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Storie di casa nostra: da balie a portinaie
Storie di casa nostra di Monica Argenta
Da balie a portinaie
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Storia poco conosciuta di una migrazione femminile verso la capitale lombarda. Un particolare fenomeno che ha visto le donne bellunesi utilizzate, dapprima come balie e successivamente come portinaie e altri lavori femminili.
Pochi ne hanno memoria personale ma molti conoscono la migrazione delle giovani donne bellunesi che da metà del 1800 agli anni 50 del secolo scorso sono state coinvolte dal fenomeno del “baliatico”: per sfuggire dalla povertà materiale più estrema, giovani donne migravano per lavorare come “balie asciutte” o “da latte” presso famiglie abbienti dell'alta borghesia o aristocrazia cittadine. Pochissimo, almeno fino ad ora, invece è stato riportato riguardo un altro aspetto conseguente al “baliatico”, tanto da poterlo considerare un'evoluzione, sia in termini storici che sociologici: la gestione delle le portinerie di Milano. Stiamo parlando di un fenomeno che ha inizio negli anni della Seconda Guerra: il centro storico di Milano, quello che circoscrive la zona Carrobbio-Duomo-Verziere-Foro Bonaparte-Corso Magenta-è ancora caratterizzato da un'atmosfera paesana, tutti si conoscono, tutte le classi sociali interagiscono quotidianamente. E' la Milano descritta con estremo acume e sensibilità da Emilio Gadda nell'Adalgisa, dove le donne sono ovunque, nei mercati, nelle cucine, “sciamano all'aperto d'estate” e sono loro le reali detentrici ed interpreti delle istituzioni. Sono loro l' esercito, le filosofe, le sociologhe di rivoluzioni di costume che piano piano influenzeranno i modi di vita di aree geografiche più allargate del nostro Paese. Qui anche l'ultima delle portinaie possiede verità clamorose, piccole o grandi informazioni che possono intersecarsi con la Storia. Tutte collegate da relazioni di sangue o appartenenza al medesimo territorio, le portinaie del centro milanese a partire dagli anni 1940 erano in moltissimi casi le figlie, le nuore, le paesane del precedente fenomeno del baliatico. Grazie ai rapporti di fiducia instaurati con i “siori de Milan”, queste donne risposero alla carenza di personale maschile dovuta al secondo conflitto mondiale con la medesima capacità e volontà di contribuire al miglioramento della propria condizione economicasociale ripiegando sull'opportunità di occupare, o fare occupare alla generazione successiva, quei piccoli alloggi presenti in ogni palazzo. E quella posizione, di fatto, si rivelò poi nei decenni successivi estremamente strategica. Come nei migliori romanzi di fantasia, le portinaie di Milano furono solo apparentemente delle figure di secondo piano. Innanzi tutto godevano della massima fiducia del proprietario dello stabile, fiducia garantita sulla parola della inter-
mediaria che le presentava e comunque suggellata anche da uno speciale “patentino” rilasciato dalla Questura. E questo permetteva loro di avere le chiavi e l' accesso indiscriminato agli appartamenti, di ritirare la posta e sorvegliare orari e frequentazioni dei condomini: una mole di informazioni, o dati sensibili, da far impallidire ogni garante della privacy, inteso in senso moderno. Va aggiunto che i condomini stessi, poi, un po' per imbarazzo o un po' per fiducia e familiarità, erano soliti confidarsi, svelare i particolari più intimi della propria esistenza. E questa dinamica era tutta a favore della portinaia che più o meno consapevolmente aveva “materiale di scambio” per interpretare e a volte indirizzare, opinioni e scelte di intere famiglie a distanza di isolati, se non oltre. A fronte di un alloggio gratuito ed un esiguo salario per un duro lavoro, considerata la loro delicata posizione, non mancavano comunque le laute mance e le piccole o grandi attenzioni rivolte specialmente ai bambini: spesso i figli della portinaia venivano indirizzati verso studi scolastici o percorsi lavorativi più tipici a una borghesia cittadina che a un retaggio contadino. Le portinerie, quindi, fungevano da veri e propri ascensori sociali per la generazione successiva, ma non solo. La portinaia, oltre a tener pulite la scala e l'ingresso, aveva il potere di una agenzia di collocamento per abitazioni e/o impiego. Capitava, per esempio, anche semplicemente che a mariti o a fratelli fosse offerta stagionalmente la mansione di “fochisti”, ovvero il dover sistemare le caldaie dei palazzi. Questo significava dare l'opportunità alla componente maschile della famiglia, che spesso rimaneva al paese ad occuparsi dei campi, di un introito salariato , che chissà, con un po' di fortuna, si poteva poi trasformare in qualcosa di più continuativo. La posizione di intermediarie tra il paese e la città garantiva così alle donne emigrate una certa posizione di riverenza e soprattutto molta gratitudine, espressa anche anche da flussi continuo di prodotti genuini, a loro volta impiegati per consumi o scambi strategici. Ma al di là della convenienza personale, che a quei tempi si sovrapponeva sempre a una convenienza collettiva famigliare o territoriale, non mancarono certo atti di generosità rivolti a tante persone in difficoltà. Palmira Centeleghe, di
Roncoi di San Gregorio nelle Alpi, e chissà quante altre, agevolò la fuga ad ebrei perseguitati e sistemò temporaneamente persone di fiducia in alloggi degli sfollati che in altro modo sarebbero stati depredati. Ad un certo punto però questa particolare migrazione finì, forse perché verso gli anni 1980 l'intero nostro Paese cambiò. Piano piano le portinerie a Milano, anche nelle vie più prestigiose, vennero chiuse. Al loro posto, i citofoni o tutt'al più un servizio orario di un lavoratore turnante, dipendente di una impresa di pulizie. E a Milano, sempre più cosmopolita, è sempre più difficile sentire quel “sciamare di api” composto anche dal dialetto delle nostre valli.