dirci che il problema siamo noi. Forse ci stiamo solo ponendo degli obiettivi che non ci rispecchiano, forse non ci siamo nemmeno posti degli obiettivi.
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Non possiamo sempre pretendere di fare tutto da soli, ci sono altre soluzioni, altri percorsi da intraprendere per farci uscire da questo circolo di negatività e insoddisfazione. La figura del life coach ci aiuta proprio in questo: a fugare i dubbi su noi stessi, a prendere decisioni, ad aprire la strada verso la realizzazione di sogni e obiettivi. Non fa il lavoro per noi, non ci dà le risposte che cerchiamo, non ci cura con terapie mediche. Il life coach pone domande chiave che ci aiutano a capire cosa ci fa stare ancora lì sulla soglia, e cosa possiamo fare per superare blocchi e convinzioni. Questa figura è estremamente diffusa nel mondo anglofono, particolarmente negli Stati Uniti, dove già dagli anni ’90 inizia a diventare parte integrante dello staff della grandi aziende. Oggi si coglie il suo valore anche a livello personale, ed è diventata una presenza molto comune nel percorso di crescita personale dei singoli individui. Da qualche anno, non senza la nostra classica iniziale reticenza, anche in Italia stiamo iniziando a capire l’importanza del ruolo del life coach.
Se ne avvalgono ormai stabilmente aziende, compagnie e atleti, e in tempi più recenti si sta ampliando la platea di utenti che, singolarmente, iniziano percorsi di life coaching per cercare di lavorare su quegli aspetti che non ci permettono di realizzare i nostri obiettivi o di vivere una vita che ci soddisfi. Eppure il life coaching non è uguale per tutti, ognuno ha i propri bisogni, i propri tempi di crescita e le proprie motivazioni. A farsi carico di questa diversità, fornendo approcci estremamente stimolanti e vari, che vanno ben oltre un’idea di un life coaching omologante, troviamo in Italia la figura di Enzo Celli. Enzo Celli è regista, autore di danza contemporanea ed educatore. Dottore in Scienze Motorie indirizzo Psicologico, svolge il suo lavoro di Personal Coach Certificato tra i danzatori professionisti di New York dove vive stabilmente dal 2018. È uno dei pionieri dell’applicazione delle neuroscience al training di danza contemporanea; il suo sguardo internazionale e la sua esperienza lo rendono uno dei life coach più apprez-
Società oggi
zati in Italia e all’estero, anche al di fuori dell’ambito artistico. Le sue competenze gli permettono oggi di mettersi davvero a servizio della sua comunità. Il lavoro di Enzo Celli non è mai frammentario: si sviluppa in maniera organica e coerente, mirando sempre a portare nutrimento. Questo termine è la base attorno cui ruota tutta la sua idea di crescita personale. Come scegliamo di mangiare ciò che ci fa bene, così dob-
biamo nutrire anima e spirito. Il desiderio di creare qualcosa di veramente utile e funzionale, lontano da logiche dettate dall’apparenza, è stato particolarmente chiaro quando, lo scorso marzo, ci siamo ritrovati ad affrontare la pandemia. In quel momento Enzo Celli si è fatto avanti per tutti, senza sapere se e quali risposte avrebbe ottenuto. Sono esempi di impegno e generosità come questo che ci hanno permesso di trovare positività in un momento di crisi. Da marzo ha iniziato un seguitissimo appuntamento online: un meeting motivazionale gratuito che incontra il mondo. Si chiama ‘the TALK’, ed è un momento di condivisione e riflessione che forni-
sce stimoli e strumenti per affrontare il futuro post-pandemico. È inoltre autore di uno dei podcast più seguiti in Italia, ‘Orbo Novo’, e con questo stesso nome, ha fondato qualche mese fa un blog di crescita personale. Il life coaching, per evitare di sembrare inconsistente e per diventare davvero sostegno e guida, dovrebbe fare questo: stimolare, chiedere, accompagnare con ogni mezzo possibile. Non può essere un percorso unidirezionale: deve necessariamente ampliare i propri orizzonti, aprire una relazione e creare un percorso di fiducia organico e coerente. Deve farci comprendere la potenza di ciò che abbiamo già dentro di noi. Deve, per l’appunto, nutrire.
Si ringrazia Enzo Celli per la gentile concessione delle foto tratte dal suo archivio personale
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Società oggi di Patrizia Rapposelli
FIGLI E PRESUNZIONE “Oggi, i figli poco più che maggiorenni, capiscono tutto e sanno tutto. non riesco a capire il loro egoismo, la loro indisponenza, la loro presunzione! come si fà a rinunciare a consigli, comportamenti e modi di noi genitore con grosse esperienze acquisite nella vita?”
L
’atteggiamento della presunzione, ossia un’alta opinione di sé e delle proprie capacità, sembra essere divenuto un modo di essere caratteristico della società moderna: il rapporto genitori-figli ne appare particolarmente coinvolto. Infatti tra dibattiti televisivi e svariate discussioni il giovane viene messo in luce nella sua presunzione sul genitore. Navigando nel web, su un blog, mi imbatto in una frase significativa postata da una madre, la quale manifesta con incredulità il suo disappunto per l’indisposizione e l’egoismo dei figli in generale, i quali rinunciano a consigli e modi suggeriti dalla figura genitoriale. Una società nella quale le parole all’orecchio del ragazzo sembrano non arrivare, si perdono nel vuoto, un colossale misto di suoni, immagini e frasi fatte che sfociano nel “fare di testa propria”. Perché la maggioranza
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della figliolanza è definita presuntuosa? Quale motivazione li spinge a negare il babbo come riferimento? Le risposte possono essere molteplici e ognuno può fare la propria riflessione, ma ciò che più balza all’occhio è lo scetticismo manifestato spesso dal padre e dalla madre. Il giovane raggiunta la maggiore età vuole camminare da solo e crescere in fretta con autonomia e indipendenza, dal processo intrapreso nell’adolescenza vuole ribellarsi alla dipendenza tipica dell’infanzia; appare dunque normale la sua priorità di riconoscersi non più come figlio, ma come essere autonomo. Da un tratto tipico adolescenziale e della prima età adulta vediamo nella società odierna un marcarsi di questo atteggiamento di autosufficienza che lo rendono egoista e presuntuoso: “Mamma e papà io non ho bisogno di voi, so cosa è giusto fare.” Da sempre il rapporto genitore-adolescente è stato contrassegnato da conflitti e difficoltà comunicative, però ad oggi qualcosa ha peggiorato la situazione. Un insieme di fattori hanno creato questa modalità di porsi da parte del mondo giovanile: l’ambiente relazionale che approva, dai familiari ai pari, il carattere e la personalità individuale, ma soprattutto il
rapporto che fin dalla tenera età il genitore crea e costruisce con suo figlio. Uno psicologo ha parlato di divinizzazione del bambino nella società attuale, ossia di metterlo su un piedistallo e far girare tutto attorno a lui, precludendo scusanti
e assenze di no, escludendo dall’esperienza del giovanissimo l’incontro con l’ostacolo e l’ingiustizia, inevitabilmente alleva un narciso. Colpa delle trasformazioni culturali e delle troppe attenzioni pedagogiche, siamo di fronte ad un evolversi delle dinamiche familiari, dove i ruoli e le gerarchie non solo sono più flessibili, ma liquide e ribaltate. Si parla di potere dei figli; genitori in balia delle loro richieste, preoccupati a scemare un capriccio o all’assecondarlo: la funzione educativa ha perso di prospettiva schiacciandosi in un non controllo sul rapporto filiale. Allora rifletterei sul perché una madre si mostri incredula al rifiuto del figlio di lasciarsi guidare, mi chiederei se nel suo processo di crescita lo ha effettivamente accompagnato. L’essere punto di riferimento è un percorso lento, fatto di conflitti, ascolto e comunicazione in una costruzione di reciproca fiducia.
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Storie di casa nostra di Andrea Casna
Duelli aerei nel feltrino 1917-1918
Anche la Valle di Seren, come tutto il feltrino, all’indomani della disfatta di Caporetto conobbe l’occupazione dell’esercito austroungarico. Sin dal novembre 1917 il piccolo paese fu assoggettato all’autorità militare e la popolazione subì, sin da subito, le pesanti requisizioni e il controllo militare. Alcuni civili, inoltre, quelli considerati abili, furono impiegati come lavoratori militari al servizio dell’esercito austriaco. Questi sono aspetti che spesso emergono nelle memorie e nelle cronache del tempo. Fra queste, degna di nota, è il diario di D. Antonio Scopel, al tempo dei fatti sacerdote a Valle di Seren a Feltre. «Spesso i civili -scrive D. Antonio Scopel nel suo diario “Un anno di sofferenze e di fame sotto l’invasore” (pubblicato in 1917/1918 Il feltrino invaso – Testimonianze) – sono costretti a
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portar munizioni e tirar cannoni fino alla linea del fuoco (in Fadina, per la strada del monte Roncon)». Dal 1917 il Feltrino conobbe una guerra diversa. Fino all’ottobre 1917 la guerra era qualcosa di lontano e gli abitanti conoscevano soltanto il passaggio di truppe e di rifornimenti. Dopo Caporetto la situazione cambiò. Gli austriaci puntavano alla conquista del Monte Grappa e le prime linee non distavano molto da Valle di Seren e la guerra giunse dal cielo. Antonio Scopel, al 16 dicembre del 1917 scrive: «Dopo lunga e accanita lotta nella zona aerea del Roncon, un nostro aeroplano colpito da uno austriaco con bomba incendiaria, cade lentamente in fiamme, slittando verticalmente in aria, ed atterrando presso Caupo. Quando l’apparecchio giunse a terra, il
motorista Fabbian Matteo di Borso, sergente maggiore, sta ancora appoggiato alla macchina mezzo carbonizzato ed agonizzato. L’altro aviatore, tenente Giannini Orazio di Pistoia, è precipitato poco prima dal medesimo velivolo sul greto dello Stizzon (...) rimanendo orribilmente sfracellato (...). Se questi combattimenti – si legge sempre nel diario di Scopel – all’altezza delle nubi, fossero delle finte manovre, offrirebbero uno spettacolo assai divertente, oltre che sensazionale. Ma poiché ad alcuno dei lottatori è spesso riserbata la sorte di Icaro, il ridere a quelle evoluzioni, a quelle mosse repentine, a quel rimbeccarsi crudele come fossero avvoltoi che voglio distruggersi a vicenda, e peggio quando la vittima precipita, dimostrerebbe animo poco delicato, come avveniva degli antichi romani che si compiacevano delle lotte cruente e mortali dei gladiatori del circo». Al 17 dicembre, il giorno seguente il duello, vi fu il seppellimento dei due aviatori caduti in battaglia. Il cappellano, come scrive sempre Scopel, lodò i due piloti “nemici” perché degni di ammirazione in quanto morirono compiendo il loro dovere. «Un ufficiale -si legge nel diario – chiese ad alcune donne che piangevano: “Erano vostri parenti o conoscenti?”
Storie di casa nostra “No – risposero- ma sono italiani e questo ci basta”. Era la risposta -scrive Scopel – di tutto il popolo oppresso. Su quella tomba, circondata da altre austro-ungariche, furono tosto trapiantati dei fiori da persone pie che vi andavano spesso a pregare per gli eroi e per la Patria». Orazio Giannini era nato nel 1887 a Pistoia e Matteo Fabbian nel 1890 a Borso del Grappa. I duelli aerei si susseguirono per tutto il peridio 1917-1918. In alcuni casi erano ricognizioni italiane o inglesi per raccogliere dal cielo informazioni utili sull’organizzazione austro-ungarica oltre il Grappa. In altri veri e propri combattimenti. Al 12 gennaio 1917 Scopel annota nel suo diario: «Un aeroplano austriaco, d’ispezione, dal campo d’aviazione di Feltre si era indirizzato superbamente vero il Grappa, facendo un grande strepitio col suo motore accelerato. Ma quando ebbe oltrepassata la chiesa
di Valle, ecco spuntare veloce dal Grappa una pattuglia di quattro nostri aeroplani da caccia, che in breve gli furono appresso e lo circondarono. Non volendo arrendersi prigioniero, l’aviatore nemico per sgusciare dal cerchio teso dai nostri, ora si alzava rapidamente, ora s’abbassava come peso morto, ora sterzava bruscamente a destra, ora a sinistra, mentre i cannoni antiaerei del Roncon e del Peurna cercavano di difenderlo, indirizzando contro i nostri aeroplani i loro shrapnells. Finalmente, dopo venti minuti di lotta furiosa, l’aeroplano dalla croce nera, colpito da
mitragliatrice di un nostro velivolo, precipitò sullo Stizzon, poco lungi dal luogo in cui era precipitato, il 16 dicembe, il nostro aviatore Giannini Orazio».
Foen di Feltre (BL)
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Società, sport e integrazione di Nicola Maccagnan
ASSI Onlus,
Associazione Sociale Sportiva Invalidi:
da 11 anni per l’integrazione nello sport e non solo... A Sedico, baricentrica rispetto al territorio della provincia di Belluno, ha sede l’ASSI, l’Associazione Sociale Sportiva Invalidi. Il suo presidente, che è anche tra i fondatori del sodalizio, è Oscar De Pellegrin, nome conosciuto ben oltre i confini regionali.
Partiamo con un breve “excursus” sul presidente dell’ASSI. Oscar De Pellegrin, campione paralimpico di tiro con l’arco, non ha certo bisogno di grandi presentazioni... E’ bello ricordare la parte della mia vita da atleta, che, in 25 anni di attività, mi ha visto prendere parte a ben 6 paralimpiadi. Una carriera culminata e conclusa con il titolo individuale nel tiro con l’arco a Londra nel 2012, quando fui anche portabandiera della nazionale italiana. Quella medaglia d’oro resterà per sempre un segno indelebile nella mia vita. Da quell’esperienza londinese è maturata poi la decisione di rimanere nello sport con incarichi dirigenziali nella Federazione Italiana di Tiro con l’Arco, e poi nel CONI e nel Comitato Paralim66
pico, con l’obiettivo di avviare gli altri ai benefici dello sport. Oltre a tutto questo, l’attività che mi dà maggiori soddisfazioni oggi è quella a stretto contatto con le persone. Da qui la decisione di fondare con alcuni amici, oramai 11 anni fa, l’ASSI. Qual è la mission dell’ASSI? Questa associazione cerca di spronare le persone che vivono una situazione di difficoltà, dopo un incontro col destino o a
seguito un disagio dalla nascita, a fare emergere tutto il loro potenziale e le forma per aiutarle ad integrarsi a pieno nel mondo dello sport, del lavoro e del sociale. ASSI intende motivare queste persone, attraverso l’esempio della mia storia personale, ma anche di molti altri che operano nella nostra associazione, ad affrontare la vita e a viverla nel pieno delle proprie potenzialità. Da questo contatto diretto quotidiano nascono per me le soddisfazioni più grandi; come mi piace dire spesso, queste sono le medaglie più belle! Alcuni numeri dell’ASSI oggi... L’associazione annovera oggi nelle proprie fila quasi 200 persone; il 70% è rappresentato da disabili, che usufru-
Società, sport e integrazione iscono dei servizi dell’associazione; gli altri sono operatori e volontari che prestano la loro opera a vario titolo. Un altro folto gruppo è poi rappresentato dalle oltre 300 perone appartenenti alla terza età che usufruiscono dei servizi di attività fisica “adattata”. Si tratta di una proposta innovativa che abbiamo avviato in convenzione con l’ULSS 1 “Dolomiti” e con la Riabilitazione dell’ospedale di Lamon, che mira a dare ai nostri anziani un’opportunità qualificata non soltanto per tenersi in forma, ma anche per garantire loro spazi di socialità al di fuori dell’ambito domestico. Questa è un’attività in forte crescita, che conduciamo non soltanto presso la sede di Sedico, ma anche a Feltre e Belluno. I “numeri” sono in continua crescita, a testimonianza del fatto che sono sempre di più le persone che chiedono non soltanto un supporto fisico, ma anche delle occasioni per stare insieme e vivere momenti di aggregazione. Presidente, come ha inciso l’epidemia di Covid-19 sulla vostra attività? Noi abbiamo subito, come molti, una situazione davvero difficile durante la primavera scorsa, quando tutti questi centri sono stati chiusi, senza che si pensasse contemporaneamente a come ovviare al vuoto che si veniva a creare. Lo stop forzato alle nostre attività ha causato non
pochi problemi ai nostri soci e soprattutto ai loro familiari. Ad agosto abbiamo poi riaperto, con tutti i crismi previsti dalle normative, al 50% circa delle nostre potenzialità ed abbiamo proseguito le attività sino a Natale, non senza assumerci, naturalmente, anche dei rischi. Dare una risposta alle molte persone che trovano in noi un punto di riferimento ci pareva in ogni caso una priorità assoluta, da cui abbiamo avuto anche grandi soddisfazioni in termini di riconoscimento. Quali sono i vostri programmi per questo 2021? La volontà è che sia davvero un anno di ripartenza, anche se è difficile immaginare un ritorno alla “normalità” a cui eravamo abituati. I nostri ragazzi e le loro famiglie ci chiedono rispo-
ste, che noi – come sempre – faremo di tutto per dare. Facendo anche tesoro di quanto la pandemia ci ha insegnato, sul fronte, ad esempio, dell’uso delle nuove tecnologie per la formazione e i corsi, stiamo già lavorando in maniera da ampliare in futuro la nostra offerta. Io sono di natura un ottimista e voglio pensare alle potenzialità che si aprono nonostante la crisi che stiamo vivendo. De Pellegrin, le chiedo un augurio ai nostri lettori per questo 2021... Dico una cosa semplicissima: se quest’anno ci portasse il bene più prezioso che abbiamo, che è la salute, sarebbe già tantissimo. Quando una persona sta bene, è motivata a qualsiasi altro risultato. E permettetemi un ringraziamento di cuore a tutte le persone che lavorano del comparto sanitario e socio-assistenziale e che in un contesto così difficile stanno mettendo tutto. Prendiamo esempio da loro: abbiamo rispetto per noi stessi e per gli altri e diamoci una mano per uscire tutti assieme da questa situazione. Dipende sempre da noi! 67
Le donne nell’arte di Sabrina Chababi
Milano si tinge di Rosa Donne e arte: due secoli e 34 artiste Finché vivrò avrò il controllo sul mio essere” (Artemisia Gentileschi)
Questo anno è cominciato ricordando le donne del passato ma anche noi, donne del presente. Cominciamo con il ricordare che per la prima volta in una nazione come gli Stati Uniti d’America dopo la vittoria di Joe Biden 46esimo Presidente ha onorato e deciso di farsi affiancare promuovendo come vicepresidentessa Kamala Devi Harris, politica ed attivista democratica che è diventata la prima donna a ricoprire un ruolo che da sempre era solo maschile.
Ormai la storia è abituata a riservare il primato artistico all’uomo. Ricordiamo ad esempio i capolavori nelle sculture dei greci Fidia e Lisippo e citando solo alcuni dei tantissimi e bravissimi maestri della grande arte italiana come Cimabue, Giotto, Raffaello e Michelangelo.... Qui la domanda sorge spontanea. Ma è possibile che le donne si dedicassero solo alla vita famigliare? Sono esistite donne
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artiste? Ebbene si. A loro è dedicata la mostra ideata per Palazzo Reale di Milano da Anna Maria Brava, Gioia Mori e Alain Tapié. Un’esposizione intitolata “ Le Signore dell’Arte “ che una volta aperta dal 5 Febbraio al Palazzo Reale di Milano (restrizioni Covid permettendo) sarà da non perdere perché i curatori ci offrono un viaggio tra il 1500 ed il 1600 con donne capaci di segnare la storia alta dell’arte regalandoci opere uniche di grande valore culturale. Artiste come le Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola ,Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani e Giovanna Garzoni. Trentaquattro artiste di cui la più famosa è certamente Artemisia Lomi Gentileschi. Nacque a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio Gentileschi, un pittore di origine pisana dedito soprattutto agli affreschi, dal quale apprese le prime tecniche per poi divenire
icona di capacità, consapevolezza e rivolta, in grado di imporsi nella considerazione artistica nonostante all’epoca la pittura, come tutta l’arte, non fosse una bravura riconosciuta alle donne. Di lei ha grande stima il padre che scrive alla Granduchessa di Toscana: «Questa femna, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin
Le donne nell’arte gonista della mostra di Palazzo Reale a Milano, ma accanto alle sue opere si possono ammirare altri 150 capolavori nei quali si rispecchia la vita e le opere di donne “talentuose e moderne”, vissute tra Cinque e Seicento. Fra loro nomi noti, altri meno conosciuti e nuove scoperte come la nobile romana Claudia del Bufalo. Quindi non ci resta che aspettare l’apertura del Palazzo Reale e goderci la colorata storia di queste donne che sono riuscite a farsi accettare e a diventare oltre che delle eroine, anche delle vere e proprie “Maestre dell’arte” che onoreremo a vita. Ben sessantasette prestigiose sedi museali, sia italiane sia internazionali, hanno contribuito con i loro prestiti, a questo imperdibile allestimento. Fra loro ricordiamo le Gallerie degli Uffizi, il Museo di Capodimonte, la Pinacoteca di Brera, il Castello Sforzesco, la Galleria Nazionale dell’Umbria, la Gal-
leria Borghese, i Musei Reali di Torino, la Pinacoteca Nazionale di Bologna, il Musée des Beaux Arts di Marsiglia e il Muzeum Narodowe di Poznan in Polonia.
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adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere» . E’ proprio Orazio che negli anni del Barocco si avvicina a Caravaggio alla cui pittura si inspira Artemisia tanto da essere considerata artista di scuola caravaggesca. In realtà i due pittori furono perfino rivali come testimonia il confronto dell’opera della decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta. Purtroppo nonostante la bravura e la passione la sua vita sarà segnata da un dolore che come donna la farà soffrire molto. Nel 1611, all’età di 18 anni, fu stuprata da un amico del padre, Agostino Tassi, pittore alla moda, che solo dopo diversi anni verrà punito ed esiliato. Il disonore metterà nella povera ragazza collera e tristezza così da indurla a trasferirsi a Firenze per poter continuare la sua vita di donna e artista a cui è stato rubato un pezzo di futuro ma non il talento. E’ sicuramente lei la principale prota-
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Il personaggio di Luca Dell’Orco
Martina Meneghini: fotomodella, imprenditrice
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a fotomodella a imprenditrice senza tralasciare la passione per il make-up e la naturale predisposizione verso tutto ciò che è social. Ma non è tutto: il ruolo di organizzatrice di eventi ormai le si addice come un vestito perfetto da indossare nelle migliori occasioni. Martina Meneghini non è solo bella, con un fisico da urlo che le altre mamme le invidiano e una buona dose
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di creatività che la rende perennemente fuori dagli schemi ma eternamente col sorriso sulle labbra. Dopo aver lavorato per anni sotto le luci dei riflettori come fotomodella, ora ha deciso di compiere il grande salto buttandosi dall’altra parte della barricata. D’altronde di esperienza ne ha da vendere e di contatti “giusti” ne ha la rubrica piena. Così, c’è da star certi che anche la sua ultima “creatura” prenderà forma e si svilupperà a tutto gas come lei solo sa fare. Insieme ad un team collaudato sta prendendo forma l’agenzia www.visionepro. it che sarà di sicuro protagonista nel campo dello spettacolo. Nel mentre, sfruttando i suoi profili Instagram, ne ha creato uno apposito (@mm_model_mng) dove segue modelle tra i 18 e i 30 anni. Naturalmente, poi, la fotografia non l’ha abbandonata. Troppo bella e troppo particolare per non essere ricercata dai fotografi di tutta Italia, Così, fra una trasferta a Milano per seguire un evento e una giornata trascorsa con la sua adorata figlia, trova ancora il tempo per essere protagonista di modelsharing, cataloghi e workshop. Riavvolgiamo il nastro: chi è Martina Meneghini? Vi dico tutto…tranne l’età! Sono nata e cresciuta in Veneto, ma ho origini trentine. In arte sono conosciuta come
Mendy, sui social come @Mendy_fashion_tyna. Attualmente vivo a Bassano del Grappa, la mia città, ma tutte le settimane sono a Milano per set ed eventi. Abbiamo detto: da fotomodella a business-woman. Sono nata come fotomodella, adoravo anche recitare sul palco. Ho studiato in accademia make up e recitazione, il tutto dopo il diploma in lingue e oltre ad aver seguito corsi di comunicazione e marketing. Infatti, da un anno e mezzo ho iniziato il mio nuovo traguardo come manager e referente di modelle per ingaggi a fiere eventi e shooting.
Martina Meneghini hai quasi 50mila followers su Instagram… Tutti reali, ci tengo a sottolinearlo! Ogni
Il personaggio
giorno tengo compagnia ai miei fans con stories e post dove do un’immagine di me molto spontanea e nelle quali cerco sempre di essere me stessa. Chi mi segue lo fa perché ama come poso, ma anche per la mia veridicità. Oltre a posare sono una influencer in quanto molti brand mi contattano per lavorare sui social. Ho collaborato con aziende di abbigliamento sia con cantine vinicole, anche se preferisco set fotografici e palcoscenici ad uno scatto da influencer. Ultimamente amo recitare e vorrei ripropormi a qualche casting importante. Eppure, la fotografia resta il tuo primo e grande amore. Sì, Ho all’attivo numerose cover per
magazine e pubblicazioni cartacee, fra cui quelle su Panorama, Low Ride, VOI. E poi grazie a questo mondo ho visto posti davvero magici. Ho lavorato come fotomodella in Grecia, Spagna, Germania, Svizzera, Francia e Londra oltre che in tutta Italia. Ho posato per vari brand quali Narcos, Prozack boutique, Glamood official. Ho prestato la mia immagine per Favelas de Rio, Baïna store, Tiky moi Beach, Deborasenzalacca-Popart, Polar sunglasses, Spillo watch. Ho rappresentato anche il J medical Torino dove mi scelsero come volto per la campagna pubblicitaria. Non solo fotografia… Recentemente ho girato uno spot pubblicitario per i Materassi Revolution per Canale Italia. Sono attualmente Testimonial per Shot Glamour shop e Planet hair lady. Amo i video musicali e ho partecipato al video “Sconosciuti Da Una Vita” di Fedez e J AX. Lavoro come immagine a molte fiere e non manco mai al Motorbike expo e a qualche evento della Moto GP dove conto di portare qualche mia ragazza per qualche gara! La verità è che amo l’arte in tutte le sue forme, per me posare è espressione di libertà, è interpretazione, è lasciarmi andare col mio corpo e mente che cercano armoniosamente di esprimersi davanti un obiettivo. Insomma, la fotografia continua ad occupare una parte speciale nel tuo cuore. Proprio così! Lavoro molto anche nel commerciale, ma lì si posa per valorizzare il prodotto o il capo e quindi non c’è sentimento. Al contrario amo la fotografia in bianco e nero anche perché rappresenta un po’ lo stile della mia vita: o è bianco o è nero. Sono caduta varie volte nella mia vita, ma mi sono sempre rialzata più forte di prima e ora ho bene in mente che fare nel mio futuro.
Ti vedremo anche nel mondo dello spettacolo? Non è facile, bisogna essere portati e avere il giusto mood. Ci si trova un po’ di tutto, ma col giusto carattere e guadagnandosi il rispetto si riesce andare avanti. E tu di strada hai intenzione di farne… Oltre al mio management, vorrei un mio brand e una mia etichetta di eventi a cui già sto lavorando. Ho molti altri progetti
in corso, credo che la vita sia una salita fantastica e credo nella continua crescita personale lavorativa e personale. Infatti, vorrei raccontare la mia storia in un libro perché ogni artista ha il suo passato e i suoi perché. E i miei sarebbe davvero bello scoprirli e leggerli. CONTATTI www.martinameneghini.it @mendy_fashion_tyna www.visionepro.it CREDITS FOTOGRAFICI Ph. GIANLUCA MORETTO
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L’artista in cronaca di Waimer Perinelli
PIETRO VERDINI il RE del BOSCO William Shakespeare ambienta la commedia “Sogno di una notte di mezza estate” in un bosco. Fra alberi e cespugli vivono Oberon, re delle fate, e la moglie Titania. Al loro servizio è Puck o Goodfellow, un folletto, lo spirito del bosco a cui viene affidato il fiore magico, la viola del pensiero, con il quale combinare e scombinare amori. Vittima dei suoi errori anche la regina Titania che s’innamorerà di un asino.
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erdonate l’ardita sintesi di un lungo e divertente intreccio della celebre commedia con il quale voglio introdurvi a Piero Verdini, la cui passione per il bosco e le sue magie mi ha preso sfogliando il libro “ Il re del bosco”di Maria Luisa Clerico illustrato dal pittore trentino. Che proprio trentino non è essendo nato e vissuto a lungo in Lunigiana, sull’appennino toscano, al confine fra Liguria ed Emilia dove nel mare si getta il fiume Magra. Pietro ha disegnato una ventina di tavole dove sono
racchiuse le magie, i folletti, gli spiriti del bosco. Piante, cespugli, ruscelli, circondano il mondo fatato dell’artista che, come racconta, ha trovato il vero bosco solo in Trentino, nel bellunese e nel Feltrino, ai piedi delle Dolomiti. “Sull’appennino toscano, dice, la fitta vegetazione impedisce il normale accesso e a parte la presenza di qualche quercia, non si può parlare di vero e proprio bosco”. L’incontro con il vero bosco è avvenuto quando era un giovane allievo finanziere di stanza a Predazzo. Un incontro
tardivo ma affascinante. già grandicello. “ E’ accaduto, racconta, durante un’esercitazione nella zona di Paneveggio, Pale di San Martino: Fui colpito da quella foresta fatta di grandi alberi, abeti, pini, larici.” Fu una folgorazione testimoniata da sessant’anni di pittura dove grandi alberi, spogli ma non brulli, si piegano, a corona, ai due lati di una strada, o solo un viottolo, intrecciandosi al centro: formando cattedrali. E’ stato scritto che si tratta di architetture gotiche ma, nell’interpretazione dell’ar-
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L’artista in cronaca tista sono solo di foreste sacre nelle quali i veri protagonisti sono gli animali. “Caprioli, orsi, lupi, gufi sono i veri e sacri abitanti del bosco, dice Verdini. Lo abitano lo possiedono e ne sono posseduti”. Il bosco impresso da Verdini sulla tela con i suoi colori originali, il nero, il blu, un po’ di bianco e qualche gocciolina di rosso, è raramente visitato da figure umane. In qualche caso le vediamo con la testa piegata, intente a rimirar le stelle. “Come per Dante Alighieri il quale nel mezzo del cammin di sua vita, che è poi la nostra, si ritrovò in una selva oscura” dice Verdini, e ne uscì proprio davanti alle stelle. Io sono convinto, aggiunge, che anche Gesù sia nato in un bosco ed è per questo che in qualche caso sopra la selva ho dipinto l’angelo che, con un dito indica la via ai pastori”. Una via irta di pericoli nella selva di piante così come in quella della vita.
Pietro Verdini racconta spesso dell’esperienza del collegio dei frati francescani di La Verna in Toscana dove entrò seminarista a dodici anni. “In questa località c’è una selva impressionate, fantastica, fitta, capace di impressionare anche il poeta Dino Fontana, dice Verdini. Il poeta, che io amo, l’ha vissuta intensamente nei pellegrinaggi fra l’Emilia e la Toscana. Vi si fermava spesso, anche per quindici giorni, cibandosi solo di foglie ed erbe. Nei Canti Orfici la descrive in tutta la sua magia e spiritualità”. Due ingredienti della vita che lo porteranno alla follia a stessa che anima il Sogno di Shakespeare nel quale alla fine tutto si risolve per il meglio. Così sono le
cattedrali di Pietro ed egli realizzandole le esplora inserendo, come Puck, l’elisir di viola del pensiero nelle cui opere si riflettono immaginazione, realtà e un po’ di viola del pensiero, dona un pizzico di follia che rende sopportabile la vita.
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Popoli, cultura e tradizioni di Chiara Paoli
Geisha
la donna che si fa arte
“Geisha”, è un termine giapponese che si compone di due kanji 芸 (gei) che corrisponde ad “arte” e 者 (sha) che significa “persona”; perciò volendo tradurre il termine in italiano potremmo dire che si tratta di una persona dedita all’arte o di un’artista. La Geisha non è soltanto una donna che si cura nell’aspetto, è una vera e propria intrattenitrice che deve avere le più svariate capacità per allietare con canti, musica e ballo.
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cavando nella millenaria storia del Giappone, potremmo scorgere nelle Saburuko, le lontane antenate delle Geisha, si tratta di donne di corte che si dedicavano all'intrattenimento dell’aristocrazia. Questa figura raggiunse l’apice del successo nel VII secolo, per poi svanire lasciando spazio alle Juuyo, che costituirono una casta di prostitute vere e proprie, predilette dai nobili di corte. La nostra "persona d'arte" entra in gioco a fianco delle Juuyo nel XVII secolo, si trattava in origine di uomini che nelle festività più rilevanti avevano l’incombenza di deliziare gli invitati con canti, danze e aneddoti. La figura potrebbe essere quin-
di paragonata ai giullari o ai saltimbanchi delle corti medioevali. E’ intorno alla metà del ‘700 che fanno la loro comparsa le prime donne Geisha, che con l’avvenenza della loro figura e l’armonia delle movenze vanno scalzando ben presto i loro mascolini predecessori, ottenendo il monopolio di questa professione. La prostituzione viene liberalizzata in Giappone nel 1617, per volere di Tokugawa Hidetada, vanno quindi moltiplicandosi le case di piacere, proprio nel momento in cui il mestiere della geisha è in una fase di assetto; questa circostanza ha spesso indotto a confondere la Geisha con le prostitute. La geisha, infatti, non si deve considerare
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Popoli, cultura e tradizioni
una prostituta e se desidera fornire prestazioni sessuali lo fa solo per sua libera scelta oppure all’interni di un rapporto
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o di una relazione duratura. Ed è certo che moltissime geishe, sono state amanti o spose di uomini facoltosi e di alto livello sociale. Per diventare geisha sono necessari anni di severa preparazione affinchè si possano apprendere e quindi educate alle numerose nobili arti giapponesi, tra le quali assumono particolare importanza il canto, le danze tradizionali, i complessi rituali della cerimonia del tè e lo shamisen, uno strumento musicale a tre corde. Alle Geisha venne immediatamente vietato di acquisire l’autorizzazione per esercitare la prostituzione, ma non venivano effettuati assidui controlli. Quando nel XIX secolo le Geisha prendono definitivamente il posto delle Juuyo, vengono approvate leggi più rigorose per precisare i loro compiti. Vengono predisposti in particolare nelle principali città come Kyōto e Tokyo appropriati quartieri, denominati hanamachi (花街 "città dei fiori"), all’interno di questi germogliano gli ochaya (case da tè) e gli okiya (case delle Geisha). Numerosissime erano le geisha che tra il XVIII e il XIX secolo si sottoponevano ad un duro apprendistato, ancora in tenera
età, spesso perché esse stesse figlie di una Geisha o per scelta personale, più raramente venivano vendute ancora bambine. Le fanciulle che entravano nelle case della Geisha (okiya) erano avviate ad un percorso che durava diversi anni ed erano soggette alla regia della "Oka-san", la padrona della dimora. La formazione disciplina molteplici stadi che conducono al ruolo di Maiko e infine di Geisha, a partire dalla funzione di "Shikomi", che le vedeva messe all’opera come semplici domestiche, perché l’impegnativo lavoro
Popoli, cultura e tradizioni la scuola per Geisha. Qui le giovani sono tenute ad imparare le diverse arti di cui si farà portatrice nel suo operato, studiando strumenti quali lo shamisen (liuto a 3 corde tipicio del giappone), lo shakuhachi (flauto in legno di bambù)
casalingo ne plasmasse il temperamento. Ad esse toccava l’ingrato compito di attendere il rientro di tutte le Geisha anche fino a tarda notte, per poi alzarsi al mattino prima di loro per preparare tutto il necessario, prima di andare a scuola. Le Shikomi, nel primo anno della loro formazione sono tenute a svolgere i lavori domestici ma non sono esentate dal frequentare le classi dell'Hanamachi,
o lo Ohayashi: (percussioni), esercitandosi nel canto e nella danza tradizionale. Ma la formazione prevede anche l’apprendimento del cerimoniale del tè, ed è necessario imparare a destreggiarsi nella modalità di servire bevande alcoliche, come il sake. La Geisha deve conoscere l’arte delle creazioni floreali e della calligrafia, a cui si affiancano la poesia e la letteratura, indispensabili assieme al kyō-kotoba (京 言葉 dialetto di Kyoto) per deliziare gli avventori nei Ryotei (lussuosi ristoranti a gestione familiare). Dopo aver acquisito competenza nelle arti, è giunto il momento di sostenere un primo esame
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Popoli, cultura e tradizioni
nella disciplina della danza, che consente di accedere al secondo stadio dell'apprendistato, quello della "Minarai". Alleggerite dai compiti domestici, con l’aiuto delle compagne più mature, apprendono le articolate consuetudini giapponesi, a partire dalla selezione e dalla maniera di portare il kimono, per sviscerare poi l'arte dell’ intrattenimento del loro mecenate. Le Minarai possono assistere passivamente agli Ozashiki (banchetti in cui le Geisha rallegrano gli ospiti), seguendo la loro "Onee-san" ("sorella maggiore"), cioè la loro istruttrice. E’ qui che sull’esempio della Onee-san, perfezionano attraverso l’osservazione diretta la propria maestria nella conversazione e nel gioco. A questo
breve stadio della durata di un mese circa, segue la fase Maiko (舞 妓) che significa “fanciulla danzante”. Vestita con kimono dai colori vivaci, adornata da un trucco e da acconciature ricercate, questa figura ricalca pienamente lo stereotipo occidentale della Geisha. La Maiko, che potremmo definire anche Imoto-san ("sorella minore") segue ora pedissequamente la Geisha Onee-san, accompagnandola in tutti i suoi doveri. Non a caso vengono definite sorelle, il loro legame è infatti stretto, perché la maggiore aiuta la sua protetta ad apprendere tutto il necessario per svolgere la professione, completando così la sua formazione scolastica. In questo periodo le ragazze avviate alla professione di Geisha, scelgono con l’aiuto della Onee-san un "nome d'arte" adatto che al suo interno deve contenere la prima parte del suo nome. La fase di formazione come Maiko poteva protrarsi fino a cinque anni, alla fine dei quali veniva eletta Geisha, titolo che le era proprio fino al momento in cui non avesse deciso di ritirarsi. E’ quindi venuta l’ora di ripagare il proprio debito, l’addestramento infatti viene promosso dalla casa delle Geisha a condizione che queste
poi ricompensassero l’educazione ricevuta, con il loro lavoro. Si trattava in realtà di importi esorbitanti che non sempre le Geisha riuscivano a risarcire pienamente. Pur essendo ancora viva e radicata all’interno della società giapponese, la tradizione della Geisha sta lentamente scomparendo. Ad oggi sembra che in tutto il Giappone rimangano meno di un migliaio di Geisha la maggior parte delle quali vive ed esercita la professione a Kyoto, una città famosa non solo per i suoi meravigliosi e fantastici templi e per diciotto siti Patrimonio Mondiale dell’Umanità A Kyoto, che è tutt’ora considerata la verra capitale delle geishe, vi sono sei hanamachi, i quartieri dove si possono trovano questa figura che per centinai di anni sono state il simbolo femminile del Giappone
COMUNICATO AI LETTORI
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FELTRINO NEWS è un periodico mensile distribuito gratuitamente in tutti i comuni della Vallata Feltrina È stampato in 5mila copie con una foliazione di 96/104 pagine tutto a colori e su carta patinata con formato 23cm x 31cm. FELTRINO NEWS è un free-press non schierato politicamente e quindi suo precipuo compito è quello di dare una corretta informazione e giusta narrazione dei fatti, degli eventi e degli avvenimenti, siano essi politici, sociali, culturali o economici. La redazione di FELTRINO NEWS è formata da 18 collaboratori di cui 1 avvocato, 2 psicologhe e una corrispondente dagli USA. La consulenza medico-scientifica è garantita da 4 medici. FELTRINO NEWS viene posizionato in oltre 240 punti quali edicole, farmacie, supermercati, centri commerciali, alberghi, ristoranti, parrucchieri, autostazioni, ambulatori, ospedali, bar, negozi, macellerie e in tutti i luoghi di pubblica affluenza.
Popoli, cultura e tradizioni di Chiara Paoli
Geisha tra arte, letteratura e cinema
È
nell’800 che il Giappone entra a far parte dell’immaginario europeo, aprendo tra il 1866 ed il 1869 le proprie porte alla cultura occidentale ed esportando costumi ed arte che danno vita al fenomeno detto Giapponismo. Le stampe ukiyo-e (“mondo fluttuante”) che giungono in Europa dal Giappone ispirano gli artisti impressionisti,con pittori del calibro di Manet, Monet, Degas, Renoir, Pissarro e Van Gogh, influenzando anche la successiva Art Nouveau. Quello che prevale è lo stile decorativo, il volume non ha più importanza mentre prevalgono i colori stesi in maniera omogenea e la marcatura netta dei contorni che vengono privati del chiaro-scuro. In Europa è ormai in voga la moda giapponese, si diffondono nelle case stampe ed oggetti decorativi come vasi e porcellane; l’aristocrazia ama vestire il kimono e sfoggiare ventagli decorati in stile nipponico. E’ in questo clima che nascono opere musicali quali “Il Mikado” o “The Town of Titipu”, opera comica di Arthur Sullivan che venne rappresentata per la prima volta al Savoy Theatre di Londra il 14 marzo 1885, e il cui successo fu coronato da ben 672 repliche. Di poco successiva è la Madama Butterfly di Giacomo Puccini, tragedia giapponese, portata per la prima volta in scena alla Scala di Milano nel 1904, e basata sull’omonimo racconto dell’americano John Luther Long, edito nel 1898. Se la figura della Geisha è stata a lungo tempo
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travisata, soprattutto in seguito allo sbarco dei soldati statunitensi che nel periodo del secondo conflitto mondiale si erano fatti una loro distorta idea della Geisha. Mentre gli americani bramavano delle Geisha provocanti e seducenti, completamente asservite all’uomo, queste rappresentavano invece l’unica categoria di donne emancipate all’interno della civiltà giapponese. Al mito della geisha prostituta contribuì in maniera decisiva il reclutamento di una moltitudine di prostitute, che John W. Dower, storico orientalista, stima ammontassero a circa 60.000 donne che venivano definite Geisha girls e che erano state assoldate per soddisfare i desideri delle truppe U.S.A. Il fraintendimento di questa figura si è diffuso, giungendo in Cina dove l’espressione Geisha viene tradotto con il termine che equivale a prostituta. La storia è riuscita in questi ultimi anni a riscattare la figura della Geisha e a darne un interpretazione corretta, secondo i canoni orientali, attraverso la letteratura grazie al romanzo “Memorie di una geisha” di Arthur Golden, dal cui volume è stato tratto anche un’opera cine-
matografica prodotta nel 2005 da Steven Spielberg e diretta da Rob Marshall. Ormai perduto è il cortometraggio intitolato “Japanese Geisha Girls”, realizzato nel 1904 dalla britannica Hepworth, probabilmente distrutto nel 1924 quando il casa di produzione era sull’orlo del fallito, nel disperato tentativo di recuperare l’argento presente nel nitrato delle pellicole. Molte sono le pellicole che parlano delle Geisha, del 1958 è quella intitolata “Il barbaro e la geisha” per la regia di John Huston e con John Wayne come attore protagonista. “La mia geisha” diretto da Jack Cardiff, esce nelle sale nel 1962, con l’interpretazione di Shirley MacLaine. Più recente è invece il film “M. Butterfly”, di David Cronenberg, datato 1993 con Jeremy Irons come attore protagonista, che solo alla fine del film scopre che quella Geisha tanto amata era in realtà un uomo, e per di più una spia del governo nipponico. Anche la musica pop italiana risente dell’ispirazione a questa casta, nel 1984 è Luigi Tenco a cantare “La mia Geisha”, mentre Carmen Consoli inserisce nel suo album “Mediamente isterica”, datato 1998 un brano intitolato semplicemente “Geisha”. Un mondo quelle delle Geisha che va scomparendo, ma di cui rimane un limpido ricordo e giunge fin qui l’eco, attraverso i numerosi romanzi e racconti, nelle trasposizioni liriche ed in musical, nelle canzoni e nella cinematografia che ci consentono di avvicinarci ad un mondo e ad una cultura così diversa dalla nostra.
Società e moda di Laura Paleari
L’Armocromia nella moda Moda e colore sono da sempre legati e intrecciati alla storia dando voce a generazioni di artisti e stilisti, ma permettendo anche a tutti noi di esprimere la nostra personalità e le nostre sfumature.
verno. Questi sono a loro volta suddivisi in altre categorie, ma noi ci limiteremo alle prime.
Primavera
Q
uante volte ci siamo chiesti quale colore scegliere tra due capi di abbigliamento? Ecco che ci viene in aiuto una disciplina nuova ma che si basa su radici antiche: quelle del colore. L’Armocromia ha proprio questo scopo, trovare la palette di colori ideale per ognuno di noi. L’uso corretto dei colori è fondamentale per esaltare il nostro aspetto, scegliere i giusti capi di abbigliamento per avere un guardaroba più consapevole e sostenibile e per evitare scivoloni di stile. Tuttavia questa materia non riguarda solo la scelta del guardaroba ma anche del make up, della colorazione dei capelli e della scelta dei gioielli. Ma come riconoscere la propria palette di colori? Non è un compito facile, proprio per questo esistono precise professioni lavorative, dedite a questo. Tuttavia, in questo articolo, vogliamo darvi un’iniziale infarinatura sulla materia, in modo da farvi capire indicativamente quale strada seguire. Questa disciplina si basa sulla natura e sui suoi colori, proprio per questo c’è una iniziale divisione dell’aspetto fisico generale delle persone nelle quattro stagioni: Primavera, Estate, Autunno, In-
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Le persone che appartengono a questo gruppo sono perlopiù provenienti da paesi nordici e anglosassoni. Hanno un incarnato luminoso e chiaro, mai troppo giallo o grigio e non è rara la
frequenza di lentiggini. Gli occhi sono di un colore che varia dal verde, all’azzurro, all’ambra mentre i capelli generalmente sono biondo miele o scuro oppure rossi ma si possono presentare anche di colore castano. I colori più adatti e che valorizzano di più la bellezza delle persone appartenenti a questa categoria sono quelli caldi e accesi, come il rosso puro, il verde prato e quello pistacchio, il color vinaccia e il turchese molto intenso; per
i colori soft sono perfetti il pesca e il corallo così come il beige dorato e il cipria. Non è consigliabile l’utilizzo del nero da sostituire magari con un color cioccolato fondente.
Estate
A discapito di quello che si possa pensare, gli individui appartenenti a questa categoria sono caratterizzati da pelle chiara e delicata, tendente al chiaro e dalle note bluastre. Gli occhi sono chiari con iridi fredde, come l’azzurro, il grigio - azzurro e il verde, mentre per le gradazioni medio scure si va da un castano
nocciola ad un verde polveroso. I colori adatti sono quelli soft e delicati, come il color Tiffany, il verde acqua, il rosa confetto e il viola lavanda. I colori troppo aggressivi, soprattutto quelli aranciati sono da evitare e come per la primavera il nero sarebbe da sostituire, in questo caso con un grigio antracite.
Società e moda Autunno
Pelle ambrata e calda oppure olivastra, di quelle che si abbronzano facilmente,
i capelli sono color castano ramato o scuro, rosso rame o biondo cenere. I colori più adatti sono quelli vividi, caldi e intensi come le spezie, in particolare il rosso mattone, il color cacao, il verde oliva dorato e il blu oltremare, oltre che il color zenzero e curcuma; ma anche per dei look più soft il bianco panna, il caffellatte e l’arancione albicocca.
Inverno
sono gli incipit per l’autunno. Gli occhi possono andare dal verde, passando per il castano e arrivando nero, mentre
Come da stagione le persone inverno hanno tendenzialmente una pelle con un sottotono freddo sia nella loro versione chiara che in quella più scura e olivastra. Gli occhi sono profondi, scuri o molto chiari, vanno dal nero carbone al verde smeraldo, mentre i capelli sono tendenzialmente nero corvino ma non mancano il biondo cenere e il castano scuro. I colori più adatti a valorizzare la loro bellezza sono quelli profondi e scuri, tanto che il nero può essere indossato
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Umana-mente di Chiara Paoli
Tantissima neve e piste chiuse
L
e vacanze di Natale per i trentini veneti sono trascorse spalando neve, tanta candida e bianca, quanta non se ne vedeva da parecchi anni. Non si è potuto però purtroppo approfittare delle festività per andare a sciare e nell’impossibilità di uscire dal proprio Comune di residenza, considerando le piste chiuse e gli impianti fermi, le vie dei paesi ma anche quelle cittadine sono divenute piste da sci o slittino improvvisate per tutti. Molti e non ha torto hanno messo in luce la pericolosità di queste attività, praticate su strade dove possono transitare le auto, rischiando investimenti e incidenti che in questo periodo rischierebbero di mettere in
difficoltà il sistema sanitario già provato. Sono convinta che ormai le persone siano stufe delle limitazioni imposte alla nostra libertà di spostamento e socializzazione, perciò si cerca almeno di divertirsi nel limite del possibile con quel poco che offrono i dintorni di casa e che rimane consentito. Per i bambini le vacanze dovrebbero essere un momento di riposo, ma anche di svago e se non ci si attrezza per cercare di divertirsi con quel poco che ci è concesso, rischiano di diventare un incubo. In alternativa alle piste da discesa, in molte zone si sono potute proporre molteplici piste da fondo. Paesaggi bianchi e incantati, alberi candi-
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Umana-mente di e splendenti fanno da cornice a quella che poteva essere una stagione sciistica strepitosa e invece a distanza di un anno dalle prime chiusure a causa della pandemia, siamo incapaci di trovare soluzioni valide perché la nostra vita non si fermi. Il blocco degli impianti sciistici porta con sé una serie di conseguenze negative, alberghi che rimangono vuoti, bar e ristoranti che non vedono alcun cliente e soprattutto migliaia di posti di lavoro in fumo. Vedere finalmente metri di neve fresca e fruibile, un paesaggio totalmente imbiancato, senza bisogno di sparare neve artificiale, che francamente diciamocelo, non è la stessa cosa e tutto ciò va sprecato per l’incapacità di dare regole chiare e precise. Forse l’attività all’aperto a partire dal mese di dicembre, avrebbe permesso di limitare i contagi, se fosse stata regolamentata a dovere. Sicuramente è più difficile contagiarsi all’aria aperta facendo attività
sportiva, piuttosto che nei centri commerciali o nei negozi che sono stati presi d’assalto prima di Natale. Rimango dell’idea che questa emergenza sanitaria ci ha ricoperto di divieti e di regole assurde che a volte non tengono conto del buon senso. A mio avviso chiudere l’attività sportiva dilettantistica per bambini e ragazzi non è stata un’idea saggia, viste le imposizioni fatte alle società, che si sono attrezzate per la riapertura e il rispetto delle regole richiesto, non credo che la palestra sia il luogo dei contagi, così come non lo sono le scuole o le attività regolamentate. Sono arrivati i primi vaccini, ma a distanza di un anno il Covid-19 rimane ancora un terribile nemico da affrontare, che semina paura, impone divieti e restri-
zioni, rendendo la nostra quotidianità “sospesa” tra un DPCM e l’altro.
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I nostri piccoli amici di Nicola Maschio
GLI ANIMALI DOMESTICI
C
i fanno compagnia, si affezionano a noi (e noi a loro), diventano parte integrante della nostra vita e della nostra quotidianità. Gli animali domestici sono amici fedeli, diversi nelle forme e nelle dimensioni ma sempre presenti quando rientriamo a casa, sempre pronti a manifestarci il loro affetto. Ma quali sono gli animali preferiti dagli italiani? Esiste davvero una specie di animale domestico perfetto? Si sa che, nell’immaginario collettivo, il cane è il migliore amico dell’uomo. Spesso e volentieri, soprattutto nei giardini di coloro che possono permetterselo, troviamo uno, due, addirittura più cani di piccola, media e grossa taglia. Discorso simile per i gatti, che possono vivere anche semplicemente tra le mura domestiche, senza bisogno di grandi spazi verdi in cui scorrazzare. Ma diamo un’occhiata a qualche numero più da vicino. Partiamo dai dati del 2019, pubblicati dalla ricerca Censis: gli italiani, ormai due anni fa, erano primi in
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Europa per animali domestici presenti in famiglia. Nel 52% delle nostre case era infatti presente almeno un amico ricoperto di peli, numero che arrivava al 68% nelle persone divorziate e al 54% nei single. Complessivamente, il nostro Paese conta più di cinquanta animali ogni 100 abitanti, poco meno dell’Ungheria (54 ogni 100 persone) e giusto un paio di numeri in più della Francia (49 su 100). In tutto, nel 2019 si contavano 32 milioni di animali domestici, per lo più uccelli (13 milioni), gatti (7,5 milioni), cani (7 milioni) e, notevolmente staccati in classifica, circa due milioni di piccoli mammiferi come criceti, conigli o porcellini d’india. Occupano uno spazio interessante anche i pesciolini (1,6 milioni) ed infine i rettili (1,3 milioni di esemplari). Notevole anche e soprattutto la spesa che gli italiani riservano ai loro inquilini speciali: nel solo 2017, ad esempio, sono stati spesi in tutto cinque miliardi di euro per la cura ed il benessere degli animali domestici,
con un incremento del 12,9% registrato negli ultimi tre anni. Acquisti che riguardano praticamente tutti gli accessori, dai guinzagli alle gabbie, dalle lettiere al cibo, fino alle cure veterinarie. Praticamente 370 euro medi spesi in un solo anno da ogni famiglia. Insomma, è ovvio come la compagnia di grandi e piccoli animali sia ormai diventata fondamentale per un numero sempre maggiore di persone. Un motivo sopra tutti sembra essere quello portante, unitamente alla compagnia: avere un animale domestico rilassa, permette di allentare la tensione ma, in particolar modo, di combattere la solitudine. Il che ci porta ad un fenomeno attuale, riscontrato nei mesi più duri della pandemia di Covid-19, nella primavera del 2020. L’Osservatorio Coop2020 ha infatti realizzato un’indagine che, se analizzata nel dettaglio, porta alla luce un trend davvero particolare: un vero e proprio “boom” di animali da compagnia a causa dell’effetto lockdown. Gli amici a quattro zampe (e non solo) sono aumentati notevolmente al termine della quarantena, con un +7,8 milioni di persone che ha optato per la scelta, soprattutto, di cani o gatti da inserire nel proprio nucleo famigliare, o che comunque a breve decideranno di adottarne uno. Si è arrivati dunque ad una situazione davvero
I nostri piccoli amici incredibile, con un rapporto quasi pari all’1 a 1 tra popolazione italiana e animali domestici. Ad oggi, infatti, sono circa 60 milioni in tutta la Penisola. Ma se questo dato può strappare un sorriso, di contro c’è chi forse storcerà il naso. Un esempio su tutti: le previsioni per il 2021 infatti riportano come il 45% degli italiani ridurrà la spesa prima destinata a discoteche, musei, cinema e teatri. Un numero apparentemente distante dalla tematica degli animali domestici, ma che nasconde in realtà un altro dato di fatto, ovvero che coloro i quali rinunceranno a queste spese si dedicherà, di contro, ad una maggiore attenzione verso il nuovo (o i nuovi) compagni di vita domestica. Non resta che capire in quali contesti questi animali vivano quotidianamen-
te. Il rapporto Assalco Zoomark 2020 ha evidenziato come ben il 58% delle bestiole viva all’interno di appartamenti, ma anche come il 55% di loro appartenga a famiglie con bambini e ragazzi. Sinonimo della voglia, da parte di tutti, di affezionarsi al nuovo inquilino. Inoltre, mediamente chi ama gli animali non ne possiede solo uno, ma ben due, con la propensione ad aumentarne il numero qualora la famiglia stessa diventasse più numerosa.
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«L’importanza degli animali d’affezione in Italia appare evidente già dal dato numerico — ha spiegato Gianmarco Ferrari, presidente di Assalco —. Sono a tutti gli effetti parte integrante delle famiglie e contribuiscono al loro benessere. Lo constatiamo in questi tempi di Covid-19: il beneficio di un animale da compagnia è inestimabile, sia per i singoli sia per i nuclei più numerosi, perché la sua presenza riduce lo stress e la solitudine».
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Che tempo che fa di Giampaolo Rizzonello
C
hi abita nella Valbelluna avrà certamente avuto a che fare con la nebbia, in questo numero spieghiamo quindi il perché di questo fenomeno. La nebbia non è altro che una nube che si forma in prossimità del suolo dove l’aria a causa dell’umidità diventa satura e dà quindi luogo alla condensazione. Nel caso della nebbia da evaporazione questo è causato dall’umidificazione dell’aria in prossimità del suolo che può derivare dall’acqua che evapora sopra i laghi o da intense precipitazioni. Le condizioni tipiche in cui si verifica questo tipo di nebbia si hanno quando una massa d’aria fredda scorre sopra una superficie d’acqua più calda, come nel caso di un lago, dalla superficie del lago l’acqua evapora e a contatto con l’aria fredda si raffredda e si condensa di nuovo formando la nebbia. In figura 1 è riportato il caso di formazione
di una nebbia da evaporazione sopra il lago di Levico fotografata il giorno 18 novembre 2020. 88
In figura 2 invece è riportato il caso di una formazione di una nebbia da evaporazione
sopra il lago di Caldonazzo in Trentino, in questo caso una massa d’aria fredda (temperatura di circa -11°C) scorre sopra la superficie d’acqua più calda (+4°C), da cui, indipendentemente dalla sua temperatura, l’acqua evapora, il vapore acqueo (invisibile ai nostri occhi) a contatto con l’aria fredda si raffredda e -si condensa di nuovo, sotto forma di minuscole goccioline, che sono poi la “nebbiolina” che vediamo, che
non è dunque acqua allo stato gassoso ma un insieme di innumerevoli goccioline d’acqua. Questa “nebbiolina” si dissolve rapidamente perché dopo alcuni istanti il suo rimescolamento con l’aria più secca fa sì che le goccioline appena formatesi evaporino nuovamente in poco tempo. Più tipica, soprattutto per quanto riguarda la Valbelluna, è la nebbia da raffreddamento che poi è anche il tipo di nebbia che interessa le pianure del Nord Italia, e non solo, e a sua volta si distingue in nebbia da irraggiamento e nebbia da avvezione. Nebbia da irraggiamento: si forma dopo il tramonto, ma molto spesso solo qualche ora prima dell’alba, in conseguenza della cessione di calore da parte del suolo per irraggiamento alla libera atmosfera, questo avviene quando c’è cielo sereno (la presenza di nubi ostacola la possibilità del suolo di cedere calore verso lo spazio) e in assenza di vento o al più con vento debole. Lo strato d’aria più vicino al suolo tende a raffreddarsi raggiungendo il punto di rugiada e dando poi luogo alla formazione della nebbia, lo spessore della nebbia tende ad essere compreso tra i 100 e i 300 metri. Con il sorgere del sole poi solitamente, per il calore dello stesso e per i venti
Che tempo che fa che vengono a crearsi in corrispondenza del riscaldamento del suolo e delle masse d’aria, la nebbia tende a dissolversi nel giro di qualche ora ma può anche persistere per l’intera giornata. Discorso diverso vale per la Pianura Padana dove le nebbie possono persistere per interi giorni dissolvendosi solo parzialmente durante le ore più soleggiate e reintensificandosi nuovamente dopo il tramonto, anche se negli ultimi anni il fenomeno è sempre meno diffuso. In fig. 3 la nebbia sulla Valbelluna fotografata dal satellite polare della Nasa (“NASA Worldview “ https://worldview.earthdata. nasa.gov/)
Nebbia da avvezione: si forma all’interno di masse d’aria umida e relativamente calda che scorrono su superfici più fredde. Sono tipiche quelle sul mare quando aria calda scorre sopra l’acqua più fredda e tendono poi anche a raggiungere la costa spinte dai venti di brezza durante il giorno.
Giampaolo Rizzonelli è un appassionato e studioso di meteorologia e climatologia da oltre 40 anni. In passato ha collaborato con l’Osservatorio Climatologico di Trento Nord e attualmente è gestore del sito www.meteolevicoterme.it e del relativo osservatorio meteorologico. Ha ricoperto per oltre 10 anni cariche all’interno dell’Associazione Meteotriveneto di cui è stato anche Presidente, attualmente è responsabile per la stessa del progetto di monitoraggio dei siti freddi triveneti (i cosiddetti “cacciatori di freddo”). Si occupa inoltre di predisposizione di report e comunicati stampa. In particolare con l’Associazione Meteotriveneto, in collaborazione con il Parco Naturale di Paneveggio e Pale di San Martino e anche con il CNR/ISAC, si occupa del monitoraggio di diversi siti freddi posti sull’Altopiano delle Pale di San Martino.
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Storie d’altri tempi di Andrea Casna
Quando si credeva nei
I
vampiri sono solo frutto della cultura cinematografica? La risposta è no. I vampiri esistevano molto prima del cinema e molto prima della letteratura. I vampiri sono esseri mitologici che affondano le loro origini in un passato antico e arcaico. Tutte le culture del mondo, dall’Europa all’America, dall’Africa all’Asia, sono ricche di racconti sui vampiri. Un tempo, quindi, si credeva nell’esistenza di questi esseri. La scienza e la ragione, poi, hanno relegato queste figure nell’ambito delle credenze popolari e del folklore. Ma fino alla fine del Settecento (e per gran parte dell’Ottocento) molti gruppi sociali dell’Europa, in modo particolare dell’area tedesca e slava, credevano proprio nell’esistenza di queste creature malefiche che si nutrivano del sangue degli esseri umani. A metà del Settecento iniziarono a dilagare in Europa notizie legate ad aggressioni ad opera dei vampiri. In molti villaggi dell’Europa orientale, al tempo soggetti all’Impero d’Austria, vi furono delle vere e proprie cacce ai vampiri
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vampiri
con la distruzione di cadaveri perché “sicuramente dei vampiri”. Questi rituali prevedevano la riapertura delle tombe, abitate dai presunti “vampiri”, e la messa al rogo del cadavere, oppure la sua decapitazione con il classico paletto conficcato nel cuore. Nel 1732 il London Journal, per esempio, riportava la notizia di un caso di vampirismo in un villaggio dell’Ungheria. Le autorità locali, come si legge nell’articolo, dopo appurate indagini, furono concordi nell’affermare che un certo Arnold Paul era morto perché morso da un vampiro. Alcuni giorni dopo il suo funerale molte persone del villaggio affermarono di essere state morse proprio da Paul. Di fronte a questa minaccia, su consiglio del giudice locale, alcuni abitanti del villaggio riesumarono la salma (che trovarono perfettamen-
te integra) per poi trafiggerne il cuore con un paletto. Notizie di questo tipo circolavano con una certa facilità e, a metà del Settecento, arrivarono anche alla corte dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria la quale decise di avviare un’indagine scientifica per vederci chiaro. A capo di questa spedizione fu nominato il medico di corte Gerard van Swieten il quale concluse, dopo un periodo di studio sul campo, l’inesistenza di queste creature. L’imperatrice approvò quindi una legge che proibiva l’apertura e la profanazione delle tombe e dei cadaveri: fu il primo passo che portò il vampiro ad abbandonare il mondo reale per entrare piano piano, dopo millenni, in quello del
Storie d’altri tempi
folklore. L’archeologia nel corso degli anni ha dimostrato la credenza nei vampiri. In Polonia e in Bulgaria sono stati trovati i resti di scheletri con evidenti lesioni in prossimità del cuore, oppure, con un mattone, o un sasso, conficcato in
bocca. Anche in Italia non mancano leggende o ritrovamenti. A Venezia, sull’isola del Lazzaretto Nuovo, infatti, in alcuni scavi archeologici condotti fra il 2006 e il 2008 furono rinvenuti resti di un donna-vampiro. Il teschio, infatti, aveva un mattone in bocca. In questo caso, erano gli anni della peste e si pensava che fossero proprio i vampiri a diffondere la tremenda malattia. E anche in Trentino non mancano racconti. A Luserna, infatti, sono numerose le leggende sui vampiri, o meglio, sulle vampire.
Ritornando a Maria Teresa d’Austria e alla sua legge contro “il vampirismo” dobbiamo dire che la credenza verso queste creature non sparì definitivamente. Per tutto l’Ottocento, nelle aree agricole dell’Europa, si continuò a credere nei vampiri. Ma, sempre nell’Ottocento il vampiro entrò a far parte del panorama letterario dell’epoca. Il primo a trasferire il vampiro nella dimensione letteraria fu John William Polidori che nel 1819 pubblicò il racconto “il Vampiro”. Anni dopo, nel 1872 lo scrittore Joseph Sheridian Le Fanu diede alle stampe “Carmilla”; un racconto vampiresco al femminile. Poi, Bram Stocker, nel 1897, pubblicò il celebre romanzo “Dracula”, un capolavoro della letteratura gotica che ispirerà molti film contribuendo definitivamente a fare del vampiro un elemento costante nella cultura popolare.
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ECONOMIA E AMBIENTE
IL CIPPATO E LA CIPPATURA Il cippato, per la cronaca, è una delle diverse forme in cui il legno (tronchi, ramaglie varie, scarti di produzioni agricole e forestali e da segherie) può essere trasformato mediante uno specifico procedimento (la cippatura) che sminuzza il legno in piccolissimi pezzetti (scaglie) dalle dimensioni di pochi millimetri a diversi centimetri, ed è utilizzato normalmente sia come combustile e sia come materia prima per alcuni specifici processi. Il cippato è, di fatto, una biomassa vegetale al pari del pellet o alla legna da ardere che rappresenta un biocombustibile al 100% Green ecologico. In base alla pezzatura è classificato in: cippato, cippatino e microcippatino. E’ importante sapere che il potere calorifico
del cippato dipende essenzialmente dalla quantità di acqua in esso contenuta e quindi è necessario che subisca un logico e dovuto periodo di essicamento. Ed è utile anche sottolineare che usando il cippato come combustibile – e secondo gli esperti - non s’incide negativamente sull’am-
biente e sui processi ecologici poichè la percentuale di anidride carbonica (CO2) rilasciata nell’aria con la combustione è circa la stessa di quella che le piante assorbono durante il processo clorofilliano. Il cippato, al pari di altre biomasse, è molto economico se paragonato ai combustili tradizionali solitamente usati per il riscaldamento domestico quali gas metano, GPL o gasolio, è di facile approvvigionamento, genera un residuo di cenere molto basso, brucia molto lentamente fornendo ottima resa qualitativa. Attualmente il cippato viene o può essere utilizzato in diversi modi: grezzo in orti e giardini; per l’alimentazione di generatori e caldaie in grado di fornire acqua calda, corrente elettrica e riscaldamento.
LA NUOVA ED EVOLUTA CIPPATRICE
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LA PATENTE DI GUIDA
S
econdo la nostra Costituzione, la libertà di circolazione è uno dei diritti primari del cittadino a condizione, però, che avvenga nel rispetto delle leggi che tutelano
PRATICHE VEICOLI
la sicurezza della collettività. E per farlo si deve essere in possesso di quella particolare abilitazione che è la patente di guida. Quindi, per legge, non si possono guidare motoveicoli e autoveicoli senza aver conseguito la patente di guida richiesta per le diverse categorie che abilita alla guida di determinati veicoli. Deve essere precisato che i minori di 16 anni con qualsiasi patente e veicolo a motore, non possono trasportare passeggeri. Secondo le vigenti leggi la patente può essere anche documento di riconoscimento, ma non è valida per l’estero. Nel caso poi si guidi un veicolo per il quale non è prevista la patente è necessario avere con sé la carta d’identità. La legge punisce i gravi comportamenti alla guida di un qualsiasi veicolo e quindi, in questi casi, la patente può essere ritirata, sospesa o addirittura revocata ovvero annullata. La legge prevede anche che, in alcuni e specifici casi, si può richiedere il duplicato della patente : rinnovo, deterioramento, smar-
Trasferimenti di proprietà e immatricolazioni Radiazione per esportazione veicoli Consulenze e pratiche per il trasporto di merci conto terzi e conto proprio Nazionalizzazione veicoli provenienti dall’estero
PATENTI
rimento, furto oppure distruzione. In base alle vigenti normative la patente di guida ha una dotazione di 20 punti che diminuiscono se si commettono infrazioni al codice della strada di una certa gravità, oltre alla sanzione amministrativa (multa). Chi commette più infrazioni, ma in una sola volta, può perdere al massimo 15 punti a condizione che una delle infrazioni non comporti la sospensione o la revoca della patente. Chi commette un numero d’infrazioni, tali da azzerare i 20 punti, deve rifare gli esami per il conseguimento della patente. Ed è anche prevista la frequenza a determinati corsi che permettono il recupero dei punti persi. Il reintegro dei punti decorre dalla data di rilascio dell’attestato di frequenza al corso. Da aggiungere che chi non commette nessuna infrazione al codice della strada a ogni biennio si vedrà aggiungere due punti in più, fino a un massimo di 30 punti complessivi. In ultimo per conoscere il punteggio associato alla propria patente, si può telefonare al numero 848782782 o consultare il sito internet: http://www.ilportaledellautomobilista.it/
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o d n a l l e Giocher LA CLESSIDRA 1 2
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io Cristini
riz a cura di Mau
CRUCI... FELTRINO 3
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9 11 12 13 14 15 Scrivete nello schema le parole corrispondenti alle definizioni e formate dalle lettere elencate. Partendo dalla prima parola, la successiva conterrà le stesse lettere, meno una. Dopo la strozzatura della clessidra, le parole sono formate da lettere che per le definizioni successive aumentano sempre di una lettera rispetto alla precedente parola. A gioco ultimato, tutte le lettere date dovranno essere consumate. Leggendo di seguito quelle nelle caselle colorate, si otterrà il nome di un famoso geologo e vulcanologo italiano. aaaaaaaaaaaaaaa ccccccccc eeeeeeeeee e ff iiiiiiiii lllllll mmm rrrrrrrrr ssssss 1. Negozio che vende aghi e fili - 2. Restano dopo un crollo - 3. Ridurre l’altezza di un albero - 4. Piantina simile al brugo - 5. La producono le api - 6. Donna colpevole - 7. La targa di Arezzo - 8. Preposizione semplice - 9. Nota fornita dal diapason - 10. Gestisce la pubblica sanità su un territorio - 11. Gruppo montuoso calabrese - 12. Lo scheletro del pesce - 13. L’albero piangente - 14. Il codice con nove lettere e sette numeri - 15. Incidere superficialmente.
SOLUZIONI NR. DI GENNAIO 2021
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A gioco risolto, leggendo di seguito le lettere nelle caselle a sfondo colorato, si otterrà il nome di un illustre nativo di Feltre. ORIZZONTALI: 1. Prodotto agroalimentare tradizionale italiano, tipico del Bellunese - 6. Recipiente per portare il latte in tavola - 11. Ardire, essere audace - 12. Un verso canino - 13. Il famoso computer di 2001: Odissea nello spazio - 14. L’attore che ha interpretato La febbre del sabato sera (iniz.) - 15. Lo sono i muscoli bloccati dal freddo - 17. Si ricoverano negli hangar 19. La targa di Rimini - 20. Il regista del film La famiglia (iniz.) - 21. Molti sono belli e decorativi, altri deturpano facciate e palazzi - 24. Nel chilo sono dieci - 26. Cambiano i falsi in felci - 27. Un vero... fiasco - 28. Un farmaco contro il COVID 19 - 29. Peli di cavallo - 30. Le vocali in più - 31. Radice inglese - 34. Lo Stato più del mondo da N a S - 35. Il Lerner giornalista - 36. Furono Signori di Ferrara - 37. Risponde al numero 803116 - 38. A me - 39. Una dermatite che affligge in particolare gli adolescenti - 41. Il Papa Pio della Presa di Roma - 43. L’architetto della Reggia di Caserta (iniz.) - 45. Si ripetono nei sollazzi - 46. All’inizio della musica - 47. Ne’ calda ne’ fredda - 49. In mezzo allo sciame - 50. Esempio in breve - 51. In una locuzione latina, segue “ab” per indicare una origine molto lontana nel tempo - 52. Un severo provvedimento nei riguardi dei tifosi violenti (sigla) - 53. Una piccola raganella. VERTICALI: 1. Erano eretti nella zona del Corlo per ottenere carbone di legna - 2. Sostegni per bandiere - 3. Si ripetono nella sorsata - 4. Le ragazze che nella loro terra sono chiamate mule - 5. Lo è lunedì per martedì - 6. Un tipico piatto della cucina piemontese - 7. Il Costa che fu capitano della Fiorentina - 8. Colui il quale - 9. Un lato corto del triangolo rettangolo - 10. Ci sono anche quelli di semi vari - 12. Quella di Pedavena è la più grande d’Italia - 16. Il risultato della sottrazione - 18. Tratto stradale senza curve - 22. Quarantanove romani - 23. Ha maggiore lunghezza del 9. verticale - 24. Il re che esclamò: Parigi val bene una messa - 25. In quel luogo - 28. Vicino, nei pressi - 32. Poco meno che osceno - 33. Una metà di otto - 35. La Rossa del cinema che cantava Amado mio nell’omonimo film - 40. Un’utilitaria della Renault - 42. A inizio opera - 44. E’ preceduta da Quero - 46. Cittadina nella valle del Piave pressoché equidistante da Belluno e da Feltre - 48. Ai lati di Ingrid.
Il numero di gennaio di Feltrino News è stato chiuso in redazione il 4 febbraio 2021