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Il personaggio: Carmelo Bene

Il personaggio di Veronica Gianello

Contemporaneo tra fatti e parole: l’esperienza teatrale di Carmelo Bene

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Adarci l’immagine più appropriata e veritiera di Carmelo Bene è forse il titolo di uno speciale del Maurizio Costanzo Show: uno contro tutti. In questo speciale c’è un solo ospite che viene messo a processo da una platea di critici e giornalisti. Questo format venne inaugurato nel 1994, proprio con Carmelo Bene. Uno contro tutti è la sintesi perfetta dell’uomo e dell’artista che ancora oggi porta un carico d’eredità pesantissimo che trascende l’ambito teatrale e artistico. Eppure, forse, lo stesso Bene correggerebbe questa definizione in qualcosa come ‘Uno contro tutti, compreso me stesso’ oppure ‘Uno contro tutti, ma tanto quell’uno non esiste, come non esistete voi’. Bene è definito avanguardista, neo-avanguardista, padre del nuovo teatro italiano, tuttavia il tratto principale della sua persona, prima ancora che della sua produzione, è quello di staccarsi di dosso senza remore ogni etichetta o convenzione. La forza della sua visione e del suo dubitare ogni cosa per credere solo alla bellezza dell’attimo che non può tornare, lo porta ad essere ancora oggi una delle figure più controverse del secolo scorso. È difficile ripercorrere la sua prolifica carriera in poche righe, come non è facile concentrarsi su un solo aspetto del suo lavoro. Da sempre disprezzato da molti per il suo essere così viscerale, e definito, al contrario, geniale e inarrivabile da una buona fetta di critica. Al di là dell’opinione pubblica sull’uomo e sull’artista, una delle più grandi lezioni che ci ha lasciato, è la capacità di maneggiare con maestria materiale artistico e letterario appartenente al passato per inserirlo in maniera coerente all’interno della contemporaneità.. Riadattare, riscrivere, rifare: verbi e azioni che dovrebbero definire con coraggio ciò che l’arte contemporanea dovrebbe fare. Tuttavia, troppo spesso, l’arte contemporanea diventa la cosa più lontana possibile dal tempo in cui viviamo perché basata su astrazioni ed ermetismi unilaterali che si poggiano sul nulla. Per definirsi artisti contemporanei bisogna prima di tutto rendersi permeabili. Chiudersi e proclamarsi fuori dal proprio tempo, se non addirittura superiori, sbarra le porte ad ogni possibilità di creazione nel senso più stretto della parola. Carmelo Bene fu sperimentatore instancabile, e ogni sperimentazione partiva sempre da uno studio approfondito sul testo—e su tutto ciò che ad esso si collega e rimanda—che in molti casi si è trasformato in un innamoramento… o forse in un ossessione. Il suo amore per eccellenza è stato certamente Shakespeare e in particolare l’Amleto. Un amore durato più di trent’anni che iniziò con il debutto teatrale del 1961 a Roma, fortemente influenzato dalla lettura del testo di Jules Laforgue, Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale di fine

Il personaggio

Ottocento. Fu questo l’impulso che indirizzò lo stile e l’idea di teatro, assolutamente personale, di Bene. La capacità e la necessità di essere sia regista che attore non cozza mai con la coerenza dell’azione, anzi. A guardarlo superficialmente, dell’Amleto shakespeariano sembra esserci ben poco. L’opera di Bene si basa infatti sull’intertestualità, su una riscrittura radicale che porta alla perdita della fonte, e ad una versione critica dell’opera originale. Tuttavia nasce e si forma da una conoscenza talmente approfondita delle fonti stesse da potersi permettere la sperimentazione contemporanea. Lo stesso Bene infatti afferma: ‘Mettere in scena oggi il teatro elisabettiano, comunque lo si rivisiti o lo si riscriva, significa cadere nell’equivoco[…]. Il “Sogno di una notte di mezza estate”, lo stesso “Romeo e Giulietta”, sono stati teatro e proprio per questo non possono più esserlo. Io non metto in scena Shakespeare né una mia interpretazione o lettura di Shakespeare, ma un saggio critico su Shakespeare’. Questo amore ossessivo, dopo altre produzioni teatrali, sempre fortemente criticate, approda sul grande schermo. È del 1973 infatti la prima trasposizione cinematografica di Un Amleto di meno, seguita poi da due realizzazioni di sceneggiati per la televisione: Amleto del 1978, anche se filmato e preparato molto prima, ma considerato troppo ‘incandescente’, e Hommelette for Hamlet del 1990. Bene svuota la parola fino a renderla insensata, palesando sempre la sua teoria di fondo: nella stupidità odierna, l’unico modo di intervenire sul classico e sulle alte vette tragiche antiche è quello di lavorare per parodia, svuotando e riempiendo il testo di quell’oscurità sacra che ancora oggi, tra ammiratori e detrattori, rimane modello e ispirazione del teatro contemporaneo.

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