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Il cognome del padre o della madre?

Attualità di Caterina Michieletto

Il cognome del padre o della madre?

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Quale destino dopo la sentenza della Corte costituzionale?

Mercoledì 27 aprile 2022 la Corte costituzionale si è pronunciata con una sentenza dirompente: sono state dichiarate costituzionalmente illegittime le norme che attribuiscono automaticamente il cognome paterno. Nel dibattito politico la pronuncia della Consulta è stata alternativamente ritenuta eversiva da alcuni e rivoluzionaria da altri, a seconda del colore politico commentata criticamente oppure accolta positivamente. Tuttavia, nel calderone delle opinioni politiche si dovrebbe stagliare un dato oggettivo ed incontrovertibile capace di annullare qualsiasi opposizione: non c’è margine di discussione su una decisione che è riflesso del principio di eguaglianza, che è espressione della parità di trattamento tra i coniugi, della pari dignità morale e giuridica tra uomo e donna. La questione non è “di lana caprina”, come alcune voci hanno obiettato, al contrario è segno di un cambiamento atteso da alcuni decenni, la conquista di un altro importante gradino nella scala della parità di genere. La sentenza della Corte costituzionale sopraggiunge dopo anni di impegno, determinazione e perseveranza di molti genitori, che di fronte agli ostacoli burocratici, alle spese economiche e lo sconforto non si sono arresi ma hanno continuato con convinzione e audacia la loro battaglia. Una battaglia che ha portato all’accoglimento delle loro istanze e al riconoscimento di un diritto a trasmettere il cognome materno ai propri figli, congiuntamente al cognome paterno o in via esclusiva. Prima di ricostruire le tappe intermedie che hanno condotto a questo risultato, è necessario fare un salto indietro nella storia per scovare l’origine dell’automatismo del cognome paterno. Più precisamente ci troviamo nell’Antica Roma quando la figura del “pater familias”, “padre di famiglia” aveva un potere assoluto su tutti i membri del nucleo familiare, in primis sulla moglie. Il pater familias vantava una “patria potestas” un potere la cui latitudine arrivava fino alla facoltà di disporre della vita dei suoi familiari, il cosiddetto “vitae necisque potestas” ossia il diritto di vita o di morte nei confronti dei membri della famiglia. In questa struttura sociale spiccatamente patriarcale l’automatismo nell’assegnazione del cognome paterno era uno sbocco naturale, una conseguenza necessitata e coerente con quella tradizione giuridica, la stessa che ad esempio puniva solo l’adulterio della moglie. Non sono trascorsi molti anni da quando la Corte costituzionale con due sentenze sent. n. 19 del 1968 e n. 126/1969 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 cp. che sanzionava l’adulterio della moglie, in quanto contrario “all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” ex art. 29 Cost. Anche in quell’occasione la Consulta aveva rimosso delle “incrostazioni” della nostra eredità giuridica non più compatibili con il nascente pensiero costituzionale, plasmato in primo luogo sul principio di eguaglianza. Detto questo, da quando il meccanismo dell’automatismo del cognome paterno ha cominciato a scricchiolare? La prima sentenza che sollevò la questione dell’illegittimità costituzionale di questo sistema risale al 1982 su iniziativa della giornalista e scrittrice Iole Natoli, la prima a chiedere che ai suoi figli si potesse aggiungere il cognome materno. Allora il tribunale civile di Palermo rigettò la domanda osservando che nonostante non vi fosse alcuna norma che prescriveva espressamente l’attribuzione del cognome paterno, si trattava “di un principio secolare riconosciuto dal diritto da tempo immemorabile”... Era come un “sassolino gettato nell’acqua”: sebbene piccolo, aveva iniziato ad agitare le acque e vent’anni più tardi avrebbe dato avvio ad una vera e propria campagna di impegno civile e sociale da parte di molte coppie di genitori. A partire dagli anni 2000 una serie di sentenze sia interne che della Corte europea dei diritti dell’uomo prepararono il terreno fertile per una prima svolta. Con la sentenza n. 286 del 2016, la Corte costituzionale accolse una nuova questione di costituzionalità sull’attribuzione automatica del cognome paterno, affermando che la preclusione “per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome” fosse lesiva del “diritto all’identità personale del minore” e fosse

“un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi”. La pronuncia si concludeva con un primo invito al Parlamento: “un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. Quell’organico intervento legislativo non si è realizzato, c’è stata solo una circolare del Ministero dell’Interno che dal 2017 acconsente ai genitori di inoltrare richiesta al prefetto per attribuire alla nascita anche il cognome materno, ma a due condizioni: che vi sia l’accordo dei genitori e che il cognome materno sia inserito dopo, in subordine a quello paterno. Nel 2021 giunge al tavolo dei lavori dei giudici costituzionali il ricorso di una coppia di genitori non sposati che aveva visto rigettata degli uffici comunali la loro domanda di attribuzione del solo cognome materno al proprio figlio. Il 27 aprile 2022 la Consulta si pronuncia e questa volta lo fa prendendo definitivamente posizione sul punto. La nuova regola è che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine da loro concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due, solo quello del padre oppure, ed è la novità più importante, solo il cognome della madre. Non è la prima volta che la Corte costituzionale recepisce i segni di un cambiamento nella realtà culturale, sociale, tecnologica, economica e li traduce in segnali di cambiamento anche nel mondo del diritto. Lo abbiamo constatato nel caso Cappato, vicenda che ha messo in risalto delicate questioni di bioetica; in questa come in altre occasioni i giudici della Corte costituzionale compiono un atto di responsabilità: perché la giustizia è fatta di persone che attendono risposte e che non possono aspettare i tempi troppo spesso dilatati del legislatore. Con questa sentenza la Corte costituzionale recapita un chiaro messaggio di invito a normare al legislatore, il nostro Parlamento, ma nel frattempo si assume la responsabilità di individuare una regola e dare una risposta. Ci sono molti aspetti che il Parlamento dovrà regolare, speriamo in tempi brevi e con modalità efficaci e lineari. Dovranno essere definite chiaramente le coordinate affinché non si generino confusione e disordine tali da porre difficoltà applicative insormontabili e da smorzare l’entusiasmo per il risultato storico raggiunto con questa sentenza. Resta però una certezza granitica scolpita nelle parole dell’ex Presidente della Consulta e oggi ministra della Giustizia, Marta Cartabia: “Un altro passo in avanti verso l’effettiva uguaglianza di genere nell’ambito della famiglia è stato compiuto”.

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